Giuseppe Bono da Diso e S. Giuseppe da Copertino

di Armando Polito

Il primo personaggio, del quale mi accingo a parlare,  del titolo molto probabilmente non è noto, neppure di nome,  a nessuno dei circa tremila abitanti1 del piccolo comune salentino  che gli ha dato i natali. Sarei un ipocrita, oltre che uno stupido e presuntuoso, se non confessassi che anche io lo ignoravo totalmente. prima che una fortuita circostanza me lo facesse incontrare.

Galeotto fu il libro e chi lo scrisse è il caso di dire, prendendo a prestito il famoso verso dantesco. Ma il lettore più acculturato non si faccia illusioni: tra Paolo e Francesca da una parte e me dall’altra non c’è nessun punto di contatto, nonostante al tragico della loro storia d’amore qui si sostituisca il funereo, anzi il funebre …

Non faccio perdere ulteriore tempo e presento il frontespizio (l’intero volume è consultabile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=M11JAAAAcAAJ&pg=PP5&dq=la+palma+spiccata+da+sassi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwi5697HzL7ZAhWCCewKHdwwDk0Q6AEISTAG#v=onepage&q=la%20palma%20spiccata%20da%20sassi&f=false).

Si direbbe che, se si fosse voluto aggiungere qualcosa, non ci sarebbe stato lo spazio …

Siffatta struttura è la regola per i libri di qualche secolo fa e, se al lettore moderno la kilometricità dello scritto può non essere graficamente gradevole e apparire dispersivo,.per lo studioso è un’autentica fortuna, perché contiene una tal messe d’informazioni che gli consentono di orientarsi prima ancora di iniziare la lettura del testo vero e proprio.

Apprendiamo così che si tratta di un’orazione funebre in onore di Giovanni Federico duca di Brunswick e Luneburg. Interrompo per un sattimo l’analisi del frontespizio per dire che il volume si apre con la dedica ad Ernesto Augusto, fratello del defunto, della cui protezione l’autore (ne anticipo gli estremi traendoli dallo stesso frontespizio: P(adre) F(ra) Gioseppe Bono dà Diso Predicatore Cappuccino, della Provincia di Otranto. in Regno di Napoli) si augura di poter continuare a fruire sperando che il frutto della sua fatica riesca gradito come con tanta umanità si compiaceva il Serenissimo Suo Fratello, nel corso di cinque anni gradirne, e tollerarne l’aridità. E più avanti: A lei più d’ogn’altro era dovere ch’io presentassi et offerisse come picciol tributo della mia servitù questi frutti primaticci di Palma, aspersi non con altri fiori, ché di puri affetti di dincerissima divotione, et d’humilissima osservanza, poiche niuno havrebbe meno abborrito la rusticità della mia penna, se non L’A. S. Serenissima chìè Fratello, e Successore di chi hà si benignamente tolerata la rozzezza dellz mia lingua. Dopo le solite parole di circostanza e prima dell’altrettanto socntata di chiarazione di umiltà con nome del dedicante, si legge: Hannover, 20 Aprile 1680.

Non deve suscitare meraviglia questo servizio, per così dire, in trasferta, fuori d’Italia di un frate. E non è il solo esempio che la terra salentina offre. Poco prima lo stesso aveva fatto Diego Tafuro da Lequile, del qualr ho avuto occasiione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/11/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-13/.

Riprendo l’analisi del frontespizio e, ricordando al lettore il Palme della dedica, dò ragione del titolo vero e  dell’orazione, che è  La palma spiccata da sassi col motto Ex duris gloria. Quel che segue ha una funzione esplicativa e ci fa capire che il titolo prima enucleato non è altro che la descrizione della divisa adottata a suo tempo dal defunto. E qui bisogna precisare che divisa non è da intendersi nel senso strettamente araldico di insegna o stemma di famiglia, poiché quest’ultimo è quello che compare nella parte inferiore del frontespizio stesso.

Qui divisa sta nel senso estremamente generico di simbolo, quello che compare puntualmente nel rovescio delle monete (nel dritto pure costante è la testa del duca) coniate in numerose serie, anche nello stesso anno, da Giovanni Federico durante il periodo del suo ducato (1665-1679). Le immagini che seguono, ad esse relative, sono tratte da https://www.acsearch.info/search.html?similar=1011640.

1669


1675

1677

1679

Costante è pure in tutte la presenza del motto EX DURIS GLORIA (dai sacrifici la gloria), parafrasi del più efficace, per il gioco allitterativo, PER ASPERA AD ASTRA (Attraverso le difficoltà alle stelle). La palma sull’isolotto roccioso appare da sola nella prima moneta nelle altre le fanno compagnia due navi in balia dei flutti. Il significato metaforico dell’insieme motto e immagine è tanto scontato che non è il caso di soffermarsi.

Il resto del frontespizio ci informa che l’orazione e i tre altri discorsi furono composti e recitati dall’autore nella chiesa Ducale di Hannover. Il duca morì il 16 dicembre del 1679 ed il libro avrebbe visto la luce per i tipi di Wolfango Schwendimano stampatore ducale l’anno successivo.

Dopo la dedica di cui ho già detto si legge un messaggio rivolto Al Prudente Lettore, cui segue il ritratto del duca, che, a differenza delle monete, qui appare di 3/4. Guardando attentamente si nota sul petto  quella che sembra essere una curiosa replica. Se è così, direi che qui viene anticipata di secoli, con  una punta di esibizionistica autocelebrazione, una moda che a partire dagli anni ’60 mitizzò definitivamente la figura di Ernesto Guevara, alias el Che.  Più probabile, tuttavia, che si tratti del ritratto di un antenato, magari di suo padre.

Tale dettaglio, è assente nell’incisione di Cornelis Meyssens (1640-1673) risalente al 1668 circa, custodita nel Museum Herrenhausen Palace ad Hannover

ma appare, invece, in un altro [disegnatore Jean Michelin (1623-1695 ), incisore Robert Nanteuil (1623-1678)] a corredo dell’opera  Globi celestis in Tabulas planas redacti descriptio uscita Parigi nel 1674. Appare evidente, al di là della cronologia,  come di questo sia rifacimento quello del libro del Bono.

Subito dopo il ritratto, su cui credo di essermi attardato a sufficienza, inizia il testo dell’orazione funebre con in testa l’immagine che abbiamo già visto nel rovescio delle monete.

Essa poi riappare all’inizio di ognuno dei tre discorsi, tale e quale nel primo (Per il giorno della Gloriosa Ascensione in Cielo di Christo S. N.) e nel secondo (Della Gloriosa Resurrettione di Christo N. S.) e con piccole differenze in qualche dettaglio nel terzo (Per il Martedì di Pasqua).

La parte conclusiva proprio di quest’ultimo discorso recitato nella Chiesa Ducale d’ Hannover in presenza di S. A. S. Giovanni Federico Duca di Brunsvich, Luneburgh, etc. nell’anno 1679 contiene un ricordo di S. Giuseppe da Copertino. Il brano occupa le pp, 113-119 del volume, ma qui riporterò solo la parte iniziale:  E qui confesso il vero, che la gratitudine dovuta al servo di Dio F. Giuseppe da Cupertino mio compatriota, con interne piccjiate, chiama e me, e voi ad immortalare con archi di trionfo il suo nome. Voi, perche essendosi egli interessato con le sue orationi di donare il vostro SERENISSIMO DUCA alla religione cattolica, vi diede d’un ottimo, e perfetto Cattolico il ritratto e l’idea. Né, perche à lui uguale di cittadinanza, e di nome, non senza special privilegio vengo contr’ogni mio merito onorato à servir S. A. SERENISSIMA in quest’hospitio; ma vorrei però per dimostrar tal gratitudine ritrovarmi quel braccio robusto, con cui l’Angelo portò di peso per un capello Abacuch in Babilonia la Reale, per trasportar voi per duecentocinquanta leghe3 all’ultimi confini d’Italia per contemplarlo, ò nel Convento della Grottella in sua, e mia patria, o d’Assisi nell’Umbria, ò di Fossombrono nella Marca, là destinato dalla sacra Congregatione acciò vivendo tra Cappuccini pietra di paragone, dove egli altre volte, essendo stato nella sua gioventù nostro Novizio, imparò l’abbecedario di Cristo, s’esperimentasse wea tutt’oro finissimo di santtà nell’interno, ciò che nell’esterno appariva.  

Ricordo che Giuseppe era morto da sedici anni ed era stato proclamato santo da dodici. La Pasqua del 1679 cadde il 2 aprile, Giovanni Federico sarebbe morto di lì a pochi mesi (16 dicembre, come s’è detto). L’episodio della sua conversione dal luteranesimo al cattolicesimo ad opera del santo dei voli in quel di Assisi, dove il duca  venticinquenne (dunque siamo nel 1650, essendo egli nato nel 1625) si era recato da Roma nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi per l’Europa, è riportato estesamente in  Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fra Giuseppe da Copertino, Tinassi e Mainardi, Roma, 1722, pp.180-189. Dallo stesso libro4 apprendiamo che nel 1668 il duca sposò Benedetta Enrichetta Filippina, della quale, ormai vedova, il Bernino riporta la testimonianza (p. 194): “Attesta la Serenissima di Bransuvik, ancor viva, mentre questo libro sriviamo, qualmente in quella Corte à tempo del Duca Giovanni Federico suo Marito, Non vi faceva altro, che parlare del Servo di Dio Padre Frà Giuseppe da Copertino, al quale egli conservava una tenerissima divozione, e ne aveva l’Effigie: et à questo riguardo, volendo egli qualche Religioso nè suoi Stati, prescelse li Padri Cappuccini, come che Francescani, frà quali haveva il suo Confessore, e quali mantenne, fin’ che visse. Così un’authentica testimonianza pervenuta a Noi da quelle parti,  insieme con un’ discorso morale del Padre Frà Giuseppe Bono da Diso Predicator’ Cappucino  della Provincia d’Otranto, stampato, e recitato nella Chiesa Cathedrale di Hannover, in presenza del Duca Giovanni Federico nel martedì di Pasqua 1679, cioè nove mesi avanti, che quel Sovrano nel nuovo viaggio d’Italia morisse, in cui nel fine si fà lunga, e degna commemorazione dell’Heroiche virtù del nostro Venerabile Padre Giuseppe, non senza tenerezza di lacrime negli Astanti, frà quali il Primo dava, e riceveva Maestà il medesimo Beneficato Serenissimo Sovrano, Uditore, Testimonio, e Soggetto di quanto in quella Predica si esponeva”.

L’episodio della conversione del duca era troppo eclatante perché non trovasse un posto di rilievo nell’iconografia del santo, oltre che nelle immaginette devozionali o santini, anche nell’arte propriamente detta. Di seguito due espressioni sul tema: la prima è opera di Giuseppe Cades (1750-1799), custodita nella cappella intitolata al santo copertinese nella Chiesa dei SS. XII Apostoli a Roma (foto tratta da http://poloromano.beniculturali.it/index.php?it/457/13-cappella-di-san-giuseppe-da-copertino)

la seconda è un dipinto attribuito da Nuccia Barbone Pugliese a Domenico Antonio Carella e da Stefano Tanisi a Saverio Lillo da Ruffano (1734-1796) custodito nel santuario di Giuseppe a Copertino (foto di Stefano Tanisi tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/18/il-pittore-del-santo-dei-voli-saverio-lillo-da-ruffano/).

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1 Secondo i dati ISTAT erano 2960 al 31 luglio 2017.

2 La dedica al cardinale Francesco Barberini consente di collocare la data di stampa nel range temporale della sua carica (1623-1679)-

3 La lega era un’unità di misura di distanza variabile tra i 4 e i 5 km a seconda dei luoghi.

4 Integralmente leggibile e consultabile in https://books.google.it/books?id=dI4CChboW_0C&pg=PA186&dq=Giuseppe+bono&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjGs5Ptkq_XAhVJthoKHaw4DH0Q6AEIUzAI#v=onepage&q=Giuseppe%20bono&f=true

Trainella, fra Marittima, Diso e Tricase

trainella

di Gianni Ferraris

Ci sono modi di dire che si utilizzano per abitudine, spesso per convenzione, “Il mondo è piccolo”, ad esempio. A volte poi ti accorgi che la tradizione orale, la cultura popolare, spesso tramandano verità. E’ piccolo il mondo se mia figlia, alessandrina che studia all’università a Pavia, ha una “collega” salentina che la invita a Tricase per l’estate, successe nell’agosto 2012, ed è piccolo se a distanza di un anno incontro Costantino, il padre della ragazza salentina, nella piazza di Diso ed iniziamo a parlare accorgendoci di avere in comune amici e interessi, oltre che di trovarmi davanti ad un raffinato scrittore. Diso è un paese tranquillo, poca gente per strada, seggiole in piazza martedi 6 agosto fra i tavolini del bar, un palco, una bandiera italiana ed una della CGIL. C’è la proiezione di un documentario che per varie vicissitudini ancora non avevo visto: Arneide. Passano su quel piccolo schermo e con un audio improbabile le immagini e le testimonianze dei protagonisti delle lotte a cavallo fra il 1950 e il 1951, quando le terre vennero occupate, quando la polizia di Scelba caricava donne e uomini che volevano solo e banalmente lavorare un pezzo di terra, che chiedevano di poter sopravvivere.

Anche Costantino Nuzzo era in piazza a Diso, e mi ha sorpreso regalandomi un libro che aveva scritto nel 2010: Trainella. Non è romanzo, non è saggio, è un racconto di vita vissuta fra Marittima, Diso e Tricase. Lui nacque a Marittima, ora vive e lavora a Tricase. Già direttore di Radio Salento popolare e collaboratore di riviste, ha voluto mettere su carta i suoi ricordi, che sono quelli della sua generazione. L’ha fatto perché occorre ricordare, avere memoria di come eravamo per comprendere cosa siamo. E l’ha fatto perché gli spiriti più attenti della nostra generazione si rendono conto che il filo della memoria è esageratamente esile e fragile. Cito un passaggio della sua presentazione del libro: quella attuale, per Costantino “è una società senza chiari modelli diriferimento, confusa e smarrita, che si concentra […] sull’insano culto dell’io senza lasciare spazio al noi… Una società concentrata nel quotidiano individuale, che vive alla giornata. Senza passato, senza storia e senza alcun progetto di futuro[…]”

Forse una visione ecessivamente pessimistica, che tuttavia ha ragion d’essere se valutiamo la deriva sociale e politica in cui siamo stati risucchiati tutti quanti, e della quale la mia generazione, che è anche quella di Costantino, ha qualche responsabilità. Consideriamo le lotte dell’Arneo, quando una classe di “ultimi” chiese, pretese ed ottenne in parte di avere un pezzo di terra che desse loro dignità di esseri umani, che facesse uscire il Salento dal feudalesimo crudele dei baroni e dei proprietari terrieri che utilizzavano centinaia di ettari di terreni coltivabili come riserva di caccia, e vediamo oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, nuovi “baroni” tanto simili a quelli antichi che vengono incarcerati perché riducono in schiavitù altri “ultimi”, i ragazzi che arrivano con scafi di fortuna. Le domande sorgono spontanee, le conquiste di un tempo, quanto valgono oggi? Soprattutto, perché la cosiddetta “società civile” consente questi ignobili comportamenti? Perché un conclamato razzista ricopre importanti cariche in parlamento? Perché i diritti conquistati nel tempo sono stati tutti risucchiati e negati da un capitalismo globalizzato che si ritiene invincibile? E potremmo proseguire a lungo, ma torniamo a Trainella. Il libro è di agilissima lettura, scritto in modo asciutto, riporta episodi, guaches di personaggi e comportamenti di Marittima e Diso degli anni fra il 1957 e il 1967, quando la guerra finita sembrava lasciare posto alla rinascita, ma che vedeva i contadini, i mezzadri fare una vita meno che dignitosa, spaccarsi la schiena e lottare ogni giorno per sopravvivere. E lo fa senza enfasi e senza cadere nel tranello del “Mulino Bianco”, quando i mulini erano bianchi, ben lo sappiamo, i poveracci crepavano di fame. Racconta, anche con simpatica ironia, la quotidianità di una famiglia con molti figli, del parto provocato da un ribaltamento del “traino”, racconta del contrabbandiere, della festa patronale con gli abiti buoni, della raccolta del tabacco, del trasferimento della famiglia intera, compreso il nonno fumatore incallito, a Ginosa per la raccolta sulla “millequattro” con autista che stipava tutto l’occorrente per la sopravvivenza di alcuni mesi e oltre 9 persone a bordo. Un viaggio di ore e ore, sempre che non ci fossero guasti e che la polizia stradale non fermasse quella strana auto stracarica per la multa di ordinanza. E ricorda, Costantino, del daziere che potremmo definire gabelliere, di come il “Don” precedesse il nome dei figli laureati dei possidenti terrieri. Quelli che studiavano anche se “ciucci”. E poi il cinema Excelsior dove occorreva andare alle tredici per prendere posto, ed era indispensabile andarci perché anche le ragazze potevano, con il beneplacito dei genitori e del prete, recarsi. E ancora, i matrimoni mai fatti perché dalla dote mancavano i materassi, o della “fusciuta” (scappatella) di chi non poteva permettersi la dote e giustificava in questo modo un matrimonio improvviso. Acquarelli leggeri nella loro pesante realtà, che fanno sorridere con tristezza. Accompagna per mano a capire, fa vedere con occhi diversi le bellezze di queste terre e la durezza del lavoro. Soprattutto si comprende meglio la trasversalità delle storie degli “ultimi”, quelle descritte da Nuto Revelli nel suo stupendo ed irrinunciabile libro che conserverò accanto a Trainella:  “Il mondo dei vinti” che racconta la vita dei contadini di Langa, costretti ad emigrare per fare “la stagione” in Francia da clandestini ovviemente, costretti a nutrirsi di castagne e a comprare il sale di contrabbando dagli “acciugai”, tutto ciò per poter dire di avere vissuto. Il mondo, in fondo, è veramente piccolo.

 

Costantino Nuzzo – Trainella – Minuto D’Arco Editore. € 10.00  

Diso. Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo

 

Il culto e la festa dei SS. Apostoli Filippo e Giacomo, Patroni di Diso (Lecce) : i “Santi nosci”

 

di Rocco Boccadamo

Le celebrazioni espressamente dedicate hanno inizio il 21 aprile con il novenario.

Di buon mattino, a cura ed opera del Parroco e dei priori, questi ultimi intesi come i principali esponenti del comitato festa, le statue di legno dei Santi sono prelevate dalle nicchie appositamente ricavate nelle pareti interne della chiesa, “spogliate”, ossia senza gli ornamenti delle corone e delle insegne (croce e asta), e poggiate su uno scanno in prossimità dell’altare.

In quella fase, il luogo è quasi a porte chiuse, in pratica vuoto, l’azione si svolge in un misterioso silenzio, ammantato di riservatezza e di esclusività.

Il prete e i priori allestiscono, nel consueto angolo del tempio, a sinistra guardando l’altare, il baldacchino o “tosello” in pesante tessuto rosso; quindi prendono,  dalle custodie di sicurezza, le anzidette insegne in argento e le reliquie dei Santi, ponendole addosso ai rispettivi simulacri, in gergo “vestono” le statue.

Contemporaneamente, i rintocchi delle campane fanno giungere alla popolazione l’atteso, immancabile e immutabile avviso.

Fino a qualche decennio fa, la gente era colta dall’annuncio, quando già, dopo la sveglia all’alba secondo le antiche abitudini dei contadini, si trovava da tempo intenta al lavoro; dunque, lasciando di colpo arnesi e occupazioni, accorreva di buona lena, a passo affrettato, direttamente dalla campagna verso la chiesa.

Adesso, invece, nella quotidianità e particolarmente il giorno 21 aprile, nessuno si reca nei campi, anzi le persone si preparano in casa, in un certo senso con abiti di festa, per l’evento.

In tutta la comunità, sembra che sia rimasta solo un’anziana donna, la quale non ha cambiato le usanze e raggiunge la parrocchia così come si trova.

Con il luogo sacro ormai gremito di fedeli, il parroco e i priori intronizzano le statue sul baldacchino.

Nel tardo pomeriggio, in piccola processione, dalla congrega (cappella) della confraternita si preleva il simulacro in cartapesta della Madonna Immacolata – qui conosciuta come Madonna dell’Uragano, giacché la Vergine, stando alla tradizione, tenne indenne Diso da un devastante evento atmosferico – e lo si

La ritrattistica, e non solo, di Carlo Casciaro

 

di Paolo Rausa

Un pomeriggio infuocato salentino di quasi metà luglio non era il momento più indicato per incontrarsi con un artista. Mi aveva colpito un suo quadro in acrilico che riproduceva la piazza di un paesino accanto al suo, Diso, con alcuni elementi innovativi: le piccole costruzioni addossate le une alle altre, poste a ridosso della chiesetta e intorno ad una colonna votiva, una strada o viottolo, alcune figure umane, molto piccole, che animavano la rappresentazione, colori pastosi e il cielo che sovrastava limpido e sereno, insomma un paesaggio andino in pieno Salento!

Il giorno dopo ero a trovarlo nel suo studio a Ortelle, ricavato da una cantina,

A Diso, fra arte e devozione popolare

 

 

Viaggio nel Salento, a Diso, fra arte e devozione popolare nel saggio di don Adelino Martella

di Paolo Rausa

Un viaggio alla ricerca delle tradizioni perdute e ritrovate da don Adelino Martella, parroco di Diso nel Salento, provincia di Lecce, che ci invita a intraprendere con il suo ultimo libro ”Il Miracolo e… I Miracoli dei Santi di Diso”, corredato di dati storici, appendici e note di carattere socio-religioso. Don Adelino ci accoglie nella piazza e ci invita a visitarela Parrocchiale dedicata ai cosiddetti “Santi nostri di Diso”, i Santi Apostoli Filippo e Giacomo, a cui la Chiesa è dedicata, il Santo “con la barba” che reca la croce del martirio e il Santo “senza barba”, scaraventato giù dal Tempio e percosso dal bastone. Ci conduce all’interno, desideroso di farci ammirare la navata centrale restaurata “integralmente, senza aggiunte” – ci dice –, ripristinando i colori originali dell’altare e della balaustra antistante in pietra, delle pareti e delle nicchie nonché delle tele realizzate nel settecento da maestranze locali – fra cui quella,

Ultimo ciak da Diso (Lecce)

di Rocco Boccadamo

E’ scomparso Giuseppe Bertolucci, sceneggiatore e regista, figura importante del cinema italiano e internazionale. Ciò annuncia un manifesto, listato, nella circostanza, di grigio scuro, fatto affiggere dalla civica amministrazione di un piccolo comune del Basso Salento.

E però, avanti che si affacciasse come sopra dalle locandine sui muri del paesello, la notizia dell’evento, grazie all’immediatezza a livello di tempo reale dei circuiti via internet, aveva ovviamente raggiunto i motori di ricerca e le agenzie di stampa. Cosicché, lo scrivente ha saputo attraverso una delle saltuarie capatine dentro le pareti di Google.

Ad ogni modo, la località di Diso,  poco più di mille abitanti, capoluogo di un comune che, considerando anche la frazione di Marittima, supera appena le tremila anime, ameno e tranquillo paese a due passi da un mare d’incanto, meno che una punta  di spillo nell’ambito dei confini geografici globali oggi vigenti, c’entra, eccome!

Difatti, qualche anno addietro, l’eminente uomo di cinema e di cultura l’aveva scelta come luogo dei suoi riposi, delle parentesi di distensione, senza pensieri e nello stesso tempo fra meditazioni e riflessioni, quale angolo tranquillo per rivivere un’esistenza piena, intensa e intrisa di successi.

Individuazione, tuttavia, nient’affatto casuale, anzi verosimilmente in linea con la grande semplicità dell’uomo, il suo attaccamento alla natura.

Non è dato sapere se la decisione di rifugiarsi, di tanto in tanto, da queste parti, sia stata antecedente o successiva rispetto ad un problema di salute, al

Ricordo di un Sindaco

di Rocco Boccadamo

16 giugno 1912 – 16 giugno 2012

Ricorre in questi giorni il centenario della nascita di  Agostino Nuzzo, primo cittadino del Comune di Diso, nel sud Salento, dal 1946  al 1951 e dal 1956 al 1963: secondo il sentire popolare, tuttora diffuso nelle fasce degli abitanti di una certa età, il Sindaco per antonomasia.

Uomo, genitore, educatore e pubblico amministratore.

Semplice e insieme autorevole,  cordiale con tutti, particolarmente vicino ai più deboli e bisognosi, capace di guidare e di coinvolgere, disponibile ad ascoltare il parere e i consigli degli altri.

Breve l’arcobaleno della sua esistenza terrena –  essendosene egli andato a sole cinquantuno primavere, nell’ormai lontano 1963 – e però caratterizzato da sfumature molto intense, in termini di idee, fatti, azioni e interventi per la crescita del territorio affidatogli.

Indubbiamente, una figura che ha saputo volare alto, tanto da divenire polo di

Compare, mi vendi una scarpa?

Piroscafo Saturnia

di Rocco Boccadamo

Stamani, nell’ingranaggio di un moto misterioso e inconsapevole, fra le mani dello scrivente si è trovato a girare ripetutamente un documento antico e speciale, custodito con gelosa cura in mezzo alle “carte che contano”.

R. ESERCITO ITALIANO

Foglio matricolare e caratteristico

B. Silvio Celestino di Cosimo

e di B. Consiglia nato il 3 – 11 – 1909 a Diso

statura m. 1,58, torace m. 0,83, capelli castani, forma ondulata

colorito roseo, occhi cerulei, naso regolare

professione o mestiere contadino, grado d’istruzione 3^ elementare

chiamato alle armi il 1° ottobre 1930

richiamato il 10 giugno 1935 e arruolato nella M.V.S.N. Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, 252° battaglione CC.NN., per esigenze Africa Orientale

imbarcatosi a Napoli per l’A.O. il 12 settembre 1935

sbarcato a Massaua il 28 settembre 1935

reimbarcato a Massaua per rimpatrio il 4 settembre 1936

tale, sbarcato a Napoli il 13 novembre 1936

ecc. ecc.          

ricollocato in congedo illimitato il 10/4/1944

collocato in congedo assoluto, legge 31.7.1954, il 2 gennaio 1970

Scorrendo gli eventi curriculari, l’attenzione si è appuntata sul passaggio “Imbarcatosi a Napoli per l’A.O. il 12 settembre 1935”, e ciò, per via di un piccolo, quanto incancellabile particolare di “cronaca” collegato a quella missione.

Il partente per aree di guerra lontane, fu accompagnato in treno, sino a Napoli, dal padre.

Completato il carico delle giovani leve con stellette, il piroscafo “Saturnia” alzò le ancore facendo rotta verso il Canale di Suez e il Mar Rosso, mentre, qualche ora dopo, il genitore del soldato ritornò in stazione, occupando posto sul treno per Lecce, carrozza di 3^ classe con sedili in legno, denominata “cento porte” in quanto, in mezzo a ciascuna coppia di panche, si apriva uno sportello per la salita e la discesa dei viaggiatori.

Il buon uomo, di mezza età e già stanco per la notte precedente passata in viaggio, in quattro e quattr’otto si distese alla men peggio, magari accovacciandosi, se non completamente sdraiandosi, sul sedile, soprattutto dopo essersi tolte le scarpe alte di cuoio dai lunghi lacci che gli tenevano asserragliati e compressi gli arti.

Ci volle poco e Cosimo prese sonno, così pesante e incontenibile, nonostante lo scomodo giaciglio, da protrarsi sino al mattino successivo, col convoglio già sferragliante in piena Puglia. Frattanto, durante le numerose fermate dell’accelerato nelle stazioni intermedie, c’era ovviamente stato un nutrito  via vai di utenti.

Sollevandosi e provando a ricomporsi, Cosimo, come prima azione, si mosse a rimettersi le scarpe, ma, con somma sorpresa, sotto il sedile, trovò una calzatura soltanto. Hai voglia a cercare di qua e di là, dell’altra scarpa

Salento terra di santità. I Servi di Dio di Corigliano, Diso, Erchie, Francavilla Fontana

di fra Angelo de Padova

 

Fra Bernardino Delli Monti da Corigliano. Rinunciò ai titoli della primogenitura al fratello ed entrò nell’Ordine dei Frati Minori dell’Osservanza, passando così dalle piume alle paglie, dalle sete alle lane, dalle vivande squisite alla penitenza. Pervenuta a Roma la fama della sua santa condotta fu mandato Visitatore nelle Calabrie, nella Sicilia e nella Provincia Romana e Gregorio XV lo destinò Visitatore Apostolico per buona parte delle Province Italiane. Morì a Roma il 22 ottobre del 1621.

Fra Diego da Corigliano, morto il 26 settembre del 1674. Uomo della bontà e della semplicità, veniva chiamato “il santarello” umile, obbediente, dotato di scienza infusa. Aveva una spiccata conoscenza delle Scritture; pur essendo illetterato parlava meravigliosamente delle cose divine. Grande spirito di preghiera. Esalò la sua santa anima con gli occhi fissi al cielo e dicendo: “Signore nelle tue mani consegno il mio spirito”. Frate minore.

Fra Francesco De Blasi da Diso,  il 19 novembre ???; conte di Lenos e signore di Castro, fatto cappuccino visse e morì santamente. Cappuccino.

Fra Stefano di S .Teresa da Erchie. Distintosi per la virtù dell’obbedienza. Morto il 14 gennaio1814 a Oria. Frate minore.

Fra Alessio da Francavilla Fontana, morto il 9 ottobre 1679, lavoratore, devoto della Madonna, dotato del dono dell’estasi e della profezia, morì al

Storie di piccioni e di ciabattini tra Marittima, Diso, Castro e Andrano

torre colombaia, ph Rocco Boccadamo

I piccioni, nel palummaru della “Arciana”

e secondo il racconto del ciabattino

di Rocco Boccadamo

Costeggiando e tenendo a manca la civettuola villetta con fontana a zampillo di Piazza della Vittoria, sorta nello slargo già denominato “Campurra”, che, sino a cinquantacinque/sessanta anni fa, era in parte occupato dalla cappella di S. Giuseppe e, per il resto, fungeva da campetto alla buona per giocare al calcio, s’imbocca via Giuseppe Parini che, praticamente, delimita, in quel senso direzionale, il vecchio centro abitato di Marittima e, una volta superato l’incrocio con via Murtole, recente nastro d’asfalto su cui s’affaccia uno sparuto numero di costruzioni, segnando in prevalenza, d’ambo i lati, i confini di fondi agricoli, inizia la cosiddetta via vecchia per Andrano.

Il primo appezzamento di terreno che scorre sul relativo versante sud è storicamente denominato “Arciana”, accezione di significato sconosciuto, almeno per lo scrivente, contraddistinto, lungo il confine con la strada, da un’infilata di bellissimi, datati e svettanti pini, dagli ampi cappelli di verde che sembrano sfiorare insieme sole e cielo.

Più o meno al centro della “Arciana”, si erge una solida e massiccia torre colombaia (in dialetto, palummaru), per stagioni secolari in funzione di rifugio, praticamente casa e nido, grazie alla ragnatela di cellette ad incollo ricoprenti l’intera estensione interna delle pareti cilindriche, di nutrite colonie di colombi o piccioni.

Nei tempi andati, tali volatili abitatori si annoveravano, a buon titolo, fra gli animali domestici o da cortile, seppure allevati in libertà e a campo aperto senza reticolati,  il loro  nutrimento consisteva unicamente in semi, erbe, insetti, larve, frutti sui rami o avanzi dei medesimi caduti sulle zolle rosse, davano carni assolutamente commestibili, anzi di particolare leggerezza, digeribilità e pregio.

Sicché, di frequente, finivano con arricchire la tavola delle famiglie abbienti, benestanti. Inoltre, anche da parte dei nuclei comuni e poveri, non si mancava d’acquistare almeno un esemplare di colombo, allo scopo di preparare un brodo e una pietanza speciali per le puerpere: piccolo segno di festa in ogni grande evento, quale, al paesello, era considerato l’avvento di una nuova nascita.

I ragazzini della metà del ventesimo secolo, fra i quali il sottoscritto, avvertivano sin  da lontano il vociare dei pennuti del palummaru , risuonante a guisa di un coro, una successione di uhù, uhù, uhù…, che, nel sentire e nella suggestione di quelle individualità infantili e ingenue, s’interpretava come Gesù, Gesù, Gesù…, la qual cosa incuteva sprazzi di timore, se  non di vera paura.

Oggi, purtroppo, degli antichi, familiari e domestici colombi, non residua alcuna traccia, sulla cinta di copertura e nelle cellette del palummaru s’aggirano sparuti esemplari di piccioni che, già osservandoli a distanza, danno l’idea d’essere come spaesati, imbastarditi, identici, o quasi, a quelli presenti in abbondanza fra i condomini e negli spazi delle città, che, però, non rendono più alcun contributo utile alle mense, anzi nessuno s’azzarderebbe a mangiare la loro carne, al contrario creano problemi, giacché, con i loro escrementi, imbrattano, su scala diffusissima, edifici, monumenti, chiese, balconi, cortili, inferriate, al punto da far sorgere una linea di produzione, un mercato di aggeggi, marchingegni dissuasori e ritrovati vari anti colombi.

Adesso, com’è noto, si vive in un contesto, una sorta di cornice di globalizzazione di portata planetaria e, invero, non si fa che parlarne e sottolineare a ogni piè sospinto tale realtà che avrebbe rivoluzionato tanti aspetti, lo stesso metro esistenziale e d’abitudini.

Tuttavia, il concetto di coinvolgimento collettivo e d’interazione allargata non è un’autentica novità, si manifestava nei fatti e nelle azioni concreti, pure nel secolo e nei decenni trascorsi.

Ad esempio, le comunità di Marittima, Diso, Castro e Andrano, sebbene separate da qualche chilometro di distanza e collegate da arterie strette, sconnesse e martoriate dai solchi dei traini, erano ambiti di scambi e d’incroci di frequentazioni, scenario reale e antesignano di piccole globalizzazioni interpaesane, in seno agli abitanti ci si conosceva in  molti. E ciò era, già di per sé, bello.

ph Rocco Boccadamo

Si snodavano minuscoli cortei umani, sullo stimolo di devozioni religiose, ma, parimenti, alla ricerca di divertimenti, svaghi, incontri e così via, ogni domenica e, particolarmente, in occasione delle feste patronali.

Il giorno d’oggi, sembra un paradosso eppure, nonostante la disponibilità e la diffusione in termini massicci, di mezzi di comunicazione e di contatto, raramente sono vissuti e alimentati effettivi e personali tratti di frequentazione e reciproca consuetudine al di fuori dai confini comunali o della singola, propria località e comunità.

Eccezione, in confronto al quadro della realtà così radicalmente evolutasi e mutata, ad Andrano, permane verde un “pezzo d’antico”, un riferimento desueto, nella persona di un  artigiano, meglio dire un calzolaio, Maestro D., classe 1930. Egli incarna, oltre che l’operatore tradizionale al desco da ciabattino, il gestore di un’utile bottega, anche l’animatore e la voce di un minuscolo ma attivo salotto vecchia maniera.

E’ originario di Diso, Maestro D., dove ha esercitato il solito mestiere in collaborazione con il padre sino alla prima giovinezza, servendo una vasta clientela sia a Diso, sia e soprattutto nella più popolosa frazione di Marittima, intessendo intense conoscenze  in special modo con le famiglie di ceto medio elevato, le quali, chiaramente, meglio potevano permettersi d’ordinare calzature di pelle e cuoio di manifattura spiccatamente artigianale.

Sposatosi, si trasferì in Andrano.

Adesso, Maestro D., di scarpe nuove ne confeziona poche, mentre è impegnato da una buona domanda d’interventi di riparazione su calzature moderne, non necessariamente di cuoio e pelle, ma pure di para, plastica e stoffa: il ciabattino sopravvissuto è in grado di porre rimedio un po’ a tutti i leggeri e gravi deterioramenti.

Da quando ho fatto ritorno nel Salento, anch’io sono divenuto cliente di Maestro D., in proprio e ancor più per conto di mia figlia, la quale vive e lavora all’estero, ma, in occasione dei saltuari weekend e/o vacanze da queste parti, non manca mai di portarsi appresso qualche paio di scarpe per l’amico artigiano.

Interessante si rivela che, a ogni accesso alla bottega di Maestro D., si ha agio di recepire un fatto, o ricordo o racconto inedito. L’altro giorno, al mio accenno che per raggiungere Andrano in  motorino ero passato davanti alla “Arciana” e al “palummaro” , il calzolaio ha prontamente fatto notare che quel fondo, in anni lontani, è stato per lui un abituale territorio di caccia.

Già, perché lo sport venatorio ha rappresentato da sempre la sua principale passione.

Difatti, fece domanda per il rilascio del porto d’armi a 18 anni, all’epoca ancora minorenne e, perciò, con la necessità dell’assenso paterno; dovette versare una tassa di concessione governativa di 1300 lire e acquistare marche da bollo per altre 850 lire. L’agognato porto d’armi giunse in prossimità del Natale 1948 e Maestro D., ansioso di toccar con mano il tanto sognato permesso, si spinse addirittura a fare  pressioni sul  Sindaco, in modo che la pratica fosse perfezionata a stretto giro. Osservazione di quel primo cittadino: “Maestro D., ma proprio in questi giorni di Natale è atteso l’arrivo di tanti…piccioni?”, laddove non mancava una chiara, maliziosa allusione a bersagli tutt’altro che volatili.

Maestro D. acquisto il suo primo fucile, usato, per 17.000 lire, dopo di che, per la messa a punto e previa prudenziale richiesta e ottenimento di un preventivo di spesa nell’ordine di ulteriori 14.000 lire, gli tocco d’inviare l’arma ad una famosa casa di produzione del bresciano. Per maggiore garanzia, Maestro D. preferì rivolgersi al più lontano e costoso indirizzo e  non far capo ad un artigiano d’Andrano, tale “Rondone” di soprannome, un autentico genio, il quale costruiva e affilava falci per lavori agricoli, ma sapeva anche costruire, riparare fucili, avancariche eccetera. Prova ne è che, emigrato a distanza di tempo in Lombardia, si occupò in una grande azienda del settore, svolgendo il compito d’istruttore dei giovani operai.

Ritornando al tema delle sue conoscenze e dei rapporti dei tempi passati, Maestro D. mi ha chiesto notizie sugli eredi di una determinata famiglia del mio paesello, non  senza regalarmi la chicca della notizia che, nel momento della dipartita, intorno al 1950, del capo della medesima famiglia, gli fu ordinato e, insieme con il padre, dovette confezionare lavorando anche la notte, un paio di scarpe in capretto: un cult, frutto della volontà e della speranza  dei congiunti, di poter così rendere comodi e leggeri i passi del viaggio del loro caro, con traguardo l’aldilà.

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