Un altare ligneo barocco nella chiesa del SS. Crocifisso a Latiano

di Domenico Ble

 

A Latiano all’interno della chiesa del SS. Crocifisso possiamo ammirare una macchina d’altare lignea, realizzata nel 1697.[1]

In basso al centro è posizionata la mensa d’altare e al disopra dietro al tabernacolo è collocata la tela raffigurante l’Addolorata e sopra trova posto l’edicola al cui interno sono conservati i reliquiari con all’interno un frammento della Santa Croce e della Santa Spina.

A sinistra è posizionata la tela raffigurante San Giovanni Evangelista, mentre a destra quella raffigurante Maria Maddalena, al di sotto di queste due tele sono collocate le porte di accesso alla sagrestia. La decorazione ad intaglio fu realizzata nel 1707 da Oronzo Garafa di Lecce.[2]

 

Le due tele raffiguranti San Giovanni Evangelista e la Maddalena sono del pittore mandurese Diego Oronzo Bianchi, queste risalgono ai primissimi anni del XVIII secolo, possono essere associate a questo pittore in quanto due iconografie simili, più tarde nella realizzazione, sono presenti nella chiesa dell’Immacolata.

L’altare ligneo è impostato sulla parete di fondo della cappella, risaltando per le sue decorazione dorate. Lo spazio che lo caratterizza è diviso in tre parti dalle quattro colonne tortili sormontate da capitelli corinzi; al disopra ritroviamo il fregio aggettante all’altezza dei capitelli e decorato all’interno con linee curve. Sulla cimasa, all’estremità di destra e di sinistra, ricorre la decorazione a volute con in mezzo delle piccole urne sormontate da delle lingue di fuoco, mentre al centro troviamo la tela raffigurante Dio Padre racchiusa in una cornice.

In linea con il gusto dell’epoca, tipicamente barocco, i suoi motivi decorativi richiamano quelli di diversi altari delle numerose chiese di Lecce, città innovatrice e ispiratrice per le arti nel corso del XVII e XVIII secolo.

 

[1] S. Settembrini, Il culto del SS. Crocifisso a Latiano. Storia e tradizioni, Italgrafica Edizioni, Oria 1996, p. 21.

[2] Ibidem…

Una tela raffigurante San Tommaso d’Aquino nella chiesa del Rosario a Latiano

di Domenico Ble

 

A seguito del recente lavoro di restauro possiamo tracciare un primo excursus pittorico della tela raffigurante San Tommaso d’Aquino conservata nella chiesa del SS. Rosario a Latiano.

Diego Oronzo Bianchi (attribuito), San Tommaso d’Aquino, Latiano, chiesa del SS. Rosario
Diego Oronzo Bianchi (attribuito), San Tommaso d’Aquino, Latiano, chiesa del SS. Rosario

 

Nell’opera vediamo il santo raffigurato in ginocchio e con lo sguardo rivolto verso l’alto, in direzione della colomba dello Spirito Santo, dalla quale fuoriescono i raggi luminosi. San Tommaso indossa gli abiti dell’ordine domenicano, veste bianca e mantello nero, nella mano destra tiene la penna, oggetto che ricorda il suo incessante lavoro teologico e con la mano sinistra indica la colomba; è qui raffigurato un momento di grande spiritualità, l’istante in cui l’uomo è travolto dall’ispirazione divina. Del santo, vengono rappresentati tutti gli attributi iconografici: il sole sul petto, la penna, il libro e la colomba dell’ispirazione.

Sotto la nube, su cui è posizionato il santo, si intravede il volto di un uomo barbuto, si tratta della personificazione del maligno. La scena si svolge in un luogo chiuso, lo studio del teologo, e lo si deduce dal tavolo posto in primo piano a destra.

Nella Platea Legale e Giuridica del Venerabile Convento dei Reverendissimi Padri Domenicani di S. Domenico di Latiano, redatta nel 1775 dal Regio Tavolario D. Giuseppe Ranieri Ferrari, nella descrizione della chiesa, è menzionato anche l’altare di san Tommaso d’Aquino [1]; è dunque possibile ipotizzare che questa tela, fosse già posta sull’altare e che a commissionarla fosse stato lo stesso ordine religioso.

Non si conosce l’autore, in quanto non è presente la firma, ma lo stile ricorda quello di Diego Oronzo Bianchi (1683 – 1767) [2], pittore nativo di Manduria, molto rinomato nel XVIII secolo, molto nel Salento; lo confermano le numerose opere presenti nella subregione pugliese.

Nel San Tommaso d’Aquino ritroviamo delle assonanze stilistiche con alcune opere del pittore manduriano; il legame più forte è la presenza del luminismo e dalla plasticità dei corpi, particolari venuti fuori grazie al recente restauro. Tali aspetti in Diego Oronzo Bianchi sono una costante, e tale maestria il pittore l’acquisisce osservando la pittura di Paolo De Matteis. Il celebre maestro campano fu, in un certo senso, per Bianchi il “faro” ispiratore sia a livello tecnico-pittorico che compositivo.

Michele D’Elia da conferma di questa adesione allo stile del De Matteis: “…Bianchi, è uno dei tanti componenti della famiglia di pittori manduriani che da allora in poi, per buona parte del secolo, divulgheranno a loro volta, con esiti non molto brillanti, i modi del De Matteis…” [3].

La fisionomia del santo domenicano ricorda quella del san Giovanni della Croce presente nella tela raffigurante la Madonna e i santi Giovanni della Croce e Teresa conservata nella chiesa del Carmine di Mesagne. Non solo, le è simile anche quella del san Filippo Benizi, raffigurato nella tela in cui è rappresentata la Concessione della Costitutio dell’Ordine dei Servi di Maria a S. Filippo Benizi e S. Giuliana Falconieri, conservata presso la chiesa dello Spirito Santo a Manduria.

Altra assonanza possibile è da farsi con la figura di san Carlo Borromeo presente nella tela raffiguranti i Santi Patroni di Manduria, conservata nella Chiesa Collegiata a Manduria; in tale corrispondenza è uguale anche il panneggio delle vesti.

A Latiano non è insolita la presenza del Bianchi in quanto nella chiesa dell’Immacolata sono presenti quattro sue opere: il Transito di San Giuseppe, l’Addolorata, San Giovanni Evangelista e Maria Maddalena, tutti realizzata prima del 1785 [4]

Ulteriori ricerche in futuro potranno fare ulteriore luce. Per ora, in virtù delle assonanze stilistiche, è possibile avanzare questa prima ipotesi pittorica.

 

[1] (Nella Chiesa del Convento vi sono erette sette Altari, due delle quali, cioè l’Altare del Rosario, e del SS.mo Nome di Gesù sono del Convento, e di queste per gli utensili e feste ne portano il peso le Confraternite. L’Altare maggiore, l’Altare di S. Margherita, e l’Altare di S. Tommaso d’Aquino sono dell’istesso Convento. L’Altare del Patriarca Domenico, e l’Altare di S. Vincenzo sono del Sig. Marchese di Latiano). Platea legale, e giuridica del venerabile conventi de’ RR. PP di S. Domenico di Latiano sotto il titolo di S. Margarita in tempo del priorato del priore e lettore Fra Vincenzo Rispoli di Mesagne. Fatta dal R. Tavolario D. Giuseppe Ranieri Ferrari, delegato della Real Camera come P. pro()ni spedite a d. 16 del mese di settembre 1775.

 

[2] M. GUASTELLA, Iconografia sacra a Manduria. Repertorio delle opere pittoriche (secc. XVI – XX), Barbieri Editore, Manduria, 2002, p. 34.

[3] M. D’ELIA, La pittura del Settecento in Puglia tra Barocco e Rococò, Vol. IV, Electa Editrice, Milano, p. 285.

[4] Le quattro tele vengono menzionate nella visita pastorale del vescovo di Oria, Mons. Alessandro Maria Kalefati, avvenuta nel 1785.

25 marzo. Annunciazione di Maria Vergine. Una tela a Maruggio

Annunciazione, di Paolo De Matteis (olio su tela, 1712). Saint Louis Art Museum

 

di Nicola Fasano

 

L’Annunciazione, tema caro alla pittura italiana (si pensi alle celebri tele di Simone Martini, di Antonello da Messina e di Lorenzo Lotto), rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione (Luca 1:26-38).

La ricorrenza dell’evento cade il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo. Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante. Nel corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema; molto spesso i pittori hanno colto nell’Annunciazione il “pretesto” per raffigurare sfarzosi interni, si pensi ai fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele. In altri casi, rimanendo in ambito quattrocentesco, l’ambientazione risulta semplice e spoglia come in Beato Angelico del chiostro di San Marco a Firenze o nel Domenico Veneziano del Fitzwilliam museum di Cambridge.

Nel ‘500, senza fare fuorvianti generalizzazioni, la scena può essere ambientata in esterni (è il caso del Leonardo degli Uffizi) o al chiuso di una stanza che presenta un’apertura (finestra, arco) dal quale si intravede il paesaggio;  non raro è il caso dell’ambientazione in cortili, in porticati o in terrazze con il paesaggio sullo sfondo e la balaustra a delimitare l’avvenimento sacro.

Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell'Annunciazione, 1291
Roma, Santa Maria in Trastevere, Pietro Cavallini, mosaico dell’Annunciazione, 1291

Nell’arte della Controriforma, quella che ci interessa per il dipinto che andremo a trattare, lo sfondo architettonico viene progressivamente abbandonato a favore di un fondale neutro che vede il cielo abbacinante sul quale si staglia la colomba dello Spirito Santo. L’Angelo annunziante può essere accompagnato da un seguito di cherubini a testimonianza della presenza divina; poca concessione invece, viene lasciata al superfluo, ai dettagli che non siano utili all’identificazione della Sacra rappresentazione: il giglio, il cestino da lavoro di Maria, il libro che racchiude la profezia di Isaia sul concepimento della Vergine. Sono questi i rigidi dettami preconizzati dal cardinale Paleotti  sulle immagini sacre, le quali dovevano suscitare pietà nello spettatore.

Matteo Bianchi – Annunciazione -olio su tela cm. 205×152 ph Nicola Fasano

Il nostro dipinto proviene dalla parrocchiale di Maruggio, un paese ad una trentina di chilometri da Taranto. La tela raffigura la Vergine seduta sull’inginocchiatoio, a capo chino e con il braccio destro sul petto in segno di devozione, nell’atto di ricevere Gabriele portatore del lieto annuncio. L’Annunciata maruggese risponde figurativamente al tipo della humiliatione[1] secondo quanto scritto da Luca (Lc,1,38) “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga in me quello che hai detto”. L’arcangelo  adagiato su una nuvola e accompagnato da una genia di cherubini, reca il giglio simbolo di purezza; chiude la scena al di sopra del gruppo la colomba dello Spirito Santo che spicca dal fondo dorato. Il dipinto inganna, ad osservarlo attentamente non si esiterebbe un attimo ad attribuirlo a Paolo De Matteis e l’ubicazione di Maruggio tra Taranto e Lecce, centri (soprattutto quello ionico), dove il pittore campano fu operoso, non farebbe altro che confermare (ingannevolmente) questa ipotesi.

Invece a pochi chilometri da Maruggio, a Manduria precisamente, sorge nel ‘700 una importante bottega di pittori, i Bianchi, che monopolizza la committenza nobiliare e religiosa, “permettendo” di fare entrare nella cittadina messapica solo dipinti di pittori del calibro di un Trevisani e qualche altro dipinto solimenesco proveniente da Napoli. Tutto ciò a conferma del fatto che a Manduria non si trovano tele del francavillese Carella, del martinese Olivieri, o tele dei più quotati pittori leccesi.

Questo in un certo senso ha appiattito il livello qualitativo della pittura manduriana. Non avendo infatti concorrenti, il “clan” dei Bianchi si adagia su una pittura edificante e convenzionale che riprendendo stilemi solimeneschi, maratteschi o del De Matteis accontenta una committenza provinciale senza grandi pretese.

In realtà, due della stirpe dei Bianchi, i più dotati Diego Oronzo Bianchi e il fratello più piccolo Matteo Bianchi, sono pittori che non sfigurano in un discorso generale sulla pittura salentina del Settecento. Non si spiegherebbe altrimenti come i loro dipinti siano presenti nel leccese, a Taranto, a Brindisi, in terra di Bari e nel territorio lucano (Pasquale Bianchi), questo a conferma della richiesta di loro opere al di fuori del territorio messapico.

Tralasciando l’Olivieri “raccomandato” del Solimena, è difficile  trovare un’altra bottega attiva in buona parte del territorio pugliese e nei territori limitrofi[2].

La tela maruggese è opera autografa di Matteo, il più dotato tecnicamente della famiglia. Fino a pochi anni fa si conosceva poco delle sue opere, e l’Annunciazione maruggese ne è la più celebre e la più nota alla critica. Grazie al lavoro di schedatura fatto da Massimo Guastella[3], sono emersi altri dipinti e si è fatta luce sulla vita del pittore e tesoriere della Collegiata manduriana.

Anzitutto è emersa una notevole perizia tecnica nel disegno, testimoniata da alcuni fogli in collezione Arnò ed è stata evidenziata l’abilità nel trascrivere con facilità brani pittorici di maestri affermati quali il Solimena, il Maratta e il dipinto in questione ne è la riprova.

L’opera portata all’attenzione dalla Pasculli Ferrara[4] e accennata da M. D’Elia[5], viene studiata da Galante[6] che la ritiene copia di un’altra opera del De Matteis di collocazione ignota. Entrambe le opere secondo lo studioso, sono riprese da un analogo soggetto nel Museum of Art di St. Louis, già nella collezione della duchessa di Laurenzano, la quale aveva commissionato il dipinto all’artista cilentino.

La tela del Bianchi trova visibilità nella mostra del 1995 sul Barocco a Lecce e nel  Salento, nel cui catalogo Guastella[7] ritiene il dipinto tratto da un cartone del più quotato maestro sulla scorta del dipinto già accennato da Galante di ubicazione ignota. Lo stesso studioso che colloca la tela attorno al secondo-terzo decennio del ‘700, non esclude un rapporto indiretto con il De Matteis attraverso le opere tarantine. A tal proposito invito a confrontare l’Annunciata maruggese con la Vergine dipinta dal campano nel Carmine di Taranto e quella della Matrice di Grottaglie.

La monumentale opera di schedatura sul patrimonio pittorico manduriano curata da Guastella e fotografata da La Fratta nel 2002  non aggiunge nulla di nuovo sul dipinto in questione[8], ma come già ricordato in precedenza, analizza criticamente la produzione pittorica di questa importante famiglia e “apre” al pubblico le collezioni private, altrimenti inaccessibili, che raccolgono  disegni inediti di Matteo.

Infine nel 2009 in uno studio condotto da Don Pietro Pesare[9], si acquisiscono nelle note a margine  altre interessanti informazioni sul dipinto. La tela agli inizi del ‘900 fu spostata dalla Chiesa Madre del piccolo comune nella cappella cimiteriale di Santa Maria del Verde insieme ad altre tele. Per un fortuito caso l’Annunciazione si salvò dal furto sacrilego perpetrato da ladri il 4 novembre 1975, in quanto il religioso aveva portato la tela in Soprintendenza, per il quanto mai provvidenziale restauro[10].

Attualmente la tela è tornata a Maruggio ed è stata  collocata nel presbiterio della Matrice. Il dipinto commissionato dalla famiglia Covelli[11], di cui il Pesare riconosce lo stemma nobiliare (il sole rosso nascente e l’agnello in basso), probabilmente proveniva dall’altare eponimo della Matrice e sostituiva una precedente tela commissionata dalla famiglia Maldonata-Carrone, imparentata con gli stessi Carrone[12]. Lo studioso inoltre aggiunge che il dipinto maruggese è esemplato dalla tela del De Matteis conservato in San Michele Arcangelo ad Anacapri.

L’impaginazione spaziale a sviluppo verticale della scena richiama la celebre Annunciazione di Nancy dipinta dal Caravaggio, così come la direttrice diagonale che taglia idealmente il dipinto facendo dialogare l’Angelo e la Vergine; alle spalle della stessa un tendaggio verde circoscrive il letto a simboleggiare il Thalamus Virginis che, insieme al poggiapiedi, rafforza il clima intimità  domestica della scena. L’indirizzo classicista e accademizzante desunto dal De Matteis, si manifesta attraverso l’assetto bilanciato della raffigurazione, in cui i protagonisti si distinguono per grazia e bellezza, come ricordato da Galante[13]. Il classico pulviscolo dorato nella parte superiore della composizione si stempera nella luce diffusa che solidifica le forme e risalta il preziosismo serico, esaltando il manto azzurro della Vergine, il panno bianco e il drappo arancio di Gabriele.  


[1] Papa R., Caravaggio l’arte e la natura, Firenze, 2008, p. 204

[2] Forse solo la bottega dei Carella  fu così operosa.

[3] Guastella M., Iconografia Sacra a Manduria, Manduria, 2002.

[4] Pasculli Ferara M., Contributi a Giovan Battista Lama e a Paolo De Matteis, in Napoli Nobilissima vol. XXI, fasc. I-II, Napoli, 1982, p. 49, fig. 9.

[5] D’Elia M., in AA.VV. La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 285, fig. p. 286. Curiosamente nella riproduzione fotografica l’immagine è speculare.

[6] Galante L., Qualche considerazione sul De Matteis in Puglia, in Questioni artistiche pugliesi, Galatina, 1984, p.13, tav. III fig.3.

[7] Guatella M. in AA.VV. Il Barocco a Lecce e nel Salento, Roma, 1995, p. 84 cat.79. Anche in questa riproduzione l’immagine è stata riportata specularmente.

[8] Guastella M., op. cit., 2002,  p. 46.

[9] Pesare P., I Frati dell’Osservanza di Santa Maria della Grazia di Maruggio, Manduria , 2009, pp. 208-209.

[11] Famiglia di origine leccese, stabilitasi a Maruggio nel ‘500.

[12] Pesare P., op. cit., 2009,  p. 209 .

[13] Galante L., op. cit., 1984,  p.15.

La chiesa di san Sebastiano in Francavilla Fontana

di Michele Lenti

 

Chi percorre l’antico borgo di Francavilla Fontana, geloso custode di un ricco patrimonio storico – artistico, che si pone come fedele testimone del florido periodo raggiunto dalla città sotto la signoria degli Imperiali può, ad un primo impatto, non essere particolarmente incuriosito da un edificio di culto come la chiesa di san Sebastiano.

Sobria, anzi sarebbe meglio dire austera nelle sue linee esterne, di certo non suscita quello stupore che invece pervade chi ammira l’imponente facciata della chiesa Matrice, che propone le linee di un barocco, disegnato come un fine merletto, su di una struttura la cui grandezza vuole celebrare la profonda devozione francavillese verso la Madonna. Ma la straordinaria

particolare della facciata (ph M. Lenti)

cupola maiolicata, purtroppo ancora coperta da impalcature, e la grande importanza storica e culturale dell’ex Real Collegio Ferdinandeo[1] lasciano presagire quale significativo luogo fosse. In esso si incrociarono storie di vita religiosa e cittadina, di cultura e di arte, ma anche storie di santità come quelle di san Pompilio Maria Pirrotti e del beato Bartolo Longo.

Purtroppo, ancora oggi, è solo possibile presagire un tale ricco patrimonio perché la chiesa è chiusa da oltre vent’anni per restauri iniziati ma mai completati. Per questo, circa dieci anni fa, è nato un Comitato pro chiesa di san Sebastiano[2] che trae ispirazione dagli incoraggiamenti di migliaia di cittadini che visitarono dal 21 dicembre 1998 al 20 gennaio 1999 la mostra fotografica Ottobre 1997 – Ottobre 1998, quattro avvenimenti sacri[3]. Difatti l’istituzionepersegue l’obiettivo del restauro e della rinascita della nostra chiesa, partendo dalla consapevolezza che le segnalazioni d’allarme per la tenuta statica dell’edificio ed i vincoli posti dalla Soprintendenza non hanno finora suscitato quegl’interventi necessari a scongiurare il degrado di questa monumentale testimonianza.

Anche per questo chi scrive vuole, attraverso la sempre più crescente eco di consensi che sta suscitando Spicilegia Sallentina nel mondo scientifico e culturale, ridestare l’attenzione sul possibile recupero dell’edificio, patrimonio della città di Francavilla Fontana e di tutto il Salento.

tela D. O. Bianchi (ph M. Lenti)

Nella seconda metà del XVI secolo la città di Francavilla Fontana e le terre circonvicine, dopo la signoria della famiglia Borromeo e dopo brevi passaggi ad altri casati, fu acquistata dagli Imperiale di Genova, detti poi Imperiali[4], che la possedettero per otto generazioni fino al 1782[5]. Al momento di acquisire il feudo, stando ad una relazione scritta in Napoli negli ultimi anni del secolo XVI per il granduca Ferdinando I, si apprende che gli Imperiali, una volta presone possesso, avevano settantamila ducati di entrata ma ben “settecentomila” di debiti. Nonostante ciò la loro signoria rappresentò una svolta per Francavilla, che osservò una consistente rivoluzione urbana ed un florido periodo economico, sociale e culturale. Così il pistoiese Pacichelli descrive la città durante il suo itinerario per i borghi del Regno di Napoli: Ella è Principato, che col Marchesato d’Oria, un de’ quattro più cospicui del Regno, e Casalnuovo, già Mandria… forma, hoggi lo Stato di un milion di valore, il quale con l’aumento di Marsafra, e della Vetrana, frutta a’ Signori Imperiali trentacinque mila ducati l’anno…Abondante, sempre per più anni, e per più Paesi, di Grano, Vino, Olio, Mandole e altro di delizia… I suoi borghi si posso dire immensi, maestosi, ed à meraviglia ordinati, con le Case commode, e biancheggiate, le botteghe poste in ordine, con gli arnesi, e stoviglie polite, in modo, che sembrano Sagrestie. Non diverso è l’interno, dove comparisce la Via larga, e lunga a tiro d’occhio, nominata Imperiale: si veggono pozzi per riserve del Formento, ha magazeni colmi di Cacio. Il Palazzo, ò Castello in quadro, con fosso di Animali di piuma e Cerviotti, isolato per dimora del Principe e della sua corte è commodo…[6].

In questo contesto sono già inseriti a pieno titolo i padri Scolopi, i quali giunsero a Francavilla, ospiti di casa Imperiali, il 20 gennaio 1682. Essi traggono il loro carisma dall’apostolato di san Giuseppe Calasanzio (Peralta de la Sal, 1558 – Roma, 1648) il quale, una volta giunto a Roma, interpretò in termini più concreti alcune delle istanze pedagogiche promosse dal Concilio di Trento (1545 – 1563), in un secolo socialmente arretrato e maldisposto, in una società in cui nobili e ricchi erano fortemente attaccati ai privilegi di casta e di censo, mentre la stragrande maggioranza della popolazione versava in miserevoli condizioni. In tale contesto il Calasanzio mosse alla conquista della fanciullezza povera col proporle una scuola che avesse finalità di religiosa e sociale elevazione, interessanti non solo lo spirito e la mente, ma la stessa realtà quotidiana della vita e del lavoro; in tal modo, al conseguimento di una retta educazione cristiana veniva aggiunto il beneficio di una educazione civica e di una istruzione umanistica e professionale. Anche per questo immediata fu l’intesa tra i padri Scolopi e la cittadinanza francavillese, se il 19 maggio 1682, a pochi mesi dalla venuta dei frati, fu posta la prima pietra della nuova Casa, costruita a spese dell’università, dei cittadini, dei padri ed in minima parte della famiglia feudataria.

Scrive ancora il Pacichelli che a Francavilla si bandisce l’Ozio con la Negoziazione, e con le scienze, dando opera in una buona casa i Padri delle scuole Pie: tanto che al presente si esercitan nelle Leggi Trenta Dottori, alcuni de’ quali patrocinano in Roma, dodeci nella medicina, e diversi regolari, negli studi Teologici spiccano e ne’ pulpiti[7].

Al collegio dei padri Scolopi, costruito con ordine e buone pietre bianche connesse[8], era stata affiancata la costruzione, voluta e finanziata sia dai padri che dai cittadini[9], della nuova chiesa, di tipo romano, anche se la facciata presenta ascendenze stilistiche più antiche, riferibili all’area abruzzese, in particolare aquilana, ove le facciate delle chiese medievali non hanno timpani, ma sono ornate da partipiani e si concludono, come questa, con cornicioni orizzontali[10].

La cupola, non prevista nel primo progetto, risale al 1728, e si ispira al modello presente nelle chiese romane per quello che riguarda la struttura, specialmente dell’interno, ampiamente sventrato. Essa, primo esempio in Puglia di tal genere, offre, tra l’altro, una decorazione con tasselli di ceramiche policrome, originale, per quei tempi, nel Salento, ma già allora ampiamente in uso nelle coperture delle cupole napoletane e campane. Fu questo, di certo, un significativo apporto dato all’arricchimento del patrimonio ecclesiale della regione da parte dei padri delle Scuole Pie attraverso l’opera dell’architetto manduriano padre Benedetto Margarita, che molto contribuì alla fase operativa riguardante la traduzione materiale del progetto di costruzione della chiesa.

La nuova fabbrica, pertanto, sorta su un precedente luogo di culto, misura trentuno metri di lunghezza e nove di larghezza e, pur essendo a navata unica, si sviluppa a pianta basilicale con ampia aula, completata da tre cappelle su ambo i lati longitudinali, con un ingresso, con l’area presbiteriale e con la sacrestia. Il primo tratto di questo complesso, che misura ventuno metri circa, è coperto con volta a botte lunettata, con quattro lunette per lato, ed ha un’altezza, all’imposta di 11 metri, in chiave di 15,50.

Nella navata si accede tramite un atrio rettangolare, delimitato a sinistra dal vano battistero, a destra da quello di ingresso secondario e, di fronte, da due colonne a bulbo realizzate successivamente. La differenza di volume tra l’atrio e l’aula assembleare, l’abbondanza di luce che filtra dalle ampie finestre, presenti all’interno delle lunette della volta, la considerevole altezza della volta di copertura nonché della cupola, la ritmicità e la snellezza dei pilastri accentuata dalle paraste, caratterizzate da ampie scalanature, conferiscono, a coloro i quali visitano questa chiesa, una intensa sensazione di coinvolgimento spaziale.

La volta, finemente decorata con cornici mistilinee, poggia su una trabeazione aggettante che circoscrive l’intera aula ed è sostenuta da quattro pilastri – contrafforti per lato, di cui gli ultimi due, uno per lato, sono i piedritti dell’arco trionfale. I primi tre pilastri, per lato, hanno dimensioni di metri 1,80 per 0,90 ed altezza di metri 10, coincidente con la chiave dell’arco di accesso delle cappelle. Queste ultime sono incastonate tra pilastri – contrafforti con capitelli compositi che reggono una trabeazione aggettante e proseguono, per breve tratto, a mo’ di pulvino, per definire il piano di imposta della volta di copertura.

Il presbiterio ha forma quadrata, con metri 9,50 di lato, e si sviluppa in altezza per metri 35 tramite pennacchi, tamburo, cupola e lanternino. Il tamburo, elemento elegante e ben ripartito da lesene a quattro finestre ed altrettante finte finestre, raggiunge un’altezza di metri 7,50 con un diametro di metri 9,50 ed uno spessore di cm 80.

La cupola scarica le sue forze su quattro pilastri, due come conclusione della navata, cioè i piedritti dell’arco trionfale, mentre gli altri due sono situati negli angoli opposti. Questi ultimi, essendo staticamente asimmetrici, hanno indotto il costruttore a sovradimensionarli per poter equilibrare le forze.

Il barocco presente all’interno della chiesa si dipana nei minuti particolari degli stucchi eleganti del soffitto e dei cornicioni, dolcemente illuminati attraverso i finestroni, e come risulta dalle vivaci volute dei capitelli compositi.

Partendo da destra di chi entra le cappelle laterali sono dedicate a san Francesco da Paola, san Roberto, sant’Elzeario[11], san Gaetano di Thiene, san Giuseppe Calasanzio e san Giuseppe.

Madonna col Bambino tra i SS. Francesco da Paola e Filippo Neri del Carella (ph M. Lenti)

Di questi sei altari i primi quattro furono realizzati nella seconda metà del ‘700 in stucchi policromi, mentre degni di ammirazione, da un punto di vista artistico, sono gli ultimi due: quello dedicato a san Gaetano da Thiene fu costruito da Brigida Grimaldi, vedova di Michele, secondo principe di Francavilla, come indica l’iscrizione posta su un cartiglio al di sopra della cornice del quadro: Tutelari suo Birgitte Grimaldi Imperiali posuit 1700. L’ultimo, dedicato a sant’Elzeario[12], fu voluto dalla principessa Irene di Simeana, moglie di un altro Michele, terzo principe di Francavilla[1], come indica l’iscrizione posta sulla sommità della cappella: Iren Delphinae sim. In honorem dicavit.

Entrambi gli altari, scolpiti in pietra a Lecce, in quel periodo fiorente cantiere di arte barocca, furono montati in spazi più stretti rispetto all’impianto per il quale erano stati eseguiti, affastellando colonne e nascondendo figure e decorazioni che sembrano pensate e scolpite per spazi più ampi.

Le colonne tortili da cui pendono angeli, fiori ed animali, intrecciati in una fantasia di merletti intricati e perfetti nei particolari, rappresentano un unicum a Francavilla Fontana, dal momento che esecuzioni del genere si preferirono in altre chiese cittadine prettamente barocche.

Le tele di questi due altari raffigurano la Vergine ed il Bambino con san Gaetano da Thiene e la Vergine con i santi Elzeario de Sabran e la beata Delphine de Signe, dipinte da Diego Oronzo Bianchi da Manduria (1683 – 1767). In entrambe sono stati rilevati influssi di Luca Giordano e Francesco Solimena, il primo dei quali si dice sia stato maestro del più insigne rappresentante della famiglia Bianchi, vale a dire l’abate Matteo Nicolò[13].

Sempre Diego Oronzo Bianchi é autore di un’altra tela raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco da Paola e Filippo Neri, risalente al 1723 ed un tempo collocato sul lato destro del presbiterio della chiesa[14]. Anche qui, come nei precedenti quadri, una delle principali caratteristiche è data dall’affollamento dei personaggi, che qui si accompagna alla vivacità sottolineata dal dinamismo degli angeli che sembrano accompagnarsi alla luce che illumina la scena principale, senza dimenticare la plasticità della figura del Bambino Gesù. Soprattutto ritroviamo, qui, quell’armonia delle forme ravvisabile nel volto della Madonna, capace di coniugare, in sé, dolcezza e tristezza. Tra i pittori che hanno arricchito il patrimonio artistico della chiesa di san Sebastiano, vanno annoverati, infine, il Carella ed un certo Todero di Francavilla, maestri di quella scuola pittorica voluta dai feudatari in san Sebastiano e diretta, per un certo tempo, da Ludovico e Modesto delli Guanti, formatisi presso la Casa degli Scolopi. In particolare il Carella ripropone, quasi a distanza di trent’anni, lo stesso soggetto pittorico rappresentato da Diego Oronzo Bianchi, senza aggiungere nulla di nuovo se non una maggiore simmetria e spazialità di cui sembra godere ciascuna figura, avvolta, tra l’altro, in tonalità cromatiche più calde, con tratti più dolcemente sfumati rispetto all’originale.


[1] Michele Imperiali nel 1696 sposò a diciannove anni, Irene, figlia di Giovanna Maria Grimaldi di Simiana, famiglia facente parte della corte Sabauda di Torino. Portò in dote al principe francavillese terre per un valore di 30.000 ducati ed i titoli ereditari di marchese di Piavezza, Livorno, Castelnuovo, Roatto e Maretto, di signore di Capriglio in Piemonte, del Dego, Piana, Cagna e Gesualla in Monferrato” (P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Libro IV, I Principi Imperiali, Noci 1901.


[1]Oggi sede della Scuola media statale “Vitaliano Bilotta”

[2] Cf. A.A.V.V. San Sebastiano. Immagini, Architettura e Storia, a cura del comitato “Pro Chiesa san Sebastiano”, 2000, Francavilla Fontana.

[3] Cf. Ibidem.

[4] Il 15 agosto 1579 il feudo di Francavilla Fontana viene acquistato da Davide Imperiali senza ipoteca o limitazione alcuna, e ciò comportava ampi diritti non solo sulla tassazione di ogni attività e reddito, ma anche sulla giurisdizione civile e penale.

[5] Ultimo degl’Imperiali fu Michele IV, che morì senza eredi, lasciando il feudo, per testamento, al marchese di Latiano, Vincenzo Imperiali, suo parente prossimo.

[6] Cf. Pacichelli G. B., Il Regno di Napoli in prospettiva, II, 1703, rist. anast., Bologna 1975, Forni editore, 181–182.

[7] Cf. Ibidem.

[8] Cf. Ibidem.

[9] Anche per questo, probabilmente, l’epigrafe che ricorda l’evento non da merito specifico ad alcuno: Funditus erecta primo lapide solemniter benedicto die XX oct. MDCXCVI. 

[10] Questa particolarità architettonica lega la nascente casa degli Scolopi al celebre studentato che gli stessi padri ebbero a Chieti

[11] Elzeario da Sabrano (in francese Elzear de Sabran, 1285 – 1323), fu un nobile italiano di origine francese che, nel 1299, sposò Delphine de Signe (1283 – 1360). Entrambi i coniugi fecero voto di castità entrando, successivamente, nel Terz’Ordine Francescano. Nel 1312 Elzeario prese possesso dei suoi feudi in Italia e partecipò alla difesa armata degli Stati della Chiesa contro l’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo; nel 1317 fu scelto dal nuovo re, Roberto d’Angiò (1277 – 1343) come precettore del suo erede, il duca Carlo di Calabria: per conto del sovrano, nel 1323, si recò in Francia per trattare il matrimonio della principessa Maria di Valois con il duca Carlo, ma si ammalò durante la missione e morì presso la corte francese. Fu sepolto con l’abito francescano nella chiesa dei Frati Minori di Apt. Papa Urbano V (di cui Elzeario fu padrino di battesimo), ne decretò l’eroicità delle virtù e ne approvò la canonizzazione, che venne ufficialmente decretata dal suo successore, papa Gregorio XI, il 5 gennaio 1371. Elzeario de Sabran non va confuso con il nipote Eleazario da Sabrano (morto il 25 agosto 1380), vescovo di Chieti dal 1373 fino alla nomina cardinalizia nel 1378.

[12] Elzeario era il nome del fratello della principessa Irene di Simeana, la quale aveva, come secondo nome, Delfina, lo stesso della moglie di Elzeario da Sabran.

[13] Cfr. Del Prete P., Una famiglia di pittori pugliesi nel ‘700, in “Iapigia, rivista di archeologia, storia e arte”, Anno V, fascicoli I – II, Bari 1934.

[14] Oggi il quadro è conservato presso la sede della Diocesi di Oria.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n° 6

Tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce

Nel secolo fui chiamata Margarita… 

Una rara leggenda agiografica tra i dipinti della chiesa delle Alcantarine di Lecce.

 

di Valentina Antonucci

Una delle più belle chiese di Lecce, benché non tra le più note, è quella dedicata a S. Maria della Provvidenza.

Affacciata sull’odierna piazzetta Giorgio Baglivi, poco distante da Porta Napoli, essa faceva anticamente parte di un complesso monastico appartenente all’ordine degli Alcantarini, francescani riformati che seguivano la Re­gola di S. Pietro d’Alcantara. Nella fattispecie, la residenza di piazzetta Baglivi era sorta per ospitare la comunità femminile delle Alcantarine di Lecce, costituitasi nel 1698.

Si tratta di un edificio ad aula unica con altari laterali e presbiterio a pianta quadrata. La facciata a due ordini, sormontata da cimasa a timpano, è ornata da nicchie con statue di Santi . Fu eretta a partire dal 1724 su disegno dell’architetto Mauro Manieri per volontà e con il finanziamento del barone di Torchiarolo, Giuseppe Angrisani, che lasciò in merito precise disposizioni testamentarie.

La fabbrica fu completata nel giro di vent’anni e nello stesso arco di tempo furono realizzati gli altari, i quali erano originariamente quattro: altri due ne furono aggiunti nel XIX secolo e trovarono posto nel vano di due porte che erano state murate dopo l’abbattimento del convento adiacente e la risistemazione urbanistica dell’isolato.

Qualche anno fa ebbi occasione di osservare e studiare alcuni dei dipinti facenti parte dell’arredo pittorico della chiesa. L’occasione fu quella del loro restauro, che venne affidato ad un laboratorio in cui avevo agevolmente accesso, stanti i rapporti di stretta collaborazione che mi legavano alla restauratrice di esso responsabile. Per uno storico dell’arte, non vi è situazione più felice di quella in cui gli sia dato agio di seguire il restauro di opere pittoriche che rientrino nell’ambito dei suoi interessi di studioso: la visione ravvicinata del dipinto nella luce perfetta del laboratorio, con le emozionanti scoperte di iscrizioni o di dettagli iconografici che quasi sempre comporta, nonché la possibilità di osservare la materia pittorica e persino la consistenza e la struttura del supporto, sono condizioni di studio ideali,

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