La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II)

di Nazareno Valente       

Come già sappiamo, i Calabri scacciati da Taranto dai Parteni trovarono rifugio a Brindisi25; mentre nulla s’è detto dei nostri concittadini che si trovavano a sud-ovest di Taranto e che, a prima vista, non sembrerebbero aver lasciato traccia alcuna. Di certo dovettero cedere il passo agli Achei, che precedettero l’arrivo dei Parteni, stabilendosi nel tempo su entrambe le coste dell’attuale Calabria.

In linea teorica si può presupporre che, al pari di quanto fecero altri indigeni depredati dai colonizzatori, molti di loro si spostarono nell’entroterra cercando di riorganizzarsi. La gran parte, però, non volle lasciare del tutto libero il campo agli invasori e, sfruttando le politiche distensive e di coesistenza attuate dai coloni di Sibari nei riguardi dei nativi, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio presumibilmente nella Siritide, mantenendo nel contempo un certo legame con la madrepatria. La loro presenza in quella zona la si può intravedere nel concreto nell’alleanza che Brindisi stipulò con i Turini e, soprattutto in un brano molto controverso di Strabone.

Prima di vedere quale, è utile però chiarire il significato che il geografo pontico assegnava agli etnici ed ai coronimi utilizzati. Dagli scritti emerge con chiarezza che per Strabone, Iapigia e Calabria erano di fatto sinonimi tra loro. Quindi, a differenza di tanti altri autori, per lui la Iapigia non era una più vasta regione che conteneva la Calabria, ma s’identificava con essa.  Per quanto riguarda gli etnici, invece, si nota che quando egli parlava degli Iapigi intendeva indistintamente gli abitanti (Calabri e Salentini) della Calabria. Quando la questione riguardava espressamente i Salentini, il geografo usava però lo specifico etnico Salentinoi (Σαλεντῖνοi), mentre, se erano coinvolti i soli Calabri, non si serviva del termine epicorio Kalabroì (Καλαβροὶ), che infatti non usa mai, ma di quello di matrice greca, vale a dire Messapi. Per cui, per Strabone unicamente i Calabri erano propriamente Messapi, mentre i Salentini non lo erano.

 

Ebbene mentre Strabone tratta della decadenza cui era soggetta Taranto, costretta per difendersi dai suoi nemici a ricorrere frequentemente a comandanti forestieri (ξενικοῖς26), Strabone inserisce un’informazione fuori contesto che ha tolto il sonno a parecchi specialisti. Appena finito di narrare i fatti avvenuti attorno al 330 a.C., in cui Alessandro il Molosso, venuto in soccorso di Taranto, era stato destinato all’insuccesso proprio a causa dell’ingratitudine dei Tarantini, introduce infatti all’improvviso un argomento del tutto diverso, affermando : «Essi [i Tarantini] si scontrarono  con i Messapi per il possesso di Eraclea, fruendo dell’aiuto del re dei Dauni e di quello dei Peucezi» («Πρὸς δὲ Μεσσαπίους ἐπολέμησαν περὶ Ἡρακλείας, ἔχοντες συνεργοὺς τόν τε τῶν Δαυνίων καὶ τὸν τῶν Πευκετίων βασιλέα»27).

Senza andare dietro ai diversi dubbi che tormentano gli storici, ci si soffermerà solo su quelli di possibile interesse.

La principale questione controversa è di carattere cronologico, cioè a dire non si è in grado di datare in maniera condivisa questa contesa accesasi tra Tarantini e Messapi per il possesso di Eraclea. Se la si pone al tempo di Alessandro il Molosso, vale a dire tra il 334 ed il 330 a.C., i Messapi (o per dire meglio, i Calabri) sembrano del tutto fuori posto come competitori, dal momento che, come già riferito, con il condottiero epirota avevano stipulato un trattato di pace. Era piuttosto con i Lucani che in quegli anni i Tarantini avevano frequenti attriti, avendo appunto loro strappato Eraclea, proprio grazie all’aiuto di Alessandro il Molosso.

Se invece lo scontro si riferisce ad una data precedente, allora non può che riguardare la fondazione di Eraclea, e quindi un secolo e più prima (444 o 443 a.C.), quando il conflitto sorse tra Taranto e Thurii. Nel tal caso, il coinvolgimento dei Messapi potrebbe essere pensato come di supporto ai Turini con i quali erano, come detto, alleati. Però questa ipotesi solleva un dubbio del tutto spontaneo. Constatato che erano i Turini i maggiori interessati alla questione, non si capisce come mai Strabone non li citasse neppure, mettendo invece in rilievo la partecipazione dei Messapi che, data la lontananza dei loro insediamenti con il teatro dello scontro, non potevano certo essere la forza più consistente in contrasto con i Tarantini.

Come questa, ogni altra possibile collocazione temporale avanzata ha finito per sollevare a sua volta problemi irrisolvibili, sicché i più hanno dovuto amaramente concludere che la notizia data da Strabone non sia del tutto corretta e che di conseguenza necessiti d’essere in parte emendata. Fatto sta che neppure sulle correzioni da apportare si è riusciti a trovare un accordo condiviso, anche perché a sparigliare le carte ed a creare il maggiore imbarazzo è proprio la presenza dei Messapi in una zona non di loro pertinenza. Quello che in definitiva risulta inspiegabile è perché mai i Messapi si fossero lasciati coinvolgere in un conflitto che si svolgeva in un territorio così lontano dal proprio.

Tutto potrebbe risultare più comprensibile se, in linea con l’ipotesi fatta, si accettasse che i Calabri di Brindisi si trovavano in quella zona perché vi dimoravano e che queste azioni belliche rientravano in un più ampio contesto di difesa degli ultimi lembi di terra rimasti in loro possesso, così come facevano in maniera indistinta tutti gli altri italici della zona. In questa ottica, l’episodio narrato da Strabone farebbe pertanto parte dei tentativi compiuti dai Brindisini di frenare l’avanzata tarantina verso Metaponto e  la Siritide e di conservare il territorio in cui erano stati relegati.

Se così è, potremmo ipotizzare che le enclave del passato dominio, o della Brentesìa per usare il vocabolo di Eustazio, si collocavano tra Thurii e Taranto, e questa supposizione, oltre a spiegare i motivi della contesa con i Tarantini per Eraclea, valorizzerebbe pure l’alleanza che i Brindisini avevano stipulato con Thurii che, allo stesso modo, aveva tutto l’interesse che Taranto non estendesse i suoi confini nella Siritide.

Come si può notare l’ipotesi che i Calabri di Brindisi possano essersi insediati ben oltre i confini del Salento prende sempre più corpo, e troverà ancor più avallo dall’esame di un episodio che rese i Calabri ed i Salentini tristemente noti ai colonizzatori greci.

L’aspetto strano è che, in questo caso, gli studiosi sono tutti d’accordo sull’interpretazione da dare alla vicenda, solo che non si sono preoccupati di valutare alcuni aspetti di contorno niente affatto banali.

Si è già avuto modo di narrare l’avvenimento in un’altra occasione dandogli il dovuto rilievo, in quanto, a detta di Erodoto, rappresentava la più grande strage di Greci («φόνος Ἑλληνικὸς μέγιστος») tra tutte quelle di cui si aveva al suo tempo conoscenza28. Lo si riassume di seguito per analizzare i punti di maggiore interesse per il tema trattato.

Racconta Diodoro che tra il 473 ed il 472 a.C. scoppiò in Italia una contesa tra i Tarantini e gli Iapigi, «venuti ad urto per contrasti sorti su zone ai loro confini» («περὶ γὰρ ὁμόρου χώρας ἀμφισβητούντων πρὸς ἀλλήλους»); contrasti che divennero scontri sempre più aspri, sino a sfociare in un aperto conflitto29.

Ora, dal momento che la disputa riguardava zone di confine, è naturale presumere che gli Iapigi maggiormente coinvolti in questo caso fossero i Calabri di Brindisi, il cui territorio confinava appunto con quello dei Tarantini. Ebbene, costretti dall’aggressività dei Parteni, i Brindisini reagirono con tale decisione che in breve tempo, coadiuvati dai Salentini, dai Pedicli e da altri popoli confinanti, approntarono un grande esercito composto da più di 20.000 uomini30 a cui Taranto si preparò ad opporsi alleandosi con i Reggini. La battaglia campale che ne seguì fu violenta e determinò molte vittime in entrambi i campi ma, alla fine, vide prevalere i Brindisini ed i suoi alleati. A questo punto, Diodoro così prosegue: «nella fuga gli sconfitti si separarono in due contingenti, dei quali il primo si ritirò a Taranto e l’altro fuggì verso Reggio. In maniera analoga si divisero anche gli Iapigi: quelli che inseguirono i Tarantini, essendo breve la distanza, fecero grande strage dei nemici; gli altri che s’erano posti all’inseguimento dei Reggini dimostrarono un tale ardore da far pensare che volessero piombare insieme ai fuggitivi a Reggio  per impadronirsi della città» («Τῶν δὲ ἡττηθέντων εἰς δύο μέρη σχισθέντων κατὰ τὴν φυγήν, καὶ τῶν μὲν εἰς Τάραντα τὴν ἀναχώρησιν ποιουμένων, τῶν δὲ εἰς τὸ Ῥήγιον φευγόντων, παραπλησίως τούτοις καὶ οἱ Ἰάπυγες ἐμερίσθησαν. Οἱ μὲν οὖν τοὺς Ταραντίνους διώξαντες ὀλίγου διαστήματος ὄντος πολλοὺς τῶν ἐναντίων ἀνεῖλον, οἱ δὲ τοὺς Ῥηγίνους διώκοντες ἐπὶ τοσοῦτον ἐφιλοτιμήθησαν ὥστε συνεισπεσεῖν τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ Ῥήγιον καὶ τῆς πόλεως κυριεῦσαι»31).

Alla fine Erodoto fa la conta dei morti32: tremila reggini ed ancor più i Tarantini, il cui numero fu talmente alto da non poter neppure essere calcolato.

La cosa qui più interessante da sottolineare è tuttavia un’altra: il racconto di Diodoro offre informazioni di dettaglio di notevole rilievo, meritevoli di un’attenta valutazione non fosse altro per comprendere dove questa battaglia, tanto famosa ma ugualmente rimasta senza nome, abbia potuto avere svolgimento. Va infatti sottolineato che le fonti non sono per nulla esplicite su dove questo epico scontro sia avvenuto, anche se la questione non ha turbato più di tanto gli specialisti, sicuri che la località in questione, seppure sconosciuta, non poteva che trovarsi tra Taranto e Brindisi, apparendo del tutto scontato che quella era l’unica zona di confine tra le due città.

Invece, proprio il resoconto dello storico siciliano, indica in maniera evidente che il terreno dello scontro non possa essere stato quello.

Lo si comprende  in maniera evidente da due aspetti.

Il primo riguarda il coinvolgimento dei Reggini. Sia pure in maniera vaga, il fatto che i Reggini si siano lasciati coinvolgere nella contesa dai Tarantini può già far pensare che le dispute di frontiera non riguardassero solo i confini ad est di Taranto, ma anche di quelli ad ovest ed a sud-ovest della città ionica. Vale a dire una zona che i Reggini avevano tutto l’interesse fosse controllata da una città alleata piuttosto che da una comunità nemica. Il secondo, ben più preciso, è che al momento della disfatta i Tarantini ed i Reggini si separarono, dandosi alla fuga per vie diverse.

Ebbene,tenuto presente che nelle battaglie oplitiche, come quella che si racconta, chi soccombeva aveva tutto l’interesse a mantenere i ranghi più compatti possibile, perché in caso contrario finiva per essere alla mercé di chi aveva preso il sopravvento, non si capisce come mai i Reggini ed i Tarantini si separarono, adottando la peggiore strategia possibile che risultava in realtà un vera e propria scelta suicida. Infatti, se la battaglia è avvenuta come comunemente si crede ad est di Taranto, non c’era motivo che i due contingenti si separassero, essendo l’unica via di fuga possibile proprio quella che avrebbe consentito loro di trovare riparo a Taranto, da dove i Reggini erano in aggiunta costretti a transitare, se volevano poi ritornare a Reggio. Tra le altre cose, in tal caso, non si capisce neppure come abbiano potuto i Brindisini inseguire i Reggini sino a Reggio, visto che per farlo avrebbero dovuto compiere un’impresa impossibile, vale a dire prima conquistare Taranto che si frapponeva al loro inseguimento.

 

Ora, salvo che Diodoro non si sia inventato ogni cosa, la risposta obbligata che si può dare è che lo scontro non avvenne ad est di Taranto ma dalla parte opposta a sud-ovest della città ionica, con ogni probabilità in una località tra Metaponto e Sibari. Questo diverso scenario renderebbe infatti plausibile perché mai i Reggini decisero di separarsi, preferendo fuggire verso la propria città, piuttosto che dirigersi verso Taranto che pure, come detto, si trovava più vicina. Di fatto i due gruppi si separarono perché, per raggiungere ciascuno di loro la propria città, dovevano necessariamente fuggire in direzioni opposte. E furono di conseguenza inseguiti dai Calabri di Brindisi sin sotto le mura delle loro città.

Altra inevitabile conclusione è che nel primo trentennio del V secolo a.C., quando si svolse questo epico scontro, i Brindisini erano ancora stanziati a sud-ovest di Taranto in una non meglio identificata zona della Siritide. In caso contrario, non sarebbero stati in grado di affrontare una battaglia campale di quella portata in luoghi così lontani dai propri insediamenti, privi come sarebbero stati dei necessari rifornimenti.

In conclusione, il racconto dettagliato di Diodoro sull’epilogo della mischia che portò alla più grande strage di Greci rende evidente che la Calabria, la quale ai tempi di Strabone coincideva più o meno con l’attuale Salento, in precedenza, prima dell’arrivo dei coloni greci, si estendeva a nord sino a quasi il fiume Ofanto ed a sud-ovest sino a Crotone. L’arrivo degli Achei ridimensionò questi confini facendoli arretrare sul versante ionico poco a sud di Eraclea; quello dei Parteni privò i possedimenti di Brindisi dapprima del territorio tarantino e  successivamente della Siritide. In questo contesto la fondazione di Eraclea, invano contesa ai Tarantini,  come testimoniato da Strabone, rappresenta l’epilogo della presenza brindisina al di fuori del Salento. Si può quindi datare al 434-433 a.C. la fine del dominio dei calabri di Brindisi nelle zone delle attuali Lucania e Calabria.

 

La fine del dominio brindisino in Siritide

Impossibile avere certezze su come si sviluppò la successiva storia delle popolazioni brindisine rimaste separate dalla madrepatria, non essendo rimasta nelle fonti narrative nessuna loro traccia.

Possono però farsi delle ipotesi.

Con ogni probabilità, dopo la perdita di Eraclea, furono relegati nelle zone più interne e più impervie, dove i coloni greci non riuscivano ad imporre la loro egemonia. Poi si raggrupparono con altre genti scacciate dai Greci oppure, in situazione magari di sudditanza con altre popolazioni indigene, attesero l’arrivo di tempi migliori.

Nel frattempo anche il mondo della Magna Grecia incominciava la sua parabola discendente e le genti italiche, in particolare i Lucani, comparsi sulla scena nel V secolo a.C., passarono all’inizio del secolo successivo al contrattacco. La loro predisposizione alle doti guerresche, esercitate ed educate con rigore simile a quello spartano sin dalla più tenera età, li rendeva particolarmente temibili ed idonei ad esercitare una forte egemonia sulle popolazioni italiche della zona.

Qualche decennio dopo si affacciò sul palcoscenico della storia un altro popolo agguerrito, di cui non si aveva mai avuto prima menzione, i Brettii, la cui genesi fornirà spunti utili per comprendere cosa ne fu dei Brindisini rimasti nel territorio magnogreco.

Tutte queste apparizioni, troppo improvvise per poter essere davvero tali, sono spiegabili solo alla luce di complesse dinamiche di trasformazione sociale e territoriale avvenute tra le popolazioni italiche lì dimoranti. In pratica i Lucani ed i Brettii possono considerarsi le nuove compagini che si sostituivano alle precedenti, dopo averle integrate e modificate sia a livello sociale, sia a livello di dislocazione territoriale. La stessa genesi dei Brettii — quella dei Lucani esula dagli interessi di questo intervento — fornisce l’esempio concreto delle trasformazioni in atto in un mondo sconvolto dalla colonizzazione greca. Per quanto le fonti narrative antiche ci forniscano notizie discordanti in merito, c’è un aspetto che le accomuna nell’indicare che i Brettii facevano inizialmente parte di una società, definibile Lucana, in quanto i Lucani vi esercitavano un evidente predominio.

Se da un punto di vista storiografico i Lucani sono documentati presenti nell’attuale Calabria dal V secolo a.C., quando accolgono i pitagorici scacciati dai Crotoniati, i Brettii lo sono solo dal decennio 360/350 a.C. A detta di Diodoro, che nella sua “Biblioteca” raccoglieva notizie provenienti da più fonti, durante il consolato di M. Popilio Lena e C. Manlio Imperioso (359 a.C.)  «si raccolse in Lucania una moltitudine di gente mista, venuta da ogni dove, la maggior parte servi fuggitivi. Questi all’inizio vissero come predoni, e per l’abitudine a dimorare all’aperto e alle incursioni acquisirono esperienza e pratica nelle attività militari. Perciò, essendo risultati superiori in battaglia ai propri vicini, divennero molto potenti. Dapprima assediarono e misero a sacco la città di Terina, poi, conquistate Ipponio, Thurii e molte altre città, costituirono un assetto politico comune (κοινὴν πολιτείαν). Furono chiamati Brettioi perché erano per lo più schiavi. Infatti gli schiavi fuggitivi erano appunto chiamati Brettioi nella lingua delle genti del luogo»33.

Più stringata, ma anche più circostanziata, la versione fornita da Strabone il quale riferisce che i Brettii avevano ricevuto il nome dai Lucani che così chiamavano i ribelli (ἀποστάται); dapprima erano stati dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani e successivamente s’erano resi liberi «quando Dione fece guerra a Dionisio sollevando tutti contro tutti [357-356 a.C.]»34. Il geografo indica poi che la loro metropoli era Cosentia (Cosenza) ed occupavano l’estrema penisola dell’attuale Calabria a sud dell’istmo tra Skylletion ed il golfo di Hipponion (all’incirca dalla costa poco a sud da Catanzaro a Vibo Valentia)35.

In epoca più tarda è da porsi la tradizione che si deve a Pompeo Trogo nell’epitome fatta da Giustino che, dopo aver messo in rilievo il loro coraggio, la loro ricchezza e l’aggressività che li aveva resi particolarmente temibili agli occhi dei popoli vicini, narra la loro origine causata da una banda di cinquanta giovani lucani i quali, ripudiato il rigorose regime militare di stampo spartano con cui erano educati, s’erano uniti per compiere saccheggi a danno dei propri vicini36. Dati i successi, la banda aveva visto gonfiare le proprie fila da una moltitudine di gente diversa finendo per divenire il terrore dell’intera regione, sinché Dionisio, il tiranno di Siracusa, sollecitato dai propri alleati, non aveva tentato di porvi rimedio inviando seicento mercenari africani37. Pure i mercenari però risultarono sconfitti e la loro cittadella conquistata dai rivoltosi, grazie all’aiuto di una donna chiamata Bruzia, dalla quale assunsero il nome di Bruttii. Proprio la cittadella strappata ai mercenari fu il loro primo insediamento ufficiale, divenuto presto asilo di tutti i pastori che vivevano nelle vicinanze38.

Oltre a sottolineare la loro originaria sudditanza dai Lucani, i resoconti mettono in evidenza come il loro peso militare e politico, emerso alla metà del IV secolo a.C., fosse comunque l’esito finale d’un processo iniziato molto tempo prima. Altro aspetto rilevante per i nostri scopi, è anche il rilievo dato all’eterogeneità dei Brettii, alla cui composizione contribuirono popoli diversi. In altre parole i Brettii si formarono a seguito di complesse dinamiche di trasformazione, tra le altre cose proprio nel mentre sparivano dalla scena storica popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Choni ed i rimasugli dei Calabri di Brindisi lì trapiantati.

Per cui non pare troppo azzardato ipotizzare che i Brettii avessero accolto tra le proprie fila la maggior parte di coloro che volevano rivalersi dei soprusi subiti a seguito delle successive ondate di colonizzazione.

C’è una vecchia teoria della illiricità etnica dei Brettii, presupposta dal presunto nome illirico da loro assunto e  da altre convergenze toponomastiche39, che non intendo certo riscoprire se non per evidenziare alcune analogie tra questo popolo e quello dei Brindisini spodestati dagli Achei e dai Tarantini. Il richiamo a tale ormai superata ipotesi è fatto perché l’interpretazione dell’etnico, Βρέττιοι (Brettioi), suggerisce accostamenti degni di nota con Brindisi.

Stefano Bizantino40 parla infatti di un’isola nell’Adriatico, «Βρεττία νῆσος» (l’isola Brettia), a cui i Greci davano un’altra denominazione, l’isola dei cervi («Ἐλαφοῦσσα»), e ribadisce che anche il nome di Brindisi («Βρεντέσιον πόλις») era dovuto alla somiglianza del suo porto con una testa di cervo («βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή»), aggiungendo un altro significativo accostamento: il termine Brindisi derivava da Brento, figlio di Eracle, al pari dei Brettii che discendevano da Bretto, anch’egli figlio di Eracle.

Un altro possibile collegamento tra Brindisi ed i Brettii è riscontrabile inoltre in Dionisio d’Alessandria il quale in un breve accenno dei Lucani e dei Brettii41 chiama questi ultimi Βρέντιοι (Brentioi), invece di Βρέττιοι (Brettioi), facendo intendere che l’etnico derivava da βρέντιον (Brention), vale a dire dallo stesso termine usato dai nostri antichi concittadini per indicare la testa di un cervo e da cui, come più volte riportato, originava il nome, Βρεντέσιον (Brentesion), dato dai Greci alla nostra città.

Ora questa preferenza data da Dionisio d’Alessandria alla forma Βρέντιοι, rispetto a Βρέττιοι di origine lucana, non pare del tutto casuale e sembra in aggiunta riferirsi ad una fonte ben più antica. Pertanto sembrerebbe avvalorare ancor più l’ipotesi che i termini Brentioi (Brettii) e Brentesion (Brindisi) abbiano avuto un’origine comune derivando entrambi da brention.

Se tutto ciò è naturalmente poco per sostenere una parentela etnica tra Brettii e Brindisini, è tuttavia non banale se considerata in un’altra ottica.

Si pensi, ad esempio ad altre possibili analogie.

Come i Brettii, la società Calabra della penisola salentina aveva una forte componente dedita alla pastorizia ed un etnico a cui la propaganda denigratoria tarantina assegnava simili connotazioni negative, accostandolo allo stesso modo agli schiavi. Tutti aspetti questi marginali, se la questione viene trattata da un punto di vista etnico, ma interessanti se valutati nel senso di tradizioni comuni.

Tradizioni che si può pensare i Brettii acquisirono nel corso del tempo, avendo accolto tra le proprie file i Brindisini, così come avevano fatto, a memoria di Diodoro e Giustino, con popolazioni di altra etnia. In definitiva non sembra tanto avventato supporre che una significativa componente della società Brettia fosse costituita dai Brindisini prima insediati tra Metaponto e Crotone.

Ed infatti in un passo, anch’esso del tutto trascurato dagli storici, ma del pari chiaro nella sua formulazione, Polibio, nell’elencare i popoli che abitano la costa ionica nel tratto che va da Taranto a Reggio, afferma che, oltre ai Lucani ed ai Brettii ci sono «tuttora dei Calabri» («ἔτι δὲ Καλαβροὶ»)42. Come dire che ancora all’epoca di Polibio, vale a dire nel II secolo a.C., c’erano ancora Brindisini che vivevano nei loro antichi possedimenti della Brentesìa. E la cosa viene comunicata in modo talmente spontaneo e senza darvi enfasi, da lasciar intendere che  fosse del tutto naturale che in quegli anni ci fossero Calabri stanziati lontano dai loro usuali insediamenti.

In definitiva,era una notizia così scontata per un lettore dell’epoca che non c’era neppure bisogno di darle rilievo.

Questa è anche l’ultima traccia lasciata dai Calabri di Brindisi che avevano dovuto subire l’avanzata e la supremazia  dei coloni Greci nel territorio tra Metaponto ed il Bruzio.

La fine dell’organizzazione politica dei Brettii fu repentina al pari della sua costituzione. Già al suo tempo, Strabone poteva affermare che dei Brettii «non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune oppure usi comuni, e sono completamente scomparsi lingua, modo di armarsi, di abbigliarsi e ogni altra cosa di questo genere: in definitiva, considerati sia singolarmente, sia nel loro assieme, i loro insediamenti sono del tutto privi di ogni rilevanza»43.

Con i Brettii sparirono anche i Calabri di Brindisi della cui esistenza sarebbe il caso di prendere finalmente consapevolezza, viste le consistenti tracce da loro lasciate sin nel Bruzio.

(2 – fine)

 

Note

25 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

26 Strabone, Geografia, VI 3, 4.

27 Ibidem.

28 Erodoto, Storie, VII 170.

29  Diodoro siculo, Biblioteca storica, XI 52, 1-2.

30 Ibidem, XI 52, 3.

31 Ibidem, XI 52, 4.

32 Erodoto, Storie, VII 170.

33 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XVI 15, 1-2.

34 Strabone, Geografia, VI 1, 4.

35 Ibidem, VI 1, 4-5.

36 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XXXIII 1, 3/10.

37 Ibidem, XXXIII 1, 10-11.

38 Ibidem, XXXIII 1, 12.

39 H. Rix, Bruttii, Brundisium und das illyrische Wort für ‘Hirsch’, in Beiträge zur Namenforschung, vol. 5 (1954), pp. 115/129.

40 Stefano Bizantino, Ethnica, voci Brentesion, Brettia e Brettos.

41 Dionisio d’Alessandria (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Descriptio orbis, v. 362.

42 Polibio, Storie, X, fr. 1.

43 Strabone, Geografia, VI 1, 2.

 

Per la prima parte:

La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

La Brentesìa: una regione cancellata dal tempo (I)

di Nazareno Valente

 

Quando si nomina un’antica regione si fornisce il suo coronimo e, per rendere più chiaro l’argomento, anche una sua caratterizzazione geografica. Nozioni queste che necessariamente si riferiscono ad un momento specifico e non tengono conto delle possibili evoluzioni intervenute nel corso del tempo. Per questo, quando si parla di periodi il cui intervallo è quantificato in secoli, le indicazioni date rischiano di risultare fuorvianti, in quanto si offre una situazione statica, mentre essa è di fatto soggetta a dinamiche che comportano a volte frequenti modifiche di denominazione ed anche di collocazione geografica. Di conseguenza i termini della questione vanno meglio precisati, anche se questo modo di procedere potrebbe far correre il rischio, almeno inizialmente, d’ingarbugliare ancor più la matassa.

Riferendosi alla penisola salentina, gli autori antichi e tardoantichi utilizzavano nomi diversi: Iapigia, Messapia, Calabria, terra dei Sallentini. L’unico che in antichità non le fu mai attribuito è quello di Salento che, invece, è il coronimo che in tempi moderni ha preso piede, spodestando tutti gli altri. C’è in aggiunta da ricordare che Messapia era il nome imposto dai Greci, Calabria quello che i nostri antichi concittadini s’erano scelto e, infine, terra dei Sallentini quello spesso usato dal mondo latino. Sappiamo inoltre che gli abitanti della Calabria — si preferirà nel prosieguo questo termine originato da una libera scelta dei nostri conterranei, rispetto a quello in genere più usato di Messapia coniato ed imposto da chi desiderava colonizzarli — si ripartivano, a seconda della zona d’insediamento in Calabri e Sallentini.

 

Per quanto riguarda la regione abitata dai Calabri e dai Sallentini, si indica in genere la zona contenuta dall’istmo che unisce la provincia di Taranto a quella di  Brindisi, essendo questa di fatto la delimitazione all’incirca coincidente con quella attuale e con quella fatta da Erodoto nella più antica citazione a noi pervenuta1. Ed in effetti in epoca storica, salvo differenze di marginale entità, la Calabria s’è mantenuta sempre entro tali limiti, come rilevabile dalla maggior parte delle fonti narrative dell’epoca. Ciò non toglie che, in periodi antecedenti, la situazione era con ogni probabilità molto diversa, soprattutto per quanto riguarda gli insediamenti dei Calabri.

Purtroppo l’argomento non ha destato — né desta tuttora — grande curiosità tra gli storici più accreditati, per lo più scoraggiati dalla oggettiva difficoltà di affrontare un discorso del genere per la scarsezza delle fonti utilizzabili, sicché, come logica conseguenza, non si è mai indagato se i Calabri avessero avuto mire diverse dallo stare confinati entro i limiti territoriali già più volte definiti. Ed in effetti sulla questione si ha la disponibilità di pochi frammenti narrativi, in più di difficile interpretazione perché slegati in genere dal contesto, che non sembrano, quindi, a prima vista capaci di fornire un quadro in qualche modo definibile, nemmeno in maniera vaga ed imprecisa.

Ciò nonostante, per quanto limitate e di non univoca interpretazione, le tracce di cui si è in possesso lasciano in ogni caso intravedere realtà talmente interessanti da stimolare ad un loro ulteriore esame, magari con un approccio diverso dal solito e senza i soliti pregiudizi. Per questo si è deciso di affrontare un percorso mai intrapreso prima, se non in maniera embrionale, nell’intento di desumere quantomeno nuovi spunti e nuove informazioni, tutti utili a comprendere meglio l’evoluzione storica delle genti del Salento e, in particolare, dei nostri concittadini Calabri di Brindisi.

Va tenuto infine presente che gli autori latini e quelli greci non utilizzavano una terminologia comune: i primi privilegiavano i coronimi e gli etnici coniati dagli indigeni; i secondi preferivano quelli da loro stessi ideati. Per questo i Latini, riferendosi al Salento attuale, parlavano di Calabria, mentre i Greci di Messapia. In più alcuni autori, obbedendo un po’ alle mode e, soprattutto, alle specificità del proprio tempo, assegnavano agli stessi termini accezioni diverse da quelle canoniche. Ad esempio Livio e Plinio utilizzavano il termine Sallentini in maniera non troppo precisa e, il più delle volte, estesa anche ai Calabri. Per cui, ad esempio, i residenti di Brindisi e di Lupiae (l’attuale Lecce) venivano detti Sallentini, mentre più precisamente erano Calabri. La stessa cosa avveniva nell’uso dell’etnico Messapi, con cui i Greci non sempre identificavano tutti i residenti della nostra terra, ma, in certi casi in prevalenza i soli Calabri. Tali variazioni sul tema andranno sempre tenuti a mente e, se del caso, richiamati, se non si vorrà incorrere in inevitabili incomprensioni.

 

La Calabria prima della fondazione di Taranto

Alla fine del V secolo a.C. la Calabria combaciava a grandi linee con l’attuale Salento, però la sensazione netta è che prima avesse avuto un’estensione decisamente maggiore. Lo si è già potuto intravedere dai miti che prevedono Diomede come fondatore o come avversario di Brindisi. In essi si è infatti rilevato che l’influenza della nostra città arrivava sino a toccare i possedimenti dei Dauni ed addirittura quella degli Apuli, di cui, a dar credito a Trogo era di fatto la città più illustre2. Se si considera che gli Apuli si trovavano a nord dei Dauni, anche se con questi erano a volte confusi, e che, in ogni caso, occupavano le zone del foggiano, questo fa credere che la Calabria faceva allora un tutt’uno con la confinante Peucezia.  Ora, secondo i geografi d’epoca romana, il paese dei Peucezi, o dei Poediculi, a seconda che si segua la terminologia greca oppure epicoria,  si estendeva a nord del territorio di Brindisi, sino al fiume Aufidus (Ofanto)3, il che fa presupporre che l’influenza politica di Brindisi andava ben oltre il Salento, occupando anche l’attuale provincia di Bari, e che la Calabria si estendeva di conseguenza sino a quei luoghi.

Il fatto che in epoca remota la Calabria e la Peucezia fossero un’unica entità geografica, emerge non solo dal compendio dell’opera di Trogo — che, occorre sottolinearlo, insieme ad Asinio Pollione faceva parte della frangia di storici che dava una versione non allineata a quella imposta dal sistema augusteo e diffusa dall’opera di Tito Livio, e per questo più interessata alle tradizioni dei popoli soggiogati dai Romani — ma è per altro confermato da un passo di Dionisio di Alicarnasso troppo spesso trascurato. Narra infatti il retore cario che diciassette generazioni prima della spedizione contro Troia, Enotro abbandonò la Grecia4. Insieme con lui era il fratello Peucezio, il quale, «sbarcata la sua gente dalle parti del promontorio Iapigio, che fu il primo approdo da loro incontrato in Italia, vi si stabilì, ed è da lui che gli abitanti di quella regione sono chiamati Peucezi» («Πευκέτιος μὲν οὖν, ἔνθα τὸ πρῶτον ὡρμίσαντο τῆς Ἰταλίας, ὑπὲρ ἄκρας Ἰαπυγίας ἐκβιβάσας τὸν λεὼν αὐτοῦ καθιδρύεται, καὶ ἀπ’ αὐτοῦ οἱ περὶ ταῦτα τὰ χωρία οἰκοῦντες Πευκέτιοι ἐκλήθησαν»5).

Secondo questa versione, appare pertanto evidente che in epoca mitologica i Greci usavano il coronimo Peucezia per indicare la Puglia centro-meridionale comprendente quindi la Peucezia e la Calabria d’epoca classica. Va inoltre rilevato che in effetti questa testimonianza non è nemmeno unica, essendoci altri scritti, anch’essi trascurati perché ritenuti oscuri dalla critica storica, che propongono una stessa ipotesi. In particolare Liciniano, nell’epitome fatta da Solino, afferma che la Messapia, poi conosciuta come Calabria, aveva tratto origine dal Greco Messapo tuttavia, inizialmente, Peucezio, fratello di Enotro, l’aveva chiamata Peucezia («Liciniano placet a Messapo Graeco Messapiae datam originem, versam postmodum in nomen Calabriae, quam in exordio Oenotri frater Peucetius Peucetiam nominaverat»)6. E pure Plinio il Vecchio, parlando della Calabria, riferisce qualcosa di analogo: «I Greci la chiamarono Messapia da un condottiero e, prima ancora, Peucezia da Peucezio, fratello di Enotro, che si era stabilito nella terra dei Sallentini» («Graeci Messapiam a duce appellavere et ante Peucetiam a Peucetio Oenotri fratre in Sallentino agro»7).

Liciniano e Plinio il Vecchio dettagliano pertanto ancor più il discorso di Dionisio di Alicarnasso rendendo note le dinamiche che avevano interessato le terre dei nostri concittadini, ponendo però in chiaro che il primo nome usato dai Greci per identificarle era stato Peucezia e, solo in seguito, Messapia.

In pratica alla situazione canonica della Iapigia suddivisa in Daunia, Peucezia e Calabria (o Messapia per dirla come i Greci) se ne contrappone una, valida con ogni probabilità prima dell’inizio della colonizzazione greca, nella quale i Peucezi ed i Calabri sono un tutt’uno e, in più, in non buoni rapporti con i Dauni. Ora, considerato che secoli dopo, al tempo di Strabone, come lo stesso autore pone in rilievo8, i popoli dei Peucezi e dei Dauni vivevano in sintonia ormai accomunati in una stessa regione, chiamata Apulia, c’è da ritenere che tali dissidi fossero sorti in precedenza a causa della politica aggressiva dei Brindisini e dei loro tentativi di allargare il proprio raggio d’azione. E che così fosse, vale a dire che i contrasti con i Dauni riguardassero i Calabri e non già i Peucezi, è confermato da un’altra annotazione fatta da Strabone quando riferisce che i Peucezi ed i Dauni s’allearono ai Tarantini, scesi in guerra contro i Messapi9.

Con buoni margini di certezza, si può in definitiva ipotizzare che in un’epoca passata, per le mire brindisine, la Calabria occupava la gran parte della Puglia centro-meridionale e che Brindisi cercava di estendere i propri domini anche nel nord della Puglia.

Il che sarebbe già di per sé innovativo rispetto a quanto si dice comunemente sull’argomento.

Ancor più sorprendente è, tuttavia, ciò che può desumersi da altre fonti narrative sinora dimenticate, le quali lascerebbero in aggiunta intuire che in epoca remota Brindisi avesse esteso i propri domini anche su entrambe le coste della Calabria attuale e che successivamente, sia pure molto ridimensionata dal flusso coloniale acheo e lacedemone, fosse rimasta stanziata in alcune località della Siritide almeno sino all’inizio della seconda metà del V secolo a.C.

Già da altri scritti, che hanno avuto la fortuna di essere ampiamente esaminati, si sono potuti rilevare evidenti segnali che, prima dell’arrivo dei Parteni, la zona di Taranto era abitata da Brindisini. Lo fa sapere in maniera esplicita Strabone ricordando che Brindisi s’era vista  togliere gran parte del suo territorio dai Lacedemoni venuti con Falanto («Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων»10). Ma anche Trogo, per le parti conservate nel compendio di Giustino, dà una medesima informazione nel momento in cui annota che chi era stato depredato e scacciato dagli invasori tarantini aveva poi trovato riparo a Brindisi11.

Lo testimonia in aggiunta l’antichissima via istmica, utilizzata poi dai Romani per tracciare l’ultimo tratto della via Appia, che univa Taranto a Brindisi, la cui esistenza sarebbe risultata inspiegabile12, se a quel tempo i Brindisini non avessero esercitato una indiscussa egemonia nella zona. Allora non si facevano infatti molte vie, e quelle poche erano tracciate dalle città esclusivamente all’interno del proprio agglomerato, per lo più lontane dalle zone di confine: se Brindisi, prima dell’arrivo dei coloni, ne aveva costruita una sino a Taranto è un palese indice di come poteva disporre a suo piacimento di quelle terre. Per ovvi motivi di sicurezza, nessuna città costruiva di fatto vie in zone che non poteva controllare con certezza.

Ritornando al passo di Strabone c’è da rilevare come il geografo sottolinei che in quella occasione i Brindisini persero gran parte (πολλὴν) del loro territorio. Cosa che fa già pensare all’eventualità che Taranto non fosse l’unico possedimento a cui Brindisi dovette rinunciare a causa dell’arrivo dei coloni. Quali queste terre possano essere state, impossibile dirlo con precisione. Tuttavia una qualche ipotesi è possibile formularla, riesaminando i tanti passi ritenuti impenetrabili e, forse, troppo in fretta messi da parte e scarsamente valorizzati. Senza dubbio tali insediamenti arrivavano addirittura sino nel Bruzio, termine che sarà usato in maniera impropria per indicare la parte meridionale della Calabria attuale, al solo fine di non creare confusioni terminologiche con la Calabria antica. Va infatti ribadito che a quel tempo un simile termine non era stato ancora coniato, in quanto si usava la locuzione ager Bruttius per indicare la terra dei Brettii, solo in tempi successivi definita Bruzio.

 

Le fonti narrative dimenticate e La Brentesía

Sebbene la possibilità di uno sconfinamento degli Iapigi dalle proprie sedi storiche faccia parte degli avvenimenti presi in considerazione dagli storici, la questione è sempre stata presentata in maniera vaga, quasi si trattasse di eventi di scarso rilievo che, semmai accaduti, erano dovuti a circostanze del tutto occasionali o fortuite. Invece non sembra che così sia stato in realtà: lo certificano brani che, per quanto noti, hanno però il difetto di non avere un contesto definibile, neanche da un punto di vista cronologico. In pratica sono notizie che non si sa come collocare nel tempo e nello spazio.

C’è un passo di Strabone, più volte citato ma mai esaminato per quello che potrebbe implicare, che dà memoria dell’insediamento degli Iapigi ben oltre la prima fascia costiera del golfo ionico fino a lambire il Bruzio. Parlando della fondazione di Crotone, Strabone aggiunge appunto senza alcun preambolo: «A dire di Eforo, prima, a Crotone abitavano gli Iapigi» («ᾤκουν δὲ Ἰάπυγες τὸν Κρότωνα πρότερον, ὡς Ἔφορός φησι»13). Riporta quindi l’informazione en passant, ponendola in alternativa alla versione ufficiale, ampiamente accettata da tutti di Crotone colonia degli Achei, quasi che l’annotazione di Eforo fosse solo una lontana congettura. Di primo acchito sembra pertanto una semplice illazione o addirittura una invenzione che πρότερον (próteron), vale a dire prima o forse meglio anticamente,  rispetto all’arrivo degli Achei, Crotone fosse stata abitata dagli Iapigi. E forse proprio per questa sensazione, dovuta a come Strabone presenta la notizia, se l’indicazione data da Eforo è ritenuta  poco attendibile e meritevole d’essere accantonata senza eccessivi scrupoli.

Eppure per certi versi l’affermazione di Eforo trova una sia pure imprecisa conferma in altri autori.

In due frammenti di Ellanico, conservati rispettivamente in Stefano Bizantino14 e Dionisio di Alicarnasso15, viene infatti narrato che gli Ausoni, antichi abitanti della zona, furono costretti a lasciare le proprie terre scacciati dagli Iapigi ed a emigrare in Sicilia. Dal che si può evidentemente desumere che gli Iapigi s’impossessarono delle località abbandonate dagli Ausoni. Ellanico precisa pure quando il fatto avvenne «nella terza generazione prima della guerra di Troia, nel ventiseiesimo anno del sacerdozio di Alcione ad Argo» («τρίτῃ γενεᾷ πρότερον τῶν Τρωικῶν Ἀλκυόνης ἱερωμένης ἐν Ἄργει κατὰ τὸ ἕκτον καὶ εἰκοστὸν ἔτος»16), vale a dire presumibilmente nel  XIII secolo a.C.

In aggiunta lo stesso Strabone menziona, nelle vicinanze di Crotone e del Capo Lacinio17, oggi Capo Colonna, l’esistenza di tre promontori chiamati espressamente Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκραι τρεῖς») che non si capisce perché avessero conservato dopo secoli un tale nome, se gli Iapigi non avessero mai vissuto in quei paraggi.

Sebbene queste informazioni abbiano goduto d’una certa fortuna tra gli addetti ai lavori, esse non sono mai state utilizzate per indagare sulle dinamiche cui fu soggetta la società degli Iapigi. Né a maggior ragione lo sono state quelle che godono di poca considerazione perché facenti parte di brani incomprensibili e che la critica ha ritenuto meritevoli d’essere emendate, a causa di ipotetici errori di trascrizione da parte di un qualche amanuense distratto.

Iniziamo da quella che, pur contenendo una notizia di rilievo per la nostra indagine, non è stata neppure mai presa in considerazione.

Tra le tante questioni dibattute dagli storici c’è quella riguardante la Megale Hellas, vale a dire la Magna Grecia, che pone problemi geografici (quali zone essa comprendeva?), cronologici (quando il termine fu coniato?) e di altra svariata natura. Nell’ampia e vivace discussione che ha fatto seguito, viene a volte citato un passo della “Chrestomazie”, un’epitome comprendente molti brani dell’opera di Strabone18, per affermare che la sola area del Capo Lacinio — promontorio distante pochi chilometri da Crotone — sarebbe stata definita Magna Grecia dai discepoli di Pitagora, per il fatto che vi aveva lì soggiornato il loro maestro. E sin qui parrebbe che non ci sia nessun aggancio con il nostro argomento, in quanto si parla espressamente d’un soggiorno avvenuto press’a poco vicino al Capo Lacinio della Brettia, vale a dire del Bruzio («ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἄκρον τῆς Βρεττίας»).

Però una noticina fa sapere che, in effetti, il testo originale non riportava «ἄκρον τῆς Βρεττίας» (promontorio della Brettia) ma «ἄκρον τῆς Βρεντεσίας» (promontorio di Brindisi) e poiché Brindisi non si trova vicino al promontorio citato, la lezione Βρεντεσίας (Brentesías) è stata ritenuta un errore del copista e, di conseguenza, emendata senza tante discussioni in Βρεττίας (Brettías).

I Veneti a questo punto potrebbero per certi versi dire che xe pèso el tacòn del buso, letteralmente, è peggio il rammendo del buco, come dire che, nella fattispecie, la correzione appare forse ancor più scorretta dell’errore. Infatti il termine inserito non pare coerente al periodo, vale a dire il VI secolo a.C., in cui si svolgono gli avvenimenti narrati, per il semplice motivo che se Brindisi, seppur collocata in tutt’altra zona, almeno esisteva,  i Brettii non avevano ancora fatto la loro comparsa nella storia e, di conseguenza, non esisteva ancora una regione chiamata Brettia.

Di là, però, dalla correzione magari inappropriata, appare in effetti strano questo accostamento del Capo Lacinio con Brindisi, anche se andrebbe osservato che il termine emendato, Brentesías, sembrerebbe piuttosto un coronimo, e quindi riferirsi ad una regione più che ad una città. Come se l’autore avesse voluto dire, non tanto un promontorio della città di Brindisi, ma piuttosto della regione brindisina o del brindisino. In ogni caso, Brentesías è un toponimo di cui non si hanno precedenti riscontri e che non è dato di sapere se sia stato coniato al momento dallo sconosciuto compilatore dell’epitome oppure se da lui ripreso da un autore più antico.

Tuttavia, andando a valutare altri riscontri letterari oscuri ci si può imbattere negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone” contenenti sviste dello stesso tipo. Vero che si tratta di evidenze letterarie tarde, attribuite come sono ai fratelli Tzetze, grammatici bizantini del XII secolo, tuttavia presenti in commentari di epoca precedente — a volte anche imperiale — per cui sono informazioni antiche o tardo-antiche Ad esempio in uno è affermato «e consacrerà ad Atena Iapigia ovvero Calabra, dea del bottino e della guerra, un cratere bronzeo da Temesa, città della Calabria»19 e come si può notare il vocabolo Iapigia è usato come sinonimo di Calabria, e quindi nell’accezione tipica del periodo antico. In un altro si afferma espressamente che Temesa è città della Iapigia ovvero della Calabria e quindi, in definitiva situata nel Salento.

Sappiamo però che Temesa non si è mai trovata nel Salento, essendo ormai assodato che essa era una città degli Ausoni sul litorale tirrenico della Calabria attuale, proprio nel versante opposto a quello in cui si trovano Capo Colonna ed i tre promontori Iapigi. Se non bastasse, lo stesso errore è contenuto in un altro scolio, dove ancora una volta Temesa è presentata come città dell’antica Calabria20, e non del Bruzio.

L’aspetto curioso è che questa strana dislocazione di Temesa non compare solo negli “Scoli all’Alessandra di Licofrone”, ricorre pure nei commentari all’opera di Omero fatta da Eustazio, arcivescovo di Tessalonica e pubblico professore di eloquenza. Infatti, parlando della Temesa citata appunto da Omero nell’Odissea, il retore ci fa sapere che si tratta della Temesa italica: «Come ora alcuni dicono Brindisi» («Τὸ νῦν ὥς τινές φασι Βρεντέσιον»21). E, poco oltre, utilizza anch’egli il termine usato nelle  “Chrestomazie”, vale a dire «ἡ Βρεντεσία»22 (la Brentesìa), lasciando chiaramente intendere che si riferisce ad una regione; non ad una città.

C’è da sottolineare che ad un lettore moderno Temesa potrebbe risultare del tutto sconosciuta. Così non era invece in antichità. Il fatto stesso che ne avesse addirittura parlato Omero, indicandola meta ambita dai Greci per l’approvvigionamento del rame, l’aveva resa leggendaria, soprattutto tra i letterati, i quali ne facevano motivo di approfondite discussioni. Il dibattito era in particolare incentrato sulla sua collocazione geografica, lasciata vaga da Omero: c’era così chi la considerava una città cipriota e chi la riteneva italica. Detto che alla fine la ricerca storico-archeologica è stata concorde nel riconoscere che l’antica Temesa fosse in Italia, e precisamente tra i fiumi Oliva e Savuto, nella parte centrale della costa tirrenica dell’attuale Calabria, resta il fatto, a prima vista sconcertante, che c’era chi, prevedendola italica, l’accostasse come detto a Brindisi che si trovava in una regione completamente diversa.

Ora a tutti può capitare di sbagliare ma che inciampassero nello stesso banale errore rinomati intellettuali del periodo imperiale, i fratelli Tzetze, ignoti epitomatori e, in aggiunta, celebri retori pare qualcosa di poco credibile. Anche perché, a ben guardare, i più non affermavano che Temesa si trovava in Calabria, nelle vicinanze di Brindisi, ma che essa era, al pari di Brindisi, città Calabra. In definitiva non sembra parlassero del suo posizionamento geografico, che con ogni probabilità davano per scontato fosse il Bruzio, né desideravano identificare l’antica Temesa con la Brindisi del loro tempo ma, con ogni probabilità, solo sottolineare un qualche altro aspetto che collegava le due località.

Quale fosse questo legame, è tutto da stabilire; tuttavia tra le tante risposte possibili una sembra la più plausibile: si considerava Temesa città Calabra perché in tempi remoti essa dipendeva politicamente dai Calabri provenienti da Brindisi. In altre parole, si può ipotizzare che, prima dell’avvento dei coloni achei e lacedemoni, Brindisi avesse esteso i suoi domini sino a Crotone — come per altro ricordato da  Eforo che, nello specifico, aveva parlato più genericamente di una occupazione iapigia della città — e che nel suo territorio era compresa anche la città di Temesa. In definitiva il collegamento tra Temesa e Brindisi era dovuto al fatto che la prima si trovava nella Brentesìa, vale a dire nella zona in cui i Calabri di Brindisi erano egemoni.

Messe così le cose, risulterebbe più comprensibile pure il passo di Strabone, quando menziona i tre promontori Iapigi23 collocati in territorio crotoniate, e quindi Iapigio; si darebbe valore pure ai frammenti di Ellanico, quando narra di una offensiva  verso sud degli Iapigi che avrebbe costretto gli Ausoni a migrare in Sicilia e a lasciare quindi l’uso del loro territorio agli invasori. Consentirebbe infine di ripristinare la lezione Βρεντεσίας, emendata come visto in Βρεττίας. nel passo delle “Chrestomazie” che dichiarava il Capo Lacinio facente parte del territorio brindisino, oltre a chiarire il perché dell’uso di un coronimo per indicare un’entità, Brindisi, a cui non ci si rivolgeva mai considerandola una regione.

Più in generale l’ipotesi formulata — opinabile quanto si vuole ma, viste le premesse, del tutto coerente con esse — non appare per nulla priva di consistenza, anzi è supportata da testimonianze talmente concrete da renderla più che verosimile.

Il riesame dei vari brani rende in definitiva evidente come i Calabri di Brindisi esercitassero una qual certa supremazia all’interno dei gruppi iapigi e, sia pure in modo sfumato, delinea il quadro delle loro eventuali conquiste. Chiarisce inoltre che gli interessi di Brindisi s’erano rivolti non solo a nord dell’istmo che l’univa a Taranto, come si può evincere dai miti di fondazione relativi a Diomede, ma anche oltre la fascia costiera tarantina e la Siritide, sino a toccare i litorali della costa nord del Bruzio, come i passi rivalutati sul Capo Lacinio e su Temesa lascerebbero intuire.

Infine, potrebbe essere letto in questo senso anche il famoso frammento di Varrone, reso noto dalla Pseudo-Probo sulla genesi della nazione salentina, che si riporta per intero perché in parte talmente indefinito che può dare luogo a diverse interpretazioni. «Nel terzo libro delle Antichità umane [Varrone] così riferisce: “Si dice che la nazione Salentina si sia formata a partire da tre luoghi, Creta, l’Illirico, l’Italia. Idomeneo, cacciato in esilio dalla città di Blanda per una sedizione durante la guerra contro i Magnensi, giunse con un folto esercito nell’Illirico presso il re Divitio. Ricevuto da lui un altro esercito, e unitosi in mare, per la analogia delle loro condizioni e dei progetti, con un folto gruppo di profughi locresi, strinse con essi patti di amicizia e si portò a Locri. Essendo stata la città evacuata, per timore di lui, egli la occupò e fondò diverse località tra le quali Uria e la famosissima Castrum Minervae. Divise l’esercito in tre parti e in dodici popoli. Furono chiamati Salentini, perché avevano fatto amicizia in mare» («[Varro] in tertio Rerum Humanarum refert Gentis Salentinae nomen tribus e locis fertur coaluisse, e Creta, Illyrico, Italia. Idomeneus e Creta oppido Blanda pulsus per seditionem bello Magnensium cum grandi manu ad regem Divitium venit ad Illyricum; ab eo item accepta manu cum Locrensibus plerisque profugis in mari coniunctus per similem causam amicitiaque sociatis, Locros appulit. Vacuata eo metu urbe, ibique possedit aliquot oppida et condidit:  in queis Uria et Castrum Mineruae nobilissimum. In tres partes divisa copia in populos duodecim Salentini dicti, quod in salo amicitiam fecerint»24).

Per quanto in maniera vaga anche Varrone offre un quadro diverso da quello usuale, collocando i nostri antichi concittadini fin nella Locride, dove occuparono appunto Locri, questo perché c’era stata comunanza d’intenti anche con un gruppo di profughi Locresi.

Ne consegue che non è azzardato ipotizzare che Brindisi, prima dell’arrivo dei colonizzatori achei e lacedemoni, fosse una delle principali potenze della zona che divenne poi in buona parte greca.

(1 – continua)

 

Note

1 Erodoto, Storie, IV 99, 5.

2 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XII 2, 7; n. valente, Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi, https://www.academia.edu/103297158/Brindisi_arcaica_i_miti_di_fondazione_e_le_origini_ateniesi

3 Tolomeo, Geografia, III 1, 13.

4 Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, I 11, 2-3.

5 Ibidem, I 11, 4.

6 Granio Liciniano (II secolo d.C. -…), Reliquiae, edidit N. Criniti, Leibzig 1981, apud solino, Collectanea rerum memorabilium, II 12.

7 Plinio il vecchio, Storia Naturale, III 11, 99.

8 Strabone, Geografia, VI 3, 8.

9 Ibidem, VI 3, 4.

10 Ibidem, VI 3, 6.

11 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

12 M. Lombardo, La via istmica Taranto-Brindisi in età arcaica e classica: problemi storici, in Atti: Salento porta d’Italia, Lecce 1989, pp. 167/192.

13 Eforo, fr. 140 Jacoby, apud strabone, Geografia, VI 1, 12.

14 Ellanico (V secolo a.C.), fr. 79a Jacoby, apud stefano bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Sikelìa.

15 Ellanico, fr. 79b Jacoby, apud dionisio di alicarnasso, Antichità Romane, I 22, 3.

16 Ibidem.

17 Strabone, Geografia, VI 1, 11.

18 Chrestomazie, VI 281, 6.

19 Tzetze, Scholia in Lycophronis Alexandram, v. 853.

20 Ibidem, 854.

21 Eustazio di Tessalonica (XII secolo d.C.), Commento ad Omero – Odissea, I 185.

22 Ibidem, I 184.

23 Capi Le Castella, Rizzuto e Cimiti.

24 Varrone, Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, Apud PS –PROBO,  in Vergilii Bucolica, VI 31.

 

Erano Sallentini o Salentini?

di Nazareno Valente

 

Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.

Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.

E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.

La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.

Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.

Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.

Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.

Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.

Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.

In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.

Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.

In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.

Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.

Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).

In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.

In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigioτὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.

Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.

Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.

Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.

 

Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.

Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.

Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.

Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.

Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.

Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.

La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.

In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.

In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).

Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?

Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.

Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.

Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.

Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.

Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.

Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.

Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.

Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.

 

Note

1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.

3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.

4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.

5 Ibidem, VI 3, 1.

6 Ibidem, VI 3, 5.

7 Ibidem, VI 3, 1.

8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.

9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.

10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.

11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche

12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.

13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.

Japigi e Messapi. Quei lontanissimi nostri avi

di Danny Vitale (Gruppo Archeologico Brindisino)

Quanti di noi guardando film come “300”, “Braveheart”, “Il gladiatore”, sin sono lasciati trasportare dalle emozioni parteggiando ed esultando per i protagonisti che per difendere la libertà hanno sacrificato il bene più grande che ogni uomo possiede: la vita.

Un re spartano che con soli 300 uomini (anche se in realtà furono molti di più) riuscì a rallentare l’avanzata dei Persiani così permettendo agli altri “Greci” di prepararsi a respingere l’attacco! Sembrano storie leggendarie frutto della fantasia di un poeta, ma sono fatti realmente accaduti, anche se sono stati sicuramente gonfiati, arricchiti di particolari da storiografi prima, e registi e scenografi ed effetti speciali poi.
Ci sembrano gesta di popoli lontani, roba che si legge su i libri di storia ma in realtà non bisogna andare così lontano, basta guardarci attorno: la nostra terra è intrisa del sangue dei nostri antichi avi cha al pari di Leonida hanno combattuto ed hanno donato la propria vita per difendere l’indipendenza di un etnia e la libertà di ogni singolo uomo.

Vi siete mai chiesti come mai Brindisi, Lecce, Otranto, il territorio barese, pur essendo in linea d’aria a pochi chilometri di distanza dalla Grecia non custodiscano templi e rovine del mondo greco classico?

E’ proprio grazie alla tenacia dei nostri antenati che il Salento e quasi tutta la Puglia hanno mantenuto un’ indipendenza fino alla colonizzazione Romana nel 272 a.c.
Questi uomini coraggiosi venivano chiamati Iapigi, un’ etnia costituita da Messapi (Puglia del sud), Peucezi (Puglia del centro), e Dauni (Puglia del Nord).

I Messapi furono dediti all’agricoltura ed alla pastorizia ma furono soprattutto abili domatori di cavalli, tenaci combattenti a cavallo, arcieri, e persino le legioni romane li vollero al proprio fianco come alleati nella guerra contro i Sanniti (antica popolazione campana).

Purtroppo a causa della scarsità delle fonti storiche sappiamo ben poco sulle origini dei Messapi e degli Iapigi in generale. La prima fonte documentata fu scritta da Esiodo (poeta greco vissuto a cavallo fra l’VIII e il VII secolo a.c.), naturalmente più che di notizie storiche, si tratta di tentativi di legittimare le origini degli Iapigi. Infatti il poeta identifica la derivazione del nome Iapigi

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