La rinascita della scherma e il ritorno a San Rocco

di Giovanni Pellegrino

con una nota introduttiva di Giuseppe Corvaglia

 

La notte di San Rocco a Torrepaduli

 

Nota introduttiva

Negli anni ’70 la danza delle spade a Torrepaduli accusò una flessione e tendeva quasi a scomparire. La gente aveva perso interesse, sia perché molti con l’avvento delle automobili non si fermavano più la notte, sia perché le autorità tendevano a limitarla, sia perché la vicinanza delle ronde con il santuario poteva disturbare le funzioni e qualcuno riferiva di incidenti con accenni di risse e disordini che potevano turbare l’ordine pubblico.

Così quei momenti di socializzazione spontanea che si formavano fra i pellegrini per passare la notte, furono scoraggiati.

Nel 1982 Giovanni Pellegrino e la Bottega del Teatro e del Ballo Popolare di Zollino cercarono di ripristibare quella   grande occasione di incontro e di festa spontanei e proposero il progetto “Ritorno a San Rocco”, con il supporto di istituzioni politiche e amministrative (Comuni di Cutrofiano e Ruffano, Regione, Confcoltivatori…) e culturali (Università di Roma con Diego Carpitella, e Università di Lecce con Nando Taviani).

Diego Carpitella Conferenza Cutrofiano 8 agosto 1982  – Archivio G. Pellegrino

 

Giovanni, tecnico metalmeccanico e apicoltore, ma appassionato genuino di cultura popolare, con all’attivo interessanti operazioni di riproposta (rilancio delle pasquette, Festa del Fuoco, canto rituale della Passione in griko…)  progettò e realizzò un evento complesso che fosse rilevante, coinvolgente e non perdesse la sua spontaneità. Per raggiungere tale scopo fece un’efficace opera di ricerca e reclutò tamburellisti, danzatori e musicisti di musica popolare, fra cui il sottoscritto, Antonio Romano e Damiano Palma di “Terra tumara”.  Soprattutto spiegò con tutti i mezzi possibili i significati dell’arte popolare della festa e la storia nient’affatto finita del suo strumento emblematico: il tamburello.

L’operazione non era facile: gli artisti non venivano ad esibirsi, ma dovevano inserirsi in quella operazione di recupero e “salvataggio” in maniera naturale, quasi come se fossero capitati lì, quali pellegrini, e formare le ronde spontanee che animassero la notte di Torrepaduli.

Per fare questo il progetto era articolato e Giovanni, oltre a ricercare chi potesse animare l’evento comprendendone lo spirito e a trovare il consenso delle istituzioni e il supporto degli enti culturali, organizzò una festa del tamburello e della pizzica a Cutrofiano e cercò di dare rilevanza all’evento sulla stampa.

Uccio Aloisi Conferenza Cutrofiano 8 agosto 1982 Archivio G. Pellegrino

 

Fra i tanti articoli, uno spazio cospicuo lo diede all’evento “Pensionante dei Saraceni – Fogli di Caffè Greco” curato dal compianto e lungimirante Antonio Leonardo Verri che dedicò all’evento un paginone intero della rivista.

In quegli articoli Giovanni Pellegrino raccontava la genesi della festa, il rischio che il mondo contadino e culturale salentino si impoverisse per lo scomparire di questa e di altre feste simili e argomentava un concetto fondamentale del fare festa come lavoro liberato che si contrappone al mero consumo di un evento.

Oggi la notte di San Rocco a Torrepaduli è ancora un evento spontaneo; giovani e meno giovani si recano alla festa e aspettano di vedere costituirsi una ronda per parteciparvi suonando, ballando o anche solo godendosi le movenze dei ballerini e il ritmo incalzante e c’è davvero posto per tutti perché sul piazzale del santuario se le ronde sono affollate ecco che se ne formano delle altre e i suonatori e i ballerini non mancano.

Se questo è il presente, allora, perché riproporre il “passato”?

Perché, come accennavo, in quegli articoli ci sono concetti importantissimi come il “fare festa”, inteso come lavoro liberato e sublimato, che era e dovrebbe essere la base della festa e si oppone al concetto di festa come mero riposo e come consumismo edonistico che non ci consente di godere a pieno dell’evento, dove la fruizione non è più partecipazione attiva, ma adesione passiva.

Forse questi concetti potrebbero generare utili riflessioni anche nelle nuove generazioni perché una visione siffatta è utile all’uomo non solo all’uomo del XX secolo ma anche all’uomo del futuro.

Festa della Pizzica Cutrofiano

 

 

Ritorno a San Rocco – Inchiesta-mobilitazione sulla festa contadina. 

La festa: un fatto di cultura

Numero Speciale del Pensionante dei Saraceni, luglio-agosto 1982

di Giovanni Pellegrino

 

La Bottega del Teatro e del Ballo Popolare di Zollino

La festa come fatto di cultura complessiva e di massa ci interessa moltissimo e non da ora.

I nostri interventi dentro la Pasquetta, la Festa del Fuoco o in altre occasioni sono esemplari.

Il “Ritorno a San Rocco” lo consideriamo una tappa importante di un lungo lavoro sulla festa contadina che dovrebbe portarci a raccogliere energie per un intervento più qualificato ed efficace. L’obiettivo finale non lo nascondiamo: tentare di ricucire la lacerazione tra festa e prodotto contadino.

Secondo noi ci sono energie-festa represse e il nostro lavoro consiste nel fare in modo che esse si liberino. In questo senso ci siamo mossi in questi mesi, andando a cercare i tamburellisti e i ballerini dispersi in tutto il Salento e ridiscutendo con loro il San Rocco dei balli e dei suoni spontanei; le motivazioni vecchie e nuove che li animano; i blocchi che li reprimono.

Abbiamo cercato anche le istituzioni culturali: Diego Carpitella, professore di etno-musicologia dell’Università di Roma, Nando Taviani, professore di storia del teatro all’Università di Lecce, che si sono a fianco con la loro qualificata esperienza.

Abbiamo ottenuto il patrocinio di alcuni enti locali: il Comune di Ruffano, che ospita la festa e quest’anno curerà meglio gli spazi e l’organizzazione, il Comune di Cutrofiano che l’8 agosto, in concomitanza con la X mostra dell’Artigianato Figulo, ospiterà la Festa del Tamburello della Pizzica.

Festa del Tamburello della Pizzica. Cutrofiano 1982. Foto G.C. Di Tacchio

 

Abbiamo, infine, avuto il patrocinio della Confederazione Coltivatori Italiani, direttamente interessata al discorso culturale che stiamo facendo. Occorre, a questo punto, solo ricordare che le nostre scelte di lavoro confinano, sono sempre confinate, con il nostro impegno e il nostro entusiasmo. C’è da chiedersi quando si potrebbe fare, e dare, di più in condizioni diverse.

 

La Bottega del Teatro e del Ballo Popolare

 

Festa del Tamburello della Pizzica. Cutrofiano 1982. Foto G.C. Di Tacchio

       

 

SI PUÒ FAR FESTA LAVORANDO – La festa come lavoro completamente liberato

di Giovanni Pellegrino

La festa noi non la conosciamo più; si è persa nel tempo, incalzata dal professionismo, dallo spettacolo, dallo sradicamento della gente. Incalzata anche, bisogna dire, dalla ignoranza profusa a piene mani da una cultura che ha sempre odiato la festa.

Abbiamo finito con credere che la festa è il riposo, il non far niente, il fare da spettatore a uno o più spettacoli sia pure in piazza. E invece chi indossa l’abito della festa e fregato: non può più farla.

La festa è (come sempre stata) lavoro, lavoro veloce e con rischio, più di quanto non avvenga durante l’anno. Solo che, anziché ripetere una serie di gesti finalizzati alla produzione di beni, (con tutto il carico di coercizione di noi e quindi di alienazione che questo fatto porta inevitabilmente con sé), la festa è invece un lavoro completamente liberato, carico di fantasia, portato avanti da un numero di persone e, quindi, carico di stimoli.

Questo tipo di festa è stata distrutta (non sappiamo se temporaneamente o per sempre) e sono in rare occasioni è possibile vederne ancora delle tracce.

La Fiera di San Rocco a Torrepaduli (frazione di Ruffano – Lecce) è una di queste eccezioni.

La festa viaggia su una base musicale di tamburelli, armoniche a bocca, organetti.

Questa musica innesca i balli che sono la tarantella, la pizzica o la scherma. Il ballo prevalente è certamente quest’ultimo.

In esso viene rivissuto e ritualizzato lo scontro fisico (la lotta di coltello) tra individui singoli e, nell’intreccio degli individui, al limite, anche lo scontro tra gruppi. Sembra pure che vi sia ritualizzata la lotta tra il bene e il male.

Il gioco consiste evidentemente nel superamento delle spinte aggressive (attraverso la catarsi conseguente alla loro esplicitazione) e ha quindi finalità liberatorie e di riaggregazione sociale.

La scherma e quindi un ballo che ha poco a che vedere con la simbologia sessuale e viene generalmente eseguito da maschi, ma una donna che “osa” misurarsi con un uomo è vista con grande interesse. Ballano solo due ballerini che però, uno per volta, vengono sostituiti continuamente da uno del pubblico. Questo fa cerchio intorno ad essi partecipando vive vivacemente con suoni, con il battito delle mani, cantando e ridendo.

Questo ballo era molto praticato fino all’immediato dopo guerra e veniva ballato nelle feste dei santi più popolari (la notte della vigilia) come fatto di socializzazione e di festa, ma anche per riempire in modo creativo il tempo tecnico intercorrente tra l’andata e il ritorno (si poteva viaggiare solo di giorno) sia che si andasse col traino, sia che si andasse a piedi; veniva anche ballato (per conoscersi) nelle grandi feste familiari, come ad esempio i matrimoni.

La scherma si esprime in forme spettacolari di eccezionale interesse, per l’intenso uso che si fa delle mani, delle braccia e del volto, oltre che, evidentemente, delle gambe e di tutto il corpo in stretta relazione con l’uso del corpo nel mondo contadino e bracciantile.

Tutto ciò, se deriva da un grande e laborioso passato che non si è del tutto esaurito, ha certamente qualcosa in comune con i nuovi orientamenti culturali circa l’uso del corpo.   G.P.

archivio G. Corvaglia

 

 «C’è nell’aria una strana attesa…»

di Giovanni Pellegrino

 

«Quelli che hanno studiato» non hanno mai visto il ballo della scherma: addirittura non ne hanno mai sentito parlare. E perché poi?

Anche i ballerini, del resto, ne parlano con difficoltà, quasi con senso di colpa. Solo in circostanze specialissime, tra gente fidata, se spunta fuori chissà da dove un tamburello che sia un tamburello (segnato dal sangue di altre feste), battuto da mani che siano mani, i freni si spezzano l’aria vibra, «quelli che non possono star fermi» innescano un gioco antico che è difficile fermare.

La fiera di San Rocco è un’eccezione. Qui il ricordo dell’egemonia del tamburello e del ballo della scherma e una presenza reale. Al tramonto della vigilia una folla enorme e varia si snoda attraverso le stradine e i passaggi lasciati liberi dai venditori dirigendosi verso il santuario per la devozione. Il piazzale attiguo diventa concretamente un incrocio tra sacro e profano; tra l’attesa del miracolo della guarigione delle piaghe e la fame di cibo e di vino locale; tra i desideri di salvezza e quelli dei mille prodotti artigianali offerti dai mercanti. Eppure, c’è nell’aria una strana attesa, che diventa via via più palpabile finché, ecco, si ha la risposta.

Uno dei tanti tamburellisti quasi clandestini prende in mano l’arma e dà il segnale: quando e dove crede, spazio o non spazio.

Subito un altro si rivela e gli si affianca; subito un ballerino compare e si agita in meno di un metro di spazio e subito un altro attraversa la folla e gli si contrappone. Più veloce a farsi che a dirsi: la gente si illumina e si apre polarizzata a cerchio; il cerchio magico della pizzica e della scherma, carico di energia, di simpatia, di voglia di confronto e partecipazione.

Se vuoi, puoi scoprirne le leggi: la scintilla viene dai tamburelli (se si fermano loro si ferma tutto).

Le energie maggiori vengono dai due ballerini, ma questi vengono continuamente sostituiti dal pubblico che mai come in questo caso è straordinariamente attivo. In questo modo il «cerchio-festa» ha una sua propria vita, a prescindere dai protagonisti del momento, che può durare anche delle ore. Se ci sono molti tamburellisti si formano più cerchi.

davanti al santuario di Torrepaduli, foto Fernando Bevilacqua

 

Per una notte intera, sia pure nella Torrepaduli, mamma TV e i suoi spettacoli per uomini soli vengono dimenticati, sommersi dalla gioia del gruppo ritrovato, dalle energie nel gruppo in festa.

La luce del giorno dopo ridisperde nel Salento i tamburellisti; ridisperde in tutta Europa i loro figli; divide ancora la gente in individui singoli perfino nel tempo libero, buoni per essere riconsegnati ai televisori. Di tamburelli e pizziche neppure parlarne, se non tra gente sicuramente fidata.

Giovanni Pellegrino

Torrepaduli 1983  foto Fernando Bevilacqua

 

Intervista di Giuseppe Corvaglia a Giovanni Pellegrino

  • Gli articoli che abbiamo proposto sono stati sempre per me un punto di riferimento specie il concetto di festa intesa come lavoro liberato; d’altronde vengo da Spongano dove la festa di comunità più importante, “Le Panare”, sono proprio questo perché la panara non la puoi delegare, o la fai o non la fai e farla vuole dire: approntare il necessario, acconciarla, condurla nel corteo… ma il gusto sta proprio lì e se si fanno 30-40 panare vuol dire che ci sono in ballo 30-40 gruppi cioè una comunità intera. In questo senso gli articoli mi sono sembrati attuali e degni di essere riproposti anche a distanza di quarant’anni.

Oggi la tendenza è quella di consumare gli eventi, quasi di bruciarli. Ci dobbiamo rassegnare a questo consumismo edonistico oppure dobbiamo tutti riflettere e riappropriarci di questo modo di sentire la festa?

Non dobbiamo assolutamente rassegnarci a questo.

Intanto riconsideriamo le cosiddette feste, dico cosiddette, perché in antico si distingueva la festa dallo spettacolo. La festa la si fa; i partecipanti la fanno, la vivono, la usano. Chi la fa, la consuma mentre la fa e la fa prendendone parte attiva agendo o anche passiva, ma partecipando calato nella stessa.

Nella festa popolare c’è un soggetto collettivo forte, grande, esteso che opera e gli altri che partecipano.

Il bambino portato alla festa, per esempio, la osserva con attenzione, si incuriosirà, ma poi vorrà partecipare lui stesso.

Lo spettacolo consente solo la fruizione, ma non la partecipazione attiva, se non nell’espressione del consenso o del dissenso.

Se nelle feste patronali o laiche suona la banda o il gruppo musicale o ci sono i fuochi di artificio, non puoi fare altro che applaudire o dissentire, ma non puoi cambiare nulla, dire la tua, dare un tuo contributo…

Quasi tutti gli eventi che continuano a chiamarsi “feste” sono programmati con interventi più o meno spettacolari e quindi a rigore non sono vere feste, a differenza, per esempio, dei carnevali, delle pasquette e di simili occasioni.

Perché la festa spontanea si possa fare, bisognerebbe inventarsi delle situazioni che in qualche modo la permettano. Per esempio, ti parlo di alcuni progetti realizzati nei primi   anni 2000.

Uno di essi era “Filìa” meglio conosciuto come “I Martedì de lu Puzzu”, un’osteria dove si mangiava buona cucina casareccia e ottime pizze. Era un’iniziativa nata come estemporanea cominciata nel duemila e durata per 12 anni finché non ha chiuso. L’elemento caratterizzante, al di là della serata, era il padrone Uccio Caldarazzo, capace di gestire il “caos”, l’atmosfera fatta di contributi come poesie, canzoni, storie. Questa esperienza era un momento di festa, di svago in cui ci si ritrovava e si stava bene con il fantasioso e libero contributo di molti anche di semplici dilettanti, che per motivi personali non si esprimevano mai in pubblico.

Inizialmente era ridotta a un numero limitato che pian piano è cresciuto come fenomeno raccogliendo aficionados da tutta la provincia senza tuttavia perdere la sua impronta iniziale. Il bello di queste feste era che non sapevi chi potesse esserci, ma poteva succedere di tutto e ogni volta la situazione era diversa e dava spazio a persone che anche inaspettatamente potevano esprimere capacità artistiche che sarebbero rimaste nascoste o conosciute solo da pochi intimi. Si stimolava la partecipazione di ognuno e la curiosità di chi prendeva parte; in quel contesto ci si aspettava sempre qualcosa di particolare, di creativo. In dodici anni ci sono state più di 600 serate che non costavano nulla, non prevedevano la consumazione obbligatoria e accoglievano tutti anche fino a tardi.

Altra esperienza autogestita erano i “Martedì di Fonè”. Questa parola in grico significa voci, voci che vengono da lontano, indistinte; ci si ritrovava insieme in una casa, si mangiavano cibi preparati da noi. Anche qui la festa era data dalla ricchezza dell’incontro dallo scambio, dall’improvvisazione, salvo serate particolari nelle quali c’erano discussioni a tema, ma sempre con un rilassante finale festoso.

Altre esperienze ci sono state, come la “Puteca de mieru” di Minervino, alla quale prendevano parte sia artisti affermati sia dilettanti o persone capitate lì per caso animando le serate in modo imprevedibile e autogestito.

Come ho detto molto dipende da un gruppo che riesce a tessere con leggerezza il caos della creatività estemporanea che è la ricchezza di questi eventi portandoli a una certa armonia, non priva di sorprese. Altro protagonista di tutto questo è il cibo elemento importante dello stare insieme.

Giovanni Pellegrino

 

I latini usavano il termine “convivium” che vuol dire vivere insieme mangiando.

Dal momento che il tempo libero si ha più facilmente verso sera, nasce ovviamente il problema del cenare… Vedersi prima o dopo?… Il cibo condiviso svolge a quel punto un ruolo importantissimo perché consente di fermarsi, di non andare via di fretta per andare a mangiare in casa, oppure di arrivare tardi dopo aver mangiato.

Certo la frequentazione di ristoranti o osterie ha un costo che non tutti possono affrontare. La soluzione ottimale sarebbe portare ciascuno qualcosa, come si faceva a Foné. In tal caso il cibo condiviso con gli amici ha un valore aggiunto speciale, particolare: esso diventa anche “messaggio” personale tra i convitati come una “freccia” scelta dalla faretra per fare colpo, per stupire.

Concludendo, la festa la fa chi è presente, la gente che interviene, che si incontra e dipende dall’incontro delle persone che partecipando e incontrandosi evocano curiosità, gioia, emozione, sorpresa: insomma fanno festa.

 

  • L’esperienza del Ritorno a San Rocco nasce da fermenti nuovi in quegli anni in cui si facevano strada esperienze come il Canzoniere Grecanico Salentino, ma nascevano anche tante compagnie popolari di teatro e di musica e, cosa di non poco conto, anche le Università cominciavano a considerare il fenomeno.

Come nasce il Ritorno a San Rocco?

Sono occorse molte casualità, e certamente, come hai detto, c’erano molti fermenti, ricerche, riproposte e poi c’erano feste politiche, nuovi interessi a fare una festa popolare. Tuttavia, S. Rocco, per la specificità della ronda e soprattutto per la danza della “scherma” era del tutto misconosciuta. Fino all’81 non era mai apparsa nelle cronache, spiegata; anzi, molto a torto, era oggetto di pregiudizi. Si è rischiato seriamente di perderla.  E con essa il suo strumento principe: il tamburello.

Infatti, la riproposta era nata da ambienti “colti”. Da gruppi che curavano meticolosamente il loro messaggio, facevano spettacoli, dischi, insomma cercavano di trovare in quell’ambito artistico il massimo di perfezione, di visibilità e anche una prospettiva politica ed economica. La spontaneità della partecipazione a San Rocco non dava tutto questo. Quindi non interessava, agli assessori, o a persone culturalmente affermate; di conseguenza affondava sempre più nel degrado, salvo sprazzi di grande qualità e impatto emotivo talvolta intravedibili…

Per esempio, i tamburellisti erano pochi, circa 5-6; ma non tutti insieme: erano persi in un mare di folla confusi tra le motivazioni devozionali verso il Santo e gli acquisti dei prodotti della fiera. Per esempio, i tamburellisti erano pochi, circa 5-6; ma non tutti insieme: erano persi in un mare di folla confusi tra le motivazioni devozionali verso il Santo e gli acquisti dei prodotti della fiera. Se, nel 1981, non fossi rimasto lì a lungo, fin all’alba, non avrei potuto cogliere quelle che erano tracce di un evento ormai in caduta libera.

Neanche io sapevo qualcosa di questa festa, salvo misteriosi racconti, ricordi di partecipanti che in passato da Zollino ci andavano a piedi o col traino, ma negli anni ’70 tutto ciò era pressoché finito.

Sono venuto a conoscenza di questa festa a Corsano. Nel ‘76 c’ero andato con Cici Cafaro per una festa politica. Purtroppo, il gruppo musicale in programma non si presentò e allora gli organizzatori, visibilmente costernati, ci pregarono di “fare qualcosa” in supplenza.

Accettammo.  Io, Cici Cafaro (contadino, poeta, creativo animatore di ritrovi amicali) insieme a un turista milanese con la chitarra e a un mimo coinvolto nella festa per gestire i ragazzini, imbastimmo frettolosamente in una mezz’ora un recital della durata di un’ora.  Ma Cici, gasatissimo, non volle scendere dal palco e tra culacchi, poesie e valzer suonati con l’armonica per far ballare la gente, arrivò a due ore… mentre io me la godevo in mezzo al pubblico…

Finita la festa i compagni di Corsano, grati ed eccitati, strizzarono i loro cervelli e tra il più e il meno di analisi politiche e culturali alla rinfusa a proposito di tradizioni e di spontaneità, mi parlarono di San Rocco a Torrepaduli, dicendomi di andare a vedere “assolutamente”; senza però entrare nei dettagli per la buona ragione che non tutto era loro chiaro: bisognava “studiare di più”.

Ma la festa di Torrepaduli è a ferragosto, tempo sempre denso di eventi (la festa dei Martiri a Otranto; dell’Assunta a Martano, ecc. e poi il richiamo del mare) e il vai-vieni di amici emigranti; così me ne sono scordato per diversi anni… sarà per l’anno prossimo, dicevo…

Nella primavera dell’81 ci fu un colpo di scena.

Mi trovai coinvolto in quello che appariva un affascinante progetto, colmo delle migliori promesse: “Il Ragno del Dio che danza”. Era un momento felice di sinergie tra istituzioni comunali della Grecìa Salentina, Università e cultura popolare… Purtroppo alcune cose andarono storte; le polemiche affondarono gran parte delle valenze di quel lavoro e io persi interesse al suo risultato finale e me ne andai. Non senza aver capito che bisognava fare meglio e subito, prima che istituzioni e cattiva politica rovinassero perfino il ricordo della nostra cultura originaria.

Così decisi che sarebbe stata la mia prima volta di S. Rocco, intuendo una scoperta e un insegnamento importante.  Nel frattempo feci una piccola ricerca e divulgai l’evento con un articolo su Quotidiano, il primo mai apparso su un giornale.

Articolo Quotidiano 1981

 

La mia impressione fu folgorante: mi trovavo di fronte a una vera festa, secondo una mia concezione.

La “vera festa” si ha quando i ruoli dei partecipanti non sono programmati e rigidi, pubblico/artista, ma aperti e intercambiabili: ognuno può dare il proprio “Sé”, la propria fisicità, il proprio talento, la propria personalità, permettendo agli altri di fare altrettanto, nel massimo rispetto. Questa modalità di partecipazione era la peculiarità di quella festa e, per una visione distorta da parte dell’intellighenzia che snobbava l’evento, si stava perdendo. Le autorità, ma soprattutto il clero, lo tollerava a malapena, quasi fosse solo fastidio e disturbo. Alla fine, si percepiva un dissolversi dell’evento e un accentuato abbandono. Ciò pregiudicava anche lo strumento musicale simbolo delle danze di S. Rocco: il tamburello; nonché la meravigliosa formazione a “ronda” nelle quali per tradizione si suona e si danza.

Per fortuna, c’erano i “resistenti” che si ostinavano a dare continuità, sia pur frammentata, all’evento.

Cito solo qualcuno: Antonio Metafune, oggi ingegnere, allora solo un ragazzo e Amedeo de Rosa di Torrepaduli; la famiglia “Zimba” con Uccio e Pino e pochi altri.

La ronda era piccola, ma sufficiente a mostrarne il funzionamento; si vedeva già il meccanismo con gli attori effimeri che venivano sostituiti da altri del pubblico ma niente di sontuoso, come era stato ai vecchi tempi e come si può vedere oggi. Ma che importa? La ronda basta a sé stessa…

Verso le due sono venuti i carabinieri per fermare la festa perché “si dovevano dire le messe”.  Con l’intervento dei Carabinieri si stava smobilitando tutto, e i suonatori e danzatori se ne sarebbero andati via…  Per fortuna tra il desistere o il continuare di un momento che mi appariva magico, prevalse il buon senso di spostarci dalle vicinanze del santuario di qualche centinaio di metri e ricomporre la ronda fino all’alba.

Tanto, per ricordare l’allora dominante atteggiamento di rimozione generale. Oggi non potrebbe più accadere…

  • Secondo te oggi queste esperienze sono archeologia dell’anima, cose del passato o esprimono soluzioni a problemi attuali che non sono cambiati? E potrebbero essere recuperate e assunte nel nostro stile di vita con consapevolezza?

Io penso che l’uomo, assolti i problemi d’obbligo rispetto al lavoro e alla famiglia, ami vivere in relazione con gli altri attraverso attività ludiche o culturali. Tra le tante, la festa esprime bene il bisogno conoscere e farsi conoscere, di raccontarsi, di rassicurarsi, di consolarsi. Diversamente si va in depressione, si diventa inabili, malati. Quindi giocoforza la festa va assunta allo stesso modo del buon cibo per stare bene o di una medicina per curarsi se si sta male. Ma la festa nasce da una certa cultura diffusa che contiene gli archetipi della pace, della convivialità, della solidarietà che vedo scomparire da un’epoca affannata da viaggi e comunicazioni digitali talvolta assurdi e di disconoscenza del vicino, quindi della base pratica della solidarietà naturale e facile e dell’accoglienza. Inoltre, non tutti amano la festa: siamo in presenza di culture e tendenze diverse; alcuni movimenti o correnti di pensiero facilitano la positività che è in noi; altre invece creano conflittualità e individualismo… E’ una scommessa da vivere facendo ciascuno la sua parte, conservando e potenziando nel territorio   ciò che dimostra di aiutarci a vivere bene, inventandoci anche nuove occasioni, in sostituzione di alcune che diventano obsolete o impraticabili: insomma il “lavoro liberato” di cui parlo, deve continuare a dare frutti. Tornando alla festa e alle ronde, questo sta già accadendo ed è abbastanza evidente. Ci sono già degli appassionati che fanno ronde anche in altre feste. Per esempio, i concerti di pizzica diventano collettori di costoro e alla fine del concerto “ufficiale” escono fuori i tamburelli, le armoniche e altri strumenti e la festa continua con le proprie forze.

Un’idea per il futuro, anzi già attuale, potrebbe essere un accorciamento della durata del concerto dal palco giusto per raccogliere le energie presenti sulla piazza e rompere il ghiaccio con un “la” qualificato per poi aprire la serata al coinvolgimento della gente, magari sotto la guida dello stesso gruppo musicale che ha suonato dal palco.

Con il mio gruppo a volte sperimentavamo tutto ciò già negli anni ’70: un tempo sul palco, un altro tempo tra la gente, vicino agli stand del cibo. Lo chiamavamo “la coda della festa” che esprimeva creatività spontanea, canto corale, vicinanza … Era questa, secondo me, la parte più viva e educativa della festa e nello stesso tempo ne determinava il successo.

Non parliamo di archeologia: un bisogno primario delle persone è sempre quello di conoscere e farsi conoscere; fare attività creative e vederle fare; apprendere e insegnare; cementare o rinnovare amicizie; mettersi in armonia. Per questo hanno successo delle situazioni che stimolano e liberano la creatività, la spontaneità e danno spazio a chi voglia mettersi in gioco.

 

  • Parlavo prima di Consapevolezza. Ti voglio fare una domanda che spesso mi faccio a cui non so rispondere: oggi il Salento è considerato dalla stampa nazionale e internazionale e viene definito come uno dei luoghi più belli del mondo, forse esagerando, ma noi Salentini siamo consapevoli della vera bellezza del Salento, della sua anima o ci stiamo adeguando a un clichè commerciale nato per promuovere questa terra?

Tra qualche mese uscirà un “saggio romanzato” sul Salento “La Tarantella di Hölderlin” scritto da uno degli artisti e intellettuali stranieri che ci frequentano da 40 anni e che conoscono il Salento forse meglio di noi: il tedesco Klaus Voswinckel, tradotto da Cesira De Vito per ItinerArti  Edizioni.

Sarà interessante conoscere direttamente un giudizio imparziale, nel bene e nel male e confrontarci con pregi e difetti che talvolta noi non vediamo.

Io l’ho potuto leggere in anteprima e ne sono entusiasta, anche perché il percorso di Klaus mi ha costretto ad approfondire vari aspetti della cultura europea e mediterranea  che ci riguardano più di quel che pensiamo…

Il Salento, il posto più bello del mondo? Oggettivamente tra qualità fisiche e vivibilità nelle relazioni umane forse lo è; quantomeno uno dei meno peggio. Mi convincono, non tanto la pubblicità interessata, ma le scelte consapevoli che fanno persone che hanno girato l’Italia e l’Europa e decidono di “sistemarsi” qui.

 

  1. C’è speranza per questa terra? E ci sono energie?

Speranza? Certo, sempre! Ma a una imprescindibile condizione…

Riflettiamo. Il Salento, di cui molti decantano il dinamismo culturale ed economico, non ha imboccato sempre percorsi virtuosi. Sviluppo quantitativo più che qualitativo; strade inutili; aree industriali debordanti, improbabili e distruttive del territorio, abbandono dell’agricoltura di qualità; le stesse “operazioni culturali” fatte più per le carriere di alcuni, che per una sobria e congrua affermazione di significati; sprechi; incapacità di formare grandi cooperative o soggetti associati nel mondo del lavoro; crescita della corruzione…  perdita di risorse umane di grande qualità, spinte ad emigrare per mancanza di attenzione; vedo insomma molte storture che tralascio di esaminare in questa sede…

Di questo passo, purtroppo, non vedo un grande futuro, perché gli errori prima o poi si pagano.

Se invece si compie una salutare correzione di rotta, penso che si possano aprire nuove e grandi prospettive.

Abbiamo infatti, per fortuna, un retaggio culturale di fondo diffuso e attivabile per salvarci.

Oggi qui corre un neologismo inaspettato: la “RESTANZA”; il contrario di partenza.  Ed è la prospettiva che ci si dà per restare, apprezzando le cose che ci sono. Ma anche monitorando disvalori e limiti, per superarli.

Tra i promotori della restanza ci sono associazioni come la “Scatola di Latta”, la “Casa delle Agricuture” di Castiglione, “Coppula Tisa” di Tricase, La “Rete km 0” che gestisce a Zollino il “To Kalò Fai” (= il buon cibo, in griko) Al solito le idee viaggiano se sono sostenute da grandi passioni e tanto lavoro.

Questa non è più la terra da cui scappare senza pensarci due volte, ma un posto in cui vivere più felici.

E’ giusto e importante anche partire, perché occorre viaggiare, per apprezzare meglio i valori e le cose dei tuoi luoghi e per imparare Io, per esempio, ho preso consapevolezza della bellezza e dell’importanza del Salento a Milano (ma anche in Africa, in Bolivia, dove mi sono trovato a lavorare benissimo, grazie anche all’essere salentino). Se non avessi frequentato la Comune di Dario Fo, Ciccio Busacca che cantava il poeta siciliano Buttitta ed altre realtà culturali al di fuori del Salento non avrei mai potuto apprezzare quelle persone che incontravo in piazza nelle osterie ben al di fuori dall’accademia, ma pregne di un sapere e arte popolare e di una saggezza antica meravigliosa che non erano molto distanti dagli artisti che avevo incontrato a Milano e che in questi decenni sono stati determinanti per cambiare l’immagine del territorio.

Ma è altrettanto importante restare e impegnarsi a migliorare la nostra terra.

Per restare però devi conoscere i valori, le cose belle dei luoghi, ma anche le cose che non funzionano quelle da cambiare.

Per esempio, le nostre risorse, che a volte sono in stato di abbandono o di degrado.

La nostra incapacità di associarci per imprese importanti.

La perdita di conoscenze artigianali e agricole significative

L’incapacità di dare alle risorse umane la giusta collocazione.

Non siamo capaci di cooperare.

Ci sono, però, anche molti fermenti di cambiamento.

Oggi crescono tante aziende agricole biologiche e a km 0 che hanno una mentalità moderna, diversa da quella dei contadini di una volta che se fossi passato vicino al loro campo ti avrebbero guardato male per paura che potessi fregare la loro meloncella. Oggi questi imprenditori di nuova generazione sono attenti alla produzione biologica e compatibile con il territorio e i mercatini biologici non sono solo momenti commerciali, ma sono anche momenti di scambio culturale, di animazione, informazione sull’agricoltura e l’alimentazione.

Il laboratorio “To Kalò Fai” a Zollino, gestito dalla Rete Km 0, è esemplare in questo: uno spazio di incontro in cui il cibo diventa il fulcro di attività gastronomiche, culturali ed esperienziali, come laboratori con i bambini, caratterizzate da attenzione alla biodiversità e alla sostenibilità. Ma ciò comincia ad accadere anche in aziende private o cooperative, quali Piccapane a Cutrofiano, la cooperativa “Karadrà”  ad Aradeo e il Laboratorio Rurale Luna a Galatone (le ultime due a egemonia femminile) solo per citare alcune realtà.

Sono disponibili altri spazi socializzati e socializzanti quali Manifatture Knos, a Lecce, grande “porto di mare” collettore di una miriade di iniziative…

Le energie verranno se cessa o si riduce l’emigrazione delle migliori risorse umane, ma anche dall’immigrazione, (come dire?) di qualità.

In ogni caso la scommessa è aperta e si basa su scelte personali o di gruppi che si stanno attivando con modalità e prospettive nuove, creando modelli nuovi, che non escludono antiche e collaudate buone pratiche troppo frettolosamente mandate al macero.

Insomma, fatemelo dire in massima sintesi, parafrasando l’indimenticabile musicista-barbiere Luigi Stifani: IO AL SALENTO CI CREDO!

 

La notte di San Rocco a Torrepaduli

Santuario di San Rocco a Torrepaduli

di Stefano Tanisi

Nella calda notte di Ferragosto a Torrepaduli di Ruffano si tengono i festeggiamenti in onore di San Rocco, che conservano intatto il fascino della tradizione. Dentro il santuario i devoti di San Rocco gli chiedono grazia o lo ringraziano per il miracolo ricevuto.

Nella piccola cappella continuamente si recitano lodi e preghiere, si bacia ardentemente e si accarezza il simulacro ligneo del Santo che lo rappresenta come un giovane pellegrino, con ai suoi piedi un piccolo cane che gli lecca la piaga sulla gamba, provocata dalla peste. È questo forse l’aspetto più spontaneo e squisitamente devozionale che non si è mai perso, che continua di anno in anno come succede da secoli. Fuori dalla cappella, invece, si svolge l’aspetto più magico e spettacolare: sotto il ritmo incalzate dei tamburelli si svolge la nota “danza dei coltelli”. Si comincia alle 23, dopo che la statua del Santo è rientrata nella sua chiesa, per durare fino alle 5 del mattino seguente, quando al primo suono delle campane si annuncia la prima Messa: così l’aspetto religioso prende nuovamente risalto rispetto a quello profano.

La “danza dei coltelli” consisteva appunto in un duello di coltelli, danzato a ritmo della pizzica salentina. La sfida avveniva fra le comunità Rom per la contesa del territorio e delle mercanzie, aspetto quindi che in origine non apparteneva propriamente alla popolazione torrese e ruffanese. Ora questa tipica manifestazione è simulata come svago.

Tra i più interessanti e storici documentari sulla “danza dei coltelli” troviamo il cortometraggio “Osso Sottosso Sopraosso. Storie di Santi e di coltelli la danza scherma a Torrepaduli” girato nel 1983 e realizzato da Annabella Miscuglio (Lecce 1939 – Roma 2003) e Luigi Chiariatti, con la regia di Annabella Miscuglio e le riprese di Nicolai Ciannamea.

Nel 2004, su iniziativa dell’Associazione Ernesto de Martino – Salento e il Comune di Ruffano, questo filmato è stato pubblicato per le edizioni di Kurumuny (Numero 11 – Quaderni dell’Associazione E. de Martino – Salento), allegato insieme ad un volume, dove si ricorda la figura della compianta Miscuglio (Per informazioni: www.kurumuny.it).

Libri/ Osso Sottosso Sopraosso

di Paolo Vincenti

E’ stato ripubblicato “Osso sott’osso sopraosso- Storie di Santi e di coltelli –la danza scherma a Torrepaduli” di Annabella Miscuglio e Luigi Chiriatti, per le edizioni Kurumuni-libri, di proprietà dello stesso Chiriatti, con il patrocinio dell’Associazione E.De Martino-Salento e del Comune di Ruffano.

Questa è una iniziativa editoriale un po’ insolita, come tutte quelle che riguardano Chiriatti, in quanto raccoglie una serie di interventi che abbracciano  un arco temporale molto ampio.

L’iniziativa, come spiega Chiriatti nell’introduzione del libro, in cui ricorda con affetto la studiosa, nasce da un debito di amicizia nei confronti della Miscuglio, che aveva condiviso molte esperienze con l’autore e che è scomparsa nel 2003.

Annabella Miscuglio, nata a Lecce nel 1939, scrittrice e documentarista, da sempre in prima linea sul fronte dell’impegno femminista, aveva iniziato realizzando vari cortometraggi sperimentali di ricerca su luce, forma e

Tarantolismo, il più noto esorcismo salentino

di Raimondo Rodia

ll tarantismo (o tarantolismo) è una sorta di esorcismo popolare che, sin dal lontano dal medioevo, spinge uomini e donne, che si ritengono morsi dalla tarantola ( grosso ragno ancora esistente nel territorio), a recarsi il 29 giugno in pellegrinaggio al pozzo presso la chiesetta di San Paolo a Galatina per essere liberati definitivamente dagli effetti del veleno che provoca nel malcapitato un languore mortale da cui si può essere liberati solo per mezzo della musica e dei colori.

Da qui l’uso di nastrini colorati (chiamati zagarelle) da legare al polso e di una musica ossessiva (la pìzzica) che induce ad una danza sfrenata intorno al pozzo la cui acqua è considerata simbolo di purificazione. La musica è suonata da un’orchestrina con chitarra battente, mandolino, violino e tamburello. Gli orchestrali ingaggiati dai familiari dell’invasato recano normalmente a casa del tarantolato, per suonare e fargli venir fuori il veleno del ragno con la danza. Verso la soluzione della crisi la musica che accompagna il tarantolato ha suoni ora cupi, ora struggenti, che culminano in un crescendo di straordinario effetto.

Le tarantolate un tempo, si recavano di buon`ora nella cappella di S. Paolo vestite di bianco e bevevano, almeno fino a quando il pozzo non è stato chiuso per ragioni igieniche sanitarie, l’acqua del pozzo dove c’erano anche dei serpenti.

Si lanciavano in una danza sfrenata al suono del tamburello fina a stramazzare al suolo vinte dalla fatica. La cura poteva durare anche diversi giorni. Il ricorso a S. Paolo è effetto della sovrapposizione del culto cristiano a quello molto più antico pagano dei serpenti.

Anche la tarantola rappresenta un animale totemico le cui origini si perdono nella notte dei tempi e sono anteriori al menadismo, al coribantismo ed alle feste dionisiache a cui il tarantismo rimanda per gli aspetti orgiastici. Il tarantismo è un fenomeno che emerge su tutti.

Nella storia della medicina popolare salentina, esiste una connessione tra tarantati e i santi Pietro e Paolo che ricorda le visite ai templi asclepei dell’antica Grecia: anche in quel caso i malati si recavano al tempio dei protettori per essere guariti.

L’analogia non è casuale: profonda deve essere stata l’influenza della medicina greca nel Salento. Sotto l’aspetto diagnostico è difficile definire il tarantismo come fenomeno, anzi si è riusciti a classificarlo. E’ forse una specie di isteria, oppure la sua origine è da ricercarsi non in lesioni organiche neurologiche, ma in elementi antichi che hanno logorato e distrutto una psiche già debole a causa di fattori storico-sociali.

Gli attacchi si manifestano in maniera molto simile all’isteria e, secondo la leggenda, sarebbero provocati dal morso della tarantola. Non si riesce a spiegare però la periodicità delle crisi che durano anche decine di anni.

Si può dire che il tarantìsmo è un male culturale. Una volta, infatti, le donne che subivano frustrazioni per eccesso di fatica, povertà o tabù sessuali, non potevano fare altro che rivolgersi a S. Paolo per liberarsi dal male.

San Paolo, in particolare, era considerato il Santo dei poveri e il protettore dagli animali striscianti (serpenti, scorpioni, ragni, e quindi anche la tarantola).

Similare nel Salento, la danza delle spade un antico duello rusticano, un tempo eseguito con coltelli che oggi viene riproposto. I duellanti, mimando i coltelli con l’indice della mano nella piazza di fronte al santuario di San Rocco a Torrepaduli di Ruffano, si mettono in cerchio formando le cosiddette ronde e si fanno accompagnare dal sottofondo incalzante della pizzica. Si suona e si balla dal tramonto del 15 agosto per tutta la notte fino all’alba del 16 giorno dedicato al santo.

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