Libri| Litanie dell’acqua

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Dell’acqua che scava, dell’acqua che spezza, dell’acqua che sazia…della lotta e del simbolo nella poesia di Daniela Liviello

 

di Stefano Donno

 

Ho avuto modo di conoscere e apprezzare la poesia di Daniela Liviello già in un volume edito da Manni e dal titolo “Il rovescio delle foglie”. Classe 1955, nasce a Taviano ma vive per molti anni in Lombardia, sentendo costantemente nel trascorrere del Tempo il richiamo della sua terra, il Salento, terra madre ancestrale, magica, archetipica, oscena ed obliqua, che con le sue seduzioni lascia nella poetessa un non so che di amaro, relegando la sua nostalgia in una dimensione narcotica di desiderio e abbandono, per un ritorno forse impossibile, ma decisamente sentito per ogni suo centimetro di pelle. La poesia della Liviello ti rimane impressa e non puoi dimenticarla, non ne puoi fare a meno, se sai di cosa stai parlando, se conosci tutto quel retroterra simbolico, poetico, di cui si è nutrita e che fa parte di una memoria collettiva lirica che appartiene non a un sud del sud del mondo generico, no…tutt’altro! Esso è l’esplodere ritmico del veleno della ragna tarantolante e del mare di Idrusa, è l’avvelenata di Antonio Verri che s’aggrappa tenace al sogno del “fate fogli di poesia poeti…”, della rabbia demonicamente barocca di una Claudia Ruggeri, di un odio benevolo di un immenso Salvatore Toma verso la creaturalità bestiale e blasfema che si annida nelle notti di luna piena sulle scogliere di Badisco, sulle menzogne dei vicoli e delle chiese di Lecce. Questa poetessa i suoi versi li scrive col sangue, questa poetessa sa gestire con garbo le bizze della nostalgia vigliacca che colpisce alla schiena, gioca con furia dolente al mortale piacere della Poesia, di quella che si fa a muso duro, cha sa quanto sia splendido un poeta che non balbetti e che sicuro s’aggiusta le vesti sul palco della vita, e comincia a dirla tutta, scegliendo le parole, misurando le pause, perché nulla sfugga di ciò che bisogna dire, di quanto occorra fornire sul piatto della bilancia, prima che il Destino chieda il conto, senza porsi il problema se salato o meno. Dunque Daniela Liviello a oggi sembrava aver scelto quella purezza della scrittura incarnantesi nello spazio invisibile dell’oblio e dell’inconscio, quasi che fosse ancora aperta la “battuta di caccia” verso un percorso identitario, non perché lacunosamente mancante, ma perché per stessa consistenza dell’oblio impossibile a definirsi. Potrebbe forse trattarsi di una strizzata d’occhi a Freud, ma gli psicologismi della metrica, è bene lasciarli ai salotti. Questo offriva un tempo la poetessa. Ora in un distillato per versi Daniela Liviello presenta al lettore una preziosa raccolta dal titolo “Litanie dell’acqua”. E non perde tempo a gridare con fierezza le sue radici, non perché si senta così lontana dalla sua terra

 

 

 

da sembrare addirittura straniera in patria, anzi è una questione di sangue che ribolle e schiuma: “Sono nata qui//sulla pietra in fondo alla via//sul ramo più alto di gelso//maturo//o sulla foglia d’ulivo in mezzo ad un campo//e nel vicolo stretto//che porta alla croce//all’incrocio fuori dal centro//in mezzo alla piazza più grande//nel cortile tra gerani//canzoni//sui gradini della chiesa più vecchia//sul campanile di quella abbattuta//sul fiore di cappero//appeso al muretto//sul filo pesante di panni che asciugano//”. Detta così sembrerebbe un affresco degno di una cartolina, di una foto ricordo. Non è un caso che precedentemente si sia parlato di una poesia che guarda alla tradizione antropica del Salento in maniera precisa, che respira e rende la costellazione di senso dei contesti a queste latitudini in maniera magistrale, perché lo fa con la stessa dignità di un canto di lotta, di emancipazione, di oltrepassamento dal metallo vile all’oro. Insomma un salto di paradigma. Già perché sui gradini della chiesa più vecchia nel cortile tra i gerani, c’é il lavoro etno-antropologico di Ernesto de Martino, e il verso oblungo di Vittorio Bodini. Il Bodini che canta il suo sud, quello della Liviello, il nostro, estremo lembo di terra dove la luce o acceca o succhia vitalità. Ma questa poetessa si lascia alle spalle Bodini, e tutti gli altri, si lascia alle spalle persino Rina Durante e Flora Russo, quasi a voler sottolineare che siano gli altri a dire se ne vale la pena o no resistere alla calura di queste latitudini. Perché nel torpore dell’immemorialità, nel caldo della dimenticanza, forse una via di fuga, una scappatoia, per quanto angusta e difficile possa essere, sta nel fatto che prima o poi il mare lo si incontra, o meglio lo si affronta. L’esito dipende da quanta voglia di vivere scorra in corpo, perché la posta in gioco è alta, ma il premio enorme: “La fortuna di essere nati vicino al mare//è pietra che affiora//nel terreno spietrato//. Ostinazione://sentirmi congiunta al tutto.// Come la macchia qui intorno//inerpicata nella lieve salita//mediterranea//poi discesa a toccare l’acqua//nel motore spento della mia generazione//”. E ancora:”Qui ci sono voci d’acqua//e scivolano piano://sarà il fiato della sera//o la nera linfa del giorno//che si spegne//nell’ora che tentenna dubbia//e incerta.// Se la notte intanto incardina//origlio ombre del dormiveglia//accudita da nebbiose forme//dell’andare incontro a qualcuno//che mi chiama.// Voci d’acqua scivolano piano//a tratti// un canto scorre.// […]”. La poesia di Daniela Liviello non si nutre di finezze o sfarzi nella scelta del ritmo, si basa più che altro su un’attenta calibratura del respiro, che pare tanto naturale da accordarsi repentino al battere d’un cuore indomito, mai pago di desiderio e passione. Non ci troviamo dinanzi all’elencazione pedissequa di stati d’animo che s’ingrigiscono col passare dei giorni, dei mesi, degli anni, e che ammazzano, soffocano, uccidono la gioia, uccidono la voglia di creare e ri-crearsi. La poesia di Daniela Liviello non si nutre di bagliori, lei trasforma i bagliori in temporali, la

 

 

 

poesia di Daniela Liviello è luminosità incandescente, fatale, sacra difficile da dimenticare, difficile da perdonare!

Daniela Liviello è nata a Taviano, nel Salento leccese. Suoi interventi e testi di narrativa sono apparsi su riviste e lavori collettanei; sue poesie sono state pubblicate nell’antologia alchimie poetiche tra memoria e sogno ( Pagine )

e dalla rivista internazionale <poeti e poesia>

Per Piero Manni edizioni ha pubblicato le raccolte E madonne sorridenti e

Il rovescio delle foglie. E’ presente nelle antologie poetiche Parole Sante 2015-2016 per Kurumuny edizioni e nell’antologia A sud del sud dei santi per LietoColle edizioni, che raccoglie la poesia pugliese più rappresentativa degli ultimi cento anni. Le sue prime raccolte sono state recensite su Poesia, rivista di Nicola Crocetti, dal critico Fabio Simonelli e da L’immaginazione, rivista di letteratura diretta da Anna Grazia Doria.

Il suo ultimo lavoro è Litanie dell’acqua per LietoColle edizioni.

Libri| Parole sante. Versi per una metamorfosi

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Daniela Liviello

“ma ormai

senz’ombra

senza pietra come

come farò a sapere

dove sono, fino a che punto sono morto

o vivo…..”       Vittorio Bodini

 

Il fuoco è spento, il vento si è quietato, l’alba si stiracchia, si stropiccia gli occhi.

Saliamo sulla pietra più alta per guardare il nostro campo, cosa resta dopo l’ennesimo incendio doloso.

E’ tanto amato questo campo, questa terra che rinasce scostando le tende grigie di fumo. Riprende a scorrere la linfa, riprende l’affanno delle formiche, le mani tornano a ricomporre un’armonia di pietra.

Anche quest’anno 2016 i versi si raccolgono in antologia. “Versi per una metamorfosi”. Kurumuny edizioni.

Il ricavato della distribuzione dell’ antologia 2015 è diventato ulivo: nell’orto sono state messe a dimora ottanta piante della specie ogliarola.

Ventidue poeti di ogni regione hanno composto ispirandosi ad un verso tratto dal “Canzoniere della morte” di Salvatore Toma, il poeta di Maglie: A me Dio piace indovinarlo//in una pietra qualunque.

E a noi piace pensare che Salvatore Toma abbia sorriso da lassù ascoltando le voci dei poeti che a lui si sono richiamati.

Tra le pietre dell’Orto dei Tu’rat

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Daniela Liviello

 

Io avevo una pietra

e questa pietra aveva un orizzonte

e l’orizzonte un desiderio

di spaccarsi, di fendersi

in melagrana…..”         Vittorio Bodini

 

Il nostro Bodini, il poeta che ne LA LUNA DEI BORBONI scriveva:

“Sulle pianure del sud non passa un sogno” avrebbe incontrato un sogno di pietra

e di terra che aspetta un sospiro di vento; così voglio immaginare, pensare un suo sorriso mentre piano cammina tra le pietre dell’ Orto dei Tu’rat. E mi piace immaginare che avrebbe continuato la passeggiata tra ventagli di pietra con in alto la luna, vecchia signora che scosta le tende a guardare, con Antonio Verri, il poeta che ha ispirato la prima antologia poetica PAROLE SANTE, curata dall’associazione culturale Orto dei Tu’rat per Kurumuny edizioni.

“Parlava a pietre una sull’altra”. E’ il verso che ha ispirato i ventotto poeti presenti nella raccolta e che hanno seguito l’incitazione verriana del “fate fogli di poesia, poeti! “ Voci poetiche dell’Italia intera, dal “profondo” nord all’estremo sud hanno letto nel giardino “della pietra che ha un orizzonte” per ancora richiamare Bodini. Si, perché qui, nell’orto, la pietra sposa l’orizzonte e il vento umido di scirocco che, poggiando, libera il suo potere umidificante e fecondante la terra ed i suoi frutti.

Quando il vento si fa verso

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di Daniela Liviello

Puoi ascoltare infinite narrazioni, danzare con le Muse tutte quante se provi a fermare l’affanno, interrompere la corsa, rallentare il passo.

Puoi udire il passo lento del tempo che piano accarezza le piante e le pietre nel giardino delle mezze lune, nell’Orto dei Tu’rat, dove il vento si adagia, s’incanta, s’inventa occhi per qualche lacrima da donare alla terra; questa terra, la nostra, che conosce la sete, le lunghe attese e il silenzio della solitudine.

Appena oltre l’ampio, agevole ingresso, il visitatore sente l’abbraccio, il dono di un largo sorriso, quello delle pietre disposte a ventaglio.

Qui è di casa la poesia.

Qui la poesia ha i piedi per terra e cerca l’orizzonte, annusa l’aria, si abbevera di luce, respira col geco e la farfalla, cresce col filo d’erba tra le pietre.

Qui già progettare nuovi, antichi metodi di coltura e rispetto della terra e dell’uomo, già il progetto è alta poesia. Non poteva essere diversamente tra gli ulivi e le gazze, il falco che si alza sui rovi e gli sterpi per fissare meglio la preda, il fiato delle lucertole che, attente, sbirciano tra le pietre prima di guizzare tra le fessure.

Qui la poesia ha i piedi per terra.

Le voci dei poeti ai Tu’rat sono vibrazioni del vento, onde di luce tra le pietre, spolverio della terra che si alza quando il vento gioca a inventarsi parole.

Le pietre ai Tu’rat dialogano con la luna, ti dicono che è giusto tornare perché qui abitano le Muse e le Muse amano i giardini, i campi aperti e la terra sincera. Qui si danno convegno e progettano canti, versi, danze.

Chi non ama l’ordine antico delle arti, l’ascolto attento delle voci armoniose della natura, la vibrazione della terra quando nasce la luna o quando il sole sorge impetuoso e si fa giorno, chi non ama se stesso e l’umano scorrere della vita intera, ha provato a mandar via le Muse, farle scappare, atterrirle con molteplici, furiosi, dannosi incendi. Più volte l’orto ha dovuto rinascere a nuova vita, più volte abbiamo sentito il grido delle Muse nostre madri, l’urlo disperato degli ulivi e delle piante, fiumi di fuoco hanno lacerato l’armonia.

Per poco. Poi le Muse hanno ripreso il loro canto e l’incanto, faticosamente, si, faticosamente, è tornato.

I poeti si ritrovano ancora nell’orto, ogni anno d’estate; distillano versi mentre i Tu’rat, sipari fantastici, si dispongono a ventaglio. E sono poeti che coprono l’intero stivale, arrivano nell’orto dal Friuli al profondo Salento, insieme a dare voce, canto, forza e sostegno al progetto e al sogno di un’umanità più solidale con se stessa e con la terra.

Anche quest’anno 2016, i versi dei poeti sono raccolti in antologia: PAROLE SANTE (versi per una metamorfosi) Kurumuni edizioni, perché ogni verso sia stilla d’acqua tra le pietre. Perché la poesia divenga respiro, sostanza, materia, nutrimento e pianta. Con tutte le sue spine.

Mezzelune fertili nell’orto dei TU’RAT

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di Daniela Liviello

Il Salento è territorio ad alto rischio desertificazione ma è percorso da venti che, attraversando il Mediterraneo, si caricano di umidità preziosa per imbevere i terreni aridi.

I TU’RAT, costruzioni arcaiche in pietra a secco, dati orientamento e forma a mezza luna, catturano il vapore dei venti di libeccio e scirocco che, condensando, penetra la terra rendendola fertile e produttiva senza emungimento meccanico del sottosuolo che, oltre tutto, darebbe acqua ormai fortemente salmastra dato l’elevato sfruttamento agricolo.

Nell’orto dei Tu’rat, magico luogo risonante di antiche, benefiche vibrazioni, sono presenti dodici mezzelune in pietra a secco, cioè senza uso di malta o altri materiali collanti dette, appunto, Tu’rat e conosciute già in tempi remoti da abitanti di terre aride che così hanno potuto realizzare oasi, frutteti e giardini verdeggianti.

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Il Salento è quasi interamente percorso, nelle campagne, da muretti a secco che delimitano i poderi e segnano le vie campestri con le loro merlettate geometrie; notiamo alla base o fra le pietre crescere e verdeggiare infinite varietà di erbe e piante spontanee. Le mezzelune dei Tu’rat amplificano il potere assorbente data la particolare porosità della pietra di Alessano utilizzata per la costruzione, pietra che è la risulta dello scavo per la realizzazione, nel secolo scorso, dell’acquedotto pugliese quindi ancor più l’orto è un ecosistema altamente sostenibile.

Obiettivo dell’orto è il miglioramento dell’equilibrio ambientale attraverso la semina e la piantumazione di specie autoctone che non richiedono utilizzo eccessivo di acqua, difesa del territorio e riqualificazione dell’incolto.

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Il parco culturale-agricolo-ecologico è situato in agro del comune di Ugento ed accoglie il visitatore con la bellezza di uno scenario incantato dove le fate sembrano armonizzare silenzio e lentezza al riparo delle fantastiche dodici mezze lune in pietra che, sotto i cieli estivi, diventano sipario per le più svariate forme d’arte, dalla poesia alla musica al teatro alla danza.

 

Litanie dell’acqua

di GIUSEPPE CRISTALDI

 

E’ probabile che Daniela Liviello sia un fluido ignoto figliato dall’acqua.
Che non appartenga alla specie della carne. Al contrario, che veda nel suo stato accidentale dell’esistere, la pelle o la carta quali registro del suo trapassare la terra. Il che non è attraversare la terra, non è un passaggio superficiale sulle misture di materia cadute nell’estetica, ma un trapasso, una perforazione degli stadi o degli stati nel mezzo dei quali vorrebbe fottere tutti gli astanti, sperdendosi.

Questo è quello che si percepisce quando tesse le sue litanie dell’acqua. S’avverte un accordo segreto con la terra, una terra a cui imputa dolori laceranti, ma in fondo una terra che le si è divaricata davanti come la peggiore ninfomane, nel medesimo istante in cui rabbia da un lato e precarietà storica dall’altro si fondono nell’identità. In più subentra uno stato di disarmo, avviene la verità, ovvero il perfetto coesistere tra dire umano ed espressione del creato; la verità che ti aspetta e non ti aspetta, nel mentre che la poesia si manifesta.
E’ probabile che Daniela Liviello sia di un fluido ignoto figliato dall’acqua.
Un flusso che faccia la spola fra due luoghi al fine di assegnare, assegnarsi, una provenienza.
Se non fosse che si ha, leggendola, lo stagnare tempestivo di una nostalgia, un dolore, insomma, un sentimento che vorrebbe ricondurre tutto alla sua origine. Gli uomini agli uomini, la terra alla terra, l’acqua all’acqua. In questo scocca la sua necessità, ovvero l’annullamento del vizio onomastico: chiede di non possedere nome perché dove il suo nome nasce, ella muore. Lo fa forse per poter essere ogni cosa e se stessa allo stesso tempo e quindi consegnarsi ad un flusso creativo che non implichi inani distinzioni e categorie.
I fogli, il compromesso mal sopportato, ove avere la misura del suo viaggio, non sanno scansarla dall’essere il passero che vola tra i limoni la cui sofficità non è inferiore ad una neve settentrionale, o il fiore diruto che galleggia e passa sullo stagno muto. Daniela c’è sempre, proprio per non esserci più. Così affermandosi, il libro di assenze che annovera ogni giorno, si popola, e la solitudine che prima ne derivava ora è una folla che denuncia l’assenza della donna che scrive.
Un’assenza che ha il sapore di pubblico sacrificio, pubblica resa nella rabbia, come arrendersi per non dire l’odio verso una madre bruta, molesta, una madre che l’ha scalciata altrove, da parte a parte in luoghi più o meno voluti, una madre che le ha ammiccato di ritornare, salvo poi stravolgerla di silenzio. Silenzio e ancora silenzio; nessun saluto, nessun benvenuto, solo un calcio in culo novello, ma espresso nella modalità di una dolce prigionia, una catena attorta all’essenza ultima dell’amore.
Pensi ad un imbroglio pazzesco, per cui se prima era lei a perforare gli stadi e gli stati della terra, ora sei tu. Tu, inerme lettore, che ti ritrovi impigliato nel meccanismo, proprio quando la verità, da dietro le quinte, mette piede sul palcoscenico spietato di quello che sei. Ci vedi tutto, e non sai che definizione dare a questo spettacolo.

Io non so cosa mi leghi al comporre indomito e zitto di Daniela Liviello, non so quanto valga ciò che ho scritto, e quante volte arrivi a reiterarsi l’omicidio eppoi la resurrezione sequenziale delle identità. Non so dove finisca il nome della cosa, del luogo, e cominci quello della persona. Non conosco ancora il punto preciso in cui odio e amore facciano l’odio e l’amore, siano l’insieme perfetto. Non so quante paralisi si nascondano dietro un andare, e quanti passi costruiscano un isolamento.
Non so se quella nave e quelle centinaia di naufraghi lasciassero la terra, o la prendessero.
Di mezzo vi era qualcosa, di mezzo vi è sempre qualcosa, solo questo so.
Mi rimane di guardare la distesa mediterranea attraverso gli occhi della donna che scrive, intuire da un’alga, fare parola la salsedine, vedere le braccia che annegando salutano. Tace tutto, poi tutto è assordante.
La commozione, ecco, è la venere dei tempi nostri, la schiuma lo sa.
Il resto è il brusio della quiete scomposta, violata eppoi venerata dall’acqua stessa.

Orto dei Tu’rat, dal tramonto all’alba

di Fernando Bevilacqua

Il grande poeta salentino Antonio Verri (un autore incredibilmente ancora escluso dalle antologie dei poeti nazionali), guardando il paesaggio caratteristico della sue parti, scrisse: “Continua il dialogo con la terra, con una realtà di volta in volta essenziale, lineare, un po’ amara, un po’ magica …”.

In queste parole sono racchiusi i contenuti di una serata straordinaria che viene proposta

                                    Sabato 6 Agosto, dal tramonto all’alba,

presso l’Orto dei Tu’rat, un parco culturale/agricolo/ecologico, situato nel Comune di Ugento (Lecce), si terrà l’evento, dal titolo

  “PAROLE SANTE… soffiate, musicate, perdute tra vento e acqua”

Durante la lunga serata si ascolteranno poeti, musicisti e performer, si guarderanno video artistici, si potranno assaggiare prodotti del Salento e bere vini di Puglia.

L’evento dà l’occasione di visitare e conoscere la bellezza disarmante dello scenario proposto da l’Orto dei Tu’rat, in assoluta sintonia con il paesaggio e l’atmosfera ambientale circostante.
Entrando nell’orto ci si trova infatti di fronte a dodici mezze lune di pietra a secco immense, costruite con pietra di Alessano, e la prima cosa che a tutti viene spontanea è il silenzio. L’idea immediata di un vivere con lentezza, la suggestione di una natura impalpabile che respira e si mostra senza alcuna vanità.

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