La Grecìa salentina nell’atlante del Pacelli (1803)

di Armando Polito

Dopo essermi occupato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/26/lalbania-salentina-nellatlante-del-pacelli-1803-posseduto-suo-tempo-giuseppe-gigli-giallo-nota/) dell’isola alloglotta albanese così come appare nell’atlante dell’erudito di Manduria Giuseppe Pacelli, la stessa operazione farò oggi con la Grecìa salentina enucleando la parte relativa dal manoscritto i cui estremi il lettore troverà nel link prima segnalato.

carta 49r    

Descrizione della Grecia Sallentina

Come nella Diocesi di Taranto visono delle Popolazioni, che parlano un linguaggio straniero al comune di tutta la Provincia: così ce ne sono ancora alcun’altre nella Diocesi di Otranto. Quelle di Taranto sono di lingua Albanese, e queste di Otranto di Lingua Greca. Ivi nella Mappa deòò’Albania Sallentina ne osservammo i Paesi, e donde mai avessero potuto un tal linguaggio imparare: qui nella Mappa della Grecia Sallentina faremo l’istesso.  Tredici sono i Paesi, che attualmente parlano il Greco, e sono Soleto, Sogliano, Cutrofiano, Corigliano, Zollino, Sternatia, Martignano, Calimera, Martano, Castrignano (detto perciò Castrignano de’ Greci, a differenza di Castrignano del Capo in diocesi d’Alessano), Mepignano, Cursi, e Cannole. Ma in Soleto, ed in Martano si mantiene maggiormente in vigore, ove al cuni del Popolo né parlano, né intendono altro, che il solo greco; mentre negli altri Paesi va di giorno in giorno degenerandoo la lingua, e più frequentemente del greco parlano l’italiano. L’origine però di tal linguaggio in questi Paesi non lo dobbiamo mica ripetere da tempi della nostra Magna Grecia. Poiché sebbene per la vicinanza a tal Regione ne avesse tutto il Sallento imitato il linguaggio; coll’esser però insieme colla Magna Grecia anche tutta questa Provincia caduta in poter de’ Romani, ne adottò col tempo, lasciata la propria, insieme col costume, e colle leggi, anche la lingua de’ Vincitori. Io assegno per epoca, e credo di non ingannarmi, il tempo, in cui passò ad esser Capitale dello Impero e del Mondo la città di Costantinopoli, per essere divenuta la residenza de’ Cesari. L’invasione, che i Greci Orientali allora fecero della nostra Provincia, fece ritornare fra noi la lingua Greca. Nella nostra Biobiblografia Sallentina ci occuperemo alla lunga di tal punto: e qui solamente osserviamo, che essendo cominciati nella nostra Provincia, a divenir promiscui i due riti latino e greco nella sagra Liturgia; e tanto più che alcune Scuole di Greca letteratura fra noi facevano dello strepito, e ne fomentavano la coltura, fu duopo1 alla fine, che tutte le Chiese del Sallento adottassero totalmente il rito greco, in vigor dell’Editto dell’Imperador Niceforo Foca dell’anno 968, con cui si ordinò che in tutta la Puglia, e nella Calabria in greco i divini uffici si recitassero. Allora fummo tutti di un sol linguaggio, perché era uniforme tanto a quel del Governo, che della Chiesa. Le note vicende quindi accadute, e le invasioni, che fecero in seguito delle Provincie dìItalia straniere selvagge Nazioni, sebbene linguaggio mutar facessero all’Italia tutta, dentro di cui uno particolr ne nacque, qual si fu l’Italiana favella, pur tuttavia serbassi nella nostra Provincia pe ‘l rito Chiesastico il Greco. E ne abbiamo veridiche notizie specialmente della Chiesa di Soleto (antichissima Città per l’origine, e di gloriosa ricordanza, per aver dato il nome di Sallenzia a questa parte di Provincia), in cui da Padre in Figlio per più di un secolo la Famiglia Arcudi occupò la carica di Arciprete Greco nella Chiesa Soletana. Or l’ultimo di tali Arcipreti di rito greco, e primo di rito latino fu il dotto Antonio Arcudi, che morì nel principio del secolo XVI dopo aver pubblicato in Roma per ordine di Papa Clemente VIII il suo Breviario Greco.

 

carta 50v

 

Sul finire dunque del secolo XV dovettero le nostre Chiese abbandonare a poco a poco il greco, adottare il rito latino, e cessare un tale linguaggio in Provincia. Que’ luoghi però, che oggi formano la Grecia Sallentina, sebbene per uniformarsi a tutti i Paesi vicini, usassero anche per la Chiesa il Latino, ritennero però per lor linguaggio il greco, ed insieme coll’Italiano lo serbano tuttora, comecché molto allontanato dalla natia purezza.    
carta 51r                                                                                                                                                                     (per un’agevole lettura della mappa cliccare di sinistro e una seconda volta quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento)

 

Mi congedo dal lettore con le stesse amare considerazioni con cui chiudevo il post sull’Albania salentina; anche il griko, nonostante le lodevoli iniziative locali di sensibilizzazione e conservazione, è destinato a morire, sopraffatto inesorabilmente dall’assalto dei nuovi (ma non tanto …) media, tv in primis, dal pregiudizio imperante secondo cui piccolo non è bello (belle le multinazionali!…) e dalla globalizzazione. Tuttavia debbo rivendicare al Pacelli un primato. La sua ipotesi sull’origine del griko precede di parecchi anni una corposa bibliografia che annovera Griechische volkslieder in Suden von Italien pubblicato nel 1821 da K. Witte sulla rivista  Geselischalter (articolo, però, dedicato al grecanico, cioè al greco di Calabria) e poi, via via,  i contributi di Domenico Comparetti (Saggi dei dialetti greci dell’Italia meridionale, Nistri, Pisa, 1866), Giuseppe Morosi (Studi sui dialetti greci della Terra d’Otranto, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1870). Si può dire che gli studi del Morosi costituiscono lo spartiacque  tra due scuole si pensiero che negli anni successivi si sarebbero affrontate non senza virulenza. Per il Morosi l’origine del griko era bizantina. Poi venne Gerard Rohlfs (Scavi linguistici nella Magna Grecia, Collezione meridionale editrice, Roma, 1933)  a ribaltare la teoria del Morosi (che nel frattempo era stata ripresa da Clemente Merlo, Carlo Battisti e Giovanni Alessio e che dopo la guerra sarà ripresa da Oronzo Parlangeli) sostenendo che il griko avesse un’origine molto più antica di quella bizantina, che fosse, cioè, il residuo della colonizzazione della Magna Grecia. La diatriba sulle due teorie si è via via congelata (anche per la morte  dei protagonisti) fino al 1996, anno in cui Franco Fanciullo pubblicò Fra Oriente e Occidente. Per una storia linguistica dell’Italia meridionale, ETS, Pisa, ETS. Il Fanciullo, originario di Cellino San Marco (questa nota che può sembrare campanilistica vuole essere una sorta di compensazione del fatto che un fenomeno di casa nostra è stato oggetto di indagine da parte di studiosi non locali, se si esclude il Parlangeli, o, addirittura, come nel caso del Rohlfs, stranieri), sulla base anche di principi tratti dalla moderna sociolinguistica, avanza un’ipotesi che rappresenta, in un certo senso,  un compromesso tra i due blocchi precedentemente descritti, giunge, cioè, alla conclusione che l’origine del griko non risale né alla Magna Grecia, né al periodo bizantino, ma al tardo-antico, cioè  imperiale perché, secondo il Fanciullo,  quando i Romani sconfissero definitivamente i Messapi, nel nostro Salento sarebbero arrivati sì i soldati di Roma, ma anche moltissimi greci.

Comunque siano andate le cose e per chiudere con un ulteriore briciolo di campanilismo (so benissimo che questo sentimento non va d’accordo con la neutralità della scienza, ma tant’è: ogni tanto bisogna pur cedere a qualche debolezza …), va almeno riconosciuto che il padre della teoria dell’origine bizantina non fu il lombardo, milanese Morosi ma il salentino, manduriano  Pacelli.

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1 Sic, per d’uopo.

Chiarimenti sull’attività estrattiva a Cutrofiano

parco dei fossili1

DA PROBLEMA AD OPPORTUNITA’… VEDI IL PARCO DEI FOSSILI DI CUTROFIANO

 TRASPARENZA E RISTORO PER LA NOSTRA COMUNITA’

 

L’Amministrazione Rolli ha approvato nel Consiglio Comunale del 4 Dicembre la nuova bozza di Convenzione con Colacem che, dopo la firma, sostituirà la vecchia Convenzione sottoscritta per il Comune di Cutrofiano dall’allora Sindaco Paolino Matteo nel 2005.

La Delibera di Consiglio arriva dopo che Colacem il 30 ottobre ha inviato una nota al Comune di Cutrofiano, con la quale l’Azienda manifestava la volontà di ritirare il ricorso pendente innanzi al TAR di Lecce contro il Comune di Cutrofiano, accollandosi tutte le spese legali, e di intraprendere un percorso di concertazione attraverso l’aggiornamento della Convenzione. Il motivo del ricorso è il mancato riconoscimento da parte di Colacem del vincolo da PUTT, oggi PPTR, rappresentato dal Canale Colaturo la cui fascia di pertinenza era interessata dal progetto di ampliamento della cava Don Paolo, presentato nel 2009 e con una superfice di scavo di circa 7 ettari.  Sul rispetto di questo vincolo l’Amministrazione Comunale non ha mai derogato tanto da indurre gli stessi Uffici Regionali a riconoscere la presenza del vincolo stesso, cosa prima negata.  Ora Colacem si dichiara disponibile a ridurre il progetto di ampliamento tenendo conto del vincolo, escludendo la fascia di territorio larga 150 metri dal Canale, sita a ridosso dell’area sud-ovest della cava, e soddisfacendo in questo modo l’interesse pubblico.

Sulla disponibilità ad aggiornare la Convenzione, l’Amministrazione ha rilanciato ottenendo l’impegno da parte di Colacem a concedere alla Comunita’ di Cutrofiano  € 200.000 per l’attività estrattiva del 2014, € 200.000 per l’attività estrattiva del 2015, € 150.000 per ogni ulteriore anno di attività estrattiva, rivalutabili annualmente secondo gli indici Istat; ulteriori 200.000 Euro dopo il rilascio del Decreto di proroga e di ampliamento da parte della Regione Puglia.

parco dei fossili 2

Rimane a Colacem  l’impegno a caratterizzare i siti storicamente interessati dalle attività estrattive e a redigere i Piani di recupero collaborando con l’Amministrazione Comunale. Viene fatto salvo anche l’impegno alla realizzazione di una rotatoria sulla provinciale per Maglie, all’altezza dell’impianto dell’AQP (opere terminali), punto critico in cui negli anni si sono verificati vari incidenti, anche mortali. In cinque anni, dunque, la comunita’ di Cutrofiano potrà avere risorse pari ad 1.400.000 che potranno essere utilizzate, a titolo di esempio, per la sistemazione di strade urbane o  di campagna, per la riqualificazione di aree periferiche oppure per interventi sulla Pubblica Illuminazione  per il risparmio energetico, che avra’ ricadute positive immediate sul bilancio Comunale in termini di risparmio di bollette da pagare.

Il Sindaco Oriele Rolli, a nome di tutta l’Amministrazione Comunale, esprime soddisfazione per una azione di concertazione che vede riconosciuto un importante ristoro alla comunità di Cutrofiano da parte di Colacem per l’attivita’ estrattiva che l’Azienda svolge sulla base di legittime autorizzazioni, che la Regione Puglia rilascia nell’esercizio delle competenze che la legge le attribuisce.

        L’Assessore                                                                     Il Sindaco

Maria Rosaria Cesari                                                               Oriele Rolli

LE FOTO ALLEGATE SONO PRESE DAL SITO CHE TI INVITIAMO A VISITARE: http://www.lameta.net/blogsalento/?p=787

 

 

Ancora attività estrattive a Cutrofiano (Le), come se volessero penetrare le viscere della terra

Cava estrattiva

di Paolo Rausa

 

‘Costruivano come se non dovessero morire mai e mangiavano come se dovessero morire all’indomani’ – così Empedocle nel V secolo a.C. a proposito degli agrigentini. Qui, nel Salento invece, un massacro del territorio lo definiscono le associazione ambientaliste (Forum Amici del Territorio, Italia Nostra sez. Sud Salento, Consulta Ambiente C.S.V. Salento, Forum Ambiente e Salute), preoccupate che l’attività estrattiva minacci l’ambiente naturale e la salute dei cittadini.

L’area che si teme possa venire ulteriormente e irreparabilmente compromessa si trova nel cuore del Parco agro-naturale dei Paduli. Che cosa accade dunque in questa area agricola e ambientale di pregio?

‘L’Amministrazione di Cutrofiano si appresta a concludere un vergognoso accordo con la Colacem, in danno del territorio, dell’ambiente e di tutta la comunità locale, per un obolo di 50.000 euro l’anno, il classico piatto di lenticchie, denunciano le associazioni. Si tratta dell’ampliamento di ulteriori 5 ettari della cava “Don Paolo”, che si aggiunge ai 22 ettari (con profondità di 30 metri) già interessati all’attività estrattiva di argilla per confezionare cemento.

‘Un patto scellerato, – incalzano gli ambientalisti – reso possibile dalle connivenze della politica locale, che ha trasformato questo nostro paese, dalle spiccate vocazioni agricole, turistiche e artigianali in una colonia mineraria, il cui materiale di scavo viene esportato in tutto il mondo senza regole e senza limiti, per dare profitto ad una singola azienda privata.’ La quale mostra sicurezza tanto da dichiararsi tranquilla sui tempi lunghissimi di attività che si protrarranno fino ad esaurire la vena dei materiali estratti. Che fine hanno fatto le promesse elettorali dell’Amministrazione Rolli  che dichiarava avrebbe messo in atto “una politica di controllo, di contenimento e, se necessario, di contrasto nei confronti delle attività estrattive”?

Una situazione che non sembra preoccupare le Autorità, a fronte dei dati contenuti nel Registro Tumori del Comune e del comprensorio da cui risulta una mortalità per tumori polmonari nettamente superiore alle medie regionali e nazionali. In particolare il progetto di ampliamento interessa un’area a ridosso del Parco dei Paduli e nella fascia di rispetto del canale Colaturo (classificato tra le acque pubbliche), di elevato valore paesaggistico, già respinto una volta nel 2011 dalla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale.

Che cosa chiedono i cittadini e gli ambientalisti con questa presa di posizione? ‘Una moratoria delle attività estrattive e una discussione pubblica sulla tutela del territorio che coinvolga i comuni vicini – incalza Gianfranco Pellegrino del Forum Ambiente Salute – Il grido di dolore per quest’ennesima ferita della terra giunga alle orecchie anche della Provincia e della Regione che impediscano ulteriori scempi del territorio, revocando l’autorizzazione all’allargamento delle attività estrattive! – conclude, con la speranza di trovare ascolto.

Cutrofiano e un suo conte del XIX secolo

di Armando Polito

L’argomento di oggi mi consente di esordire nel modo a me più congeniale spendendo qualche parola sull’origine del toponimo. In ricerche di questo tipo la corretta metodologia impone anzitutto di passare al vaglio le ipotesi altrui che abbiano un minimo di fondatezza scientifica, senza, tuttavia, trascurare anche le più fantasiose ed improbabili, dovessero essere anche le proprie, perché sarà poi il confronto scevro da pregiudizi di ogni sorta ad emettere il verdetto ultimo ma, il più delle volte, non definitivo.

Viviamo nell’era di internet e, perciò, fedele alle vesti del comune utente della rete, parto da quella che, come ho più volte affermato e provato, è considerata avventatamente una sorta di vangelo.

In wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Cutrofiano) leggo: L’origine etimologica risale al nome di persona greco-latino: Oecotrophius; o osco: Octufrius. La toponomastica riporta anche una derivazione collegata all’antica attività di produrre oggetti di terracotta, i cutrubbi, tipici recipienti di argilla (dal greco kutra, che vuol dire vaso), da cui Cutrubbiano, e poi Cutrofiano. Gli abitanti si chiamano cutrofianesi.

Sorvolo sul contorsionismo verbale che, almeno io, ravviso in l’origine etimologica risale e la toponomastica riporta anche una derivazione per stigmatizzare, ancora una volta, l’assenza totale della citazione di uno straccio di fonte; il risale, poi, fa credere al lettore che la relativa ipotesi sia quanto meno quella più accreditata.

Per sintetizzare dico che le ipotesi proposte, almeno quelle da me conosciute, sono tre:

1) Il cutrofianese Vincenzo Maria Maselli, sacerdote e cantore della locale parrocchia, nel suo Menologium storiographicum synopticum Parochiarum Hydruntinae Archidiocesis, s. n., Lecce,1858 afferma, in assenza di qualsivoglia prova documentale, che Cutrofiano deriverebbe dalla locuzione latina cultus Jani (culto di Giano) perché in prossimità dell’abitato sarebbe esistita una selva in cui si praticava tale culto.

2) Gerard Rohlfs in Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 (ma la prima edizione uscì a Monaco nel 1956-57) lo collega dubitativamente a cutrufu=vaso e rinvia a cutrubbu, senza fornire per l’uno e per l’altro etimo di sorta. Successivamente ritornerà sulla questione e più avanti ne esporrò gli esiti.

3) Il glottologo Giovanni Alessio in Problemi di toponomastica pugliese, Cressati, Taranto, 1955 respinge l’ipotesi, sia pure dubbia e parziale del Rohlfs e, sulla scorta di un Uttrofianum che compare in un documento del 1269 (in Testi e documenti di storia napoletana, I registri  della Cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangieri, I, 296, Accademia Pontiana, Napoli, 1950), peraltro citato dallo studioso tedesco nel terzo volume della sua opera1, ipotizza che Cutrofiano sia derivato da un personale latino-greco *Oecotrophius/*Οἰκοτρόφιος (leggi Oicotròfios)=(schiavo) nato in casa, come sarebbe successo per Vernole dal latino vèrnula, diminutivo di verna con lo stesso significato. Se fosse attestato, aggiungo per ora io, Οἰκοτρόφιος sarebbe derivato da οἰκότροφος (leggi oicòtrofos), composto da οἶκος (leggi òicos)=casa+τρέφω (leggi trefo)=; tuttavia va detto che lo stesso οἰκότροφος registra una sola attestazione, peraltro dubbia, in Dione Crisostomo, VI, 11.

Esprimo nell’ordine le mie osservazioni:

1) Il passaggio da cultus Jani a Cutrofiani dovrebbe comportare la seguente trafila fonetica: cultus Jani>curtus Jani>cutrus Jani>Cutrofiano. Se i primi due passaggi sono plausibili, non si comprende in base a quale principio fonetico (o a quale caso simile  attestato) sia avvenuto il passaggio -j->-f-. E poi, anche se fosse stato Cutrogiano, resterebbe da attendere il fortunato ritrovamento di qualche reperto archeologico che attesti il fantomatico culto.

2) Per quanto riguarda cutrùfu/cutrùbbu mi meraviglio che al Rohlfs sia sfuggito il latino tardo chytròpus/chytròpodos, trascrizione del greco χυτρόπους/χυτρόποδος (leggi chiutròpus/chiutròpodos)=pentola con i piedi, composto da χύτρα (leggi chiutra)=pentola+πούς/ποδός (leggi pus/podòs)=piede (vedi a tal proposito https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/07/il-furone-ovvero-quando-un-deposito-di-risparmio-non-costava-nulla/?preview=true&preview_id=21639&preview_nonce=66affce056). Cutrufu/Cutrubbu potrebbe essere deformazione del nominativo chýtropus inteso come appartenente alla seconda declinazione e non alla terza. Per lo spostamento dell’accento vedi il link segnalato. Lo stesso Uttrofianum (se la lettura è corretta, ammesso che lo sia anche la scrittura),per il quale il Rohlfs in Toponomastica greca nel Salento, Schena, Fasano, 1970, nota 33, p. 18 propone, sia pure dubitativamente l’origine da un *Octufrius gentilizio greco o indigeno o messapico, potrebbe essere, così, un ulteriore suo adattamento con lenizione fino alla scomparsa del ch– latino corrispondente all’aspirata greca χ– e con raddoppiamento, per compensazione, di –t-.

3) L’Alessio sostanzialmente ritiene che Cutrofiano sia un prediale, in linea con la regola in base alla quale i toponimi terminanti in –anus sono legati al nome di colui al quale in epoca romana con la centuriazione venne assegnato il territorio. Nulla impedisce che questo possa essere successo al discendente di uno schiavo nato in casa, ma l’onomastico ricostruito Oecotrophius non risulta attestato da nessuna iscrizione e neppure per Vernole è certo l’etimo proposto. Inoltre, considerando la questione sul piano strettamente fonetico, si dovrebbe ipotizzare la seguente trafila: Οἰκοτρόφιος>*Oecotrophius>*Oectrophianum (sincope di –o– e assunzione di suffisso aggettivale)>Uttrofiano (esito Oe->U- e assimilazione -ct->-tt-). Andrebbe tutto bene se si potesse in qualche modo giustificare l’esito Oe->U-, operazione che a me sembra disperata poiché il greco οι in latino è [per brevità due soli esempi: οἶνος (leggi òinos)=vino>vinum e, per restare in casa …, οἶκος=casa>vicus=gruppo di case, quartiere. Insomma, l’etimo proposto da Alessio sarebbe andato bene, al più, se avessimo incontrato Ittrofiano e non Uttrofiano. Per quanto riguarda il suffisso –anus, infine, va aggiunto che esso non riguarda solo il possesso ma anche altre caratteristiche, geografiche, economiche o di altra natura, legate al nome primitivo; il che significa che Uttrofianum, tenendo conto di quanto ho detto alla fine del precedente n. 2, potrebbe alludere alla produzione fittile ancora fiorente e per l’epoca antica attestata dai numerosi banchi di argilla ancora affioranti dal terreno e ancor più dalla fornace di epoca imperiale venuta alla luce in località Scacciato nel 2005, nonché da analoghi ritrovamenti in siti limitrofi.

Credo che da quanto fin qui detto il lettore si sia fatto un’idea sufficiente dell’ipotesi per me più attendibile.

Qualcosa di più concreto, invece, posso fornire sul duca, del quale riporto di seguito l’immagine reperita in http://bvpb.mcu.es/es/consulta/registro.cmd?control=UNAV20090006218

con la relativa scheda

La data (1860-1880) si riferisce al range temporale supposto in cui il ritratto fu eseguito. Il personaggio rappresentato è il generale Raffaele Fitou (non Fiton, come si legge nella scheda) d’Aragon (1802-1868), figlio di Pietro e di Maria Anna Filomarino duchessa di Cutrofiano suo iure2. Raffaele fu maresciallo di campo e aiutante generale del re di Napoli. Quanto al titolo, acquisito per parte di madre, a parte il fatto che il nostro è più comunemente noto come generale Cutrofiano, non so dire quali vantaggi concreti esso comportasse, se non diritti trasmessi per via ereditaria, nonostante, teoricamente, un duca di Cutrofiano non possa certamente competere con un duca di Lecce o di Otranto …

Noblesse oblige … ad accontentarsi, a volte, anche di poco (anche se molto probabilmente il nostro generale non vide mai Cutrofiano, nemmeno col binocolo …) e d’altra parte, per guardare in casa, il letterato neretino Antonio Caraccio (1630-1702) potè esibire il titolo di barone di Corano, un territorio di Nardò all’epoca presumibilmente pressoché deserto e in cui oggi dell’antico sopravvive solo una masseria in abbandono. Si sa, sic transit gloria mundi

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1 Per Uttrofianum il Rohlfs in Toponomastica greca nel Salento, Schena, Fasano, 1970, nota 33, p. 18 propone, sia pure dubitativamente l’origine da un *Octufrius gentilizio greco o indigeno o messapico; successivamente in Nuovi scavi linguistici nell’antica Magna Grecia, s. n., Palermo, 1972, p. 39 sembra aggiustare il tiro affermando: *OCTUFRIUS (dall’osco *OCTUFRI ‘ottobre’, che sopravvive nel campano ottrùfe ‘ottobre’.

2 A beneficio di chi voglia approfondire riporto in formato immagine tratta da https://archive.org/stream/alessandropoeri00poergoog#page/n399/mode/2up le notizie biografiche contenute in Alessandro Poerio a Venezia. Lettere e documenti del 1848 illustrati da Vittorio Imbriani, Morano, Napoli, 1884, nota 96, pp. 384-386:

 

Cutrofiano. In ricordo del grande cantore Uccio Aloisi

ciao-uccio

Al via la III edizione de “LI UCCI FESTIVAL” a Cutrofiano (Le) dal 2 al 5 ottobre

di Paolo Rausa


In ricordo del grande cantore Uccio Aloisi, torna a Cutrofiano dal 2 al 5 ottobre la III edizione de “Li Ucci Festival”: quattro giorni di mostre, convegni, incontri, workshops, arte, bike tour  e un concerto-evento finale.  Il 21 ottobre 2010 si spegneva nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Uccio Aloisi. La sua storia è  narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di sopravvivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi, quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare. Ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, il piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Uccio, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante, quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. Uccio, giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, era vegliato dai suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la leggerezza ironica, la prontezza di spirito,  la battuta sempre pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine ha lasciato tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Con le loro potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica, che provocava la danza taumaturgica, riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Quel canto che assume nelle cadenze il ritmo stesso del lavoro nei campi, quello dei contadini e dei cavatori, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva solamente nell’armonia musicale, un pulsare interiore che ha forgiato le esistenze e ne ha costituito la migliore testimonianza e il più  grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita intera alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno cantore delle genti diseredate del sud, che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare, aveva raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribollire il sangue. A rendergli omaggio si esibiranno musicisti, cantanti, danzatrici, artiste e fotografi, partecipando a questo evento organizzato da Sud Ethnic con la direzione artistica e organizzativa di Antonio Melegari che si chiuderà con un concerto-evento.  Accanto agli eventi musicali le mostre “L’Arte nel Piatto”, alcune mostre fotografiche, il Bar-Cultura a cura di Kurumuny, la presentazione de Le Salentine, una mostra di tamburi da tutto il mondo (circa 200 pezzi). Tutte le sere musica in diverse piazze e locali di Cutrofiano prima del concerto finale (sabato 5 ottobre – Piazza Municipio). Si parte mercoledì 2 ottobre con “Ricordando Uccio Bandello” e la partecipazione di Dario Muci, Cardisanti, mentre giovedì 3 ottobre ci sarà la Prima Nazionale dell’ensemble Battere Nuovi Ritmi con lo spettacolo Pelle in tono e all’esibizione di Antonio Castrignanò, venerdì 4 ottobre il festival ospita un omaggio a Narduccio Vergaro, l’ultima voce de “Li Ucci”, scomparso pochi mesi fa, con I 3 FraTi, la Compagnia di Scherma Salentina. La serata si chiuderà con l’esibizione del progetto “Io, te e Puccia” con un repertorio folk di  canzoni popolari. Info e programma su www.liuccifestival.it e tel. 377 6954833.

Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò

faenze nardò

Si svolgerà a Cutrofiano, p.zza Municipio, sabato 17 agosto 2013, h. 20.00, nella colorata cornice della 41 edizione della Festa della Ceramica, la presentazione del volume “Per uso della sua professione di lavorar faenze. Storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche a Nardò tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo” di Riccardo Viganò, con cui Edizioni Esperidi inaugura la collana “Biblioteca delle Esperidi” destinata soprattutto a studi sul Salento.

 

Intervengono: Oriele Rosario Rolli (sindaco di Cutrofiano), Tommaso Campa (ass. attività produttive), Nicola Masciullo (ass. cultura), Salvatore Matteo (Museo della ceramica di Cutrofiano), Claudio Martino (Edizioni Esperidi), Riccardo Viganò (Autore).

 

Si ringraziano i comuni di NARDÒ e GALATONE per il patrocinio morale sul volume. Si ringraziano per il patrocinio economico e morale: GRUPPO SPELEOLOGICO NERETINO e MUSEO della CERAMICA DI CUTROFIANO. Si ringraziano gli SPONSOR: CB-BOTTAZZO (Galatone), SIPRE (Cutrofiano), ITO (Galatone), LA MADRUGADA (Otranto).

 

IL LIBRO: “Per uso della sua professione di lavorar Faenze”: titolo preso in prestito dai manoscritti dove questa locuzione indica un’abitazione destinata ad ospitare la bottega di un ceramista. È proprio dai manoscritti che l’Autore inizia la sua ricerca, il cui scopo è quello di dare a Nardò il giusto peso e ruolo nella storia delle fornaci e delle manifatture ceramiche tra la seconda metà del XVI e gli inizi del XIX secolo. Il tutto senza avere la presunzione di realizzare uno studio esaustivo bensì con l’intenzione di aggiungere un importante tassello allo straordinario patrimonio storico della città neretina, rivelando un sorprendente ed inedito passato fatto di storie stratificate di intere famiglie di figuli la cui operosità di gente comune ha contribuito alla fortuna storiografica di questo luogo.

 

L’AUTORE: Riccardo Viganò, brianzolo di nascita (Giussano, 1969) ma salentino di radici lontane, vive a Galatone e opera come tecnico per la conservazione dei beni culturali. Dal 1998 è Ispettore Onorario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia ed è impegnato nella tutela e nella valorizzazione dei beni culturali del suo territorio occupandosi dello studio delle aree di produzione della ceramica post medievale e moderna. È autore di numerosi articoli apparsi su riviste, giornali locali e siti web. Ha pubblicato: Le ceramiche dal palazzo Marchesale di Galatone (2003), Ceramica post medievale da Galatone (2002), Le ceramiche post medievali della chiesa di S. Giorgio in Racale (2004), Primi dati sulla ceramica di Nardò (2008), Ceramisti di Nardò tra XVI e XVIII secolo (2009).

 

Sant’Antoni te le focare oggi a Cutrofiano


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Una tradizione più che centenaria conservatasi intatta nell’alacre cittadina commerciale e artigiana salentina. Ritorna anche quest’anno al centro della vita della comunità cutrofianese la tradizionale ricorrenza di “Sant’Antoni de le Fòcare”, in ricordo del miracolo con cui il santo di Padova salvò gli abitanti di Cutrofiano dal terremoto del 1810 che, a differenza di quello precedente e devastante del 1743, non fece in paese nessuna vitttima. Destata in pieno sonno dal sisma, la popolazione si era riversata nelle strade e aveva trascorso la notte all’aperto. A trovare conforto dalla gelida temperatura notturna, i cutrofianesi avevano acceso dei fuochi nelle strade e nelle piazze.

L’unicità della ricorrenza devozionale cutrofianese sta nel fatto che, nel celebrarla il 17 febbraio di ogni anno, la gente usi accendere dei falò in onore di Sant’Antonio da Padova esattamente come un mese prima, il 17 gennaio, in altre cittadine del Salento il popolo accende fuochi in onore di un altro santo di nome Antonio: Sant’Antonio Abate, figura di eremita e asceta del deserto egizio.

In particolare, il 17 febbraio di ogni anno a Cutrofiano ciascun vicinato accende il proprio falò che scalda e illumina ciascun rione del paese in ricordo degli avi afflitti e spaventati dal terremoto i quali, in occasione del drammatico evento sismico, avevano fatto la stessa cosa per alleviare la notte passata al gelo.

 

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È così, ancor oggi, Antonio da Padova continua a elargire il suo carisma e a meritare l’affetto dei cutrofianesi grati per quel miracoloso soccorso: una devozione condivisa con migliaia di devoti sparsi in tutto il mondo.

Per la verità Cutrofiano consacra al santo padovano due feste all’anno: la prima, questa, nella stagione invernale, il 17 febbraio; la seconda nella stagione estiva, il 13 giugno.

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“Anche quest’anno – ha dichiarato l’assessore alla cultura nonché vicesindaco del Comune di Cutrofiano Nicola Masciullo – abbiamo inteso assicurare il nostro sostegno finanziario e organizzativo alla doppia ricorrenza. L’Amministrazione Comunale ha manifestato la forte volontà di far sopravvivere questa sentitissima festività che valorizza l’identità religiosa e quella culturale dei nostri concittadini”. In effetti, la maggioranza guidata dal sindaco Oriele Rolli vuole accendere, insieme ai falò, una specie di faro per tutto il Salento che voglia recuperare le proprie radici. In margine alle “fòcare”, sarà possibile gustare specialità gastronomicne salentine accompagnate dal buon vino di Cutrofiano. Si tratta di pietanze tipiche preparate dalle varie associazioni culturali attive in città. I festeggiamenti culmineranno proprio con l’accensione delle “fòcare” nei vicinati e con il gran finale della “Fòcara” grande alle ore 19.00 in Piazza Municipio, dove ci sarà il concerto di musica popolare salentina dei “Cardisanti” (gruppo di musica popolare che annovera tra i cantori la figlia dell’indimenticabile Uccio Bandello , Uccio Casarano, ultimo degli Ucci, e il giovane Michele Bianco, grande promessa della fisarmonica italiana). Suoneranno inoltre i gruppi musicali di “Melegari e i suoi Compari” e dei “Calanti”.

Cutrofiano e le sue Denominazioni Comunali

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Cutrofiano: artigiani e commercianti guardano lontano

E’ stata una forte volontà di un gruppo di artigiani e commercianti di Cutrofiano quello di organizzare in sordina, un evento che guarda lontano ad uno sviluppo eco-sostenibile e soprattutto scevro da demagogie.

Si terrà VENERDI 15 ALLE ORE 19.30 presso il Salone Parrocchiale S. Giuseppe di Cutrofiano il primo e importante incontro di conoscenza sulle DE. Co. (Denominazioni Comunali), che già altri comuni utilizzano tra recupero culturale e possibilità di marketing territoriale e sviluppo per l’imprese.
Alla serata interverranno:
– Saluti Oriele Rolli Sindaco di Cutrofiano
– Prof. Roberto De Donno Docente di marketing e comunicazione presso l’Università LUM di Bari ed esperto De. Co.
– Dott. Vincenzo Ligori Storico e curatore della documentazione storica per la prima candidatura De.Co. di Cutrofiano “Sant’Antoni delle Focare”
– Dott. Francesco Pellegrino Sindaco di Zollino
– Avv. Roberta Forte Vice Sindaco di Galatina
– Avv. Antonio Spagnolo Responsabile progetto-evento
“De.Co.Gustiamo”
– Dott. Gianluca Bandello Responsabile marketing Mafalda (prodotto PAT e De. Co.)
Moderatori Roberto Donno e Dott. Antonio Magurano.
La serata ha come obbiettivo quello di mettere a conoscenza amministratori e intervenuti , associazioni o singoli cittadini delle opportunità di crescita vera a partire dal territorio comunale, già ricco di storia in tutti i settori della vita quotidiana.

La prima candidatura ad un marchio DE.CO. lanciata dal gruppo promotore è ” la focara te S. Antoni “ del 17 febbraio, in essa si è ritrovata ancora viva l’unità e l’orgoglio di un appartenenza territoriale in altre circostanze forse smarrita. E’ una grande opportunità e come tale tutte le componenti territoriali sono invitate ad essere presenti ed offrire il loro contributo certo che da esso e dalla sinergia che si può avere non può che nascere uno sviluppo sano e autentico che racconta la meravigliosa storia di un popolo e delle sue meraviglie.
PENSIERO DI GINO VERONELLI IDEATORE DELLE De. Co. : “Riprendiamo a vivere, senza violenza alcuna, con la sola accettazione di concetti elementari e proprio per ciò indiscutibili. L’uomo ha solo dalla terra ciascuna delle reali possibilità. Averne rispetto, chiederle di darci l’acqua e il pane, l’olio d’oliva e il vino, quant’altro è necessario per una vita serena, è l’unica via.”

 

In fuga dalla Terra d’Otranto: spunti sull’emigrazione salentina di inizio Novecento

 

di Alessio Palumbo

 

Con l’arrivo dell’estate le campagne tornano ad animarsi. La raccolta di pomodori, angurie e quant’altro, impegna una vasta manodopera, spesso immigrata. Povera gente che, in molti casi, fugge da condizioni sociali ed economiche terribili e cerca di allontanare lo spettro della fame lavorando nelle nostre campagne. Non di rado sono immigrati irregolari, pagati pochi soldi e stipati in alloggi di fortuna. Svolgono quei lavori spesso rifiutati dagli italiani, ma ciò non garantisce loro rispetto o solidarietà. Anzi, in molti casi sono esclusivamente additati come causa di disordini, come autori di atti criminosi. Sono degli indesiderati. Sono le “vittime” di chi ha una scarsa conoscenza delle proprie origini e della propria storia.

Troppo spesso, infatti, confusi da immagini edulcorate sul nostro passato, fermandoci alle rappresentazioni della campagna salentina come luogo sì di lavoro, ma soprattutto di feste contadine e di canti al ritmo dei tamburelli, dimentichiamo che anche i nostri antenati hanno vissuto l’emigrazione, lo sfruttamento, il disprezzo degli altri popoli.

da Come Eravamo: il mio Sud

Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900,  l’agricoltura del sud Italia attraversò un periodo di profondo regresso a causa sia di trattati commerciali dannosi per le colture del Mezzogiorno sia di periodiche crisi agricole, dovute tra l’altro alla diffusione di malattie parassitarie. A questa difficile situazione le popolazioni meridionali risposero, in molti casi, con l’emigrazione in Europa ed oltreoceano.

Nel Salento la crisi fu particolarmente grave, intaccando le due principali colture locali: la vite e l’ulivo. Dal 1892 in poi, interi uliveti furono colpiti da un’epidemia, la brusca, che costrinse i proprietari a sradicare numerose piante, facendole saltare in aria con la dinamite. Nel giro di pochi anni anche la vite fu infettata da una malattia parassitaria, la filossera. Ne derivò un terribile immiserimento per tutti coloro che vivevano del lavoro nei campi:la Terrad’Otranto divenne per molti una terra di disperazione.

Per tutto il primo quindicennio del secolo, una miseria terribile e diffusa impedì a gran parte del proletariato salentino persino di  racimolare il denaro necessario per emigrare oltre confine. Scriveva Francesco Coletti:

M’interessa segnalare una zona delle più disgraziate posta nel Subappennino (nei circondari di Lecce e Gallipoli), la quale ancora non fornisce emigranti: è gente isolata e denutrita, che ha paura dell’ignoto e persino stenterebbe a racimolare il peculio per il viaggio”[1]

Enormi masse di contadini cercarono quindi di sottrarsi alla fame e alla povertà spostandosi nelle campagne del brindisino, del Tavoliere e persino della Calabria. Nei borghi, flagellati dalla malaria e da periodiche epidemie di colera, rimasero le famiglie e quei pochi che potevano far a meno di emigrare. Come dimostrano le numerose inchieste dell’epoca e le denunce dei meridionalisti, gli immigrati dal basso Salento venivano alloggiati in posti di fortuna, costretti a lavorare dall’alba al tramonto, tra il disprezzo e l’astio dei contadini locali. Per i braccianti baresi e foggiani, spesso già organizzati in combattive leghe di lavoro, i leccesi erano soltanto degli affamatori che svendevano per nulla il proprio lavoro, causando così un abbassamento generale dei salari. Le carte prefettizie testimoniano le aggressioni ai danni dei contadini salentini:

“Queste immigrazioni […] danno luogo a incidenti fra gli immigrati e gli indigeni i quali temono ribassi nei salari. La cronaca deve registrare casi non infrequenti di violenze commesse a danno degli immigrati”[2]

“Gli operai giornalieri restano, di regola di notte alle masserie; le condizioni di ricovero variano da masseria a masseria. Nel migliore dei casi gli adulti maschi stanno in un locale, le femmine e i ragazzi in un altro. D’estate per molte masserie anche in siti malarici, si dorme all’aperto tutti quanti o tutt’al più in qualche capanna di paglia, nei cui angoli gli uomini si ammucchiavano”[3]

da Come Eravamo: il mio Sud

Chi rimaneva nei luoghi d’origine molto spesso viveva di stenti. Gli scarsi sussidi del governo, le cucine economiche per i più poveri, l’opera di alcune società di mutuo soccorso e di enti benefici, rimanevano semplici palliativi per una situazione drammatica. Alcune testimonianze dell’epoca possono rendere maggiormente l’idea:

“Prolungamento piogge e deficienza lavori campestri sindaco Cutrofiano invoca concessione sussidio per distribuzione generi alimentari famiglie povere e bisognose […] anche per evitare turbamento ordine pubblico”[4]

“Sindaco Alezio invoca sussidio per impianto cucine economiche a pro contadini disoccupati. Dalle informazioni assunte risulta che causa piogge abbondanti quei terreni sono tutti allagati e quindi effettivamente vi è assoluta mancanza di lavoro con conseguente miseria della classe dei contadini”[5]

“Comune Casarano ove giorno sei corr. verificansi caso accertato colera ed ove occorre intensificare profilassi così nel capoluogo come nell’importante frazione Melissano, essendo deficienti servizi come fu constatati da ispezione medico provinciale. Chiede sussidio”[6]

Fermiamo qui la narrazione. Sono solo degli spunti per riflettere su un passato spesso dimenticato. Volendo, potremmo interrogarci sul perché di questa dimenticanza: si tratta di un passato troppo remoto per essere ricordato? O forse  talmente duro da “dover” essere dimenticato?


[1]Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, 1911 in R. Villari, Il sud nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1981

[2]Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini meridionali e della Sicilia – Puglie, vol III, tomo I: Relazione del delegato tecnico prof. G.Presutti, Tip. Nazionale di G.Berterio, Roma, 1909, p.170, in. F. Grassi, Il tramonto dell’età giolittiana nel Salento, Roma-Bari, Laterza, 1973

[3]Inchiesta sui contadini in Calabria e in Basilicata, in F.S. Nitti, Scritti, Bari, Laterza, 1968, p.182

[4] Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 04/03/1910, in Archivio Centrale dello Stato, M.I. Assistenza e beneficenza Pubblica, 1910-12, b.21

[5]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 28/02/1910, ivi

[6]Telegramma del prefetto di Lecce al Ministro dell’Interno in data 10/01/1911, ivi

Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano

di Marcello Gaballo

Continua la fortunata serie dei Quaderni del Museo della Ceramica di Cutrofiano, che nel 2008 ha voluto l’11° numero, sempre in collaborazione con il “Dipartimento BBCC Lecce” Dipartimento di Beni Culturale dell’Università del Salento.

Tre sono i saggi offerti, dei quali il primo presenta i risultati emersi da una campagna di scavi condotta in località Piscopìo, nei pressi dell’area denominata San Giovanni dello Scafurdo, a Cutrofiano (Lecce), eseguiti sotto la direzione di G. P. Ciongoli, del Centro Operativo per l’Archeologia del Salento, e di P. Arthur, docente di Archeologia Medievale dell’ateneo leccese.

Come di consuetudine per gli scavi scientifici l’indagine è proseguita per fasi, dall’alto-medievale all’età romana-imperiale, fino alla fase protostorica. All’alto medioevo si fa risalire l’area cimiteriale con tombe a vista in buona parte soggette a saccheggio nei decenni scorsi. Un probabile fonte battesimale scavato nel banco di roccia tra diverse sepolture è l’elemento più insolito, sul quale si soffermano le Autrici.

Il saggio di Matteo e Viganò forse pone le basi per parlare seriamente della ceramica di Nardò, finora trattata molto fugacemente e in maniera frammentaria a partire da Nicola Vacca.

Lo studioso pugliese, riprendendo quanto esposto dal Castromediano, sottolineò l’affermazione dell’umanista Quinto Mario Corrado che la ceramica neritina poteva quasi stare alla pari con quella più celebre di Faenza. Ma nessuno, come giustamente scrivono gli Autori, se ne prese cura, e gli studi rimasero fermi per molti decenni. Si leggono nomi certi di “piattari”, tra i quali i calabresi Bonsegna e i Perrone, precisi luoghi di lavorazione e addirittura una via ad essi riservata, alle spalle dell’attuale chiesa del Carmine, corrispondente all’odierna Via Pellettieri.

Il rinvenimento di reperti e il supporto di documenti certi estrapolati da atti notarili e libri d’anagrafe diventa pietra miliare per documentare la produzione di fine maiolica nell’importante città salentina che produsse manufatti fino a circa un secolo addietro, a cominciare dall’età postmedievale. Il lavoro, condividendo quanto si augura il curatore del volume, potrebbe essere motivo per una seria ricerca in tal senso. Potrebbero finalmente venir fuori da collezioni private i celebri albarelli da farmacia, vanto della produzione ceramica neritina tra XVI e XVIII secolo.

Altrettanto importante è l’ultimo saggio offerto dalla Tinelli, che illustra l’abbondante materiale ceramico rinvenuto nel grande castello di Lecce (14.000 mq) a seguito del rinvenimento nel 1999 dell’enorme ambiente ipogeo, ancora studiato. Vengono descritte le ceramiche di età medievale (XIII-XIV secolo), delle quali alcune invetriate, e quelle di età moderna (XV-XVII secolo), attestandone per comparazione la provenienza da luoghi diversi della Puglia.

Le decorazioni, le cifre graffite e soprattutto gli emblemi raffigurati permettono la datazione certa per alcune di esse.

 

Museo della Ceramica di Cutrofiano. Quaderno 11 a cura di Salvatore Matteo, Martina Franca (Taranto)
Congedo Editore, 2008, 113 pagine, 36 illustrazioni e foto b/n delle ceramiche esaminate e proposte, VIII tavole fuori testo a colori
Introduzione del sindaco di Cutrofiano Aldo Tarantini, presentazione del curatore, testi di Brunella Bruno, Salvatore Matteo, Marisa Tinelli, Riccardo Viganò. Fotografie di Michele Onorato, Marisa Tinelli
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I Passiuna tu Cristu e altri canti popolari salentini religiosi a Cutrofiano

Rogier van Weyden, Deposizione (1435-1440)

L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con l’associazione “CARPE DIEM” propone Domenica 25 marzo a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane (villa S.Barbara) alle ore 19:30 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRU SIGNORE” 2° edizione.

Una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.

Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.

Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori partecipavano ai riti religiosi con dei canti, alcuni dei quali in dialetto.

Accanto ai brani tradizionali più noti del ciclo Pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia

Un vino del Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque

di Pino de Luca

È tempo di lasciare le coste e scendere, scendere fin nella Decatrìa Chorìa, allontanarsi dalle onde e fermarsi al centro della Mediterrònia, equidistanti dal mare circonda il Salento.

A quattro leghe dallo Jonio e quattro dall’Adriatico, terra soleggiata e argillosa, spazzata dai venti che dei due mari portano i profumi, in mezzo proprio il paese della “Crita”: Cutrofiano.

Alla via Di Vittorio, al n. 1 c’è una pineta e una masseria intitolata all’Accipiter Gentilis, rapace matriarcale capace di un volo rapido e acrobatico per districarsi tra le zone della macchia e della boscaglia. L’Astore è il marchio della famiglia Benegiamo che produce vini coniugando l’antica tradizione e la nuova tecnologia finché questa si mantiene rispettosa e costruttiva per l’ambiente. Un appezzamento di terra più a nord di Cutrofiano, in agro di San Pietro in Lama, è ancora popolato da Alberelli di negroamaro che furon messi a dimora nel 1947. Nodosi e contorti dall’età e dalle mani dell’uomo, danno pochi grappoli ormai ma composti da acini sani, forti e dolci come il più dolce dei nettari divini. Provenienti da tempo lungo per lungo tempo (almeno 30 mesi) si lascia maturare il meraviglioso succo di queste bacche rosse. Ne vien fuori un prodotto scuro, rosso profondo, dagli inconfondibili aromi di mora matura, prugna e spezie, uno dei pochi vini al quale il legno fa benissimo. Possente di spalla e persistente nel gusto, racconta nel bicchiere la terra, la fatica, il sole e il vento di un Salento lento, lento, lento ma che sa far ballare chiunque quando lancia la sua “aria stisa”. E qui dove l’Astore vola e gli Alberelli ritrovano senso e onore nelle 3500 bottiglie che Alberelli si chiamano (www.lastoremasseria.it) , qui “aria stisa” è la voce di un monumento della canzone salentina, Uccio Aloisi che ci manca da un anno e che fin da ragazzo ha cominciato a far di tutto cantando, fino alla fine. Con i suoi straordinari stornelli che pennellavano situazioni, caratteri e paesaggi in piccole strofe. Quadri che la sua voce magica rendeva comprensibili anche a chi non conosceva né l’italiano né tanto meno il salentino e che ritmava al suono di tamburelli e organetti capaci di far muovere i piedi anche agli ammalati di gotta.

Me lo ricordo ancora in una sua rivisitazione di stornelli che riguardano il vino, ad una “Sagra te lu Purpu” (sagra del polipo) alle marine di Melendugno del 2009 (http://youtu.be/c8cBoKJM69E): “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nun ci trasu” diceva la versione originale e Uccio, dal palco, alla giovane età di 80 anni, irriverente come solo i grandi artisti sanno essere, la trasformò in “ci quandu mueru vau a ‘mparaisu, ci nun ‘nc’è mieru buenu nà ce trasu” e accompagnò quel nà con il gesto dell’ombrello …

E me lo immagino Uccio, il 21 di ottobre del 2010 che, chiusi gli occhi su questa terra, si presenta a San Pietro. Il simpatico signore lo invita ad entrare offrendogli un caffè di nota marca. Uccio che lo guarda, fermo sulla soglia, e gli dice: “Caffè? Ce mieru teniti?”, pronto a tornarsene da dove stava venendo.

San Pietro rimane sbigottito, non sapendo che fare chiama la direzione. E arrivano Uccio Bandello e Uccio Melissano con una di quelle 3500 bottiglie di Alberelli di casa L’Astore. Uccio li guarda con i suoi occhi pieni di mare, e intona “fior di zagàre/n’auru picca se putìa campare/ma puru a quai ‘nc’ete nu cumpare/l’amici, lu mieru e se po’ cantare”. Il Paradiso ora è un’altra cosa.

pino_de_luca@alice.it

Cutrofiano/ Pasqua e i canti popolari salentini religiosi

a cura di Giuseppe Cesari

L’associazione culturale musicale “CARDISANTI” in collaborazione con “CARPE DIEM” E “AMICI DEL KARAOKE” propone, Domenica 10 Aprile a Cutrofiano nel santuario delle opere Antoniane alle ore 20:00 il concerto “QUANTU PATIU NOSTRO SIGNORE”, una serie di canti popolari salentini religiosi non liturgici sui temi della Passione di Cristo, una delle più alte espressioni della poesia popolare in musica.

Nei tempi in cui la liturgia era in latino, i vecchi cantori hanno voluto partecipare ai riti religiosi con canti, alcuni dei quali in dialetto.

Questo lavoro nasce dal bisogno di far conoscere il senso religioso e i contenuti narrativi di questo antico momento di vita religiosa e sociale della comunità salentina.

Il concerto, eseguito con gli strumenti della tradizione salentina, ha una durata di circa 75 minuti e si articola nel seguente programma:

Accanto ai canti tradizionali più noti del ciclo pasquale salentino, “La Passione” e “Santu Lazzaru” sono riproposti dei motivi legati alla liturgia ufficiale, ma ormai non più eseguiti da molti anni.  Se si pensa  al profondo radicamento del ciclo liturgico della passione e resurrezione di Cristo, si può avere un’idea, sia pure approssimativa, della popolarità di cui godevano questi canti.

“Fedeli una preghiera” era il canto che accompagnava la processione del Venerdì santo o Processione dei misteri. Era eseguito dal coro delle “verginelle in nero” che seguivano il simulacro di Cristo, accompagnato naturalmente dalla “banda”. Composto di sole tre strofe con un linguaggio piuttosto semplice, ma molto toccante, che ben si fonde con la melodia. E’ sempre stato considerato un canto salentino e, secondo una tradizione da verificare, composto da persona del luogo.

Questo canto fu abbandonato probabilmente nel dopoguerra e sostituito con due più lunghi e articolati “Oh fieri flagelli” e “Gesù mio con dure funi”. La sostituzione non corrisponde solo a un’esigenza di ammodernamento, ma rappresenta una svolta nella pratica liturgica locale, più fedele ai dettami della curia rispetto al passato, con meno cedimenti alle tradizioni locali e all’iniziativa dei laici. Questo si nota soprattutto nella cerimonia che concludeva il ciclo, cioè la messa pasquale, che si celebrava la mattina del sabato e che comprendeva un momento molto spettacolare, e anche rischioso, che era il “volo del panno”, con l’apparizione quasi istantanea del Cristo risorto, nel diradarsi del fumo prodotto appositamente. Questa rappresentazione, sempre osteggiata dai parroci, fu motivo di forti tensioni con parte della popolazione che sfociarono in una protesta clamorosa, che comportò la chiusura temporanea della chiesa di Cutrofiano. Solo nel dopoguerra la tradizione fu abbandonata e la cerimonia spostata alla mezzanotte. Il problema non riguardò comunque la processione del Venerdì santo, che fu sempre seguitissima, sempre con il coro delle vergini in nero che eseguivano i due nuovi canti.

La Passione (i Passiuna tu cristu) è una composizione lunghissima in greco salentino, che racconta in forma molto dettagliata, i vari momenti della passione di Cristo. Al canto, eseguito a più voci, si accompagnava una complessa gestualità che rivelava il carattere di sacra rappresentazione dalle origini certamente antichissime. La nostra interpretazione utilizza una traduzione del testo in dialetto locale eseguita dal prof. Giovanni Leuzzi.

Anche il Santu Lazzaru ha tutti i caratteri della sacra rappresentazione, ma riporta solo alcuni episodi della vita di Cristo fino al tradimento di Giuda e alla cattura. Sembra più legato alla parte occidentale della penisola salentina, dove più precoce è stato il distacco dalla cultura e dalla lingua grika. La tonalità originaria, in minore, da alla composizione un tono piuttosto triste e drammatico.

Esiste una versione in maggiore tradizionale di Cutrofiano, noi eseguiremo il canto nelle due tonalità.

Piangi Maria rappresenta il racconto della passione di Cristo visto però attraverso gli occhi della madre, e questo gli conferisce un tono straziante. Sembra un canto composto in italiano e poi adattato al dialetto, con numerose varianti nei diversi paesi.

Nel programma abbiamo voluto inserire un canto del 1970 di Fabrizio De Andrè dal titolo tre madri pubblicato nell’album “la Buona Novella” il testo racconta le riflessioni e i sentimenti strettamente umani delle tre mamme che piangevano i rispettivi figli sotto le tre Croci.

 

Curriculum  del gruppo Cardisanti  

 Siamo un’associazione musicale costituita da artisti e musicisti salentini con sede a Cutrofiano, paese della Grècia Salentina.

Da oltre dieci anni ci occupiamo di ricerca, studio e riproposizione in pubblico sia di canzoni e musiche divenute ormai dei classici della tradizione musical popolare salentina, sia di melodie quasi scomparse dalla scena, sia di brani inediti legati alla tradizione…

CARDISANTI è il nome dialettale salentino dei cardi campestri, infestanti, presenti da sempre nelle nostre campagne. Abbiamo deciso di chiamarci CARDISANTI perché metaforicamente ci identifichiamo in molte loro caratteristiche: pizzicano, sono difficili da estirpare a causa delle loro profonde radici pronte sempre a rigermogliare e hanno un particolare modo di riprodursi, conducono il proprio seme spinto dal vento tramite “l’angialeddhru” a germogliare nei posti più impensati…

Siamo nati sulla scia dei grandi vecchi cantori del nostro paese. Elementi del gruppo sono anche UCCIO CASARANO, cantore storico della tradizione musicale salentina, che con il suo organetto, insieme a Uccio Bandello scomparso undici anni fa, Uccio Aloisi, scomparso nello scorso ottobre, e Giovanni Vantaggiato era membro dello storico gruppo “gli Ucci” e LINA BANDELLO, figlia di Uccio Bandello, sicuramente il più grande cantore salentino, cui sono state dedicate varie edizioni della “Notte della taranta”. Alcuni antropologi hanno definito Lina l’unico autentico cantore vivente oggi nel Salento, avendo ereditato la passione per la musica dal padre, da cui ha imparato testi e melodie che continua a proporre in pubblico.

E’ uscito a fine 2910 il nostro primo cd ufficiale intitolato “PE’ L’AMORE TOU” nel quale oltre al meglio della musica tradizionale salentina sono contenuti anche cinque brani scritti da noi.

Numerosi video dei nostri concerti sono presenti su vari siti internet (couture, Salentovideo, ecc).

 

Per informazioni prendere contatto con:

Giuseppe Cesari cell 3396384239   mail: peppe.gabri@libero.it

Enzo Polimeno cell 3271221193

Le noci pecan di Cutrofiano


di Antonio Bruno

 

L’Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, produce le noci pecan. In questa nota le ragioni dell’opportunità e convenienza di coltivare quest’albero nel territorio del Salento leccese.

 
Domenica 19 dicembre 2010 ho avuto la conferma che non puoi “dire di vivere” se non vai in campagna. Per la verità tutto ha avuto inizio con la gara in piscina a San Cesario di Lecce di mia figlia Sara Maria Agnese che l’ha vista vincitrice, mi ha detto che era calma, che ha nuotato in modo naturale, sciolta e serena. C’era il mio vecchio amico e collega Vincenzo Castellano, un destino legato al mio, preparavamo l’esame di Fisica generale e trovammo due amiche che sono divenute le nostre mogli e che ci hanno dato, lo stesso anno, figlie femmine che sono divenute amiche tra loro.
Io e Vincenzo, in quelli che tutti hanno definito “gli anni di piombo”, eravamo iscritti entrambi alla Facoltà di Agraria di Bari e abbiamo abitato la stessa stanza della Casa dello studente del Campus: la “Benedetto Petroni”.
Mi hanno costretto a convivere con Bianca, un barboncino toy femmina, e mi è venuto in mente ciò che mi dice, facendo riferimento ai cani, un altro amico: Rory Muratore. Lui mi ha portato a prendere Bianca, è uno dei responsabili della mia convivenza,  e mi dice che devo portarla in campagna, lasciarla libera.  Oggi alla vista di quella terra incolta, la pseudosteppa che circonda la Piscina di San Cesario di Lecce, mi sono venute in mente le parole di Rory e ho chiesto a Vincenzo se potevo andare nella sua Azienda, che è recintata, per lasciare finalmente libera Bianca.
Ed è li, in quella terra di San Cesario di Lecce, che Vincenzo mi ha mostrato due alberi che dovrà mettere a dimora tra qualche giorno, due alberi di Noce pecan.
La Classificazione scientifica dell’albero di pecan è la seguente Regno: Plantae; Divisione: Magnoliophyta; Classe: Magnoliopsida; Ordine: Juglandales; Famiglia: Juglandaceae; Genere: Carya; Nomenclatura binomiale Carya illinoensis (Wangenh.) K.Koch, 1869
coltivato principalmente nell’America del nord per la raccolta dei suoi frutti, le noci pecan.
Queste piante, molto simili al noce comune, erano presenti in Europa, anche se in forma diversa, nel periodo villafranchiano (pliocenico inferiore), in epoca cioè con clima temperato umido simile a quello ove oggi sono coltivate. Pollini appartenenti al genere “Carya”, cui la noce pecan appartiene, sono infatti normalmente presenti nei giacimenti fossili italiani.

C’è un uomo saggio a cui chiedo sempre consiglio, è l’Avv. Vincenzo Provenzano di Ugento del Salento leccese; misura ogni parola, e quando parliamo di territorio, di alberi, di frutti della terra, mi guarda e poi con un sorriso mi dice che c’è necessità di trovare un’alternativa per diversificare la produzione. Il Consorzio di Bonifica “Ugento e Li Foggi” per favorire i suoi 200mila associati,  per sostenere le piccole aziende agroalimentari locali e creare un ambiente favorevole per la costituzione di nuove imprese, secondo l’Avv. Vincenzo Provenzano,  può cercare di individuare nuove colture che consentano di avere un reddito soddisfacente e che siano destinate ad un mercato in espansione. Insomma il Consorzio funge da “forum” dello sviluppo locale. Questa attività di tipo informale, è rivolta essenzialmente ai 200mila piccoli proprietari del Paesaggio rurale del Salento leccese che hanno intenzione di proporre prodotti alimentari specifici, alle imprese in fase di costituzione e agli agricoltori che intendono diversificare la propria produzione.
Ho fatto una ricerca ed ho scoperto che l’Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, produce le noci pecan, che secondo l’azienda sono ancora poco conosciute in Italia nonostante i loro effetti positivi sul colesterolo, la circolazione sanguigna, le malattie coronariche, grazie all’alto contenuto di grassi monoinsaturi.

da http://www.tropicamente.it

Le varietà di noci pecan coltivate a Cutrofiano sono la Kiowa, la Wichita  e la Shoshoni tutte con i nomi epici degli antichi pellerossa.
Sempre la stessa azienda pensa che molto probabilmente Cutrofiano del Salento leccese, sia l’unico territorio in Italia in cui si producono le noci pecan.

Ma quanto producono questi alberi? Lo so che ve lo state chiedendo, ed io, che sapete che lo so, ecco che ve lo scrivo.

Piante di 10-25 anni possono fornire 50-100 kg di frutti con guscio. Oltre il ventesimo anno rese di 100-200 kg a pianta sono normali. Le rese medie in un pecaneto adulto degli Stati Uniti con le cultivar antiche e a densità classica (122 piante per ettaro una densità che è un po’ di più della foresta degli ulivi del Salento leccese) sono dell’ordine di 1,5 – 2,0 tonnellate ad ettaro. Con le nuove cultivar texane e spaziature strette si possono ottenere quantitativi doppi.

L’ Azienda Agricola “Sirgole”, a Cutrofiano del Salento leccese, vende le noci pecan in confezioni da 5 chili al prezzo di 58 Euro. Non ci credete? E’ tutto sul Web 2.0 basta che mettiate in una stringa del motore di ricerca che usate le parole Azienda Agricola “Sirgole”. L’avete fatto? Bene! Allora stai già facendoti un po’ di conti per vedere se vale la pena prendere quelle piante per farle vivere in quel tuo terreno che una volta era uno dei 60mila ettari di alberello pugliese oppure uno degli oltre 5mila ettari di tabacco che si coltivavano nel Salento leccese sino al 1996.
Già! Vale la pena?

Facciamo un conticino piccolo, piccolo? Aspè che chiamo mia figlia Sara, gli sto chiedendo quanti chili sono una tonnellata e mi ha risposto che 1 tonnellata = 1000 chilogrammi. Allora facendo l’ipotesi che i 122 alberi di pecan producano solo 20 chili di noci a pianta avremo in un ettaro circa 2mila e cinquecento chili con una produzione lorda vendibile di quasi 30mila euro per ettaro. Gli altri conti te li puoi fare tu! Aspè! Non adesso! Almeno finisci di leggere la mia nota e poi mettiti a sognare!

Intanto sappiamo con certezza che a Cutrofiano il pecan (Carya illinoensis) produce alla grande e che c’è l’ Azienda Agricola “Sirgole” che lo commercializza sul Web 2.0 a prezzi di tutto rispetto.
Se c’è qualche interessato posso certamente chiedere un contatto all’azienda che peraltro legge questa nota che ho mandato al suo indirizzo e mail, rivolgo l’invito soprattutto alle Associazioni di categoria della Provincia di Lecce. Inoltre se c’è qualcuno degli scienziati dottori agronomi e biologi dell’Università che ha interesse ad approfondire gli aspetti scientifici della coltivazione di questo albero nel Salento leccese ecco che la funzione del Consorzio quale  “forum” dello sviluppo locale, cara all’Avv. Vincenzo Provenzano, diviene fatto compiuto.
Che aspettate a scrivermi?

Bibliografia
Azienda Agricola “Sirgole”    http://www.nocipecan.it/

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