La “cupeta tosta”: fatti e misfatti*

di Armando Polito

* questo lavoro esce in contemporanea su  http://www.vesuvioweb.com/it/ col titolo, leggermente adattato, di La “copeta”: fatti e misfatti.

immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/0a/Cupeta_fresca.jpg
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/0a/Cupeta_fresca.jpg

 

Amo la cubaita che “ci vuole il martello a romperla”, come scrive Sciascia.

A fatica riesci coi denti a staccarne un pezzetto e non lo devi aggredire subito, lo devi lasciare ad ammorbidirsi un pochino tra lingua e palato, devi quasi persuaderlo con amorevolezza ad essere mangiato.

Certo, per i guerrieri d’una volta era più facile, dato che usavano farsi limare i denti per usarli come arma nei corpo a corpo.

Io, bambino, la scoprii nel cassetto del comodino di mia nonna Elvira, che aveva la curiosa abitudine di mangiarsene un pezzetto a letto prima d’addormentarsi.

“Che è, nonna?”

“Cubaita di Cartanissetta”.

Fu un amore fulmineo. E infatti.

“Ma tu, figlio mio, mangi pietre?” – mi domandò il dentista quando mi ci portarono la prima volta a dieci anni.

“Nonsi, cubaita”.

……………

Ora, vecchio, mi viene assai difficile mangiare la cubaita. Mi con­solo scartandola per offrirla agli amici. Ma la carta me la tengo in tasca. Ogni tanto la tiro fuori e l’odoro. E quell’odore, con l’aiuto della memoria, mi restituisce il sapore impareggiabile della cu­baita.

(Andrea Camilleri, Elogio della cubaita dell’Antico Torronificio Nisseno; integralmente leggibile in http://www.vigata.org/bibliografia/elogiodellacubaita.shtml).

L’etimologia è come l’amore, o, se preferite, la vita: riserva gioie e dolori, conferme e tradimenti, sicurezze che vanno in frantumi quando amaramente ci si accorge di essere stati ingannati (o, meglio, di essersi ingannati) e quel sentimento che condensa in sé la fondamentale contraddittorietà del nostro passaggio terreno, nello stesso tempo espressione della  nostra grandezza ma anche della nostra miseria: il dubbio.

Comincio da Cupido, il dio dell’amore, la cui icona può essere sbrigativamente riassunta così: un fanciullo (va bene che è un dio, ma ‘sto figlio di … Venere poteva pur sempre crescere un po’ … per beccarsi qualche pugno sul muso) alato, armato di arco e di frecce che, come le siringhe, non sempre iniettano un farmaco destinato a far stare meglio …

Esso è la personificazione, anzi la divinizzazione, del nome comune latino cupìdo (genitivo cupìdinis) che significa desiderio. La voce cupìdo nasce dal verbo cùpio/cupis/cupìvi o cùpii/cupìtum/cùpere (=desiderare). È uno dei cosiddetti verbi in io, in passato più o meno noti a qualsiasi studente che tra le materie curricolari avesse il latino (oggi mi sentirei di garantire più il meno che il più che precede noto …).

Il verbo in questione, poi, è anche padre di parecchi figli: l’aggettivo cùpidus/cùpida/cùpidum (=desideroso) e i sostantivi cupìditas= (cupidigia), cupìtor= (chi desidera smaniosamente), cuppes= (ghiottone, dissoluto), cuppèdia e cuppèdium (=ghiottoneria), cuppedinàrius=mercante di cibi raffinati.

Tenendo presente tutto quanto fin qui detto ma soprattutto cuppèdia e che cupìta è pure il participio passato femminile singolare del verbo cùpere, non dovrebbe neppure sfiorarci il dubbio che proprio cupìta (=desiderata) sia all’origine di cupeta. Come si fa, infatti, a non desiderare questo delizioso dolce croccante (nel senso che scricchiola sotto i denti, ma anche in quello che, per la sua durezza, potrebbe farli scricchiolare …) fatto con zucchero (o miele) e mandorle tostate? Anche poi chi, come me, è ormai sdentato, non può resistere alla tentazione della nostra cupeta tosta, in cui l’aggiunta dell’aggettivo [tosta è femminile di tuestu, che significa duro e corrisponde all’italiano tosto che è da tostu(m), participio passato di torrère=tostare; ciò che è tostato perde acqua, diventando più duro; nel tosta che accompagna cupeta, perciò, accanto all’idea di duro sopravvive pure quello di tostato, riferito alle mandorle] la dice lunga sulla consistenza del nostro dolce.

Allora, chiederebbe Gerry Scotti, accendiamo cupèta da cupìta? In questo caso sarebbe come accendere la miccia di una bomba, cosa puntualmente fatta in  http://www.agricoltura.regione.campania.it/tipici/tradizionali/copeta.htm, dove si legge: Nei territori campani di Benevento, Avellino e Salerno si produce ancora oggi un torrone di antichissima tradizione, il cui nome deriva dal latino “cupida” che vuol dire “desiderata”. La copeta “cupida” o “cupita”, che veniva desiderata per la sua bontà, viene citata da numerosi scrittori latini, tra cui Tito Livio, e viene riconosciuta come l’antenato del torrone di Benevento …

Osservo quanto segue:

a) In latino cùpida (attenzione all’accento, e non solo) esiste come femminile del già citato aggettivo cùpidus/cùpida/cùpidum, ma non significa affatto desiderata, bensì desiderosa; dunque, un disinvolto e arbitrario passaggio (a parte l’accento che avrebbe dovuto dare còpeta e non copèta) dal significato attivo a quello passivo.

b) Esilarante, poi, la seconda parte in cui vengono messi in campo i numerosi scrittori latini, fra cui Tito Livio. È normale che cùpida=desiderosa (ripeto, femminile di cùpidus/cùpida/cùpidum) e cupìta (participio passato di cùpere=desiderata), esprimendo concetti comunissimi, ricorrano a tonnellate, ma non c’è un solo esempio, dico uno, in cui la prima, tantomeno la seconda, e tutti gli altri figli di cùpere che ho già citato, compaiano ad indicare, in forma più o meno sostantivata, un commestibile specifico.

A beneficio del lettore non disposto ad accettare per oro colato tutto ciò che trova scritto in rete e non solo, esibirò fra poco le fonti dopo aver detto che, una volta accesa la miccia, la micidiale onda d’urto susseguente all’esplosione tende a propagarsi, dal momento che in http://oggicucinoio.forumfree.it/?t=26850196 leggo: All’inizio della sua [del torrone] lunga storia c’è una delizia di origine araba, la copeta, già ricordata dal poeta latino Marziale.

In http://www.eptbenevento.it/schedaItinerario.php?codice=40#sthash.cLUGqQ6Q.dpuf leggo: La “Cupedia”, ossia il progenitore del torrone, era conosciuta già al tempo dei Romani; la sua paternità è attribuita addirittura ai Sanniti, come dimostrano alcuni scritti di Tito Livio. Per il poeta latino Marco Valerio Marziale è uno dei cinque prodotti che, nel I secolo, rappresentano Benevento, la città delle cinque C, ossia “Carduus et cepae” (cardone e cipolle), “Celebrata” (cervellate), “Cupedia” (copeta) e “Chordae” (corde).

In http://vulvino.wordpress.com/2013/10/27/il-precursore-del-torrone-nei-manoscritti-di-tre-medici-arabi-del-medioevo-2/ leggo (ma sono già stanco …):

Marco Terenzio Varrone nelle Satyre Menippeae cita la “cuppedo”, ghiottoneria a base di semi oleosi, miele e albume: e al di là che il letterato reatino abbia inventato la storia della cuppedo “inventata” dai Sanniti per salvare da una fame autoimposta i romani che dovevano stare al mondo per passare sotto le Forche Caudine, quella delle Satyre è comunque una testimonianza che a Roma doveva già esistere. Tito Livio cita la cuppedo come alimento adatto alle lunghe marce dei legionari per le sue proprietà nutritive e la facile conservazione (una sorta di Enervit del Mondo Antico).

In http://magazine.quotidiano.net/enogastronomia/2010/12/27/il-torrone-alleato-della-salute/ leggo (sono sempre più stanco … ): Le testimonianze della sua lunga vita sono tante. Marziale nei suoi epigrammi scrive che i Sanniti, dopo aver umiliato i Romani con le forche caudine, distribuirono come premio torrone ai loro soldati.

In http://www.apicolturangrisani.it/notizie/992-il-torrone-di-benevento.html leggo …): Il temutissimo condottiero Sannita Gaio Ponzio Telesino, che nel 321 a.C. inflisse ai romani la cocente sconfitta imponendo poi loro l’umiliazione di passare sotto i gioghi delle forche Caudine, era molto ghiotto di “Copedia” (in latino “Desiderata”).

Qui, distrutto, finisco di leggere, anche perché sono convinto che, se continuassi a farlo, verrei a scoprire che il temutissimo Ponzio di prima nel corso della battaglia, a causa di un’improvvisa diarrea provocata dai cinque kg. di Copedia che si era fatto in meno di dieci minuti, era stato costretto a battere, sia pure momentaneamente, in ritirata …

Della copeta, come vedremo, si salverà solo l’origine araba, mentre la sua asserita presenza in Marziale, nelle Satyrae Menippeae di Varrone Reatino1  e in Tito Livio2 tradisce  chiaramente l’esistenza di preziosi manoscritti di cui solo ora si viene a conoscenza …

Credo di poter ricostruire le fasi della propagazione di questa nefasta onda d’urto e procedo a ritroso fino al presumibile (è sempre difficile individuare il padre di una sciocchezza) responsabile della deflagrazione della bomba.

Anno 1921. Sulla Rivista storica del Sannio, VII, 6, alle pp. 178-189 in un suo contributo dal titolo Il torrone di Benevento Costantino Anzovino sostiene che Marziale aveva immortalato Benevento per cinque suoi prodotti: carduus, caepae, cerebrata, cupedia e chordae. L’autore si guarda bene dal citare non dico i versi ma almeno il titolo dell’opera di Marziale da cui avrebbe tratto la notizia.

Anno 1838. Un volumetto-strenna per il periodo natalizio dal titolo Le violette. Strenna pel capo d’anno e pe’ giorni onomastici, anno II, Dalla tipografia del Guttemberg, Napoli  contiene anche uno scritto a firma di Matteo Camera (1807-1891), storico e numismatico nato ad Amalfi, in cui l’autore descrive un suo viaggio compiuto a Benevento proprio nell’anno di uscita della strenna. Alle pagg. 105-106 si legge:  La sua [di Benevento] popolazione attuale ascende a circa 20 mila abitanti. Il suo traffico di cerali è di somma importanza; e la copèta ivi lavorata non è scemata di quel pregio che aveva a’ tempi di Marziale, allorchè  , quali prodotti principali del luogo, siccome scrisse: Carduus, et caepae, cerebrata, cupedia, cordae,/nec non et calices, et calceamenta Vitini. Val quanto dire (Benevento) va decantata per i cardi, per le cipolle, per le cervellate, per la copèta, per le corde, per i calici o vasi, e per le calzature lavorate da Vitinio.

Se Matteo Camera anziché inventarsi Marziale, come dirò, se lo fosse riletto, avrebbe trovato non certo  cupedia ma altro pane per i suoi denti …: Apophoreta (o libro XIV degli Epigrammi), LXIX: Peccantis famuli pugno ne percute dentes: Clara Rhodos coptam quam tibi misit edat (Non percuotere con un pugno i denti del servo che sbaglia; mangi la focaccia specialità di Rodi che ti ho mandato).

Ho tradotto con un generico focaccia il coptam originale ed è doverosa una spiegazione. Copta (di cui il coptam del testo originale è l’accusativo) è trascrizione del greco κοπτή (leggi coptè). La voce compare col significato di focaccia di farina e sesamo in Dioscoride (I secolo d. C.), De materia medica, II, 103): Παρίστησι δὲ καὶ πρὸς ἀφροδίσια μιγέν μέλιτι καὶ πεπέρει ἀντὶ κοπτῆς πολὺ λαμβανόμενον ([Il seme di lino] giova anche ai piaceri sessuali, mescolato con miele e pepe, assunto in gran quantità invece di una focaccia di farina e sesamo). Κοπτή ricorre col significato generico di focaccia (a riprova di quanto sia difficile districarsi sul significato di una parola già nei testi originali) in Ateneo di Naucrati (II secolo d. C.), I deipnosofisti, 648e-649b: Dell’amido ricorda Teleclide in Le cose dure dicendo così: “Amo la focaccia calda, non amo le pere selvatiche, gradisco la carne di lepre servita sull’amido”. Sentito ciò, Ulpiano disse: “Ma poiché chiamate κοπτή (leggi coptè) un  piatto (ne vedo una per ciascuno posata sul tavolo), ditemi, o golosi, chi degli autori famosi ricorda questo nome”. E Democrito disse: “Dionisio di Utica nel settimo libro de L’agricoltura dice che si chiama κοπτή il porro marino. Della focaccia al miele [μελιπήκτον (leggi melipecton)] servitaci ricorda Clearco di Soli nell’opera sulle reti da pesca dicendo così: “A chi gli chiese di dire quali fossero gli attrezzi da cucina elencò: treppiedi, pentole, candeliere, mortaio, scanno, spugna, caldaia, badile, pietra cilindrica, fiasco, cesto, coltello, coppa, vaso; o tra le vivande: passato di legumi, lenticche, carne o pesce sotto sale, pesce, rapa, aglio, carne, tonno, salamoia, cipolla, cardo, oliva, cappero, lampascione, fungo; ugualmente tra le leccornie: focaccia al latte [ἄμης (leggi ames)], focaccia piatta [πλακοῦς (leggi placùs)] , focaccia con filetti di pesce [ἔντιλτος (leggi èntiltos)], torta di miele e sesamo, melagrana, uovo, cece, sesamo, κοπτή, grappolo d’uva, fico secco, pera, persea, mela, mandorla”. Questo disse Clearco: ”Sopatro, autore di tragicommedie nel dramma intitolato Porte dice: Chi inventò la κοπτή di abbondante papavero o mescolò piaceri di farina gialla tra le leccornie?”. Allontana, o mio bel ragionatore Ulpiano, la κοπτή che io ti consiglio di non mangiare. E lui senza indugio dopo averla afferrata la mangiò3.

L’unica certezza che emerge è che κοπτή era un nome generico per indicare la focaccia che poteva essere guarnita, in quelle che molto probabilmente sono solo due delle sue versioni, con semi di senape o di papavero. Tornando al nostro Matteo Camera è facile immaginare che, se fosse venuto a conoscenza della copta di Marziale (figlia della κοπτή), forse non si sarebbe inventato il cupedia dei presunti versi del poeta latino: infatti, per trasformare copta in cupedia bastano pochi (?) passaggi: o>u, inserimento di e, passaggio t>d e, per finire, inserimento di i

Debbo riconoscere, però, che Carduus, et caepae, cerebrata, cupedia, cordae,/nec non et calices, et calceamenta Vitini sono due esametri perfetti o, come dimostrerò, quasi perfetti; peccato, però, che, come ho anticipato, essi non furono scritti né da Marziale né da altro autore e sono un’abile quanto criminale invenzione del Camera, sfruttata poi acriticamente a distanza di 83 anni dall’Anzovino (ma nel 1888 c’era stata pure una ristampa in Arte e storia, Tipografia Domenicana), per riprovevolissimi fini campanilistici. La vera scienza ammette l’interpretazione dei dati, in questo caso delle fonti, non la loro manipolazione o, peggio, falsificazione: ma, prima di accanirci sul passato, siamo veramente sicuri che ancora oggi tutta la scienza rispetti questo sacrosanto principio e che al campanilismo di un tempo non sia subentrato, invece, il condizionamento del profitto innanzi tutto? D’altra parte nel XXI secolo ci sono o non ci sono ancora imbecilli che credono di diventare qualcuno inventandosi o comprandosi un titolo di studio o nobiliare?

Sulle fonti tornerò fra poco perché voglio prima dare ragione della criminale invenzione di cui ho accusato il Camera.

Comincio con calceamenta che negli autori classici ricorre solo in prosa e, per giunta, la seconda a non è breve (tale risulta, per improbabile correptio iambica, nel verso in questione) ma lunga. A chi, poi, dovesse chiedermi come mai affermo che la seconda a è lunga senza il supporto dell’uso poetico (l’unico che consente la ricostruzione della quantità delle vocali) ribatto che nel suffisso -amentum la a è sempre lunga (come in sacrāmentum da sacrāre, in iurāmentum da iurāre etc. etc; perciò pure in calceāmentum da calceāre). Cerebrata, poi, non è attestato neppure una volta, né in prosa né in poesia.

Mi piace ora motivare fino in fondo soprattutto il criminale. Intanto va detto, ad integrazione delle precedenti osservazioni,  che in tutta la produzione di Marziale il cardo (carduus), le cipolle (caepae), la copeta (cupedia), le corde [così traduce la sua stessa invenzione il Camera, dimenticando, forse, che corda (o chorda) in Petronio, Satyricon, LXVI, 7 ha il significato traslato di trippa] non compaiono neppure una volta.

E passiamo ai calici (calices), così come compaiono in Marziale, che ci consentiranno di scoprire ulteriormente gli altarini.

Epigramma XC del libro XIII alias Xenia:

Surrentina bibis? nec murrina picta nec aurum

sume: dabunt calices haec tibi vina suos.

 (Bevi vini di Sorrento? Non usare coppe di murra dipinta né di oro: questi vini ti daranno i loro calici).

Epigramma CII  del libro XIV alias Apophoreta:

Accipe non vili calices de pulvere natos,

sed Surrentinae leve toreuma rotae.

(Accetta questi calici nati da una creta non vile ma elegante prodotto di un tornio sorrentino).

E siamo al dunque: epigramma XCVI dello stesso libro:

Vilia sutoris calicem monimenta Vatini

accipe; sed nasus longior ille fuit.

(Accetta questo calice, vile ricordo del ciabattino Vatinio; ma egli fu un naso più lungo).

 

A comprendere l’ironia un po’ criptica dell’epigramma va detto che Vatinio (e non Vitinio …, ma l’errore di stampa o dovuto a citazione a memoria a questo punto sarebbe oro …) è ricordato da Tacito, Annales, XIV, 34: … apud Beneventum interim consedit, ubi gladiatorum munus a Vatinio celebre edebatur. Vatinius inter foedissima eius aulae ostenta fuit, sutrinae tabernae alumnus, corpore detorto, facetiis scurrilibus; primo in contumelias adsumptus, dehinc optimi cuiusque criminatione eo usque valuit, ut gratia, pecunia, vi nocendi etiam malos praemineret.

(… [Nerone] nel frattempo si fermò a Benevento, dove un famoso spettacolo di gladiatori era dato da Vatinio. Vatinio fu tra le più schifose manifestazioni di quella corte, apprendista calzolaio, dal corpo storto, dalle battute scurrili; assunto in un primo momento per lanciare offese, poi si specializzò nel lanciare accuse contro ogni persona dabbene al punto da superare anche i malvagi in benemerenze, denaro, capacità di nuocere).

Qui, dunque, il riferimento è all’invenzione vatiniana di un calice più lungo del naso del suo inventore. Va da sé che, almeno per Marziale, tale calice non era certo un modello esteticamente eccelso; figurarsi, poi, le calzature uscite dalle mani di un apprendista …

La confusione nel Camera tra calici e calzature è stata più ispirata che indotta proprio dalla consonanza finale del suo calceamenta con l’originale monimenta. E ho detto ispirata, perché simili sviste sono inammissibili in letterati del suo calibro e nella fattispecie la malafede è confermata dalle altre voci spacciate come presenti in Marziale.

Chiudo questa parte dicendo che solo tre sono le attestazioni letterarie di copeta che son riuscito a trovare nella letteratura napoletana e confido nell’aiuto degli amici conoscitori nativi di tale lingua per le inevitabili integrazioni e rettifiche, chiedendo nel contempo scusa per essere stato poco tenero nei confronti del loro conterraneo; ma chi mi conosce bene sa che di regola non lo sono nemmeno con i miei conterranei e, se e quando è necessario, nemmeno con  me stesso.

La prima è in Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille scritto dal 1634 al 1636 ma pubblicato postumo. Nel Trattenimento III della Jornata I si parla di Peruonto, giovane brutto e sfaticato che la madre Caforia, detta Ceccarella, manda a far legna nel bosco. Qui Peruonto s’imbatte in tre ragazze (figlie di una fata) che dormono in un fiume di sudore per il gran caldo; e lui premuroso costruisce per loro un riparo di frasche. Le ragazze per riconoscenza gli conferiscono il potere di ottenere tutto ciò che avesse chiesto. Peruonto non perse molto tempo e, dovendo portare a casa una sarcina di dimensioni non indifferenti, esprime il desiderio, dopo essersi posto a cavalcioni, che sia essa a portarlo a casa. Nel passare davanti alla reggia è oggetto del dileggio di alcune ragazze tra cui Vastolla, la figlia del re. A questo punto lo strano cavaliere esprime il suo secondo, questa volta vendicativo, desiderio e, cioè che Vastolla resti incinta di lui. La cosa avviene puntualmente. Il re sarebbe disposto anche a far fuori la figlia ma i consiglieri lo dissuadono e lo convincono a rimandare tutto al momento del parto. Vastolla partorisce due bambini e i consiglieri, convocati per la seconda volta, decidono di nuovo di prender tempo in modo da far crescere i bambini e permettere, così, di individuarne più facilmente il padre. Quando i bambini sono sufficientemente cresciuti, per fare l’esame comparativo viene organizzato un solenne banchetto al quale partecipa ogni tretolato (titolato) e gentel’hommo (gentiluomo) della città.  Al termine del convito ognuno di loro sfila davanti ai ragazzini sotto lo sguardo attento del re e dei consiglieri. L’esame così architettato dà esito negativo. Viene perciò organizzato un altro banchetto destinato, questa volta, non più a gente de portata, ma de cchiù bascia mano (gente importante, ma di più basso rango), riservato solo alle donne perché, notano i consiglieri, la femmena s’attacca sempre allo ppeo (la donna si attacca sempre al peggio). La reggia viene così invasa da una pittoresca folla femminile composta di chiaise, siercole, guitte, guzze, ragazze, spolletrune, ciantelle, scauzacane, verrille, spoglia ‘mpise, e gente de mantesino e (potevano mancare?) zuoccole, ch’erano alla Cetate (città). Nel frattempo Ceccarella convince il figlio a recarsi pure lui al banchetto e grande è la meraviglia e poi la rabbia del re nel vedere Peruonto accolto dalla irrefrenabile reazione ormonale delle convitate. Lo re, che vedde ste cose, se scippaie tutta la varva, vedenno ca la fava de sta copeta, lo nomme de sta beneficiata era toccato a no scirpio brutto fatto, che te veneva stommaco … (Il re, che vide queste cose, si strappò tutta la barba, vedendo che la fava di questa copeta, il nome di questa beneficiata era toccato a uno simile a giunco fatto (tanto) male, che ti veniva il voltastomaco …). Nel  Vocabolario domestico napoletano e toscano di Basilio Puoti, Tipografia Simoniana, Napoli, 1841, al lemma SCIRPIA: “Dicesi a femmina brutta e laida. Strega, Befana”. Nel Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano dei Filopatridi, Porcelli, Napoli, 1789: “SCIRPIA:  Brutta strega. Pare, che venga dal lat. scirpus, e dinotasse primitivamente persona, che avesse i capelli, come i giunchi, irti, e dritti, une tete hersée”. L’etimologia proposta mi pare convincente sul piano fonetico (meglio, secondo me, dall’aggettivo scirpeus/a/um) e su quello semantico (e qui il riferimento potrebbe essere pure alla “macilenza” del giunco), per cui ho reso scirpio con uno simile a giunco.

Il lettore noterà il significato traslato di fava che, per somiglianza di forme, qui allude alla mandorla che del dolce in questione è l’elemento più importante e, non a caso, più costoso. Per chi, poi, è curioso di sapere come andò a finire segnalo il link http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_6/t133.pdf (da p. 30).

Anche la seconda attestazione è nel Basile e precisamente, in una situazione e immagine per certi versi simili alle precedenti, ne Le cinco figlie (Trattenemiento VII della Jornata V). È sempre il re che parla: A quale de vuie aggio da dare Cianna? Chisto non è migliaccio, che se pozza spartire a fella, perzò è forza che ad uno tocca la fava de la copeta, e l’autre se pigliano lo palicco (A chi di voi debbo dare Giovanna? Questo non è migliaccio [torta di farina di mais, ciccioli di maiale e formaggio, tipica della zona di Napoli] (tale) che la fetta possa essere spartita, perciò è fatale che ad uno tocchi la fava della copeta e che gli altri si prendano lo stecchino).

La terza attestazione di copeta è in Giulio Cesare Cortese (1570-1640), Micco Passaro nnammorato. Poema eroico, canto II, ottava 23, v. 7: E pecchè doce fu cchiù de copeta (E perché fu più dolce di copeta).

Torno ora alle fonti, quelle antiche, tempo fa promesse.

Plauto (III-II secolo a. C.), Stichus, atto V, scena IV, vv. 26-34:

Stichus -Bibe si bibis-

Sangarinus -Non mora erit apud me-

Stichus -Edepol convivi sat est, modo nostra huc amica accedat: id abest, aliud nil abest-

Stichus -Lepide hoc actum est. Tibi propino cantharum. Vinum tu habes-

Sangarinus -Nimis vellem aliquid pulpamenti-

Stichus -Si horum, quae adsunt, paenitet, nihil est. Tene aquam-

Sangarinus -Melius dicis; nil moror cuppedia

(Stico -Bevi, se vuoi bere-

Sangarino -Non perderò tempo-

Stico -Per Polluce, sono soddisfatto del convivio, ora venga qui la nostra amica; questo manca, null’altro-

Stco –Sì, già fatto. Brindo con questa coppa. Il vino tu ce l’hai-

Sangarino -Ho molta voglia di un po’ di companatico-

Stico – Se non gradisci quel che c’è, niente da fare. Bevi acqua-

-Sangarino – Dici bene; non perdo tempo con le ghiottonerie-).

Trinummus, atto II, scena I, v. 20: cuppes, elegans, despoliator (ghiottone, raffinato, saccheggiatore [tutti epiteti riferiti all’amore]).

Terenzio (II secolo a. C.), Eunuchus, atto II, scena II, vv.24-28: Dum haec loquimur, interea loci ad macellum ubi advenimus,/concurrunt laeti mi obviam cuppedinarii omnes,/ cetarii, lanii, coqui, fartores, piscatores,/quibus et re salva et perdita profueram et prosum saepe;/salutant, ad cenam vocant, adventum gratulantur (Nel frattempo, mentre così discorriamo, quando giungiamo al mercato del posto, lieti mi vengono incontro tutti i venditori di ghiottonerie, pescivendoli, macellai, cuochi, salsicciai, pescatori, ai quali, a fondo perduto o no, avevo fatto del bene e continui a farlo; salutano, mi invitano a pranzo, si rallegrano del mio arrivo).

Varrone Reatino (II-I secolo a. C.), De lingua Latina, V: … forum Cuppedinis a cuppedio, id est a fastidio; quod multi Forum Cupidinis a cupiditate ( … mercato della ghiottoneria da ghiottoneria, cioè dal gusto difficile; molti lo chiamano mercato del desiderio da desiderio).

Cicerone (II-I secolo a. C.), Tusculanae disputationes, IV, 26: Aegrotationi autem talia quaedam subiecta sunt: avaritia, ambitio, mulierositas, pervicacia, ligurritio, vinulentia, cuppedia, et si qua similia (Sono soggetti alla malattia certi vizi: l’avarizia, l’ambizione, la passione per le donne, l’ostinazione, la golosità, l’ubriachezza, la ghiottoneria e altri simili).

Festo (II secolo d. C.), De verborum significatione4, III : Cuppes et cuppedia antiqui lautiores cibos nominabant; inde et macellum forum cupedinis appellabant. Cupedia autem a cupiditate sunt dicta, vel, sicut Varro ait, quod ibi fuerit Cupedinis equitis domum, qui fuerat ob latrocinium damnatus (Gli antichi chiamavano cuppes e cuppedia i cibi alquanto raffinati; da qui chiamavano forus (=mercato) Cupedinis (=del desiderio) il mercato della carne. Cupedia (=le ghiottonerie) poi sono chiamate così da cupiditas (=desiderio) o, come dice Varrone, perché lì c’era stata la casa del cavaliere Cupedine che era stato condannato per furto).

Gellio (II secolo d. C.), Noctes Atticae, VI, 16: Hanc autem peragrantis gulae et in sucos inquirentis industriam atque has undiquevorsum indagines cuppediarum maiore detestatione dignas censebimus, si versus Euripidi recordemur, quibus … (Riterremo poi degne di maggiore condanna quest’attività della gola che scorazza tra i sapori e li ricerca, queste ricerche di ghiottonerie da ogni parte se ricordiamo i versi di Euripide con cui …).

VII, 13: Factitatum observatumque hoc Athenis est ab his qui erant philosopho Tauro iunctiores; cum domum suam vocaret, ne omnino, ut dicitur, immunes et asymboli veniremus, coniectabamus ad cenulam non cuppedias ciborum, sed argutias questionum … (Questo fu abitualmente e osservato ad Atene da coloro che erano più vicini al filosofo Tauro: quando ci invitava a casa sua, per non venire, come si dice, a mani vuote, preparavamo per il pranzo non ghiottonerie di cibi ma arguzie di argomenti …).

Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.), Rerum gestarum libri, XXV, 2: indigenti, pars distributa est magna. Et imperator, cui non cuppediae ciborum, ex regio more, sed sub columellis tabernaculi parvis cenaturo, pultis portio parabatur exigua, etiam munifici fastidienda gregario …(A chi aveva bisogno fu distribuita gran parte [delle vettovaglie]. E l’imperatore, per il quale non si apparecchiavano, secondo il costume regale, ghiottonerie di cibi ma al momento di pranzare sotto i piccoli sostegni della tenda una piccola porzione di farinata che avrebbe fatto schifo ad un soldato addetto ai servizi …).

XXVI, 7, 1: Igitur cuppediarum vilium mercatores, et qui intra regiam apparebant, aut apparere desierant … (Dunque i mercanti di vili ghiottonerie e quelli che servivano a corte o avevano cessato di servire …).

XXX, 1, 20: Cumque apponerentur exquisitae cuppediae (E mentre venivano servite squisite ghiottonerie …)

In tutte le testimonianze riportate cuppedia conserva sempre il valore di nome comune, col significato generico di ghiottoneria e in nessun caso è ipotizzabile l’assunzione del valore di nome proprio, ad indicare la nostra specialità.

La conferma definitiva arriva da uno specialista:

Apicio (I secolo a. C.-I  secolo d. C.), De re coquinaria, V, 1: Pultes cum iure oenogari cocti. Pultes oenogari bene cocti iure condies; copadia, similam, sive alicam coctam hoc iure et cum copadiis porcinis apponis oenogari cocti iure conditis (Farinate con brodo di enogaro5 cotto. Condisci le farinate col brodo di enogaro ben cotto; servi i pezzetti di carne, fior di farina o spelta cotta in questo brodo e con i pezzetti di carne di porco conditi col brodo dell’enogaro cotto).

VII, 6: In copadiis ius album. Piper, cuminum, ligusticum, rutae semen, damascena; infundis vinum; oenomeli et aceto temperabis; thymo et origano agitabis (Brodo bianco per pezzetti di carne. Pepe, cumino, ligustico, seme di ruta, prugne di Damasco6; versa del vino, tempera con vino mielato e aceto, mescola con un ramo di timo e origano).

Aliter ius candidum in copadiis. Piper, thymum, cuminum, apii semen, foeniculum, rutam (alias mentham), baccam myrtae, uvam passam; mulso temperabis, agitabis ramo satureiae (Brodo bianco per pezzetti di carne in altro modo. Pepe, timo, cumino, seme di sedano, finocchio, ruta, altrimenti menta, bacca di mirto, uva passa; tempera con vino mielato, mescola con un ramo di santoreggia).

Ius in copadiis. Piper, ligusticum, careum, mentham, nardostachyon, folium, ovi vitellum, mel, mulsum, acetum, liquamen et oleum: agitabis satureia et porro; amyla ius (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, carvi, menta, foglia di nardo, un tuorlo d’uovo, miele, vino mielato, aceto, salsa e olio; mescola con un ramo di santoreggia e un porro, mescola con amido il brodo).

Ius album in copadiis. Piper, ligusticum, cuminum, apii semen, thymum, nucleos infusos, nuces infusas et purgatas, mel, acetum, liquamen et oleum (Brodo bianco sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, cumino, seme di sedano, timo, mandorle macerate, noci macerate e ripulite,miele, aceto, salsa e olio).

Ius in copadiis. Piper, apii semen, careum, satureiam, cnici flores, cepullam, amygdala tosta, caryotam, liquamen, oleum, sinapis modicum: defruto coloras (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, seme di sedano, carvi, santoreggia, fiori di zafferano, cipolla, mandorle tostate, dattero, salsa, olio, un po’ di senape; colora con vino cotto).

Ius in copadiis. Piper, ligusticum, petroselinum, cepullam, amygdala tosta, dactylum, mel, acetum, liquamen, defrutum, oleum (Brodo sui pezzetti di carne. Pepe, ligustico, prezzemolo, cipolla, mandorle tostate, dattero, miele, aceto, salsa, vino cotto, olio).

Ius in copadiis. Ova dura incidis, piper, cuminum, petroselinum, porrum coctum, myrtae baccas plusculum, mel, acetum, liquamen, oleum (Brodo sui pezzetti di carne. Sbatti uova sode, pepe, cumino, prezzemolo, porro cotto, bacche di mirto un po’ di più, miele, aceto, salsa, olio).

Che i copadia non sono altro che pezzetti di carne lo dimostra non solo il porcinis che accompagna la prima ricetta ma soprattutto quelle che seguono.

II, 5: Alicam purgas et cum liquamine intestine et albumine porri concisi minutatim simul elixas. Elixato tolles pinguedinem; concides et copadia pulpae; in se omnia commisces; teres piper, ligusticum, ova tria: haec omnia in mortario permisces cum nucleis et pipere integro. Liquamen suffundes, intestinum imples, elixas et subassas, vel elixum tantum appones (Pulisci la spelta e lessala in salsa di intestini e bianco di porro sminuzzato; taglia anche pezzetti di polpa, mescola tutto; pesta pepe, ligustico, tre uova: mescola tutto in un mortaio con noci e pepe intero. Versa la salsa, riempine un budello, lessa e arrostisci leggermente, oppure servilo dopo averlo soltanto lesso).

VIII, 6: Copadia haedina sive agnina pipere, liquamine coques; cum phaseolis farctariis liquamine, pipere, latere, cum imbracto buccellas panis oleo modico. Aliter haedinam sive agninam excaldatam. Mitte in caccabum copadia, cepam, coriandrum minutim succides. Teres piper, ligusticum, cuminum, liquamen, oleum, vinum. Coques, exinanies in patina, amylo obligas (Cuoci con pepe e salsa i pezzetti di carne di capretto o di agnello; con fagioli disfatti nel farro con salsa, pepe, laser cuoci bocconcini di pane in poco olio. Altrimenti prepara carne di capretto o di agnello riscaldata: metti in una pentola i pezzetti, sminuzza  cipolla e coriandolo. Trita pepe, ligustico, cumino, salsa, olio, vino. Cuoci, versa nel piatto e addensa con amido).

Sull’etimo di copàdia (plurale di copàdium), poi, le opinioni non sono concordi. C’è chi (Papia) a suo tempo (XI secolo) lo interpretò, sulla scorta di antichi glossari, come briciola di carne, collegandolo al verbo greco κόπτω (leggi copto)=spezzare, e chi (Forcellini) in tempi più recenti (XVIII secolo) lo ha considerato variante del citato cuppèdia= ghiottoneria. Per quanto possa valere la mia opinione io non escluderei un rapporto con la serie copa=ostessa, caupo o copo=oste, caupona=ostessa, osteria. In ogni caso i copàdia, come abbiamo visto, non sono nemmeno vagamente dei dolci ma mostrano un rapporto strettissimo e costante con la carne (da qui la traduzione con pezzetti di carne; colgo l’occasione per ricordare che pezzettu, chiara italianizzazione di pezzetto, è a Nardò una corta salsiccia, specialità tipica delle trattorie da tempo immemorabile), dunque tra copàdia e cupèta non ci può essere nessun rapporto di parentela.

Infatti le origini di questa delizia sono arabe, come mostra agevolmente cubaita, la variante siciliana, protagonista dell’inizio di questo post, della nostra cupeta. Cubàita, infatti, come oggi concordano gli etimologisti, non è altro che la trascrizione fedele dell’arabo qubbayt=mandorlato. E da cubaita il cubaydario attestato in un atto palermitano del 1287 (notaio De Citella, I, 127, 360).

Che cupeta fosse di origine araba, però, l’avevano già affermato ai loro tempi i Filopatridi nell’opera prima citata, da cui ho tratto il dettaglio che segue:

E per la par condicio faccio seguire alla carta napoletana una foto, un po’ più recente ma d’epoca, neretina.

Nardò, Piazza Salandra prima e dopo l’installazione della Fontana del Toro (1930) con la demolizione della bottega dei Cupitari.

Spero di aver bloccato, così, l’onda d’urto di quest’altra bomba di superficialità (fanno più danno di quelle di profondità autentiche …) per evitare che cibernauti troppo creduloni, improvvisatisi saggisti, trasformino in breve, grazie al copia-incolla, un’epidemia in pandemia. Ma, nel tempo che ho scritto queste righe, chissà quante altre micce sono state accese …

E, a proposito di fuoco, nonostante tutto questo, non è detto che un bel pezzo di cupeta tosta non scateni Cupido … e che alla famosa locuzione del tempo che fu vieni a vedere la mia collezione di farfalle? non si sostituisca Vieni a vedere la cupeta tosta che ho preparato apposta per te? … Evitare, comunque, di dire Vieni ad assaggiare il mio pezzetto? Non va bene, non tanto perché sarebbe una battuta … da osteria ma perché quel diminutivo sarebbe imbarazzante per lui, inquietante per lei …

_______

1 Un cuppediarum (genitivo plurale di cuppedia) non compare nell’opera di Varrone ma nelle parole di Gellio che in questo caso non possono neppure costituire tradizione indiretta in quanto chiaramente non citazione  (Noctes Atticae, VI, 16,1-6): M. Varro in satura, quam περὶ ἐδεσμάτων inscripsit, lepide admodum et scite factis uersibus cenarum ciborum exquisitas delicias comprehendit. Nam pleraque id genus, quae helluones isti terra et mari conquirunt, exposuit inclusitque in numeros senarios. Et ipsos quidem versus, cui otium erit, in libro, quo dixi, positos legat; genera autem nominaque edulium et domicilia ciborum omnibus aliis praestantia, quae profunda ingluvies vestigavit, quae Varro obprobrans exsecutus est, haec sunt ferme, quantum nobis memoriae est: pavus e Samo, Phrygia attagena, grues Melicae, haedus ex Ambracia, pelamys Chalcedonia, muraena Tartesia, aselli Pessinuntii, ostrea Tarenti, pectunculus [ …], helops Rhodius, scari Cilices, nuces Thasiae, palma Aegyptia, glans Hiberica. Hanc autem peragrantis gulae et in sucos inquirentis industriam atque has undiquevorsum indagines cuppediarum maiore detestatione dignas censebimus, si versus Euripidi recordemur, quibus …  (Marco Varrone nella satira che scrisse sui cibi parla in versi costruiti in modo simpaticissimo ed elegante delle squisite delizie dei cibi dei pranzi. Infatti espose e condensò in versi senari moltissime cose di questo tipo che questi ghiottoni cercano per terra e per mare. E chi ha tempo libero legga proprio questi versi posti nel libro che ho detto; i tipi poi e i nomi e i luoghi di origine dei cibi che si distinguono su tutti gli altri, che la profonda ingordigia investigò, che Varrone indagò condannando, sono press’a poco queste a mia memoria: il pavone da Samo, il francolino dalla Frigia, la gru da Melica, il capretto da Ambracia, il tonnetto dalla Calcedonia, la murena da Tartesso, gli aselli da Pessinunte, le ostriche da Taranto, il pettine [ …], lo storione da Rodi, gli scari dalla Cilicia, le noci da Taso, il dattero dall’Egitto, la ghianda dalla Spagna. Riterremo poi degne di maggiore riprovazione questa operosità della gola che ricerca e richiede i sapori e queste indagini di ghiottonerie da ogni parte, se ricordo i versi di Euripide con cui …).

Il cuppedo messo in campo nel terzultimo dei links costituenti la lista nera di oggi, dunque, non esiste in Varrone ma anche se, per assurdo, fosse ricorso , essendo della terza declinazione, avrebbe dovuto dare, da cuppèdine(m) non cupèta ma, tutt’al più, cuppètine.

2 Sull’episodio ecco il testo originale perché il lettore si renda conto dell’assurdità di certe affermazioni: IX, 6, 5-7: Quod ubi est Capuam nuntiatum, evicit miseratio iusta sociorum superbiam ingenitam Campanis. Confestim insignia sua consulibus, fasces lictoribus, arma, equos, vestimenta commeatus militibus benigne mittunt; et venientibus Capuam cunctus senatus populusque obviam egressus iustis omnibus hospitalibus privatisque et publicis fungitur officiis (Quando giunse a Capua la notizia [dell’umiliazione delle forche caudine], la giusta pietà degli alleati prevalse sulle superbia congenita ai campani. Subito generosamente mandano le loro insegne ai consoli, i fasci ai littori, armi, cavalli, vesti, vettovaglie per i soldati; e per quelli che giungono a Capua tutto il senato e il popolo venuti incontro assolvono ai doveri dell’ospitalità pubblici e privati). Commeatus (=vettovaglie) si è specializzato prodigiosamente nei links segnalati nella nostra cupèta.

3 Τοῦ δὲ ἀμύλου μνημονεύει Τηλεκλείδης ἐν Στερροῖς οὑτωσὶ λέγων·

 φιλῶ πλακοῦντα θερμόν, ἀχράδας οὐ φιλῶ,

χαίρω λαγῴοις ἐπ᾽ ἀμύλῳ καθημένοις.

Τούτων ἀκούσας ὁ Οὐλπιανὸς ἔφη:  Ἀλλ᾽ ἐπειδὴ καὶ κοπτήν τινα καλεῖτε, ὁρῶ δὲ ἑκάστῳ κειμένην ἐπὶ τῆς τραπέζης, λέγετε ἡμῖν, ὦ λίχνοι, τίς τοῦ ὀνόματος τούτου τῶν ἐνδόξων μνημονεύει. Καὶ ὁ Δημόκριτος ἔφη: Τὸ μὲν θαλάσσιον πράσον κοπτήν φησι καλεῖσθαι Διονύσιος ὁ Ἰτυκαῖος ἐν ἑβδόμῳ Γεωργικῶν. Τοῦ δὲ ἡμῖν παρακειμένου μελιπήκτου μέμνηται Κλέαρχος ὁ Σολεὺς ἐν τῷ περὶ Γρίφων οὑτωσὶ λέγων·

τρίπους, χύτρα, λυχνεῖον, ἀκταία, βάθρον,

σπόγγος, λέβης, σκαφεῖον, ὅλμος, λήκυθος,

σπυρίς, μάχαιρα, τρυβλίον, κρατήρ, ῥαφίς,

ἢ πάλιν ὄψων οὕτως·

ἔτνος, φακῆ, τάριχος, ἰχθύς, γογγυλίς,

σκόροδον, κρέας, θύννειον, ἅλμη, κρόμμυον,

σκόλυμος, ἐλαία, κάππαρις, βολβός, μύκης.

Ἐπί τε τῶν τραγημάτων ὁμοίως·

ἄμης, πλακοῦς, ἔντιλτος, ἴτριον, ῥόα,

ᾠόν, ἐρέβινθος, σησάμη, κοπτή, βότρυς,

ἰσχάς, ἄπιος, πέρσεια, μῆλ᾽, ἀμύγδαλα.

Ταῦτα μὲν ὁ Κλέαρχος· Ὁ δὲ φλυακογράφος Σώπατρος ἐν τῷ ἐπιγραφομένῳ Πύλαι δράματί φησιν·

τίς δ᾽ ἀναρίθμου μήκωνος εὗρε κοπτὰς

ἢ κνηκοπύρους ἡδονὰς τραγημάτων ἔμιξεν;

Ἀπέχεις, ὦ καλέ μου λογιστὰ Οὐλπιανέ, τὴν κοπτὴν ἧς συμβουλεύω σοι ἀπεσθίειν. Καὶ ὃς οὐδὲν μελλήσας ἀνελόμενος ἤσθιεν.

4 Dell’opera ci resta solo l’epitome di Paolo Diacono (VIII secolo d. C.).

5 Oenogarum, una salsa di pesce e vino, è dal greco οἴνος (leggi òinos)=vino e γάρον (leggi garon)=salsa di pesce.

6 Lamàscinu, il nome dialettale salentino della susina, è deformazione di damascènum. La ritrazione dell’accento può essere spiegata come fenomeno analogico rispetto al medioevale damàsticum.

 

La cupeta

da "salentissimo.it"
da “salentissimo.it”

di Pino de Luca

 

“ … chisto non é migliaccio che se pozza spartire a fella, perzò è forza che ad uno tocca la fava della copeta e l’autre se pigliano lo palicco.”

(Lo cunto de li cunti, Giovan Battista Basile, 1636)

Come è d’uopo, i napoletani hanno metafore molto colorite. Il Re deva dare la figlia in sposa e i pretendenti sono cinque e allora spiega che Cianna, la figlia, non è una torta di semolino (migliaccio) che si possa dividere a fette (fella) e quindi uno si prende la “fava della copeta” e gli altri si prendono lo stuzzicadenti (palicco).

Ma cos’è la “fava della copeta”? Se si paragona alla principessa dev’essere la parte preziosa. Se consideriamo il baccello (ùngulu), la fava è la parte interna, quella più dolce e saporita. Ma ùngulu e copeta cosa hanno a che spartire? E la copeta, precisamente cosa è?

Cominciamo con la risposta semplice: ùngulu e copeta condividono la forma (allungata) e il fatto che hanno una parte esterna ed una interna. Nella copeta essa è costituita da mandorle o noci o nocciole o, per i più poveri, da “nùzzuli” (semi di albicocca ma non di “spergia” che quelli sono velenosi … ne riparleremo di questo) e l’esterno da zucchero, miele o vincotto.

La copeta altri non è che quella cosa che caratterizza ogni festa del sud e che si chiama torrone, croccante, copeta, cupeta, cubbaida, ecc.

Accade molte volte che i cibi viaggino sicché Cremona è, dicono, la patria del Torrone sol perché la prima forma con cui compare è quella del Torrazzo, torre campanaria del duecento. I francesi, a loro volta, indicano il torrone (panis turronis) come il pane di Tours (patria di San Martino e di Martino IV, relegato dal sommo poeta nel Purgatorio per la sua golosità. So che Martino IV è Martino II ma qui non stiamo a correggere Dante, o, meglio, i suoi esegeti.)

Per la verità negli archivi di Palermo c’è un atto notarile che riguarda un tale Federico che, di mestiere, faceva il “cubaydario” ovvero faceva la cubaita, assai probabilmente traduzione locale del dolce nordafricano da strada che si chiama “qubbat” ovvero madorlato. Questo documento è del 1287 …

Solo che … i romani avevano un vocabolo: “cupediae” che significa “ghiottonerie” e il “cuppedinarius” era il “venditore di ghiottonerie”.  Ma nelle grandi pere culinarie latine la copeta non compare come ghiottoneria. Non ci resta che rassegnarci ad accettare l’origine nordafricana di questo dolce difficile da fare e difficile da mangiare. Se alla copeta ti approcci in modo aggressivo essa ti resiste, si oppone. Ma se la tieni in bocca dolcemente, si scalda, si scioglie e ti cede fragranze e sapori indimenticabili.

Perché di copeta ne esistono diverse varianti, ogni “cupetaru” ha le sue, chi aggiunge la scorza di agrume, chi i pinoli, chi i pistacchi, chi la cannella, di cupeta, i cui ingredienti principali sono le mandorle e il miele se ne possono fare millanta. Far qui ricette non é il caso tanto se non ci si esercita con qualcuno che la sa fare e insegna a “lavorarla sul marmo”, l’unica cosa che riuscireste a fare è quella di buttare tutto, anche i recipienti.

Sarebbe bello se nella calza della Befana qualcuno si fosse ricordato di metterci della “cupeta” …

La “cupeta” dei salentini

di Massimo Vaglio

Gli ingredienti della cupeta sono: mandorle leggermente tostate zucchero e aroma alla vaniglia. Viene realizzata in almeno tre versioni: cupeta nera, (con mandorle integre); cupeta bianca, con mandorle pelate; cupeta macinata, con mandorle pelate e tritate. Si mette lo zucchero nel polsonetto, si bagna con l’acqua in modo che ne derivi uno sciroppo molto denso, si pone sulla fiamma che deve essere abbastanza viva e, quando lo zucchero diviene di un bel colore ambrato, si unisce un analogo quantitativo di mandorle, si mescola bene, si aromatizza con la vaniglia e si sorveglia, mescolando di tanto in tanto. Quando lo zucchero bollendo non genera più schiuma e appare limpido, viene tolto prontamente dalla fiamma onde evitare che superi la cottura (condizione che lo renderebbe amaro) . Si versa il contenuto del polsonetto sopra un tavolo di marmo unto di olio, dove si procede a spatolarlo un bel po’, rivoltandolo ripetutamente con uno specifico utensile che altro non è che una sorta di coltello dalla lama rettangolare  molto allungata, alta e con affilatura appena accennata, che si utilizza a mo’ di spatola. Appena accenna ad indurirsi si stende velocemente e utilizzando sempre il coltello, si rifila ai bordi, in modo da ottenere una forma rettangolare il più regolare possibile. Infine, si taglia la cupeta così ottenuta, a stecche larghe due dita e spesse una.

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