Luigi Chiriatti, il più grande erede culturale salentino di Ernesto De Martino

 

di Romualdo Rossetti

Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.

Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.

Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.

Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.

Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.

Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.

Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.

Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.

Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.

Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.

Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.

In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.

Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.

 

Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil

Marcus Tullius Cicero,  Epistola ad familiares

 

 

Intervista a una tarantata

Tarantate, di Luigi Caiuli

 

 

Intervista alla sig.ra Domenica di Minervino di Lecce analisi antropologica inerente La sua esperienza di tarantata

 

a cura di Romualdo Rossetti

 

Buongiorno signora! Potrebbe raccontarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Se può avvicinarsi e alzare la voce, per cortesia, perché da questo orecchio non sento molto!

 

Certo! Dicevo …può parlarci di quando venne morsa dalla tarantola?

Si… certo!

 

Per prima cosa può dirci come si chiama, quanti anni ha e dove è nata?

Mi chiamo ….. Domenica e sono nata a Minervino di Lecce il 29.12.1929.

 

Bene! A che età è stata morsa dalla tarantola?

Da giovane, prima di sposarmi!

 

Si ricorda in che anno è accaduto?

L’anno preciso non me lo ricordo però è stato due, tre anni prima che mi sposassi…io mi sono sposata nel 1956, quindi sarà stato nel 1954, 1953…credo!

 

Può raccontarci cosa successe? Se si stanca può fermarsi quando vuole!

Si…certo! Ero andata insieme a tutta la mia famiglia presso un fondo che mio padre possedeva a Minervino e che si chiamava “I Madrigali”, che poi è stato diviso alla sua morte tra i miei fratelli, e stavamo tutti impegnati per la mietitura. Quel giorno era venuta anche mia madre, poverina, nonostante soffrisse di dolori reumatici. Verso mezzogiorno mentre ci stavamo preparando a mangiare qualcosa ebbi l’esigenza di andare in bagno e così mi allontanai e mi inginocchiai dietro un piccolo muro di pietre a secco per non essere vista dagli altri. Quando mi alzai mi accorsi che da sotto un ginocchio era scappata via una taranta, di quelle che hanno il colore rosso e nero. Quando la vidi mi spaventai e dissi dentro di me; “Mamma mia na taranta era, Santu Paulu meu! Speriamo che non mi abbia morso!”. Dolori da pizzicatura non ne avevo sentiti…però, rimasi col dubbio. Mi alzai e raggiunsi gli altri ma poco dopo venni colta da brividi di freddo, un freddo che aumentavano sempre di più… ma un freddo… un freddo… un freddo che ti entrava nelle ossa…

 

Si ricorda in che periodo accadde?

Si che mi ricordo il periodo… il giorno preciso no… ma il periodo me lo ricordo! Era nella prima decina di giugno, intorno all’8, 9 … giorno più, giorno meno. Faceva un caldo che spaccava le pietre ma io sentivo sempre più freddo…sempre più freddo. Tremavo dal freddo. Poi cominciai a sentirmi male… accusavo nausea e poi dolori alle ossa e alle parti delle donne. Erano dei dolori che andavano e venivano ma che si facevano sempre più forti… sempre più forti, tanto forti che non resistetti più e dissi a mio fratello Orlando di accompagnarmi a casa con la bicicletta. Così facemmo! Durante il percorso verso casa venni presa da dolori talmente forti che per reggermi mi aggrappano al collo di mio fratello tanto forte che gli faci male, poverino! Nonostante tutto arrivammo a casa e mi coricai, ma i dolori non passavano… aumentavano!

 

Una volta arrivati a casa che successe?

Successe che mio fratello scappò a chiamare il medico. Nel frattempo mia madre e i miei altri fratelli rientrarono anche loro a casa. Ben presto si sparse la notizia che non stavo bene e cominciarono a venire le vicine per vedere come mi sentivo. La casa di mio padre aveva un lungo cortile che si riempì di gente. In quell’epoca ci si voleva bene, non era come adesso che ognuno pensa ai fatti suoi e con i vicini nemmeno ci si saluta, allora, ai miei tempi era diverso… ci si aiutava.

 

Lei si sentì un pochino meglio una volta arrivata a casa e distesasi a letto?

Macché… non trovavo pace! Non riuscivo a trovare una posizione a letto che mi desse sollievo. Me ne fregavo che ero in vestaglia corta. Quando venivano quei dolori tanto forti non ci pensavo a chi c’era in casa. Facevo “piedi-capitali”, un po’ mettevo la testa sul cuscino un po’ la mettevo dove si mettono i piedi, ma niente, i dolori non terminavano. Ad un certo punto entra mio zio Ottaviano, il fratello di mio padre, per vedere come stavo. Vedendomi sofferente mi chiese: “Ma che ti è capitato nipote mia?” E io gli risposi stizzita: “Lasciami stare zio, che tu non puoi capire… questi sono i dolori del partorire!” Allora tutte le donne presenti nella stanza capirono la causa del mio malessere… la taranta aveva parlato tramite me e si era presentata. Era una “taranta de partu”. Subito dopo giunse mio fratello dicendo di non essere riuscito a trovare il medico perché gli avevano detto che era  dovuto andare fuori paese per una visita… ma tanto ormai non serviva più il dottore. Tutte mi dicevano che l’unica soluzione era andare a Galatina a chiedere la grazia a San Paolo perché si trattava di taranta. Fu così che i miei si organizzarono per farmi andare a Galatina. Era già pomeriggio inoltrato.

 

Che cosa accadde allora?

I miei fratelli preoccupati cercarono subito un’automobile affinché arrivassi presto a Galatina, la trovarono pure ma adesso non ricordo il motivo per il quale non andammo… forse non si misero d’accordo per il costo del viaggio… non ricordo… in quell’epoca nel mio paese c’era solo un’automobile a disposizione di un autista che la utilizzava per accompagnare le persone che avevano bisogni urgenti. Sta di fatto che quella volta fallì il tentativo di utilizzare un’automobile per raggiungere Galatina, né potevo chiedere ai miei fratelli di accompagnarmi in bicicletta perché era notte ma soprattutto perché i forti dolori non mi consentivano si stare seduta sul tubo della bicicletta da uomo non so come si chiama… ma ci siamo capiti! Allora scegliemmo di andare in biroccio e così  partimmo. Mi accompagnò mio fratello Orlando. Mia madre rimase a Minervino perché non si sentiva molto bene in quei giorni. Mio fratello Orlando era scettico riguardo il morso della taranta e questa cosa mi infastidiva molto perché non mi credeva. Mentre passammo per i vari paesi io mi vergognavo molto del mio stato ma soprattutto del fatto che le persone mi potessero vedere così tanto sofferente. Pensi che quando venivo presa dai dolori per non gridare troppo mi tenevo stretta ad un aggeggio che era legato al biroccio proprio come fanno le donne gravide quando stanno per partorire. La mia, come ho detto prima, era una “taranta de partu”!

 

Ci può spiegare meglio questo dettaglio? Che significa la parola “taranta de partu”?

Deve sapere che dalle nostre parti si è sempre detto che le tarante prima di essere dei ragni erano delle persone come noi, che facevano tutti i mestieri che facciamo noi e tutte le azioni che facciamo noi; solo che erano troppo orgogliose e avevano offeso Dio col loro modo di fare, quindi il Signore per punizione le aveva trasformate in tarante, in ragni. Durante la loro trasformazione continuarono a fare ciò che stavano facendo … c’era chi ballava mentre venne trasformata e se ti mordeva una di quella ti costringeva a ballare, c’era chi cantava e una volta diventato ragno se ti mordeva ti obbligava a cantare, c’era chi dormiva e se ti mordeva come ragno ti faceva dormire e via dicendo. La mia era stata una persona che stava per partorire e aveva le doglie mentre venne tramutata in taranta quindi il suo morso mi aveva dato tutti i dolori del parto… le doglie diciamo.

 

Come fa a sapere con certezza che i suoi erano dolori simili alle doglie del parto e non invece qualcos’altro?

Figlio mio… come facevo a sapere che erano dolori da parto? Perché stavo morendo di doglie proprio come le donne prene quando devono partorire! Solo io so cosa ho passato… gli altri non possono minimamente immaginare! E poi, tutte le persone che erano venute a casa mia e che avevano partorito e mi avevano vista in quello stato subito avevano capito che si trattava di quello… di taranta partoriente. Lo compresi pure io, dopo maritata, quando mi capitò di assistere parenti o vicine di casa che stavano partorendo! I miei dolori e il mio comportamento era stato simile al loro! Io non ho avuto figli ma i dolori del parto li ho subiti. All’epoca, deve sapere che solo le donne maritate potevano assistere a un parto… se una donna non era sposata non poteva assistere anche se era grande d’età, questo, per una questione di pudore. Chi non aveva conosciuto il marito non poteva assistere a una nascita…all’epoca era così… e all’epoca tutte partorivano in casa con l’aiuto della mammana… a volte manco il dottore c’era, veniva chiamato solo in casi gravi.

 

Una volta giunti a Galatina che cosa accadde?

Arrivammo che era già sera e la cappella di san Paolo era chiusa. Non c’era nessuno. Per prima cosa cercammo il sagrestano perché avevamo saputo che era lui che custodiva le chiavi della cappella. Quando venne e aprì la porta per prima cosa mi disse che dovevo bere l’acqua del “pozzo di San Paolo”. Raccolse con un vecchio secchio l’acqua del pozzo e me la porse in una specie di boccale unto. Appena la bevvi sentii che era acqua grossa che faticavo a ingoiare. Lui mi disse che dovevo sforzarmi a bere altrimenti il santo non mi avrebbe fatto la grazia. Bevvi a forza quell’acqua, prima piano poi a piccoli sorsi. Mamma mia che brutto sapore aveva quell’acqua amara! Era acqua grossa! Ne bevvi poca! Dopo un poco vomitai…vomitai il veleno, una volta… due volte e sul pavimento, proprio dove vomitavo si era formata tanta schiumazza segno del veleno che avevo messo fuori. Notai che col vomito i dolori piano piano stavano scomparendo. Dopo poco tempo mi sentii meglio. Dissi a quel punto a mio fratello Orlando e al padrone del biroccio che potevamo ritornare a Minervino. Avevo bevuto l’acqua del pozzo, i dolori erano scomparsi… potevo ritenermi soddisfatta… san Paolo mi aveva fatta la grazia…pensavo!

 

Poi cosa accadde?

Una volta arrivati a Minervino i parenti si tranquillizzarono nel vedermi rimessa. Raccontai loro come erano andati i fatti poi loro fecero ritorno alle loro case. Vidi mia madre molto preoccupata ma non ne compresi la ragione. Appena rimanemmo soli in casa i dolori ritornarono più forti di prima. Mi sentii persa… San Paolo non mi aveva fatta la grazia, questo comportava il fatto che sarei dovuta ritornare a Galatina per chiedere ancora la grazia al santo. Mi si avvicinò mia madre e mi disse che nonostante non si sentisse affatto bene quella volta mi avrebbe accompagnata lei. Seppi dopo, da mia sorella Nina che quando ero partita con mio fratello Orlando, la prima volta, loro due si erano appisolate sul letto matrimoniale di mia madre perché mio padre era ritornato al campo a terminare la raccolta delle spighe e per sorvegliare i covoni affinché non li rubassero. Mia madre una volta appisolata si era messa a mugolare nel sonno e a agitarsi tanto da svegliarsi di soprassalto. Tutta sudata e pallida come un cencio aveva detto a mia sorella che aveva visto in sogno san Paolo che l’aveva ammonita dicendole che se non mi avesse accompagnata lei a Galatina, in quanto madre, non mi avrebbe fatto la grazia. Una volta svegliata era rimasta molto turbata da quel sogno e aveva intuito che pur apparendole in buono stato di salute non ero guarita. Lei già lo sapeva perché san Paolo glielo aveva detto in sogno.

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

Dunque ritornaste a Galatina?

Si.

 

Ci racconti. Allora, della sua seconda visita al Santo!

Partimmo di mattina presto che era ancora buio sempre con lo stesso proprietario del biroccio. Quella volta mia madre si sedette accanto a me. Mio fratello Orlando rimase a casa perché doveva aiutare mio padre. Durante il tragitto quando venivo assalita dai dolori mi aggrappavo a mia madre e lei mi consolava. Nuovamente dovemmo passare per i paesi e quella cosa mi diede ancora molto fastidio. Non volevo mi vedessero in quello stato. Giungemmo a Galatina in prima mattinata e quella volta trovammo la porta della cappella aperta e molte tarantate con i loro accompagnatori erano già entrate dentro o si erano fermate fuori. Quel giorno vidi tante altre tarante, chi stava seduta mezza appisolata, chi balbettava qualcosa che non riuscivo a comprendere, chi muoveva freneticamente la testa con i capelli scompigliati, chi cercava di arrampicarsi sull’altare. Io avevo sentito dire che alcune tarante, anche se vecchie, si muovevano come ragni e si arrampicavano dove per tutti gli altri uomini non era possibile arrivare.  Mi avevano anche raccontato che alcune di loro riuscivano a diventare sinuose come le sacare al punto da riuscire a passare tra i piedi delle sedie senza muoverle o che alcune riuscivano a rimanere in equilibrio su uno spazio così piccolo (mima lo spazio di un palmo) senza cadere per tanto tempo. Erano tutte cose che mi erano state raccontate da gente che era stata prima di me, gente di cui potevo fidarmi. Quel giorno ebbi, invece, modo di vedere una tarantata che aveva preso per il collo un signore che indossava una cravatta rossa e nera. Si gettarono in otto su di lei per trattenerla. Se non l’avessero fatto lo avrebbe soffocato con le sue mani. Le tarantate avevano una forza straordinaria, una forza che nemmeno si può immaginare. Quando entrai nella cappella notai un uomo che stava come se stesse dormendo e una donna, che seppi essere sua moglie, che di fronte la statua del santo nella teca gli diceva: “Ma perché non gliela fai la grazia? Perché? Perché non gliela fai?”. Senza dire una parola andai al pozzo mi feci passare il secchio e ingurgitai moltissima acqua, ma davvero tanta. Subito ripresi a vomitare, una… due… tre… quattro volte, finché non mi sentii del tutto liberata dal veleno. Mi sentì allora subito bene, talmente bene come se non mi fosse accaduto nulla. Fu allora che mi avvicinai alla signora che interrogava il santo e le dissi: “Signora mia, guarda la statua del santo… vedi cosa indica col dito? Indica il pozzo! Se non fai bere a tuo marito tanta acqua quello non ti sana!”

La donna mi guardò riconoscente e mi disse che era più di un anno che suo marito versava in quello stato… non dava più segni di vita… non moriva ma nemmeno campava più. Si sentiva disperata!

Dissi a mia madre che mi sentivo davvero bene e che volevo ritornare a casa ma prima di andare al biroccio volevo passare a rendere omaggio a San Paolo e San Pietro presso la chiesa madre che distava poco. Mentre parlavo con mia madre fui fermata da un signore distinto che mi intervistò. Mi disse di essere uno studioso delle tarantate e io gli raccontai cosa mi era accaduto. Dopo ci recammo in chiesa e ringraziammo san Paolo e anche san Pietro. Fu allora che notai che la statua di san Pietro era molto più preziosa di quella di san Paolo. Era a mezzobusto tutta d’argento… era bellissima. Anche quella di san Paolo era bellissima ma era di cartapesta. Dopo aver detto le preghiere ritornammo dal proprietario del biroccio e lo vedemmo litigare con un signore.

 

Cosa era accaduto?

Cosa era successo? Era successo che il padrone del biroccio aveva legato il cavallo davanti a uno studio fotografico ed era andato a farsi quattro passi per fumarsi una sigaretta. Al ritorno aveva saputo che il suo cavallo con un colpo di muso aveva mandato in frantumi la cornice di un quadro di san Paolo e ora il proprietario dello studio pretendeva che aggiustasse la cornice. Noi proponemmo di dargli dei soldi per il danno ma lui fu irremovibile… ci disse: “fin quando non aggiustate il quadro e non lo appendete dove stava di qua non ve ne andrete!”. Allora con la santa pazienza convincemmo l’uomo del biroccio ad andare a trovare un falegname e un vetraio. Così accadde. Dopo tanto tempo riuscimmo a riparare il danno e fare finalmente ritorno a casa. Fu una giornata stancante… molto stancante, tanto per me quanto per mia madre.

Il ballo della tarantata, olio su tela di Daniele Bianco

 

Si recò altre volte a Galatina a rendere omaggio a san Paolo in occasione della sua celebrazione il 29 Giugno?

Certo! Ci andai quell’anno e altre due volte da sposata. Quell’anno andai in bicicletta perché avevo recuperato tutte le forze e mi sentivo bene. Avevo superato Corigliano d’Otranto quando venni superata da un biroccio che portava una tarantata che si stava scalmanando. Quella si mise a gridare: “Haiiiiiiiiiiii…haiiiiiiiiiii” e quel grido mi fece di colpo perdere tutte le forze. Stavo quasi cadendo dalla bicicletta e mi misi subito a tremare. Mi fermai e lasciai che si allontanassero, poi ripresi a pedalare verso Galatina.

 

È vero che il santo vi lascia i segni della sua presenza in prossimità della sua festività?

Si è vero! Da quando venni morsicata nel periodo della sua celebrazione mi sento strana… stanca, svogliata… frastornata diciamo! Anche adesso mi capita, poi quando mi dicono che è la festa di San Paolo capisco la causa del mio malessere. È il santo che vuole che mi ricordi del suo intervento prodigioso e allora gli recito un Rosario con tutti i misteri, mai per rinfaccio. È stato san Paolo che mi ha guarita non i medici!

 

La ringrazio di tutto signora. La sua testimonianza è davvero molto importante. Grazie ancora!

Grazie a lei… che santu Paolo e lu Signore vi benedica e vi protegga!

 

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

 

Analisi antropologica della testimonianza

L’esperienza vissuta dalla Sig.ra Domenica di Minervino di Lecce intorno alla metà degli anni ’50, praticamente a ridosso della spedizione di ricerca di Ernesto De Martino a Galatina e nel Salento, proprio perché slegata dal comune aspetto coreutico-musicale presente nel fenomeno catartico del tarantismo, risulta essere particolarmente preziosa ai fini di un’accurata indagine antropologica e sociale. Nel racconto emerge una forte fede religiosa nella vita della signora fin dalla sua giovane età. La signora Domenica apparteneva a una numerosa famiglia contadina legata alla mezzadria, ma non solo, di discrete condizioni economiche. La signora non ha mai sofferto di disturbi di natura psicosomatica né psichiatrica, né si annoveravano casi psicopatologici in famiglia come risulta da accurata indagine. La signora e la sua famiglia di appartenenza godeva nella sua comunità di ottima stima, stima che è proseguita anche nel paese del marito divenuta comunità di residenza una volta sposata.

È presente in lei, come precedentemente accennato, un fortissimo attaccamento all’ambito religioso che rasenta l’affabulazione. Mi risulta che la signora sia stata educata fin dalla sua giovanissima età dalla sorella minore di suo padre, una “suora di casa” che impossibilitata per motivi di salute a esercitare in convento i doveri in una non meglio specificata congregazione religiosa venne dispensata dai voti ed esercitò nella sua abitazione la missione cristiana di accoglimento, custodia cura religiosa degli infanti di genitori entrambi lavoratori. Anche gli altri suoi familiari (fratelli, sorelle e genitori) risultano essere tutti dei cattolici credenti e praticanti tutte le funzioni religiose.

Dalla sua narrazione emergono numerosi spunti d’indagine e riflessione quali:

  • La presenza di un rimando mitologico riguardo l’origine del fenomeno del tarantismo (metamorfosi di uomini e donne in tarante per punizione divina) che richiama alla mente la vicenda mitica di Atena e della tessitrice Aracne, fatto questo che lascia supporre una presenza latente di una rimembranza etnica nel sottobosco rurale demologico salentino;
  • Il convincimento pre-ippocratico che la malattia provenga dalla sfera divina per cause occulte, il più delle volte per una manchevolezza volontaria o involontaria del malato ma anche di alcuni suoi familiari;
  • L’emergere di una tradizione sapienziale diagnostica di natura rurale laddove altre tarantate o testimoni di tarantate convincono il malato a lasciar perdere l’iter medico-scientifico e di rivolgersi unicamente a quello religioso;
  • Un continuum di una presenza asclepiea nella vicenda che vede nell’acqua il farmakon per certi versi omeopatico (acqua amara e disgustosa) con cui si ottiene la salute perduta. Non va trascurata la vicinanza geografica e culturale con la tarantata Filomena da Cerfignano che nell’opera La Terra del Rimorso di Ernesto De Martino viene fotografata da Franco Pinna mentre esegue il rito dell’incubatio onirica di sicuro rimando iatromantico asclepieo. Incubatio onirica che nel caso specifico della signora Domenica è presente nella vicenda del sogno premonitore della madre;
  • Non si esclude che l’intervistatore della signora Domenica possa essere stato lo psichiatra Giovanni Jervis in persona o qualche suo stretto collaboratore poiché in quel periodo il neurologo era presente in zona per approfondire autonomamente il fenomeno del tarantismo prima di fare parte, dal 1959 al 63 dell’equipe di Ernesto De Martino;
  • In ultimo l’appartenere alla “ciclicità dell’evento” anche da vecchia a dimostrazione che nella signora permangono indisturbati due modi vi vivere la storia, quello ciclico del ritorno di radice religiosa arcaica e contadina, presente nel riproporsi del tenue malessere in corrispondenza del giorno della celebrazione del santo; e quello lineare cristiano, proprio invece della vita quotidiana, che procede inesorabile, con i suoi avvenimenti profani, verso la fine dei giorni.
Galatina, il pozzo di San Paolo

Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

Il tarantismo nel Salento di ieri

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica  arte (1644) del P. Atanasio Kircher
Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 di Ermanno Inguscio

Sembra trascorso un secolo da quando lo studioso Ernesto De Martino, calato nel Meridione con la sua  équipe di studiosi, interessandosi con perizia scientifica al fenomeno del tarantismo, aveva finito col definire il Salento “terra del rimorso”. Egli aveva così inseguito e rintracciato gli ultimi esempi viventi, donne provenienti da ceti popolari, ma anche uomini,  che legavano i propri disagi psicofisici al mito dell’onnipotente  paterfamilias  e si rifugiavano nell’illusione della cappellina di San Paolo in Galatina (Lecce), per mezzo del ballo della pizzica pizzica,  che fosse l’unico strumento di sollievo e persino di guarigione dai propri mali. Ed era quasi impossibile avere testimonianze dirette  o riferite delle contraddizioni della vecchia civiltà contadina al cui interno, e sembra passato più di un secolo, esplodevano conflittualità di ruoli socio-familiari e di contesti economico-culturali di un tempo ormai svanito dietro la massificante opera dei mezzi della odierna comunicazione sociale.

Ma è proprio di ieri, in quel di Ruffano, dove oggi la locale biblioteca comunale “Don Tonino Bello” organizza un incontro culturale con l’Università del Salento dal titolo  Racconti di una tarantata. Ruffano e il tarantismo di Michela Margiotta, che mi è occorso di dover ascoltare una storia singolare di un mio vecchio compagno di scuola. Costui, non me ne aveva mai fatto cenno, nel ricordarmi di fare un salto in biblioteca ad ascoltare sul tema l’antropologo Eugenio Imbriani, moderatrice Monia Saponaro, mi riferisce di essere rimasto orfano di madre in tenerissima età, una tarantata con tipici disturbi ricorrenti, finita suicida in un pozzo d’acqua, dopo che le preghiere al Santo dei serpenti e della tarantola, San Paolo di Tarso, fatte ogni anno a Galatina, nella sua cappellina, accanto al “pozzo dei miracoli”, si erano tragicamente rivelate vane.

L’amico mi racconta con foga che lo scetticismo del padre lo aveva portato,  anche per dare un taglio all’appuntamento annuale con la visita al Santo,  da fare in traino col cavallo fino a Galatina, a cercare di dissuadere la povera moglie spesso in preda  alla micidiale trance: da un  muretto di pietre era sbucata una serpe nera, che si era attorcigliata attorno alle gambe della povera donna. Se n’era liberata soltanto dopo avere promesso di tornare a pregare il Santo dei tarantolati. L’allora bambino di tre anni, finito poi in collegio come conseguenza dell’orfanezza, solo da adulto aveva potuto più volte  ascoltare il racconto del triste destino della povera madre.

Sono rimasto di sasso  all’ascolto di tale tragica esperienza e ho dovuto rimarcare che il tema del convegno, il fenomeno del tarantismo nel nostro Salento, che mi ha visto impegnato in ottobre scorso  in un  Convegno Internazionale a Lisbona, non è poi una tematica tanto lontana dalla nostra vita.

In effetti spunto dell’incontro lo ha offerto un vecchio libro di Annabella De Rossi,  Lettere da una tarantata (De Donato Editore, 1970), che nel proprio nel1963, venendo a Ruffano, nel territorio dove insiste Torrepaduli , nota per la pizzica scherma del “ballo di San Rocco”, aveva conosciuto Michela Margiotta, anch’essa tarantata,  e ne aveva trascritto le lettere, appuntate dalla povera vecchia ormai quasi settantenne, tra errori grammaticali ed espressioni idiomatiche, che pure riuscivano ad aprire uno squarcio su  delicati dissidi interiori.

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del   P. Kircher (1673)
Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

Ma “la Margiotta”, Michela Margiotta, per noi ragazzini terribili dissacratori di ogni cosa, al tempo della cosiddetta infanzia felice, era l’oggetto dello  scherno e degli schiamazzi nella vecchia piazza del paese ad ogni suo passaggio per recarsi in qualche suo podere. Faceva un po’ paura, di bassa statura, vestita di nero, scura in volto e baffuta, con una sporta di vimini dove qualche adulto vociferava albergassero aracnidi di ogni tipo e talvolta piccoli rettili, tagliava in un baleno lo slargo “Carmelitani”, dopo avere indicato le campane della vicina Confraternita e minacciando i più discoli di farli sparire nel sacco di iuta sulle sue spalle. Un vero terribile spauracchio, utilizzato dalle giovani mamme di fronte ai capricci dei più piccoli. Ma per  quegli scavezzacollo di ragazzini più grandicelli, il passaggio in paese della Margiotta costituiva una implacabile palestra dello sberleffo. Quel micidiale coraggio dello scherno gratuito non allignava in me, ragazzino, che osservava dietro le finestre di casa il passaggio di quello strano personaggio, nella centrale via San Rocco.

Non ho mai saputo, da bambino, che in Michela si celassero disagi e dissidi degni almeno di umana pietà e commiserazione. Oggi il convegno, voluto nella sua patria, all’interno della rassegna culturale “Librare tra storia, cultura e società”, mette sotto la lente dell’analisi storica un personaggio della nostra società di ieri. Non vi era certo il benessere di oggi, ma era tuttavia il tempo del vero focolare domestico, tra il calore del camino e i racconti dei nonni, tra le caldarroste di San Teodoro e una fetta di pane arrostito all’olio appena  prodotto nell’oliveto di famiglia.

Ricordi di adulti, ricordi di bambino, come quello mio personale quando, e fu l’unica volta della vita, in cui accompagnai mia madre, negli anni Sessanta, alla festa di San Paolo a Galatina. Tanto caldo, tanta gente sconosciuta, odore rancido di candele bruciate nella chiesa parrocchiale, ne riferii nel mio volume “La Pizzica scherma di Torrepaduli” (2007): ho visto donne, vestite di nero, strisciare con la lingua sul pavimento a chiedere la grazia ai Santi Pietro e Paolo, come le ho poi riviste soltanto a Madrid nel 2005 e piccoli venditori di nastrini colorati da utilizzare nelle danze delle tarantate.

Nella festa del Santo delle “pizzicate”, San Paolo, non ho visto serpi far capolino dal pozzo, né donne in cerca di guarigione né in trance né danzare né con violinisti, tantomeno con guaritori e parenti. Ma ho nelle orecchie, ancora oggi, il fremito assordante dei tamburelli, forse a mimetizzare tragedie sopite e da nascondere. Come mi nascondevo io al passaggio di Michela Margiotta, che per me non era certo una tarantata. E dire che pensavo di non averne mai conosciute: nell’anno Duemila, poi,  non potevano essercene.

Ma mi sbagliavo. Le tarantate erano tra noi, vicino alle nostre dimore. Ma quell’amico, che ha perso da bambino sua madre suicida nel pozzo,  la tarantata, l’essere che gli aveva dato la vita, glielo vedo negli occhi, ce l’ha ancora nell’anima.

Il Salento delle leggende. Tarante e tarantate

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si può dire tutto della gens salentina, meno che non ami la propria terra.

Siamo, sostanzialmente, un popolo d’irriducibili nostalgici, forse anche perché siamo a lungo stati (e in parte lo siamo ancora) un popolo di emigranti. Anche chi scrive lo è. Pur potendo convintamente affermare che “risiedo” da molti anni a Roma, ma “vivo” nella mia Galatina.

Tra la fine dell’800 e il preludio all’orribile tragedia della Grande Guerra, un’immensa legione di disperati compatrioti, giovani e meno giovani, per lo più meridionali – da Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia –, ma anche piemontesi, veneti e friulani, invase il Nord e Sud America, imbarcandosi sugli accidentati piroscafi che salpavano dai porti di Napoli, Genova o Palermo, stipati fino all’inverosimile. Un movimento globale di decine di milioni di persone!

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A quella prima ondata ne seguì un’altra, negli anni ’50 del secolo scorso, questa volta sui cosiddetti “treni della speranza”, caracollanti verso i Paesi più emancipati del Nord Europa: Svizzera, Belgio, Francia, Germania. Un’autentica epopea, che investì anche le nostre province, e che molti ricordano ancora.

Di questi nostri fratelli salentini, non pochi tornavano periodicamente nei propri paesi (a volte in estate, più spesso a Natale), per partire nuovamente all’estero col cuore sospeso tra gioia e malinconia. Il nuovo addio era, se possibile, più cocente del primo, ma intanto quei pochi giorni del ritorno, rivissuti tra mani e occhi conosciuti, e affetti riacquisiti, e desideri finalmente appagati, ‘ricostruivano’ rapidamente l’amore per la propria piccola patria, evidenziato anche attraverso romantiche e ingenue esternazioni di fierezza. Come quella di sfoggiare orgogliosamente la nuova automobile (spesso affittata a caro prezzo, pur di fare bella figura), o regalando in abbondanza a parenti e amici pacchetti di sigarette e stecche di cioccolato.

Difficile, poi, che si mancasse alla festa del Santo Patrono – in luglio e agosto per lo più –, mossi da devozione sincera per il proprio Protettore: da Santu Roccu a Santa Cristina, da Sant’Antoniu a li Santi Medici, o alla Madonna dellaLizza, e Santu Ronzu, e innumerevoli altri… Per secoli, e per un preciso motivo, sconfinante tra il religioso e il pagano, la più importante di tutte è stata sicuramente la festa de Santu Paulu, a Galatina: il Santo delle tarantate.

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Il fenomeno delle tarantate – ampiamente studiato (e illuminato) da Ernesto De Martino – è rimasto per almeno mille anni avvolto nel mistero e nella leggenda.

Nell’ambito della comunità contadina, la manifestazione dell’evento, com’è noto, nasceva dalla credenza popolare che in campagna, nel mese di giugno, ed in particolare durante la mietitura del grano, un ragno velenoso (la tarantola o taranta) potesse “pizzicare” le persone – peraltro quasi esclusivamente di sesso femminile – provocando con il suo morso una serie di crisi isteriche, espresse poi in balli frenetici, e prolungati fino allo sfinimento. Queste danze convulse erano accompagnate ed esorcizzate con la musica (prodotta soprattutto da tamburelli e violini), e infine guarite bevendo l’acqua miracolosa del pozzo della cappella di San Paolo, in Galatina.

Perché San Paolo? Semplicemente perché l’Apostolo, durante i suoi viaggi, fermandosi nell’isola di Malta, fu qui morso da un serpente, ma sopravvisse al veleno, protetto dalla fede e dall’intercessione divina.

Le tracce più remote del tarantismo si perdono nei culti dionisiaci e nella mitologia greca, con varie leggende, delle quali s’interessò anche Ovidio. In una delle sue suggestive narrazioni, il poeta racconta di Arakne, una giovane e bellissima fanciulla, nota in tutta la Lidia per la sua arte della tessitura: produceva infatti tele ricamate di straordinaria bellezza, tanto che la stessa Pallade Athena, scesa dall’Olimpo, la sfidò a misurarsi con lei. Quasi inutile aggiungere che la gara fu vinta alla grande da Arakne, provocando naturalmente l’invidia e le ire della dea, che in un moto di stizza la tramutò in ragno, destinandola così a tessere in eterno i suoi fragili (ma pur sempre meravigliosi) lavori.

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Strettamente collegata alla devozione per San Paolo è anche quella per San Donato,

al quale peraltro molti paesi della Penisola sono dedicati: da San Donato Milanese a San Dona’ di Piave, San Donato Val di Comino, San Donato di Ninea, e altri ancora, fino al nostro San Donato di Lecce…

L’elemento che in qualche modo accomuna i due Santi è per l’appunto la danza convulsa ed eccitata, il ballo di natura isterica, che si manifesta sia con le tarantate –, di competenza, per così dire, di San Paolo –, sia con i soggetti fragili o malati di mente, generalmente colpiti da nevrastenia e epilessia, che sono devoti a San Donato. Non va infatti dimenticato che, essendo morto per decapitazione il 7 agosto 304, su ordine personale dell’imperatore Diocleziano (altri spostano l’evento ai tempi di Giuliano l’Apostata), San Donato vescovo e martire è il protettore dell’epilessia: malattia un tempo assai diffusa, e popolarmente conosciuta come ”male di San Donato”.

Più in generale, la protezione di San Donato (che nel nostro territorio è patrono anche di Montesano Salentino) riguarda tutti i danni e le complicazioni che interessano la testa e la mente. Tant’è che nei mercatini della festa patronale si usava, e in parte si usa anche oggi, comprare come talismano una piccola chiave benedetta, che porta riprodotta l’effigie del Santo: chiave da custodire gelosamente, in quanto capace di “aprire” la mente per liberarla dal demonio e preservarla da ogni male.

Si dice, infatti, che in tempi non lontani, i malati di epilessia fossero considerati invasati da spiriti maligni, per scacciare i quali si procedeva talvolta al seguente rituale di espiazione ed esorcismo: il malato e un suo accompagnatore (di solito la madre, un fratello o una sorella) entravano in chiesa inginocchiandosi, e sempre in ginocchio, baciando continuamente per terra e recitando le orazioni, procedevano fino alla statua del Santo, chiedendogli la grazia.

Nel Medioevo, invece, per curare l’epilessia si faceva uso di una rara erba selvatica, vagamente somigliante alla rùcola o al taràssaco (in dialetto chiamato pisciacane), che veniva disposta su un letto di foglie di fico o di piccole canne, sulla quale, a sua volta, veniva posato il Vangelo, mentre le donne, sedute in circolo, recitavano brevi preghiere e invocazioni. Dopo il rituale, si riprendeva l’erba e la si lavorava fino a formarne una collana, destinata ad essere sistemata al collo del malato, e da questi indossata dall’alba al tramonto per nove giorni, in attesa che dal decimo acquisisse i primi segni di guarigione.

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Tornando alle tarantate, resta da chiedersi per quale ragione gli abitanti di Galatina – loro, e soltanto loro! – non siano mai stati morsicati dal ragno fatale, mantenendosi così immuni dalle conseguenti crisi epilettiche.

Ebbene, tale miracoloso privilegio risale al tempo della predicazione di Gesù Cristo, allorché i discepoli Pietro e Paolo giunsero nel Salento, e si fermarono ad evangelizzare, fra le altre, anche le popolazioni del luogo dove sarebbe poi sorta Galatina. Qui, grazie alla generosità di una donna, che offrì loro del cibo e un giaciglio per dormire, i due affaticati Apostoli si poterono rifocillare, e san Paolo, come ringraziamento, benedisse la donna e i suoi familiari, esentandoli – anche per tutte le generazioni future – dalla contaminazione di qualsiasi genere di veleno, e concedendo altresì il potere di aiutare a guarire chiunque fosse stato morso da ragni, scorpioni o altri pericolosi animali.

Per rafforzare tale potere, san Paolo consacrò infine l’acqua di un pozzo adiacente alla casa della donna, proclamando che alle persone “pizzicate” sarebbe bastato bere quell’acqua, per annullare definitivamente ogni malefico effetto di tossicità. E intorno a quel pozzo, secondo una vecchia leggenda, fu poi costruita quella che è ancora oggi la Cappella de Santu Paulu de le tarante.

Tarantate, di Luigi Caiuli
Tarantate, di Luigi Caiuli

Va per ultimo aggiunto che alla fenomenologia della pizzica molti artisti si sono variamente ispirati, primo fra tutti, io credo, il maestro Luigi Caiuli, con il suo impetuoso e sanguigno ciclo pittorico sul tarantismo, donato al Museo Cavoti di Galatina; ed anche letterati come il poeta dialettale lizzanese Salvatore Fischetti, che in una sua appassionante poesia dedica alla pizzica versi di grande incanto: «…Ttacca, viulinu, tàgghia cu llu suènu / tagghiènti comu filu ti rasùlu, / la tantazziòni e la malincunia! / A sta carusa mia talli rifìna, / falla ballà cu ccàccia fuècu e raggia! / A bballa, beddha, comu mai facisti, / no ti ppuggiàri: bballa, bballa, bballa! / ddurmisci la taranta tantatrici,/ a cantu e suènu: bballa, bballa, balla!… (Attacca, violino, taglia con il suono, / tagliente come filo di rasoio, / la tentazione e la malinconia! / A questa ragazza mia ridona pace, / falla ballare, ché scacci fuoco e rabbia! / Balla, mia bella, come mai facesti, / non ti fermare: balla, balla, balla! / Addormenta la taranta tentatrice, / a canto e suono: balla, balla, balla!…».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

Giurdignano. Il menhir San Paolo

di Marco Piccinni

Appena fuori dal centro abitato di Giurdignano, lungo quella che è stata definita la strada dei dolmen e dei menhir, all’interno del percorso archeologico del comune, definito il giardino megalitico d’Italia, è possibile ammirare una perfetta forma di sincretismo religioso-culturale costituitosi nei secoli intorno alla cripta di San Paolo.

Sormontata da uno dei menhir più “bassi” di Giurdignano, alto poco più di due metri, una cavità scavata in un basamento roccioso con tracce di affreschi fortemente deteriorati dal tempo e ulteriormente danneggiati da azioni vandaliche, rivela le sue origini, probabilmente bizantine, con degli abbozzi al culto di San Paolo e alla ormai storica associazione alla terribile taranta.

Menhir e cripta di San Paolo

San Paolo, divenuto un taumaturgo per ogni fenomeno di avvelenamento indotto dal morso di animali dopo aver debellato dal suo corpo il veleno iniettatogli da un serpente sull’isola di Malta, divenne anche il “testimonial ufficiale” di un fenomeno tipico dell’Italia Meridionale, con prevalenza nel territorio salentino, che fece discutere uomini illustri di ogni tempo, tra cui anche il grande Leonardo da Vinci:

San Paolo che vince sul mistico ragno che induce uno stato di possessione nel soggetto morso, è rappresentato nella piccolissima cripta di Giurdignano, accanto ad un ragnatela, probabilmente postuma all’affresco insieme ad altri piccoli dettagli  ”ricalcati” intorno alla figura dell’apostolo delle genti.

Affresco di San Paolo

 

L’associazione di San Paolo alla taranta avvenne con predominanza nel ’700, quando la chiesa cercò di arginare il fenomeno del tarantismo, di stampo tipicamente pagano, intorno ad un piccola cappella di Galatina, con il solo fine di debellarlo e ristabilire l’ordine nella terra dove la leggenda vuole siano sorte le prime chiese cristiane d’occidente. Nello stesso periodo, inoltre, i progressi in campo medico raggiunti nella capitale del regno di Napoli respingevano ormai di netto la teoria della possessione da morso, benchè fosse stata fortemente accreditata nei secoli precedenti, per sposarne una  più razionale focalizzata su un autentico avvelenamento. Questi sarebbe stata la causa di spasmi e tormenti psico-fisici.

All’interno della cripta, tutt’oggi oggetto di culto, è possibile individuare altre figure di santi ai lati di San Paolo. Si ipotizza che in origine fosse utilizzata per usi sepolcrali, ipotesi non suffragata da evidenze archeologiche. Sulla sua sommità tuttavia, adiacente al menhir,è possibile notare un insenatura nella roccia, artificiale, che ricorda tombe bizantine e medievali. Se così fosse non ci sarebbe spazio per nessun stupore. Questa zona è stata fortemente frequentata nei secoli, come dimostrano i rinvenimenti archeologici nelle vicine contrade Quattromacine e Vicinanze.

Possibile tomba sul menhir San Paolo

 

Il lato nord del menhir presenta sette tacche alla medesima distanza, mentre sulla sommità è possibile notare un foro, probabilmente utilizzato per l’installazione di una croce. Tutti i monumenti/simboli vistosamente legati a culti di stampo pagano vennero progressivamente cristianizzati a partire dagli editti di Teodosio, con i quali il Cristianesimo divenne religione di stato per l’impero romano e il popolo dei Cristiani divenne, da perseguitato, un persecutore. I menhir vennero incisi con delle croci o sormontati con “addobbi” cristiani, le cripte vennero affrescate e gli dei catechizzati.

Anche se molto piccola, questa cripta rappresenta un anello di congiunzione per molti dei culti che hanno segnato in maniera decisiva la storia etnografica del Salento.

 

pubblicato su http://www.salogentis.it/2012/02/19/il-menhir-san-paolo-di-giurdignano/

Le tradizioni paoline dal meridione al mondo: una recensione su un lavoro di Brizio Montinaro

Recensione su San Paolo dei serpenti (Sellerio, Palermo 1996) pubblicata su The Times del 30 luglio 1996

by Norbert Ellul Vincenti

Un serparo

This is not a book about St Paul as such about the traditions connected with him and Malta. And not about all the traditions, but around those having to do with serpents and folklore.
Who is Montinaro? No other than an actor who has worked with Lattuada, Comencini and Zeffirelli. Of no mean standing, you could say, as an actor.
He is a student of cultural anthropology and is interested in particular in the dialectics of religious phenomena.
This is a book that is respectful of the depositum and the texts and documents. The author has carefully read all that there is to be read and carefully noted it.
He acknowledges help from Can. John Azzopardi of the Cathedral Museum, the Collegiate Chapter, the Commission for the Museum of the Cathedral, Mdina, Mr Patrick Galea for some illustrations, and Alfonso M. Di Nola, “anthropologist and historian of religions”.
The same Alfonso M. Di Nola has a longish preface, in which he pays tribute to the work of his student.
The book not only makes claim to scientific procedure, but is actually so. This is a careful piece of work, well worth reading and studying. As Di Nola himself shows, the author is not given to interpretative games or wild exhibitionism one so often meets hiding under scientific names. He writes, of course, from a scientific and lay point of view.
The first chapter is dedicated to Saint Paul of the serpents and headed with the words of the Acts of the Apostles: Et cun evasissemus tunc cognovimus quia Melita insula vocabatur (and as we escaped we knew the island was called

Li carmati ti Santu Paulu e la cattura della serpe

campagna salentina con furnieddhu (ph M. Gaballo)

CIVILTA’ CONTADINA DI FINE OTTOCENTO

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiàra  (quarta parte)

 

“LA MBRIGGHIATA  SANTA”

(LA CATTURA DELLA  SERPE)

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Per catturare la sacàra, lu carmàtu pretendeva di trovare nei pressi della pagghiàra più  persone, fra le quali potere scegliere li quattru niéddhri ti mbrigghiàta (i quattro anelli d’imbrigliata), ossia quattro persone adatte a coadiuvarlo nell’operazione. Nell’ora fissata – di solito l’ora ti lu fuécu, cioè quella successiva al mezzogiorno – c’era perciò sempre una piccola folla ad attenderlo al limitare del campo: uomini e donne, che se pure atterrite dalla prospettiva di essere scelte come niéddhri e quindi trovarsi costrette ad assistere alla cattura da una distanza ravvicinata, per nessuna cosa al mondo avrebbero disertato il campo: la mbrigghiàta santa*  veniva considerata alla stregua di un intervento miracoloso e quindi occasione spettacolare da non perdersi.

Nell’attesa, per farsi coraggio e ingannare il tempo, si raccontavano l’un l’altro i particolari delle  ‘mbrigghiàte alle quali avevano assistito, decantavano i prodigi operati da San Paolo e qualche volta si spingevano a fare scommesse sulla lunghezza della serpe nonché sul tempo che sarebbe occorso per la cattura. Un cicaleccio che si smorzava di colpo non appena si profilava la sagoma di lu carmàtu, messa in evidenza dal rosso di una sciarpa che portava sulle spalle a mo’ di stola: era la pezza rricanusciùta, equivalente a un’insegna e contemporaneamente usata come arma durante la cattura dei serpenti; arma ritenuta santa, in quanto il 28 di giugno di ogni anno veniva portata a Galatina nella cappella dedicata a San Paolo e deposta per un’intera notte ai piedi dell’effige del santo affinché ne assorbisse, unitamente alle benedizioni, le particolari virtù taumaturgiche.

Sventolandone i lembi come fossero bandiera, lu carmàtu faceva il suo ingresso nel campo, camminando lentamente e tenendo gli occhi fissi per terra, quasi fosse alla ricerca di misteriosi segni a lui soltanto noti. Avanzava sino alla pagghiàra, vi girava tutt’intorno, spargeva qua e là pizzichi della sua prodigiosa terra**, tornando più volte sui suoi passi forse a riannodare il filo delle sensazioni o intuizioni che, a quanto diceva, gli permettevano di

Galatina. Breve nota irriverente e fantasiosa su San Paolo e le tarantate

di Massimo Negro

Ho dei buoni motivi per ritenere che San Paolo in fin dei conti non abbia mai avuto vita facile a Galatina. Anzi forse avrebbe fatto anche a meno di essere presente in quella città.

Non che a Roma le cose fossero state tutte rose e fiori. Lasciamo perdere il martirio che nella vita di un Santo, specialmente nei primi anni del cristianesimo, era una scelta quasi obbligata. A preoccuparlo erano stati soprattutto i rapporti iniziali con il Santo pescatore.

Paolo pur con qualche difficoltà aveva alla fine accettato questa coabitazione come santo patrono della città eterna. Avrebbe preferito, in virtù della sua cittadinanza romana, che si dicesse “Santi Paolo e Pietro”, ma alla fine se l’era fatta passare.
Così come, pur se con qualche borbottio, aveva accettato che la sua Basilica venisse posta fuori le mura anziché in centro.
Più di qualche borbottio, riferiscono santi a lui vicini,  c’era stato quando il vescovo di Roma (per intenderci il Papa) aveva scelto come sede San Giovanni, ma qualcuno gli aveva fatto prontamente notare che trattavasi pur sempre del cugino del Maestro e del discepolo “che Egli amava”.
Dopo i primi momenti e le difficoltà iniziali, si può dire che a Roma era riuscito a trovare un suo spazio, una sua dimensione. Sempre pronto a sfoderare la spada, ma il suo carattere si era con il tempo ammorbidito.

Ma questo non accadeva quando pensava a Galatina. Lasciamo stare il fatto che il ritrovarsi anche nel Salento in compagnia di Pietro non l’avesse entusiasmato, e forse lo stesso Pietro, che per primo ci aveva messo piede, non era contentissimo. Ma dopo tanti anni di coabitazione romana alla fine i due conoscevano pregi e difetti l’uno dell’altro e sapevano come “prendersi” e come all’occasione evitarsi.
Chi non riusciva assolutamente a sopportare erano due donne. Due comuni mortali ma che non c’era verso di scalzare nel cuore della gente. Francesca e Polisena Farina.

Eppure, ripeteva ai suoi amici, lui poteva vantare miracoli provati e documentati, anzi nello specifico, un miracolo era stato anche riportato negli “ Atti degli Apostoli”. Lui a Malta era riuscito, pur se morso da una vipera, a non riportare alcuna conseguenza e, da allora, era invocato dalle genti di tutto il mondo a protezione dai morsi degli insetti e delle serpi. In tutto il mondo tranne a Galatina.
A Galatina accorrevano persone da ogni dove, morse da tarantole, scorpioni o serpi, non per chiedere a Lui la guarigione, bensì per rivolgersi a quelle due sorelle che, con pratiche ancestrali e arti magiche, tra sputi e rituali vari, riuscivano a far espellere il veleno dal corpo del malcapitato o malcapitata.
Alla fine dovette aspettare che morisse anche l’ultima delle due sorelle, senza che lasciassero discendenza femminile.

Ma proprio quando stava per gioire,  sia beninteso , non della loro morte ma per il semplice fatto che l’ordine naturale e sovrannaturale delle cose pareva essersi ristabilito, qualcuno gli aveva fatto notare qualcosa che, se possibile, l’aveva incupito ancora più di prima.
L’ultima delle due sorelle prima di passare a miglior vita si era preso il fastidio di sputare la propria saliva guaritrice nell’antico pozzo. Per cui accadeva che la gente tarantata, che ora accorreva in massa a chiedere la protezione a Santu Paulu miu de le tarante, dopo aver ballato, essersi contorti per terra o arrampicati sull’altare, alla fine del rito di espiazione si avvicinava al pozzo e beveva proprio quell’acqua benedetta dalla saliva della guaritrice.
Si mosse tutta la chiesa compatta ma non ottenne nulla. La gente continuava a bere l’acqua di quel pozzo.
Una vita da separati in casa. Lui da una parte, il ricordo delle due sorelle dall’altro.

Il quadro che un pittore parente delle due sorelle dipinse e che pose all’interno della cappella sembra quasi rappresentare questa situazione. Si nota un San Paolo in posa altera e maestosa e ai suoi piedi un poveretto malaticcio sorretto dalle due sorelle che cercano di far bere a questi l’acqua del pozzo. Se notate, San Paolo non degna di uno sguardo i tre, quasi a dire “ti sei rivolto a loro? ora sono fatti tuoi”. E delle due sorelle, una non lo degna di uno sguardo porgendo l’acqua del pozzo al malato, mentre l’altra sembra dire, guardando San Paolo, “che vogliamo fare?”.
Quando sul letto di morte, qualcuno chiese al pittore il perché di quella rappresentazione, questi, proprio mentre stava per esalare l’ultimo respiro, disse “non si sopportavano … non si sopportavano”.
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Le due sorelle Farina, Francesca e Polisena, sono le due sorelle descritte dall’Arcudi nel finire del ‘600 come le due guaritrici che alleviavano le sofferenze dei malati e in particolare dai morsi degli insetti. Il pittore Francesco Lillo che dipinse il quadro nel 1795 dovrebbe essere un discendente del marito di Francesca, Donato Lillo.
Le storie sul tarantismo si perdono nell’antichità dei tempi. Tra l’altro abbiamo letto in una delle mie precedenti note, come nel brindisino si ricorresse all’intercessione di San Francesco per guarire dai morsi della tarantola.
La chiesetta di San Paolo, i cui lavori iniziarono nel 1791, fu completata nel 1795. Molto dopo la morte delle due sorelle. Da quanto riferiscono studi condotti nel Salento, prima del ‘700 il culto di San Paolo era molto limitato e ristretto a poche chiese.
E’ probabile che, proprio in virtù del miracolo dal morso della serpe a Malta raccontato negli Atti degli Apostoli, la Chiesa abbia deciso di intervenire con tutto il suo peso non solo religioso ma anche culturale, ponendo San Paolo come santo protettore di questi malati, cercando di far scomparire o limitare, ma inutilmente, tutti gli aspetti non canonici legati ai riti di guarigione.
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La chiesetta dopo circa un anno di restauro, iniziati grazie all’Amministrazione Provinciale allora retta dal sen. Pellegrino e dall’Amministrazione Comunale allora retta dalla dott.ssa Antonica, è stata riaperta al pubblico nei giorni scorsi in occasione delle festività dei Santi Pietro e Paolo (o Paolo e Pietro!).
Non era mai stata sconsacrata per cui la riapertura è stata accompagnata dalla celebrazione di una messa all’interno della chiesetta.
I lavori di restauro hanno interessato, in particolare, il rifacimento del vespaio per cercare di arginare l’umidità di risalita e la posa della nuova pavimentazione. Riguardo l’altare, anch’esso attaccato dall’umidità, gli interventi son stati limitati a rafforzarne la struttura e a interventi di pulitura per eliminare dove possibile la calce che ricopriva i colori originali dell’altare. Non è stato effettuato un vero e proprio restauro dell’altare anche a causa della particolare friabilità della pietra usata nella sua costruzione.
La tela del pittore Saverio Lillo (1795) era stata già restaurato circa due anni fa; per l’occasione è stata posizionata nella sua collocazione originaria, cioè sull’altare, dopo esser stata per lungo tempo esposta all’interno del Museo cittadino.
La chiesetta restaurata merita una visita e vi consiglio di visitare anche il vicino Museo sul Tarantismo sito in Corso Porta Luce.

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