L’arte del costruire nel Salento. La squadratura dei conci di tufo

 

di Mario Colomba

Nel Medio Evo, era diffusa la convinzione che la capacità di lavorare la pietra da taglio fosse un dono divino. Per questo agli scalpellini era consentito uno speciale status socio-politico di particolare privilegio che, per esempio consentiva loro di spostarsi con notevole libertà anche nell’attraversamento di frontiere di stati diversi.

In effetti, specialmente agli occhi dei non addetti, aveva qualcosa di magico il risultato finale di un concio ben squadrato, realizzato partendo da quello abbastanza irregolare e quasi informe proveniente dalla cava.

La squadratura dei conci di tufo, insieme allo spegnimento della calce viva in zolle, costituiva l’operazione preliminare per l’avviamento del cantiere.

I conci di tufo provenienti dalle cave, venivano lavorati dagli squadratori (‘mmannare) che agivano solitamente in coppia. il numero minimo di due (in coppia affiatata che chiacchierando, anche di fatti personali, riuscivano a superare meglio la monotonia ripetitiva del lavoro) era necessario per l’aiuto reciproco che si prestavano nel caricare e scaricare i conci dal banco.

I conci lavorati da ciascun squadratore dovevano essere accatastati in un piliere separato; ciò, per due ordini di motivi:

      • perché il maestro potesse controllare la produttività del singolo;
      • perché le abitudini personali nel taglio dell’assetto del concio (lieve sottosquadro di alcuni mm.) dovevano essere note al muratore (la cucchiara ) che ne teneva conto nell’effettuarne la messa in opera.

     

  • Già nell’osservare l’esecuzione di questa operazione preliminare (predisposizione del banco) fatta dallo squadratore avventizio, l’occhio esperto del maestro riusciva a ricavare utili informazioni sulla capacità professionale del soggetto. Così come, il maestro difficilmente sbagliava nell’individuare l’abilità di una cucchiara o di una ‘mmannara osservando semplicemente il modo di impugnare i ferri del mestiere. La predisposizione del banco poteva già essere un’operazione discriminatoria nel senso che, uno squadratore che non era in grado di assicurare la necessaria stabilità del banco, che doveva essere ben fermo e non subire spostamenti sotto i colpi della mannaia, non era in grado di ottenere la precisione e la qualità del risultato richiesti. I conci, scaricati in cantiere dal tràino, venivano squadrati, scelti e selezionati in base alle caratteristiche della pietra ed alla tipologia di lavorazione (purpitagno, curescia, cantone, tuttuno, ecc.) e accatastati in pilieri separati, prima di essere utilizzati per la posa in opera. Per contenere al massimo la fatica e lo sforzo fisico, lo squadratore trasportava il concio grezzo, prelevandolo dalla massa scaricata dal traino proveniente dalla cava, facendolo rotolare in posizione quasi verticale, sugli spigoli della testa, per poi sollevarlo solo in prossimità del banco, sul quale veniva collocato per la lavorazione. da dove, quando era squadrato, veniva prelevato, col suo aiuto, dal manovale che lo portava sulla linea.
  • Preliminarmente, nel concio da cm. 20 di spessore disposto orizzontalmente sul banco, veniva regolarizzata, disponendola in posizione verticale, la migliore delle due superfici maggiori (minori, nei conci da cm. 30 di spessore) che diventava la faccia (la facce), cioè la superficie di riferimento. in questa operazione veniva usata con destrezza la parte lunga dello squadro metallico, impugnato con la mano sinistra, per definire l’entità e la posizione delle irregolarità da eliminare con l’uso della mannara. Successivamente, si disponeva la faccia in piano, rivolta verso l’alto e si procedeva, con l’uso dello squadro, a tagliare ad angolo retto, prima l’assetto e poi l’altra faccia parallela, detta taglia, con una staggia (tagghia) della dimensione di 25 cm. la faccia posteriore detta “dietro” (tretu) veniva tagliata per metà rivolgendo verso l’alto, prima l’assetto (assiettu) e poi, per l’altra metà, la taglia (tagghia), senza l’uso dello squadro; si aveva così il concio “perpedagno“  (purpitagno).

  • Nel caso di impiego nella costruzione di muraglie, cioè di muri a doppio paramento, i conci non venivano squadrati sulla faccia posteriore e venivano detti dialettalmente “curescie” (cioè cinture). Per queste si impiegavano i conci di spessore insufficiente per essere lavorati a “perpedagno”, mentre per il nucleo centrale di murature a notevole spessore, a più di due teste, si impiegavano i conci “cacciati a tagghia” cioè lavorati solo per definirne l’altezza (la taglia) poiché le facce non erano viste.
    La squadratura del concio avveniva con l’uso della mannaia, dello quadro metallico e della tagghia e con le seguenti modalità:
    Nei cantieri più importanti c’era un numero rilevante di squadratori che fornivano direttamente alla cucchiara i   conci squadrati da murare o i pezzi speciali.
    Il concio da squadrare veniva disposto orizzontalmente in bilico sulla testa del concio di banco e parzialmente a sbalzo di qualche centimetro per consentirne il taglio con la mannaia fino al bordo inferiore.
    Il banco (in dialetto ancu – da cui ncaddhrarescaddhrare cioè mettere o togliere dal banco) era costituito da un concio di tufo disposto in piedi, in posizione verticale e, quando il suolo lo permetteva, parzialmente infisso nel suolo per alcuni centimetri. Generalmente, se disponibile, era costituito da un “pizzotto”, affiancato alla base da un secondo concio più corto, disposto disteso (sul lato sinistro) per aumentare la stabilità del primo e su cui venivano saltuariamente appoggiati gli attrezzi che di volta in volta non venivano utilizzati nel corso della lavorazione (il metro, la tagghia, lo squadro metallico ).Prima di iniziare l’operazione della squadratura del concio, veniva posta particolare cura nella predisposizione del banco sul quale doveva essere appoggiato il concio da squadrare.
  • Altre tipologie particolari erano rappresentate da:- i “cantoni” cioè i conci angolari, scelti tra i più integri, nei quali, una delle teste veniva lavorata con l’uso dello squadro sia in verticale che in orizzontale.
  • – Le legature (tuttuni o legatore) di lunghezza pari allo spessore delle murature a doppio paramento, che venivano tagliate a misura e lavorate solo sulle teste e sugli assetti ma non sulle facce.
  • – i riattati o riatticati, perimetrali ai vani finestra, analoghi ai precedenti ma sagomati con mazzetta e battuta, con o senza sguincio e, a volte con risalto di
  • cornice sporgente.

La qualità della muratura era fortemente condizionata dalla precisione della squadratura dei conci. L’integrità degli spigoli condizionava la larghezza della stilatura e rasatura dei comenti che doveva essere quanto più stretta possibile, mentre il parallelismo degli assetti ne condizionava l’elegante linearità orizzontale senza ondeggiamenti.

Le pietre di lamia o di gliama tonde e quadre erano i conci utilizzati per la costruzione delle volte murarie. le p.d.l. tonde o quelle quadre erano, normalmente, ottenute segando per metà i pezzotti dello spessore di cm.30. Questa operazione si otteneva con l’uso del “sirracchiu” che veniva azionato da due persone disposte di fronte che generavano il movimento alternativo dell’attrezzo, partendo dalla testa del pezzotto disposto in posizione verticale.

Le p.d.l. tonde, che venivano impiegate nella realizzazione della calotta della volta, venivano lavorate sulla faccia asportando longitudinalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero, in corrispondenza del bordo della testa, fino a cm 1,5 al centro del concio, lasciando inalterato il profilo rettangolare delle teste.

Le p.d.l. quadre, che venivano utilizzate nella costruzione delle “formate” delle volte, venivano lavorate sulla faccia asportando trasversalmente un piccolo spessore di materiale crescente da zero fino a cm 1,5 al centro del concio, perciò lasciando inalterato il profilo degli assetti laterali.

Le appese, che venivano preparate da squadratori esperti che le montavano a secco, a piè d’opera, per verificarne preventivamente la perfetta stereotomia e gli incastri con gli incroci delle murature perimetrali dei vani da coprire.

Particolare abilità e qualificazione era richiesta poi dalle lavorazioni speciali per la realizzazione di conci scorniciati o addirittura scolpiti con tutte le difficoltà portate da una pietra – l’arenaria – non sempre omogenea come la pietra leccese e, talvolta, con la presenza di catene – strati di calcare duro e compatto all’interno del concio – che spesso ne provocavano la irreparabile rottura.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Manduria-

 

C’era comunque, alla base di tutto, un lavoro di squadra, una sinergia, che consentiva spesso senza l’uso del linguaggio la realizzazione di manufatti di pregio semplicemente ripetendo con cura e diligenza gesti e operazioni le cui modalità erano state tramandate da secoli praticamente senza alcuna variazione.

I pochi termini, generalmente dialettali, che venivano impiegati erano sufficienti per trasmettere le informazioni necessarie al conseguimento del risultato. Basta citare per questo, l’uso della mezza croce; sorta di falso squadro costituito da due vergelle di ferro (25X3) della lunghezza di circa 30-35 cm. incernierati ad una estremità, che veniva adoperata per segnare sulla faccia della p.d.l. rivolta verso l’alto, la traccia dell’inclinazione del taglio cioè serviva per determinare il verso del taglio delle teste sinistre o destre delle p.d.l. tonde; il comando era “a nnanzi” (avanti, davanti a sè) per le destre e “fore” (fuori, all’esterno) per le sinistre. Comando che veniva dato oralmente al manovale il quale, scendendo dall’impalcatura di servizio posta all’altezza delle appese, portava fisicamente la mezza croce, impostata dal muratore, allo squadratore che la riportava sul concio da sagomare, cioè per modellare la testa della p.d.l.. secondo il comando ricevuto.

L’attaccamento diretto al risultato finale era molto diffuso specialmente da parte dello squadratore che intravedeva nel concio che stava squadrando, unica fonte del suo reddito, le sue stesse personali possibilità di sopravvivenza ed anche per questo ci metteva, con la dovuta sollecitudine richiesta dalla produttività, tutta la cura e la precisione di cui era capace attirando l’attenzione del maestro che ne valutava la capacità e la produttività. La delicatezza, con cui il concio squadrato veniva accatastato nel piliere personale per evitare “sgrugnature” degli spigoli, rappresentava una sorta di affettuoso distacco, come il commiato da una propria creatura che viene considerata con spirito di compiacimento e come attestato della propria abilità.

Non era infrequente che venisse verificato da parte dei committenti più esigenti, perfino l’integrità interna del singolo concio squadrato che, se percosso con un sasso non emetteva un suono metallico ma un tonfo sordo, rivelava la presenza di fratture interne e quindi era da scartare.

 

Per le parti precedenti vedi qui:

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

cantiere edile

di Mario Colomba

Nella terminologia corrente dialettale il termine che indicava il cantiere era fatìa (fatica) che esprimeva esaurientemente l’attività prevalente che vi si svolgeva.

Sul luogo di lavoro la struttura organizzativa era fortemente gerarchizzata in rapporto alle specifiche competenze tecniche dei vari addetti, tra i quali si sviluppava un clima di competizione molto leale rivolta a conseguire quel desiderato avanzamento di grado corrispondente alle capacità via via effettivamente raggiunte.

La gerarchia da rispettare era così importante che i vari gradi di competenza professionale superavano anche il rispetto dell’età anagrafica.

Il rispetto di tale gerarchia era rappresentato, per esempio, dalla priorità con cui veniva servita dall’acquaiolo, sul posto di lavoro, la brocca di acqua da bere (prima alla cucchiara, poi alla mannara, quindi al manovale, ecc.) o lo stesso ordine con cui, il sabato sera, i lavoratori venivano chiamati dal datore di lavoro per percepire il salario settimanale.

L’entità della retribuzione del lavoro era fortemente condizionata dalle disponibilità di una committenza pubblica e privata, caratterizzata da endemiche ristrettezze strutturali o, spesso, da eventi atmosferici avversi, vere e proprie calamità, che compromettevano l’intera produzione di un’annata agraria (come ad es. le brinate primaverili che distruggevano i germogli della vite) e che condizionavano tutte le attività produttive della collettività. Per questo, a parte poche qualificate eccezioni, il salario giornaliero rasentava il livello di minima sussistenza. Il capo famiglia anche se qualificato, difficilmente era in grado di sostenere da solo l’onere del sostentamento di una famiglia a volte numerosa. Per questo, spesso la moglie era costretta a procurarsi lavori complementari (sarta, ricamatrice, magliaia, ecc) ed i figli venivano avviati al lavoro anche in età scolare.

In questa situazione il lavoro rappresentava l’unica possibilità di soddisfare, almeno a livello minimo, i bisogni propri e dei propri familiari e quindi l’unica possibilità di fisica sopravvivenza. da qui scaturiva l’impegno e l’interesse con cui venivano svolte le varie mansioni richieste dal ciclo lavorativo (garzone, squadratore, manovale, muratore, ecc.). pertanto, la diligenza, la cura dei particolari, la precisione, la velocità di esecuzione e l’accettazione dei rapporti gerarchici venivano recepiti come elementi indispensabili non solo per assicurarsi gli alimenti, che costituivano, com’è naturale, i mezzi di sostentamento, ma anche per avere una prospettiva di avanzamento sociale e per superare una condizione che, almeno per i garzoni ed i manovali, era molto prossima alla schiavitù di epoca romana.

Tuttavia, l’atmosfera che regnava in un cantiere era di profonda collaborazione e di amichevole solidarietà tra i vari addetti e spesso, i normali rapporti di amicizia costituivano la premessa di successivi vincoli di parentela. Prevaleva un forte senso di responsabilità per esempio del manovale che doveva affrettarsi a disporre i conci sul muro in corso di costruzione, in numero sufficiente perché il muratore (cucchiara) non ne restasse mai sprovvisto, fino alla conclusione del corso (linea ); oppure notevole era la responsabilità dei garzoni addetti a preparare e alimentare la malta che, d’inverno, quando la tufina bagnata era difficile da setacciare, si affannavano a raspare dal terreno i detriti tufacei che man mano si accumulavano al piede dei banchi (anchi) dove operavano gli squadratori.

ricevuta per soggiorno di lavoratori marmisti nell’albergo De Monte a Nardò nei primi anni del 1900 nella cattedrale di Nardò (archivio Fondazione Terra d’Otranto)

 

Il lavoro di squadra era fondamentale anche per alleviare le pesanti fatiche che ricordavano la schiavitù dei secoli passati. vale la pena, per questo, ricordare con quale spirito di collaborazione e solidarietà venivano messi in opera i pezzi di scala cioè i gradini di una scala diritta tipica delle case a schiera del ‘900. I pezzi di scala erano dei conci monolitici delle dimensioni di m. 1.10×0.30×0.20-0.25 e perciò del peso di circa kg.100. I primi 5 o 6 gradini venivano collocati, appoggiandoli per cm. 5 per parte, negli alloggiamenti dei due muri longitudinali che limitavano il vano scale, da due operatori, uno per ciascuna testata, a mano a mano che procedevano le murature in elevato. Ogni gradino successivo al sesto non poteva più essere collocato da operatori che agivano dal piano pavimento e perciò, il pezzo doveva essere trasportato, su per la scala in costruzione, fino al sito di appoggio. Per lo scopo, il pezzo di scala del peso di circa kg. 100 veniva caricato allineandolo alla colonna vertebrale del manovale che si disponeva carponi “a muscia” e che, mentre i compagni di lavoro tenevano in equilibrio il pezzo, avanzava gattoni fino all’ultimo gradino già messo in opera, dove ruotava orizzontalmente di 90° consentendo così ai due muratori (uno per ogni testa) di sollevare il concio, liberando il manovale, e alloggiandolo definitivamente sugli appoggi a dente di sega predisposti.

Il lavoro, anche se pesante, veniva svolto generalmente in un clima giocoso, in cui si incrociavano i discorsi di carattere privato, familiare e personale con battute salaci ed epiteti affibbiati però senza malanimo, che contribuivano a sdrammatizzare ed alleggerire il peso della quotidiana routine.

(da Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, per gentile concessione dell’Autore).

Mario Colomba

Sullo stesso Autore vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/12/libri-larte-del-costruire-nardo-dintorni/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/15/95063/

Riflessioni filologiche su un toponimo neritino. La Cucchiara.


di Armando Polito

Fino ad una ventina di anni fa era solo il toponimo di un territorio non molto esteso in agro di Nardò, sulla litoranea Santa-Caterina-S. Isidoro. Come è successo per Massarei (italianizzato in Masserei; vi abito io ed è doveroso che a questo toponimo prima o poi dedichi la mia attenzione: il lettore lo consideri pure come una minaccia…) è diventato, in seguito ad una prorompente antropizzazione di un territorio all’origine destinato all’agricoltura e (laddove c’erano pochi fabbricati in ordine sparso) alla villeggiatura, prima una contrada, poi pure una strada. Strada Cucchiara-S. Caterina leggo, infatti,  sull’elenco telefonico, ma sobbalzo quando lo stesso indirizzo lo leggo corredato del civico 1 accanto al numero telefonico di mio cognato Vincenzo, titolare, insieme col fratello Giuseppe, della masseria Bellimento. Il cognome non lo cito perché non mi si accusi di fare pubblicità più o meno occulta…ma qualche dato l’ho dovuto dare per chi avesse voglia di fare i dovuti riscontri. La masseria che ho nominato è molto più vicina a S. Isidoro che alla Cucchiara e mi pare pure strano che corrisponda al civico 1, dal momento che logica vorrebbe che la numerazione cominciasse dal punto più vicino al luogo che poi ha dato il nome all’intera strada, anche perché tra Bellimento e la Cucchiara i toponimi legittimati a dare il loro nome al tratto stradale di competenza sarebbero più di uno (‘Nsirràgghia, Rinàru, per limitarmi ai toponimi costieri). Mistero recente, come antico è quello che mi accingo ad affrontare.

Cominciamo, come sempre, dalle fonti.

La più antica testimonianza a me nota del toponimo risale al 1428 [Michela Pastore, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro di studi salentini, Lecce, 1964, pg. 75: Item in eodem feudo in loco nominato de Cuchara ortos terrarum quinque iuxta terras Nicolai […]ti iuxta terras [domini] Johannis Grande et viam puplicam (Parimenti nello stesso feudo (1) in località chiamata Cucchiara cinque orti di terra confinanti con le terre di Nicola […]to, con le terre di [don] Giovanni Grande e la via pubblica).

La testimonianza successiva è del 1500 [Centonze-De Lorenzis-Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo editore, Galatina, 1988, pgg. 207-208: Item in loco de Chuchiara maxaria una cum curti, case et cisterne et chesure de herbagio chiuse de pariti, cum terre culte et inculte, cum ceti arbori de fiche et altri menbri sui, servitutis decime monasterio Sancte Clare, iuxta la maxaria de Cola de Fanto de Nerito, iuxta la maxaria de li heredi de Gabrieli de Montefuscolo, iuxta litus maris et iuxta li terreni del monte de la dicta abbatia; in la quale maxaria ce è una cisterna tunda nominata la cisterna de mastro Barnabo. Item in eodem loco de Cuchiara peczo uno de terra de orte trenta macclosa, iuxta litus maris et iuxta le terre petruse de la dicta maxaria et altri confini. (Parimenti in località Cucchiara una  masseria con corte, case  e cisterne e pascoli recintati con muri, con terre coltivate e incolte, con certi alberi di fico ed altre sue parti, soggetta a decima in favore del monastero di Santa Chiara, confinante con la masseria di Nicola Fanto di Nardò, con quella  degli  eredi  di  Gabriele  Montefuscolo, con la costa e i terreni del monte   della   detta  abbazia; in  questa   masseria  c’è   una   cisterna  tonda chiamata la cisterna di Mastro Barnabo. Parimenti nella medesima località Cucchiara un appezzamento di terra macchiosa di trenta orti, confinante con la costa e con le terre pietrose della detta masseria e con altri confini.)].

 

I toponimi rurali sono legati di solito ad una caratteristica del territorio (può essere un dettaglio fisico, una specie vegetale particolarmente diffusa) o al nome di un proprietario.2

 

La variante più antica, come abbiamo visto, è Cuchara, quella un pò più recente Cuchiara. E proprio quest’ultima forma è la più diffusa, quasi unica3, negli autori del XVI secolo (ne riporto, per brevità, solo alcuni4).

La variante più antica cuchara e il fatto che ancora oggi in spagnolo cucchiaio si dice così mi autorizzano a pensare che, una volta tanto, la denominazione attuale sia correttamente corrispondente all’antica, non abbia, cioé, subito pesanti storpiature.

Cucchiaia nasce ufficialmente in italiano nel 15505 ma sicuramente la variante centro-meridionale cucchiara è più antica, in quanto conserva l’originario suffisso latino –ària che in italiano darà –aia; cucchiaia, d’altra parte, deriva a sua volta da cucchiaio che nasce prima del 1388 e sicuramente anteriore a tale data sarà, per via, come nel caso precedente, della presenza del suffisso originario latino –àrio, la variante centro-meridionale cucchiàro.

Cucchiaro è dal latino cochleàriu(m)=lumacheto (in Varrone), cucchiaio usato per mangiare le chiocciole (in Plinio), da còchlea=chiocciola.

Oggi cucchiara designa la cazzuola del muratore, ma i rinascimentali cuchiara e chuchiaria mostrano chiaramente che di cucchiaio si trattava.

Perché denominare così quel territorio? Se Cuchara non è il nome di un proprietario spagnolo o locale6, bisogna pensare ad altro.

E a questo punto mi vengono in mente due congetture, legate ai due significati precedentemente visti per cochleàrium, che potrebbero trovare un qualche riscontro, rispettivamente, attraverso un’indagine geologica e una aereofotogrammetrica.

La prima è che il nome contenga un’allusione all’abbondanza di chiocciole  più o meno commestibili (e in 500 anni potrebbero pure essersi estinte…) o a formazioni fossili particolarmente diffuse (indagine geologica).

La seconda è che il nome si riferisca alla conformazione fisica di superficie del territorio, simile ad un cucchiaio (indagine aereofotogrammetrica). In questo caso Cucchiàra corrisponderebbe semanticamente al Cupa [dal latino cupa(m)=botte, da cui l’italiano coppa e lo spagnolo copa=calice, tamburo del cappello], componente di parecchi toponimi in varie regioni (in Salento la Valle della Cupa) ad indicare territori posti in una depressione.

Il mistero non è stato risolto? E io chi sono, Mandrake? E non sarebbe meglio, intanto, correggere l’incongruenza moderna relativa alla numerazione, prima che fra qualche decennio diventi anch’essa mistero che si aggiunge, colpevolmente, a mistero?

_____

1 È il feudo di Donna Agnese,  nominato nella parte precedente, qui non riportata, del documento.

2 Prediali (da praedium=podere, fondo) sono detti quei toponimi (per lo più terminanti in –ano) che si suppone si riferiscano al nome di colui che in epoca romana ne entrò in possesso in seguito a centuriazione (durante la fondazione di una colonia, suddivisione in centurie e distribuzione del terreno pubblico ai cittadini).

3 Unica eccezione a me nota è chuchiaria, che si legge in un inventario di epoca rinascimentale(Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia: Rendiconti, Tip. poliglotta vaticana, 1927, pag. 181): Una chuchiaria di plasma in una schatola…; il plasma è una varietà di calcedonio di colore verde scuro per la presenza di inclusioni di vari silicati, come clorite o anfiboli, anticamente usata per intagli.

4 Leonardo Fioravanti, Il tesoro della vita humana (cito dall’edizione Brigna, Venezia, 1673, pag. 419: “poi che scaldi del magno liquore dentro una cuchiara…”; Giambattista Della Porta, De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti (cito dall’edizione Avanzi, Venezia, 150,  pag. 135: “Pigliano una cuchiara di ferro grande…”; Olaus Magnus, Historia delle genti et della natura delle cose settentrionali (cito dall’edizione Giunti, Venezia, 1565, pag. 159: “…overo con una cuchiara forata…” ; Cristoforo di Messisbugo, Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale (cito dall’edizione Buglhat-Hucher, Ferrara, 1549, pag. 24: “…e con la cuchiara li andarai ponendo…”.

5 La data di nascita di una parola è un’indicazione introdotta relativamente da poco nei comuni vocabolari; il lettore comprenderà come sia un dato estremamente provvisorio, dal momento che la scoperta di nuovi documenti può comportare una retrodatazione. Le date di nascita per cucchiaia e per cucchiaio le ho tratte dal Dizionario del De Mauro e, siccome l’edizione in mio possesso risale a circa dieci anni fa, la retrodatazione di cui ho appena parlato potrebbe essere già avvenuta.

6 In una pergamena contenente un atto redatto il 31 dicembre del 1427 [Angela Frascadore, Le pergamene del monastero di Santa Chiara di Nardò (1292-1508), Società di storia patria per la Puglia, Bari, 1981, pag. 86] leggo: “Iacobus Pignata et Nicolaus Cucchiara de Galatone”.  Pare di essere in presenza di due personaggi di una commedia di Plauto e sorprende anche che sia stato scelto proprio l’ultimo dell’anno per la stesura.  È un esempio, a prescindere dall’eventuale legame di Nicola Cucchiara col nostro toponimo, di come la realtà superi spesso la più accesa fantasia. Peccato che l’atto non fornisca dettagli che autorizzino ad un adattamento siffatto del noto proverbio: li cuai ti lu Pignata li sape lu Cucchiara.

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