La cripta e gli affreschi di Santa Maria degli Angeli in Poggiardo

 

di Marco A. de Carli

A un tiro di schioppo dalle note mete turistiche costiere di Castro e di Santa Cesarea Terme, nell’entroterra sorge la ridente cittadina di Poggiardo, che riserva al visitatore notevoli ricchezze storiche ed artistiche.

La cripta bizantina dedicata a Santa Maria degli Angeli, insieme con la cappella della Madonna della Grotta e la chiesa dei Santi Stefani a Vaste¹, rappresenta una delle suggestive chiese-cripte ipogee che caratterizzano quella che un tempo era conosciuta come Terra d’Otranto. Risalente alla cosiddetta “seconda età d’oro” del periodo tardo-bizantino, pur non presentandone la raffinatezza architettonica, la cripta di Poggiardo può essere paragonata al “San Salvatore” di Giurdignano (località conosciuta soprattutto per i suoi menhir e che dista una decina di chilometri da Poggiardo).

Sorta intorno all’anno Mille, la cripta fu adibita al culto per oltre quattro secoli, fino al suo totale abbandono alla scomparsa del rito greco, nel corso del XVI secolo.

Riportiamo qui di seguito la descrizione che della cripta fece, nel 1847, Giovanni Circolone

«Nell’interno dell’abitato vi è il tempio a S. Maria sacrato, di cui ne investe onoratamente il nome. Situato al di sotto del calpesto terreno pare che nasconder si voglia alla vista dei mortali moderni: vi si penetra dal curioso, escavando la ripiena entrata dalla consolidata macerie: pervenuto nel tempio la accesa fiaccola fa subito rilevarne la tripartita rettangolare figura, il doppio filo di colonne, le immagini di più santi, l’altare, l’effige di Colei, di cui ne porta il nome; i scolorati colori e il goccolio della insinuante umidità rompono il vero effetto del settemplice raggio: tutto in breve riveste lo squallore e l’oblio, nell’atto che la sua vetustà concentra l’animo del filosofo e trascorrere un sacro tremore fa per le membra. Comincia l’incavato tempio sulla strada da oggi detta la Chiesa, sette in otto passi al di là dell’angolo egrediente del palazzo Ducale: si estende a proporzione a dritta e a manca, e giunge fino al loco ove attualmente giace la Chiesa Matrice. Delle iscrizioni esistenti in detto tempio non mi è riuscito interpretarne alcuna, attesa la mal conformazione dei caratteri di cui si è fatto uso, non essendo riferibili ad alcuno dei conosciuti alfabeti. Ci mi sono acquietato al solo riflesso che assegnando l’epoca alla escavazione del tempio, deve essere poco tempo dopo il 1000: in allora trovandosi caduto l’Impero occidentale, ed essendo i barbari sfrenati a delle continue incursioni rimase in Italia avvinta e deserta in ogni punto, come ancora i guasti di tanti eserciti e le calamità di ogni sorte agevolarono la estinzione di quel fuoco, che avea reso immortale l’animo degli etruschi e dei latini. Laonde per cotale disastro s’estinse ogni lume di lettere e di cognizioni umane, per locché da un particolare alfabeto dovettero essere formate le iscrizioni in parola»².

Nel 1929, durante uno scavo, la cripta, situata sotto la sede stradale di via Don Minzoni, nelle adiacenze della chiesa parrocchiale, fu casualmente riscoperta e riportata alla luce e ne vennero immediatamente riconosciuti il pregio ed il valore. Dopo essere stata liberata dal materiale di riempimento e restaurata, riacquistò il suo originale aspetto. Una copertura in calcestruzzo armato sostituì quella originaria in tufo, quasi del tutto franata. Quanto all’illuminazione naturale della cripta, la si ottenne mediante una struttura in vetrocemento.

L’architettura della costruzione, a forma basilicale, è a tre navate che si concludono in altrettante absidi curve, con la volta sorretta da quattro pilastri, due dei quali crollati poco dopo la riscoperta della struttura. Di essi rimangono solo i basamenti. L’invaso è nettamente diviso in naos (ναός), area riservata ai fedeli, e bema (βήμα) che, nelle chiese bizantine, è lo spazio riservato a clero e ministri (presbiterio). Naos e bema erano separati da una iconostasi litoidea che metteva in comunicazione le due zone attraverso stretti passaggi. Singolare è la posizione fuori asse della parete di fondo che, dopo lo scavo, fu probabilmente oggetto di un aggiustamento nella più tipica direzione richiesta dalla liturgia, ossia verso oriente.

Di particolare interesse sono gli splendidi affreschi che adornano la cripta. Per carattere di tecnica e stile essi si differenziano da quelli della stessa epoca (XI-XII sec.) delle altre cripte salentine, principalmente per i colori accesi e vari, con uno spiccato predominio dei rossi e delle ocre.

La diffusa ed insanabile umidità delle pareti della cripta, unita all’incombente minaccia delle muffe, resero necessario lo stacco degli affreschi, che nel corso del 1955 furono portati all’Istituto Centrale del Restauro di Roma. Il restauro richiese un lungo lavoro ma il risultato fu soddisfacente; essi vennero esposti in una serie di mostre in varie città italiane e, nel 1975, tornarono finalmente nella propria terra di origine dove trovarono una degna collocazione in una struttura-museo ipogea appositamente realizzata in piazza Episcopo, a quattro passi dalla cripta, e all’interno della quale il perimetro originario della cripta è stato tracciato sul pavimento e gli affreschi montati su pannelli nella posizione di origine. Se ciò da un lato contribuì ad una migliore conservazione e valorizzazione del prezioso materiale iconografico, dall’altro determinò l’abbandono della struttura originaria, che nel 1985 è stata resa oggetto di opportuni lavori di ristrutturazione. Le fessurazioni createsi, avevano causato infiltrazioni delle acque meteoriche. È stata effettuata l’impermealizzazione completa della struttura con materiali di sicura affidabilità e risolto il problema della presenza di forte umidità, ventilando la cripta con l’installazione di un apparecchio aspiratore-ventilatore. Copie artistiche e durature degli affreschi, in polistirolo ignifugo e refrattarie all’azione degli agenti atmosferici, sono state collocate nella loro sede originaria. In tale modo si è ottenuto un doppio percorso: le opere originali in un ambiente salubre e protetto, la parte architettonica resa di nuovo agibile e ricorredata del suo ciclo pittorico. Il museo è stato inaugurato il 12 giugno 1975 con l’autorevole partecipazione dell’allora presidente del consiglio Aldo Moro.

Il ciclo degli splendidi affreschi è particolarmente ricco: nel naos, sulla parete destra dell’ingresso figurano, racchiuse in riquadri policromi, le immagini di San Nicola, San Giorgio nell’atto di trafiggere il drago e – queste tutte in dittico – San Gregorio Nazianzeno e San Giovanni Teologo, Sant’Anastasio e Cristo con ai piedi la Maddalena, San Demetrio e San Nicola.

Le pareti poste a separare il naos dal bema vedono le figure di San Giovanni Teologo a destra e San Giovanni Battista a sinistra. Degli affreschi che decoravano il pilastro crollato non rimane traccia. Ancora visibili, invece, quelli che abbellivano il pilastro ricollocato nel museo e che rappresentano San Giorgio, una Vergine con Bambino ed un santo ignoto. Ancora a sinistra nel naos sono raffigurati San Michele e San Giuliano e, nella parte terminale, una Vergine con Bambino e San Nicola.

Nel bema, di notevole bellezza è l’abside centrale, che raffigura una Vergine con Bambino, posta tra gli Arcangeli: l’abside di sinistra contiene l’Arcangelo Michele, mentre sui setti tra le tre absidi sono raffigurati, a sinistra Santo Stefano e a destra San Lorenzo. Sulla parete sinistra i Santi Cosma e Damiano.

Come abbiamo già avuto modo di accennare, le pitture risalgono al periodo che va dalla seconda metà del sec. XI alla prima metà del XII. Fanno eccezione alcuni affreschi, come quello che raffigura la Madonna con Bambino, del secondo pilastro di sinistra e che risalirebbe alla prima metà del XV sec. e l’altra Vergine con Bambino, sulla parete NO e San Nicola che le sta accanto, databili al sec. XIII.

Segue qualche cenno descrittivo dei singoli affreschi.

San Nicola, vescovo di Mira

Il santo è raffigurato con paramenti vescovili mentre benedice “alla greca” (con pollice e anulare della mano destra che si uniscono, lasciando l’indice diritto e formando così l’anagramma greco di Cristo IC XC [ΙΗΣΟΥΣ ΧΡΙΣΤΟΣ]. Le due dita unite simboleggiano la duplice natura di Cristo: divina e umana).

San Giorgio

San Giorgio martire è rappresentato secondo l’iconografia tradizionale, mentre trafigge il drago-serpente dall’alto del cavallo. Pur apparendo di profilo, il santo volge busto e capo di prospetto. Veste una tunica svolazzante rossa e una corazza a squame gialle.

San Giovanni Teologo e San Gregorio Nazianzeno

San Giovanni veste una tunica grigia e un manto rossastro, mentre San Gregorio è raffigurato con manto giallo. Nella mano sinistra sostiene un libro. Le scritte a lato dei santi risultano illeggibili, come in quasi tutti gli affreschi della cripta.

Cristo Benedicente, la Maddalena e Sant’Anastasio

Cristo è assiso sul trono mentre benedice alla greca. Reca in mano un libro con la scritta “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Il Cristo veste un manto che ricade in pieghe molto ampie e calza dei sandali. Ai suoi piedi è inginocchiata la Maddalena, vestita di rosso. Verticalmente vi è la scritta greca “Maria Maddalena”. A destra troviamo Sant’Anastasio che reca in mano una piccola croce.

San Demetrio e San Nicola

San Demetrio è raffigurato di fronte, in un dittico in gran parte sbiadito, con San Nicola che benedici alla greca e che tiene stretto al petto un evangelario.

San Giovanni Teologo

Il santo è affrescato anch’egli nell’atto di benedire. Con la mano sinistra regge un evangelario decorato da un fiore. La sua tunica è di un rosso scuro e un manto grigio gli avvolge la vita.

San Lorenzo

Il santo, raffigurato di prospetto, veste una dalmatica rossa. Il suo volto, di un bell’ovale, è ben conservato.

Madonna con Bambino tra gli Arcangeli

L’affresco si trova nell’abside centrale. La Vergine siede sul trono con il Bambino sulle ginocchia e veste di rosso scuro, con un manto blu scuro. Alla sua destra l’Arcangelo Gabriele, rappresentato con una veste grigia e manto rosso. L’Arcangelo è proteso verso il gruppo centrale della Vergine e del Figlio. A sinistra l’Arcangelo Michele, che indossa un manto grigio su veste rossa.

Santo Stefano

Il primo martire della cristianità è raffigurato in piedi, di prospetto, e veste da diacono una dalmatica marrone decorata da cerchi bianchi. Con la mano destra l’incensiere.

Arcangelo Michele

E’ affrescato nell’abside di sinistra, di propsetto, ad ali aperte. La sua veste è di colore rosso. Nella mano destra alzata impugna la lancia e con la mano sinistra regge il globo incrociato.

Santi Cosma e Damiano

L’affresco si trova sulla parete orientale, presso l’abside minore. San Cosma indossa una tunica bianca ed un manto di foggia particolare, identificato con la penula ebraica che gli copre interamente la spalla destra, lasciando libera la sinistra. Con la mano destra a dita unite alzata, nella sinistra regge un rotulo. La figura del fratello San Damiano è analoga alla precedente per aspetto e foggia dell’abbigliamento. Il manto lascia libere le spalle e sulla veste grigia risaltano decorazioni a cerchi marroni. Nella mano sinistra stringe un libro.

San Giovanni Battista

La sua figura intera e di prospetto è posta sulla parete meridionale d’angolo. La sua tunica bianca rosata si intravede appena. La mano destra con tre dita aperte poggia sul petto.

San Michele Arcangelo

Il santo, affrescato a figura intera con le ali aperte, indossa una veste rossa e sul petto si incrocia una stola marrone. L’arcangelo impugna, con la destra, la lunga asta, mentre nella mano sinistra regge il globo. Come il precedente, questo affresco è alquanto guasto.

San Giuliano

A figura intera, dipinto di prospetto, il santo veste una tunica di colore rosso con orlature e calza gambiere rosse e sandali. La mano sinistra è alzata a palma in fuori e con la destra stringe la croce.

Madonna con Bambino e San Nicola

In questo affresco la Madonna, in veste grigio scura con un manto marrone, tiene in braccio il Bambino con tunica bianca e manto giallo. Il volto della Vergine è leggermente inclinato verso il Figlio. A destra è dipinto, di prospetto, San Nicola, con una penula rossa chiara e il pallio episcopale. Il santo è raffigurato benedicente alla greca. Lo stato della pittura è molto precario.

 

Vergine con Bambino

Il dipinto è situato sul lato est del primo pilastro di sinistra. La Madonna sorregge con il braccio destro il Bambino seduto e benedicente. Indossa un manto azzurro (annerito nel tempo) che le copre pure il capo. Questo affresco si differenzia nettamente da quello dell’abside centrale; l’insieme dell’esecuzione, di duro disegno, e l’espressione dei volti rivelano una diversa mano e epoca. Si può pensare al tardo XIII secolo.

San Giorgio

Affrescato sul lato a sud del primo pilastro di sinistra, San Giorgio è raffigurato di prospetto. Veste corazza a squame gialle, su tunica a maniche bordate. Con la mano sinistra impugna la lancia a punta triangolare, mentre la destra è appoggiata, a pugno chiuso, al petto.

Santo Ignoto

L’ultimo affresco della cripta-museo rappresenta un santo ignoto, in veste bizantina. Il Santo Ignoto può essere considerato come l’espressione simbolica delle virtù esercitate da tutti i santi.

A partire dall’anno 725, per iniziativa di Leone III Isaurico, successore di Teodosio al trono di Bisanzio, oltremare si andavano diffondendo l’iconoclastia e la conseguente persecuzione della popolazione greca ad essa ribellatasi e che produsse fenomeni di culto nascosti. In tale scenario, per lungo tempo Otranto ed il monastero di San Nicola di Casole assunsero una posizione chiave nella strategia della cultura. La cripta di Santa Maria degli Angeli fu citata in relazione al prestito di uno sticherarion (στιχηράριοv), libro che contiene i canti degli uffici liturgici vespertini e delle lodi del mattino, prestito concesso dal monastero di San Nicola al capo della comunità di Poggiardo, il monaco Michele.

L’attività dei monaci, anziché attirare la benevolenza delle autorità, scatenò pontefici e re di Napoli, che si misero d’accordo per sopprimere quanto di greco esisteva in Italia. Gregorio I estese la gerarchia latina; i conti di Lecce e Nardò soppressero i calogerati basiliani, donandoli ai benedettini. Nel 1583 il sinodo diocesano, presieduto dall’arcivescovo di Otranto Pietro Corderos, sancì l’abbandono del rito greco nel Salento che, tuttavia, rimase in uso fino al XVII secolo.

La cripta ed il museo di Santa Maria degli Angeli in Poggiardo sono aperti al pubblico.

¹  Vaste fu una città messapica di considerevole importanza (l’antichissima Basta o Baxta), fondata probabilmente attorno al 600 a.C. Oggi è frazione del comune di Poggiardo.

²  M. LUCERI, La cripta di S. Maria in Poggiardo, in Japigia, IV 1933.

 

Bibliografia

S. RAUSA, Poggiardo : una vivace comunità salentina, Lecce 1995.

C.D. FONSECA – A.R. BRUNO – A. MAROTTA – V. INGROSSO, Gli insediamenti rupestri medievali nel basso Salento, Galatina 1979.

M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura bizantina in Salento, in “Ad Ovest di Bisanzio. Il Salento medioevale”, Atti del Seminario Internazionale di Studio, Martano 1988 (Galatina 1990), 129-214, a cura di B. Vetere.

M. FALLA CASTELFRANCHI, Pittura monumentale bizantina in Puglia, Milano 1991.

M. LUCERI, La cripta di S.Maria in Poggiardo, in Japigia, IV 1933.

 

Le foto sono della Fondazione Terra d’Otranto

Parabita. La cripta di Santa Marina

di Massimo Negro

L’estate scorsa, in un qualche giorno di agosto che ora non ricordo, seduto in piazza S. Pietro con don Pietro, don Aldo e don Antonio raccontavo delle mie allora recenti visite a Muro Lecce, Miggiano e Ruggiano in occasione delle celebrazioni in onore di Santa Marina. Raccontavo di questa improvvisata ricerca, nata per caso, e delle tradizioni e antichi segni legati alla devozione di questa santa a me del tutto sconosciuti che avevo documentato in quelle giornate. Dagli antichi affreschi di Muro, al pellegrinaggio verso i simboli dell’arco di Ruggiano, ai riti e segni ancestrali della cripta di Miggiano, ai colori delle zigareddhe che animano queste feste.

D’un tratto la discussione si spostò su di un quesito legato alla storia di questa santa. Parliamo di una “Marina” o di un “Marino”?

Facciamo un passo indietro. Nelle mie precedenti note, descrivendo brevemente la vita di questa santa, raccontavo di una giovane fanciulla che “nacque nel 275 ad Antiochia di Pisidia. Figlia di un sacerdote pagano, dopo la morte della madre venne affidata ad una balia, che praticava clandestinamente il cristianesimo durante la persecuzione di Diocleziano, ed allevò la bambina nella sua religione. Quando venne ripresa in casa dal padre, dichiarò la sua fede e fu da lui cacciata: ritornò quindi dalla balia, che la adottò e le affidò la cura del suo gregge. Mentre pascolava fu notata dal prefetto Ollario che tentò di sedurla ma lei, avendo consacrato la sua verginità a Dio, confessò la sua fede e lo respinse: umiliato, il prefetto la denunciò come cristiana. Margherita fu incarcerata e venne visitata in cella dal demonio, che le apparve sotto forma di drago e la inghiottì: ma Margherita, armata della croce, gli squarciò il ventre e uscì vittoriosa. Per questo motivo viene invocata per ottenere un parto facile.In un nuovo interrogatorio continuò a dichiararsi cristiana: si ebbe allora una scossa di terremoto, durante la quale una colomba scese dal cielo e le depositò sul capo una corona. Dopo aver resistito miracolosamente a vari tormenti, fu quindi decapitata all’età di quindici anni”.

Ma accanto a questa Marina vi è una seconda santa, anch’essa conosciuta come Marina, le cui celebrazioni sono spesso “mescolate” con quelle della prima. Due sante, tra loro diverse, ma intorno alle quali vi è un po’ di “confusione” nel ricordarle.
La storia di questa seconda Marina è alquanto diversa e indubbiamente particolare.

“Santa Marina nacque in Bitinia da genitori cristiani nel 725 circa. Dopo la morte della madre, il padre Eugenio decise di ritirarsi in un convento in Siria. Marina volle seguire il padre ed entrò in convento con il nome di Fra’ Marino, vestendosi da uomo, in quanto non era ammesso alle donne di entrarvi. Non era difficile per Marina dissimulare il proprio sesso, il padre gli aveva tagliato i lunghi capelli, inoltre i frati vivevano in celle molto buie indossando un grande cappuccio. Durante un viaggio con alcuni confratelli passò con loro la notte in una locanda. La figlia del locandiere, rimasta incinta di un soldato la notte stessa, accusò il monaco Marino del misfatto. Marina accusata ingiustamente, andò col pensiero a Dio e si autoaccusò di una colpa non sua. L’Abate la cacciò immediatamente fuori dal convento e le fu affidato il bambino, di nome Fortunato, che allevò con mezzi di fortuna. Restò sempre nei dintorni del convento facendo penitenza per una colpa che non aveva commesso. Finalmente dopo tre anni, dietro intercessione dei frati, l’Abate riammise in convento Fra’ Marino. Ma troppo duri erano stati i sacrifici, tanto che avevano colpito il fisico di Marina. Poco tempo dopo  infatti morì. I monaci, mentre lo svestivano, prima della sepoltura, fecero la sorprendente scoperta, capirono allora di quale grossa diffamazione fosse stata vittima, e l’ammirarono per la sua grande rassegnazione”.

Perché il racconto di queste due storie? A Parabita visitando la chiesa-cripta di santa Marina, mi sono imbattuto in questa “confusione” che vi è attorno al ricordo di queste due sante orientali.
Infatti a Parabita accanto al simulacro e a un affresco che rappresenta la prima delle Marine, la storia che si racconta è quella seconda santa.

Una persona anziana che abita nei pressi della cripta e che si occupa anche della sua apertura mi ha fornito un foglietto in cui, in dialetto, viene raccontata questa storia della “Marina parabitana”.

‘A STORIA TE SANTA MARINA

Sape iddhra quantu ne pati
Cu se gode lu regnu te Diu.
Lu caru patre sua se vinne ncasare,
vinne a fare na bella fanciullina;
a lu fonte sciu te battezzare,
te nome la chiamau santa Marina.
La matre te lu latte ca facia
La llattava na fiata la notte e na fiata a la tia.
Te do misi ziccau ccaminare;
te tre, orazioni mpressu Diu;
ma subbitu rrivara ure mare:
a li tre anni la mamma ne muriu.
– Fija mia amata, nu n’è tiempu te ncasare,
monucu me fazzu e servu Diu.
– Caru patre, a ci me lassi sventurata?
– Fija, te lassu a li zii tua raccomandata,
– Ah, caru tata, ste palore teni a mente:
quiddhru ca te face la mamma e lu sire
nu te face lu parente.
E senza nuddhru pentimentu,
decise cu se chiute a lu cumentu.
Notte e giurnu quiddhru Diu stia a pregare
Cu lu fannu subitu ncappucciare.
Doppu dieci anni a tutte l’ore
Chiangia la sua fija cu lu core.
– Ci ài, fratellu ‘Nofriu, ci ggète ca te senti?
– Ah, bel u ticu ca me tremulene li tenti:
Aggiu lassatu nu fiju intra l’affanni,
mo certu è trasutu a li tritici anni.
– Parti, fratellu ‘Nofriu, e tiempi nu perdimu.
Ca subitu moniceddhru lu facimu.
– Marina te la casa mia, ci boi meju
Te ncasare o puramente te servire Diu?
– Lu pansieri mia m’è statu quistu:
ca ieu pe’ sposu oju Gesù Cristu.
– Fija, nu’ te spumpare ca sì donna,
ci oi ccoji li frutti te la Matonna;
Fija, statte cu lu core cuntritu,
ci oi ccoji li frutti te lu paratisu.
– Dimme, patre, prima quanti siti,
ci tutti quanti a ‘na taula mangiati,
ci tutti te sparte a lu lettinu be curcati.
– Ah, fija , mo te lu ticu te moi
Ca simu trecentu sessantatoi
Tutti li monici a la finescia nfacciati
Lu nome dummandavene presciati.
– Lu miu nome ve lu ticu mprimu:
te osci nnanzi me chiamati fra Marinu.
Dopo tre anni paru paru
Ne muriu lu genitore caru.
Unu te nu giurnu se partiu rrabbiatu
Nu monacu fetente, cane scelleratu:
– Patre Lattoremia, Patre Lattore,
tenimu fra Marinu a lu cumentu
ca se mangia lu pane a tratimentu;
Acqua a cumentu nu ne putimu cchiare,
mandamulu a lu fiume cu pozza faticare.
Fra Marinu, ca l’ubbidienza la ulia purtare,
se pijau lu sicchiu, le menze e le quartare,
ricchezza te acqua sciu truvare.
Quandu rrivau ‘llu fiume
Se cumminciau mparuare,
ne ssiu ne serpente ca se lu ulia te mangiare.
Fra Marinu cu le mani te lu zziccau,
cu lu lazzu te cintu lu nnicau.
Tutti li monici ne dummandara:
– Marinu, ai cchiatu nenti pe’ la strata?
– Nu sulu serpente ippi cchiare,
ca me ulia propriu te mangiare;
ieu cu le mie mani lu zziccai,
cu lu lazzu te cintu lu nnicai.
Mo’ ntorna te nu giurnu se partiu rrabbiatu
Nu monacu fetente cane scelleratu:
– Patre Lattoremia, Patre Lattore,
tenimu fra Marinu a lu cumentu
ca se mangia lu pane a tratimentu;
Legna per cumentu nu ne putimu cchiare:
pijase lu travinu e lu zzappune
cu rronca erba a la ripa te lu mare.
Iddhru cu nu dice sine e mancu none,
ca l’obbedienza la vinne purtare,
se pijau lu travinu e lu zzappune:
bunnanzia te legna sciu truvare.
Se otau maletiempu can nu se potia stare,
tuzzau a na taverna cu se pozza riparare.
– Apri, taverniera mia, pe’ caritate,
ca quannanzi face lampi troni e tempestate.
A menzanotte, te la taverniera la fija se ‘zzau,
ca nu riccu signore ngravidau:
– Fra Marinu, ci tie stu core nu cuttenti,
vene nu giurnu ca fazzu te nne penti!
– Auh, ci nui sta cosa venimu fare,
lu Signore ne vene a casticare.
– Mo’ è notte e nu’ ne vite ‘ffattu.
La camara ‘ssegnata era china te scuranza,
ma quasi se cecava pe’ la muta luminanza.
A iddhra te cent’anni quiddhra notte ne pariu,
prima cu lucisce citta citta se nde sciu.
Bbunnanzia te legna truvau su llu camminu,
ne l’ia preparata Sant’Angiulu ndivinu.
Tutti li moniceddhri nnanzi ssira n’addhra fiata:
– Fra Marinu ai cchiatu nenzi pe’ la strata?
– Lu sulu maletiempu me zziccau,
ma la Vergine Maria me llibberau.
Quandu li nove misi giusti rrivau ‘ccumpire,
la fija te la taverniera nci venne a parturire.
Allora vitivi come matre e fija minavene li passi,
propriu comu ddo cani satanassi!
A llu cumentu, pe’ li critazzi, s’apriu nu purtuncinu,
– Santità, ai vistu ccia fattu fra Marinu?
Pe’ na notte ca lu fici ospitare,
la fija mia me vinne ngravidare.
– Cacciamulu a ddhrannanzi stu cane traditore,
ca stu scandulu n’à fattu senza core:
intra trecentusessanta ‘ducati,
ne vinne ‘llevata la verginitati.
Ne passara la disciplina, lu casticara forte forte
E lu minara fori te le porte.
Iddhra se peijau la fanciullina amata,
 e se nde sciu sutta a ‘nn ‘arcata.
La Pruvvidenza na cerva ne mandau,
la piccinna mmane e ssira ne ‘llattau.
Nu giurnu se partiu nu monucu veramente,
quiddhru era Cristu ‘nnipotente.
Quandu fra Marinu incontaru
Tuttu ‘nfriddulutu lu truau,
– ca cu lu cuntu me vene friddu e freve –
Susu ne cuntau sette parmi te neve.
– Aggiu vistu Fra Marinu suffrire,
sciati bbititilu prima te murire.
– Lassatilu ‘ddhrannanzi ddhru cane tratitore,
can nu mmerita perdunu e mancu amore;
Mmandatilu cchiamare
Cu scupa lu cumentu a tutte l’ore.
E cu sciacqua pignate e cazzalore.
– Cristu perdunau li nimici pe’ buntà,
mo’ perdunati puru ùi  la santità.
Unu te nu giurnu ntisera chitarre e priulini,
campane e campaneddhri:
Fra Marinu ulava versu Diu
A mmenzu a l’angialeddhri .
A ddhru paese nc’è na bella usanza:
ogni mortu se spoja e sciacqua n’abbunnanza.
Le cristiane quandu lu spojara ddhra matina,
s’accorsera can vece te Marinu era Marina!
Sulamente allora capira tutti quanti
Comu e quantu suffrene li santi.
E li monici chiangendu: Soru. Mia soru,
nu’ nci curpamu nui,
nci curpa quiddhru abitu te fore,
nci curpa quiddhra cane traditore.
Cusì tutti quanti fila fila,
se la passara la disciplina.

Nella storia di Marina ricordata a Parabita c’è un punto del racconto in cui si fa commistione con la vita della prima santa, ed è quando si racconta l’incontro con il serpente. Ma le raffigurazioni delle due sante solitamente divergono.
La prima santa Marina è rappresentata vestita da donna, con le vesti dell’epoca, con in mano un martello e la palma simbolo del martirio. Ai piedi un serpente.
La seconda Marina è rappresentata vestita da monaco, con un crocifisso in mano, un sacco sulle spalle e con accanto un bambino; il piccolo nato dalla donna sua accusatrice che viene ricordato con il nome di Fortunato.
A Parabita, la storia che viene tramandata è quella di Marina – Marino, la sua rappresentazione si riferisce alla più antica santa Marina.
Ma vi è un secondo punto di commistione tra la storia delle due sante.

La prima Marina per via del suo bel aspetto che vece invaghire il suo persecutore viene ricordata come la santa del bel colorito e come tale viene invocata per la protezione contro l’ittero. Infatti nei tempi passati alla santa venivano portati i bambini affinché venissero protetti o guariti da questa malattia.
Così avveniva pure a Parabita, pur non essendo una “prerogativa” di Marina – Marino.
Difatti dopo aver percorso un breve cunicolo, all’ingresso dell’unico vano che compone la cripta, sulla destra vi è una pietra dove per tradizione le madri dopo aver invocato l’intercessione della santa, passavano la mano sulla pietra per poi accarezzare le guance del loro piccolo.
Alcune tracce di colori potrebbero far propendere per la presenza di un affresco andato ormai consunto per il continuo sfregare di mani o fazzoletti.
Le origini delle cripta sono difficili da rinvenire. Molto probabilmente si può farla risalire ai primi secoli dello scorso millennio. La copertura originaria della cripta fu distrutta per la realizzazione di una cisterna e proprio grazie alla realizzazione di quella apertura venne riportata alla luce. Il sito è ormai inglobato all’interno del centro abitato.
Il Fonseca ritiene che dovesse trattarsi inizialmente di un ipogeo con funzioni funerarie e solo successivamente, in epoca medioevale, adibita al culto per poi essere abbandonata e successivamente interrata sino al suo rinvenimento.
All’interno vi sono dei dipinti parentali di non particolare pregio, ma il luogo è suggestivo e merita indubbiamente una visita.

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