Libri| Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano

di Paolo Vincenti

A pochi mesi di distanza dal libro “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, (“Quaderni de L’Idomeneo”, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, Grifo Editore, 2017), esce nello stesso anno 2017 “Rocco De Vitis, medico umanista di Supersano”, a cura di Maria Antonietta Bondanese e Mario Spedicato, per la collana “Cultura e Storia” della Società Storia Patria per la Puglia, sezione Lecce (Giorgiani Editore).

Il libro si pone in continuità con il precedente, ma se quello aveva focalizzato l’attenzione sull’attività di traduttore del dottore De Vitis e quindi più specificamente sulla sua opera, con interventi mirati da parte di valenti professionisti del settore, quest’ultimo privilegia l’uomo De Vitis, ossia a dire la dimensione privata, attraverso contributi da parte di amici, famigliari, colleghi, e insomma tutti coloro che hanno conosciuto il medico nella sua vita quotidiana. Ma si tratta di dimensioni diverse della stessa storia, come scrive nella Presentazione del libro lo stesso Mario Spedicato, e la storia di De Vitis si intreccia con la storia del suo paese, Supersano, che si intreccia a sua volta con la storia del Paese, e scriverne dunque permette di riannodare i fili, ricomporre la trama di quella temperie socio culturale nella quale si colloca la biografia umana e intellettuale di De Vitis. Un libro, questo, che è diretta emanazione di quell’altro, germinazione dovuta alla troppo abbondante mole di scritti che erano pervenuti nella sua redazione. Un libro che nasce dall’esigenza, fortemente sentita dalla famiglia De Vitis, di non mandare perduti tutti quei meteriali che, sia pure alcuni di essi eterogenei e senza i criteri di scientificità che caratterizzano le pubblicazioni universitarie, risultano vieppiù meritevoli di attenzione. Questi contributi, vari per stile, ispirazione e tematica, ma tutti accomunati da un medesimo sentimento nei confronti del dottore De Vitis, sono stati riuniti a compaginare un volume, tributo di affetto e gratitudine per un personaggio come Rocco De Vitis, 1911-1997, medico e traduttore dei classici, che ha davvero lasciato un segno del proprio passaggio.

“Cultore della poesia virgiliana e fine interprete dell’Eneide, egli ha elaborato con ammirevole accuratezza due traduzioni dell’intero poema, pubblicate rispettivamente nel 1982 e nel 1987, con un prezioso ed utile corredo di tavole e letture esplicative”, come scrive la prof.ssa Maria Elvira Consoli nel suo intervento nel libro.

“Il poema è, per certo, funzionale agli scopi politici e propagandistici di Ottaviano Augusto, invece più sinceramente autentica, in quanto  scevra da secondi fini, risulta l’interpretazione che ne ha fornito Rocco De Vitis con la propria traduzione e l’accorto inserimento di letture, come quella del Panareo, chiarificatrici della Stimmung ideologica della prima metà del’900.” Per questo, nella comunità supersanese, il medico umanista vive ancora, alto modello di riferimento, personaggio esemplare e preclaro potremmo dire, nel ricordo di amici e parenti. Non a caso nel libro sono stati inseriti gli interventi dei relatori alla presentazione del volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista”.

In effetti, l’intento di questo secondo libro, proprio come spiega Gigi Montonato nella sua relazione, è “il tramandare ai posteri, come disse Tacito nell’incipit dell’Agricola, imprese e qualità morali degli uomini illustri. Con questi libri, la Società di Storia Patria per la Puglia intende consegnare alla posterità chi con ogni forma di produzione, letteraria artistica scientifica, si è speso, fuori o dentro la professione abituale, per lasciare un buon ricordo di sé attraverso le sue opere. L’oraziano “Non omnis moriar” è il desiderio, confessato o meno, di sopravvivere grazie ad esse. E’, in un certo senso, l’anelito, del tutto laico, di ogni uomo di lettere, di arti, di scienza e di ricerca; quella che il filosofo polacco Andrzej Nowicki, un profondo studioso di Giulio Cesare Vanini e della filosofia italiana del Rinascimento, chiamava “filosofia dell’uomo e delle opere umane”, risalendo al dantesco “come l’uom s’etterna” (Inf., XV, 85).

Raccogliere quell’anelito e dargli corpo con un libro, che sia guida alle sue opere ma nel contempo anche ricordo del suo essere stato, è compito di chi appartiene alla stessa categoria umana, una risposta di solidarietà, a volte anche di pietas e di giustizia, siccome non sempre in vita si dà il giusto riconoscimento ad uomini pur meritevoli.”

Il libro si apre nella prima sezione, “Il dottore De Vitis e l’antica Supralzanum”, con l’intervento di Gino De Vitis, che traccia il profilo biografico di Rocco De Vitis. Gino De Vitis, benemerito operatore culturale, direttore per quarant’anni del foglio supersanese “il Nostro Giornale” (che ha da poco passato le consegne proprio a Maria Bondanese nella direzione), ha certamente titolo per biografare il medico, non solo per esserne stato amico e parente, ma anche per avere ospitato tanti e tanti suoi interventi sul Giornale. Il secondo pezzo è “Un medico umanista”, di Florio Santini, contributo già apparso in “Il Leccio”, nel 1994. Poi, un dotto intervento di Don Oronzo Cosi, Parroco di Supersano, “La cultura come palestra dell’anima”, e quindi il lungo e documentatissimo intervento di Remigio Morelli sull’esperienza del dottore De Vitis sul fronte nella Seconda Guerra Mondiale.

Ancora, un intervento di Michele De Vitis su politica e società; seguono il contributo di Antonio Errico, già apparso su “Il Quotidiano” nel 1987 e la rivista “Caffebuda” nel 1988, e quello di Giorgio Barba, già apparso su “Il Leccio” nel 1995. Il libro è corredato da un apparato fotografico davvero importante, foto della vita del dottor De Vitis e disegni tratti dalle sue opere si alternano alle pagine del libro, creando un maggiore motivo di interesse per il lettore. Luigi Bardoscia si occupa della “eredità intellettuale, morale e culturale di Rocco De Vitis”, mentre Gianpaolo G.Mastropasqua offre un contributo fra letteratura e medicina, tratto dal suo libro “Partita per silenzio e orchestra” (Ed.Lietocolle 2015).

È uno dei più interessanti il saggio di carattere sociologico di Gianfranco Esposito, “L’attualità del pensiero di Rocco De Vitis”. Inizia a questo punto una serie di articoli che riguardano il territorio di Supersano e le sue ricchezze paesaggistiche e culturali. “Supralzanum, Supersano” di Maria Bondanese, che è tratto da un testo già edito dalla stessa, “Supersano. Arte e Tradizione, Scoperta e Conoscenza”, Taurisano, Centro Stampa, 2014, sulla antichissima storia di Supersano; Francesco Tarantino parla dell’albero della manna presente nella campagna di Supersano, delle Vore e del lago di Sombrino, anche attraverso le narrazioni di Rocco De Vitis, e del Bosco di Belvedere, attraverso la pubblicazione di Maria Bondanese, con bellissime foto storiche e contemporanee.

Molto denso il saggio di Stefano Tanisi e Stefano Cortese sul complesso della Cripta e della Madonna della Coelimanna a Supersano, come bibliograficamente dettagliato è quello di Paolo Vincenti sul Mubo, vale a dire il Museo del Bosco. Antonio Elia parla della Chiesetta di San Giuseppe e delle sue opere litiche da lui realizzate per conto del dottor De Vitis. “Memore della cappelletta sul fronte sul monte Golico, che al fronte vedeva ogni sera avvolta dai bagliori dei mortai e delle bombe a mano, agli inizi degli anni Ottanta, edifica la chiesetta di San Giuseppe sulla Serra di Supersano, impreziosita dai dipinti murali di Ezio Sanapo e dalle sculture di Antonio Elia, e che dona poi, assieme al terreno adiacente, alla Parrocchia di Supersano”, scrive Maria Bondanese.

A questo punto, si apre la seconda sezione del libro, intitolata con dei versi tratti dall’Antico Testamento, “Morì lasciando molti rimpianti di sé”. Qui trovano spazio un intervento di Don Gerardo Antonazzo, già Parroco di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo, un altro lungo scritto della Bondanese “L’umanesimo cristiano del dottor Rocco De Vitis”, un breve ricordo di Nello Borrelli ed anche di Francesco Tarantini che sottolineano la poliedricità del medico umanista; ancora sul “personaggio” Don Rocco si intrattengono amici come Vittorio Antonazzo, Raffaele Garzia ed anche la figlia Maria Rosaria con “Arriverderci papà”, un pezzo pubblicato su “Il Nostro Giornale” nel 1997. Maria Rosaria apre in effetti la serie dei “familiaria”, che ricordano l’uomo Don Rocco. Wanda, l’altra figlia, con “Dolce nostalgia”, la nuora Nuzza Marini (moglie del figlio Roberto) che dialoga con la prof.ssa Cristina Martinelli, la nipote Paola Bray con “Seneca al telefono”, un’altra nipote Adriana Malorgio con “Zio Rocco…sul filo dei ricordi”, Rosaria Petracca con “don Roccu”, Roberto Bondanese (fratello di Maria) con “So’ rumaste sotte a bbotte mbressiunate” e poi un articolo firmato da tutti i nipoti, Francesco e Chiara Lecci, Giuseppe, Valeria, Antonio e Vincenzo De Vitis, “Carpent tua poma nepotes”.

Scrive Alessandro Laporta, dopo aver passato in rassegna esempi illustri di medici del passato che unirono alla professione l’attività storica ed erudita, come Cosimo De Giorgi, “De Vitis anche lui è un fenomeno, da questo punto di vista, cioè riuscire a conciliare l’esercizio serio della professione di medico con l’hobby, con la passione, con l’amore per la letteratura. Entrambi sono, in un certo senso, allievi, discendenti di un’altra grande figura che è stata chiamata in causa questa sera: cioè Antonio De Ferraris Galateo, che rimane sicuramente un punto di riferimento […] De Vitis è un poeta sommo non solo per il suo libro che contiene poesie, ma per la sua traduzione dell’Eneide, delle Georgiche e Bucoliche, cioè un medico che pensa di prendere un testo poetico della difficoltà di Virgilio e farne una versione poetica, se non è poeta lui ditemi chi è poeta nella nostra letteratura. Io vedo in queste figure non solo una continuità ma una grande passione per l’esercizio letterario, una grande passione per la grande poesia…”.

Nella sezione terza, “Rocco De Vitis e il mondo della scuola”, interventi di insegnanti e alunni dell’istituto Comprensivo scolastico di Supersano e nella quarta sezione, come già detto, gli interventi sul volume “Quando Ippocrate corteggia la Musa”, tenuti in occasione della presentazione presso l’ex Monastero degli Olivetani il 4 maggio 2017, nell’ordine: Luigi Montonato, Eugenio Imbriani, Alessandro Laporta, Maria Elvira Consoli, Maria Bondanese.

Il libro si conclude con l’Indice analitico e l’Indice dei volumi pubblicati nella collana “Cultura e Storia”.

 

Aldo De Bernart e la foresta di Supersano

supersano-celimann
Cripta di Coelimanna a Supersano

di Maria A. Bondanese

 

Un dì

per queste balze  

salmodiando salian

di buon mattino

barbuti monaci di S. Basilio.

Li accompagnava

un timido raggio di sole  

tra le rame del Bosco Belvedere

e il cinguettio gioioso degli uccelli      

saltellanti nella guazza.

 

Sembra di vederli quei monaci pensosi, evocati dal verso gentile¹ di Aldo de Bernart che alla profonda cultura, alla perizia di storico, al rigore di studioso univa la dedizione per i nostri luoghi, la cui identità ha insegnato ad amare e riscoprire. Luoghi in cui specchie, dolmen e pietrefitte rinviano ad epoche remote, a un tempo immobile, circolare ed arcano, laddove chiese, torri e castelli, densi di memoria, raccontano come dalla periferia vengano i fili alla trama della grande storia.                                                                                   Il tratto armonioso, l’eloquio dotto e persuasivo, Aldo de Bernart era solito sbalzare fatti e personaggi della realtà municipale con dovizia di particolari e vivida precisione, così da significarne il ruolo nella storia di questo territorio, segnato da lenti ma inarrestabili mutamenti nel suo patrimonio architettonico, viario e paesaggistico. Casali e masserie costellano la campagna salentina offrendosi testimoni silenti di un sistema insediativo antico ma residuale, come tratturi e sentieri, stretti tra filiere di muretti a secco, appaiono relitti di suggestive ma ormai desuete percorrenze.

La via misteriosa, via della ‘perdonanza’, serba però ancor oggi intatto l’incanto che l’esatta e suasiva descrizione fattane da Aldo de Bernart² riesce a trasmettere al lettore. In età medievale, quando viandanti e pellegrini si muovevano «per mulattiere insicure e per sentieri alpestri»³, la via misteriosa o «via degli eremiti»⁴ incardinando, tra le ombre della boscaglia, le chiese rupestri della Madonna di Coelimanna (Supersano) e della Madonna della Serra (Ruffano), costituiva quel percorso di crinale che dai dintorni di Supersano si snodava lungo il Salento delle Serre fino a S. Maria di Leuca.

«Legato alla primitiva antropizzazione di questo territorio quando, presumibilmente, solo dalla sommità delle Serre si poteva avere un quadro territoriale significativo, mentre le valli erano coperte fittamente di boschi e di paludi»⁵, il percorso di crinale lambiva la ‘foresta’⁶ plurimillenaria di Belvedere sulla quale amabilmente, in più di un’occasione⁷, Aldo de Bernart ha voluto soffermarsi, catturato dal fascino dell’immenso latifondo di querce, pressochè scomparso.

Pochi esemplari ne attestano ancora la superba bellezza ma la sua storia è narrata nel “Museo del Bosco”(MuBo) di Supersano, nato dall’esigenza di far conoscere questo particolare ecosistema del territorio salentino, attestato storicamente almeno dall’età romana fino agli inizi del secolo scorso.

quercia spinosa
quercia spinosa

L’eccezionale polmone verde ricadeva nel feudo di sedici Comuni : Supersano, Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Poggiardo, Vaste, Torrepaduli, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia, che vi esercitavano gli usi civici, ossia i diritti minimi riservati alle popolazioni a fini di sussistenza. Il Bosco era dunque «fonte di ricchezza e per questo oggetto di desiderio e di contesa tra le popolazioni confinanti»⁸ come attesta, tra l’altro, il conflitto che nel XVI secolo oppose contro il feudatario di Supersano gli abitanti di Scorrano, «che lamentavano la soppressione d’alcuni diritti che essi vantavano da tempo immemorabile sullo splendido Bosco del Belvedere» , come quelli di «acquare, pascolare e legnare senz’alcuna servitù»⁹.

La caccia, la pesca, la raccolta di frutti e legna, di giunchi e canne palustri, la coltura di lino e canapa, l’allevamento di pecore e suini erano le attività più praticate all’interno del Bosco, assieme alla produzione di carbone. Tali le risorse del magnifico Belvedere, da conferire ai casali che di esso disponevano un valore di stima superiore a quelli che ne erano privi. Aldo de Bernart ricorda come «Fabio Granai Castriota, barone di Parabita, quando nel 1641 vende a Stefano Gallone, barone di Tricase, la Terra di Supersano con il bosco Belvedere e con il feudo di Torricella e della sua foresta, con i relativi diritti feudali, realizza il prezzo di 40.000 ducati»¹⁰. Cifra ragguardevole per i tempi e addirittura doppia rispetto all’ “apprezzo” che, nel 1531, ne aveva fornito Messer Troyano Carrafa nella compilazione dei feudi confiscati in Terra d’Otranto ai baroni schieratisi contro la Spagna.

La relazione¹¹, contenuta nell’ Archivio General de Simancas, rientrava nei lavori della commissione incaricata, nel 1530, dall’imperatore Carlo V di redigere l’elenco e la stima dei beni sottratti ai nobili ribelli, durante l’annoso conflitto tra francesi e spagnoli in Italia, che aveva travolto anche l’assetto feudale di Terra d’Otranto e giungerà a conclusione solo nel 1559. Al di là delle umane traversie, il Bosco continuava a prosperare lungo una superficie di oltre 32 kmq., delimitata da una linea quasi elissoidale di circa 40 km. di giro, ricca di acque alluvionali che sboccavano, come ricordava il ruffanese Raffaele Marti, «in ramificati canaloni, spesso fiancheggiati dal rovo, dal frassino, dalla vitalba, dalla marruca, dalla brionia» che, intricandosi, ombreggiavano stagni «albergo di scodati e caudati batraci, di luscegnole, d’orbettini, e spesso di bisce d’enormi proporzioni»¹².

Nel fitto bosco di querce, tra cui il maestoso farnetto, la roverella e la virgiliana, si ergevano anche olmi, lecci, castagni, persino il frassino maggiore e il carpino bianco, cui facevano corona piante e fiori del sottobosco e della macchia mediterranea quali alloro, corbezzolo, lentisco, mirto, viburno, pungitopo, rosmarino, gelso, rose di San Giovanni e senza che vi mancassero mele, pere, sorbe, nespole, uva allo stato selvatico. “Delizie” definisce perciò Aldo de Bernart l’incanto e le rigogliose varietà del Belvedere¹³, in cui trovavano asilo cervi, volpi, lontre, caprioli, scoiattoli, lepri, conigli, tassi, martore e puzzole accanto ai voraci lupi e ai possenti cinghiali, di cui l’ultimo sarà abbattuto nel 1864. Paradiso dei cacciatori per l’abbondanza di fagiani, tordi, beccacce e pernici, il Belvedere ospitava anche trampolieri che svernavano presso la palude di Sombrino, formata dalle acque piovane abbondanti in autunno ma che, stagnanti in estate, emanavano «miasmi deleteri, che spandevano la loro influenza pestifera fino a Supersano »¹⁴, propagando l’azione malarica in tutta la zona mediana della provincia. Motivo per cui il Giustiniani, descrivendo “Suplessano” ai primi dell’800, aveva annotato che è «in luogo di aria non sana»¹⁵ .

Nel 1858, uno scavatore di pozzi di Soleto, Giuseppe Manni, riesce a bonificare l’area facendo confluire le acque del Sombrino entro una voragine da lui creata: «e come d’incanto/scomparvero l’acque,/non senza rimpianto./Ne sorsero i campi/fiorenti di Bacco/ma tu Supersano,/per fato divino/perdesti il tuo lago/il lago Sombrino»¹⁶. Supersano, tra l’altro, acquista d’allora fama di località salubre tanto che l’Arditi, rispetto al più antico etimo – Supralzanum – di origine prediale, avanzerà l’ipotesi che il suo nome potesse essere «una pretta ed accorciata traduzione del latino Super sanum, più che sano»¹⁷, con chiara allusione alla bontà del clima.

Ma il Bosco, il cui legname pregiato nel 1464 era stato richiesto per riparare le porte del Castello Carlo V di Lecce¹⁸, subisce un progressivo e drastico impoverimento al punto che lo stesso Arditi nel 1879, scriveva :«Era questo forse nella Provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo se non poche moggia a Nord-Ovest verso Supersano; tutto il resto è ridotto a macchia cavalcante od a terreni coltivati a fichi, vigne e cereali»¹⁹. Non estranea comunque alla fine del Bosco la sua suddivisione in quote, seguita alle leggi eversive della feudalità del decennio riformatore francese.

Dopo lunga contesa con i Principi Gallone, in possesso del Bosco di Belvedere che assicurava loro «la pingue rendita di L.42.500»²⁰, nel 1851 venne eseguita l’ordinanza di divisione del patrimonio boschivo fra i comuni che vi esercitavano gli usi civici.

«Le complesse vicende storico-giudiziarie associate alla Questione demaniale del Bosco Belvedere, dal punto di vista territoriale innescarono profonde conseguenze geografiche nel paesaggio così investito da rapidi mutamenti che, nel volgere di pochi lustri, a far data dalle operazioni di divisione in massa dell’ex-feudo Belvedere e della Foresta, ebbe ad assumere un connotato non più silvano ma decisamente caratterizzato dalle colture agrarie, viepiù affermantisi nella seconda metà del XIX secolo»²¹. Mutato il contesto paesistico, solo il Casino della Varna, stupendo ritrovo di caccia d’impianto seicentesco tuttora esistente nell’agro di Torrepaduli, la cui «mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa», non più luogo d’incontro di nobili per lieti conviti, «rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere»²². La cui memoria però, intesa non come semplice conservazione e inerte deposito di dati ma piuttosto azione creativa e trasfigurazione del passato, è custodita nel Museo del Bosco di Supersano.

Nella memoria, infatti, tutto ci è coevo²³: il monaco filosofo Giorgio Laurezios di Ruffano, insegnante di filosofia morale per i novizi che “salmodiando salian” alla chiesa-cripta della Coelimanna, in una Supersano fantasma del XIII secolo con appena 120 abitanti terrazzani sparsi per le campagne, come ci ha spiegato Aldo de Bernart, maestro di vita, arte, letteratura, la cui missione educatrice e culturale resta operante nella mente e nell’animo di quanti hanno avuto il privilegio di conoscerlo.

 

pubblicato nel volume antologico Luoghi delle cultura Cultura dei luoghi, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Grifo Editore

 

Note

¹ A. De Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale, «Memorabilia» 28, Ruffano, aprile 2011, riportato anche da «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 20

² Cfr. A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina 1994. Di Mario Cazzato è doveroso sottolineare la lunga e fruttuosa collaborazione con Aldo de Bernart nella valorizzazione del patrimonio architettonico e paesaggistico salentino.

³ Ivi, p. 23

⁴ Cfr. C. Sigliuzzo, Leuca e i suoi collegamenti nel Basso Salento, in Nuovo Annuario di Terra d’Otranto, Vol. I, Galatina 1957,               pp.73-76

⁵ A. De Bernart-M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, cit., p.15

⁶ Così la chiama il Conte Carlo Ulisse de Salis Marschlins che, percorrendo le contrade del Salento nel 1789, annota come «nella foresta di Supersano sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente» (C. U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di G.Donno, Lecce 1999, p. 140-141).

⁷ Cfr. A. De Bernart, La foresta di Supersano, «Il nostro Giornale», a. IV-n. unico, Supersano, 8 maggio 1980; A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere in A. de Bernart-M. Cazzato-E. Inguscio, Nelle Terre di Maria d’Enghien, Galatina 1995, pp. 29-34

⁸ F. De Paola, L’effimero volo delle aquile dei Gonzaga sulle terre salentine (1549-1589) in M. Spedicato, I Gonzaga in Terra d’Otranto, Galatina 2010, n. p. 85

Ivi, pp. 84-86. In merito alla controversia, l’Autore cita la “provvisione regia” del 1582 con cui la Gran Corte della Vicaria di Napoli si espresse a favore dei cittadini di Scorrano contro Scipione Filomarino, allora barone di Supersano

¹⁰ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., p.31

¹¹ Cfr. F. De Paola, “O con Franza o con Spagna…” Note sulla geografia feudale di terra d’Otranto nel primo Cinquecento , in               M. Spedicato (a cura di) Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro,Galatina , 2008,                       pp. 85-87

¹² R. Marti, L’estremo Salento, Lecce 1931, pp. 21-23

¹³ A. de Bernart, Torrepaduli Belvedere, cit., ivi

¹⁴ C. De Giorgi, La Provincia di Lecce- Bozzetti di Viaggio, 1882, rist. Galatina 1975, Vol. I, p.148

¹⁵ L. Giustiniani, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, 1797-1805, rist. an. Bologna 1984, tomo IX, p. 120.

¹⁶ R. De Vitis, Le “Vore”e il Lago Sombrino in Soste lungo il cammino, Taviano 1990, p. 116.                                                                                                             Per le bonifiche delle zone paludose in Terra d’Otranto, fra cui quella di Sombrino, a ridosso dell’Unità d’Italia,                                              cfr. M.A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età moderna, Napoli 1988, p. 25

¹⁷ G. Arditi, Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, rist. an. Lecce 1994, p.577

¹⁸ Cfr. G. Fiorentino, Il Bosco di Belvedere a Supersano: un esempio di archeologia forestale, tra archeologia del paesaggio ed archologia ambientale in P. Arthur-V. Melissano (a cura di), Supersano Un paesaggio antico del Basso Salento, Galatina 2004, pp. 23-24

¹⁹ G. Arditi, op. cit., p. 65. L’Arditi aveva conosciuto nelle sua varietà e bellezza il Bosco di Belvedere perchè, nel 1851, aveva ricevuto l’incarico di tracciarne la mappa e stabilire la divisione in quote tra le parti interessate.

²⁰ A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²¹ M. Mainardi, Il Bosco di Belvedere, «Lu Lampiune», a. V, n. 3, 1989, p. 108

²² A. De Bernart, La foresta di Supersano, cit.

²³ Cfr. Maria A. Bondanese, Sul tempo ed altro, «Il nostro Giornale», a. XXXV- n.75, Supersano, 25 dicembre 2011, p. 21

Supersano. La Vergine di Coelimanna tra principi, pastorelli e briganti

di Massimo Negro

Coelimanna mantiene fede al suo nome. Gli antichi latini direbbero “nomen omen”. In effetti questo sito è una vera e propria manna dal cielo per coloro a cui piace raccogliere e raccontare storie sul nostro passato e sulla nostra terra. E’ una mirabile sintesi di leggende, di religiosità, di arte e di storia.  Tutte concentrate in questo piccolo spazio del nostro Salento.

Da dove cominciare?

Partiamo dalle leggende, dalle storie più antiche, per poi avvicinarci ai nostri giorni e alla mia visita alla cripta.

La prima di questa storie racconta di una guarigione miracolosa, in un periodo della nostra storia imprecisato. Un principe romano era stato colpito da un morbo che lo avrebbe condotto alla morte se non fosse intervenuta la Vergine Maria, apparendo allo sfortunato con il titolo di Coelimanna, e guarendolo. La leggenda racconta che il principe, una volta guarito, volle recarsi sul luogo a cui rimandava l’apparizione, ma durante il tragitto qualcosa di strano accadde. Infatti il cavallo d’improvviso iniziò ad inginocchiarsi dapprima all’ingresso del paese, poi una seconda volta lungo la strada che conduceva verso il bosco. Infine si ebbe ad inginocchiare una terza ed ultima volta nel luogo in cui, per devozione e per ringraziamento per la guarigione ricevuta, il principe fece erigere un Santuario. Secondo la leggenda, i luoghi in cui il cavallo si inginocchiò improvvisamente sono dove oggi sono posti dei menhir, lungo la strada che dal paese conduce verso il Santuario.

Come tutte le leggende che si rispettino non vi è  nulla di documentato. Certo è che questa commistione tra religiosità cristiana, l’apparizione miracolosa della Vergine, e quella pagana, rappresentata dai menhir, lascia validamente supporre che il luogo fosse abitato sin dai tempi più antichi e poi successivamente “convertito” ad una differente destinazione religiosa.

La seconda storia che si racconta, e che ebbe più della prima a lasciare chiare evidenze nella religiosità popolare del luogo, narra di un’apparizione della Vergine di Coelimanna ad una pastorella.

Il P. Antonio da Stigliano, cappuccino, così riferisce la tradizione sul Santuario.

“Conduceva alla pastura, su quella verde collina, il suo gregge, una pastorella innocente, quando all’improvviso un giorno, proprio il Sabato precedente alla prima Domenica di Luglio, le si fece innanzi una maestosa Signora, la quale col suo celestiale sorriso le disse: Figliuola mia, va a chiamarmi il Curato di Supersano; la fanciulla modestamente osservava che il suo gregge senza di lei si sarebbe disperso, danneggiando nelle terre vicine e la sconosciuta ed affettuosa Signora le rispose che nella di lei assenza lo avrebbe Ella custodito.
Pronta allora al comando reca l’avviso al Parroco, il quale, animato da zelo, non mancò di condursi sul luogo al fianco della santa fanciulla. Costei giunta sulla collina gli additava quella gran Donna tenutasi nascosta dietro un cespuglio. Il fortunato sacerdote, nulla di straordinario avendo osservato, ritonò in Parrocchia, dove nella seguente Domenica, avendo narrato al popolo l’apparizione prodigiosa, predicò che ognuno si provvedesse di ferro per aprire quel folto cespuglio, ove si ascose la Donna apparsa il giorno innanzi alla pastorella innocente. Non mancò certo la preghiera, dopo che il popolo processionalmente raccolto ed avviatosi sul luogo aprì con sollecitudine il cespo additato. Fu scoperto un antro, ove si rinvenne una cappella (l’attuale Cripta) avente in mezzo un altare con nicchia, in cui un affresco è l’immagine bellissima della regina del Cielo, fregiata da un’iscrizione greco-latina che dice: Virgo Manna Coeli.”

L’apparizione della Vergine alla pastorella si narra che avvenne nel XV secolo. A ricordo dell’evento venne eretto l’attuale Santuario della Beata Vergine di Coelimanna (inizi del XVI secolo, rifatto e ultimato nel 1746). All’interno dell’edificio religioso, posta sull’altare, vi è una rappresentazione in cartapesta dell’apparizione miracolosa che in modo efficace racconta visivamente quell’evento.

La terza storia, a noi più recentemente e in questo caso anche documentata, è solitamente poco conosciuta e raramente accostandola alla storia del Santuario e all’adiacente e più antica cripta.
Siamo negli anni subito dopo l’unità d’Italia. Anni di speranze per molti infrante e di grandi difficoltà economiche, aggravate o causate da una legislazione neounitaria dai tratti ritenuti particolarmente vessatori verso la popolazione del meridione.
Siamo negli anni in cui frequentemente la contestazione e l’esasperazione sfociava in fenomeni di ribellione violenta. Siamo negli anni del banditismo, negli anni di Quintino Ippazio Venneri detto “Macchiorru” (1).

Quintino Ippazio Venneri nacque ad Alliste il 20 ottobre 1836. Nel 1859 si unì all’esercito Borbonico come soldato di leva. Tornato a casa nel 1860 dopo la disfatta e la resa del Regno, si unì nel 1861 alle forze reazionarie e per questo venne arrestato, rimanendo in carcere per circa un anno. Tornato al paese ci restò poco e nel mese di ottobre del 1862 si diede alla macchia.

I fatti compiuti dal Venneri e dalla sua banda furono numerosi. A lui e ai suoi venne anche attribuita la morte di un prete di Melissano, don Marino Manco ritenuto filo-sabaudo (2). La fine della storia del Venneri si intreccia con il sito di Coelimanna.

“La cattura di Quintino Venneri” di R. Rizzelli “Pagine di Storia Galatinese” 1912.

“La cattura, anzi, l’uccisione di Quintino Veneri, avvenne in modo tragico ed emozionante. La stazione dei carabinieri Ruffano, nel colmo della notte del 23 marzo 1863, fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, un chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. L’ora tarda non permise ai militi della benemerita arma di avvisare il comandante della Guardia Nazionale di stanza alla masseria Grande dei signori De Marco di Maglie, e postasi in armi in soli otto carabinieri, al comando di un brigadiere, corse a Cirimanna. Il drappello dei valorosi giunse sul posto in sul far del giorno e nell’accerchiare la chiesetta non potette fare a meno di non prevenire il capo banda Veneri il quale, non potendo evadere, si pose in sugli attenti per difendersi. La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito: l’Arma benemerita aveva liberato la contrada del capo banda ma aveva rimesso la pelle di un suo valoroso soldato.

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie – la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio”.

Ora non ci resta che raccontare della cripta e degli affreschi al suo interno.  Dire che il luogo ispira al silenzio e alla contemplazione può sembrare quasi ironico, visto che il sito è ora inglobato nell’attuale cimitero di Supersano. Ma in effetti così è, come in tutte le cripte di origine basiliana, dove quei santi visi e mani benedicenti fungono quasi da macchina del tempo nel  riportarti indietro in un’epoca in cui il sentimento religioso riusciva ad esprimere vette artistiche di incommensurabile valore. La bellezza paesaggistica del sito resta tutt’ora, ancorché inglobata nel cimitero, in quanto la cripta e il Santuario si trovano adagiati sul fianco delle Serre, lungo una collina dalla vegetazione fitta e lussureggiante in cui ci si può inoltrare grazie a dei sentieri che portano ad immergersi nel verde del bosco.

La cripta ha un ingresso alquanto anonimo. Uno scavo in piano nel costoso roccioso  con una piccola porticina d’ingresso. Riguardo lo stato dei luoghi è difficile ipotizzare come dovessero essere originariamente, anche a motivo della successiva costruzione del Santuario che venne adagiato nel costone accanto alla grotta. Inoltre, accanto alla cripta vi è un secondo ingresso che conduce in un diverso antro messo in comunicazione con il primo da un cunicolo evidentemente scavato anch’esso. E’ probabile che se la cripta costituisse il luogo di preghiera, la seconda grotta potrebbe essere stata adibita a ricovero dei monaci.

In questo secondo antro non si notano tracce di affreschi.  Riguardo il cunicolo si racconta che dovesse portare addirittura sino a Leuca; ma nella realtà non va più lontano di qualche metro.

 

La cripta dalla forma quadrangolare appare divisa in due parti, quasi fossero due navate, per quanto dalle dimensioni irregolari, separate quasi nel mezzo da un pilastro e da archi. E’ probabile che la prima parte della cripta, quella in cui si accede dall’ingresso, sia quella più antica e che la seconda venne scavata ed aggiunta in un’epoca più tarda. Ad avvalorare questa ipotesi, sia la differente altezza della volta, più alta ed ampia nella seconda sezione, sia la decorazione paretale ben diversa dalla prima. Infatti se nella prima sezione sono visibili affreschi riconducibili quasi per intero alle mani e all’ingegno dei monaci basiliani, nella seconda vi sono in particolare motivi floreali e visi di angeli di fattura diversa e più grossolana rispetto a quella di ispirazione bizantina. Ciascuna sezione ha un suo altare, ma su questi vi ritornerò a breve nella descrizione del ciclo pittorico.

Iniziamo a raccontare le sacre immagini presenti all’interno riprendendo quanto ebbe a scrivere nell’800 il De Giorgi nei suoi Bozzetti di viaggio per i luoghi del Salento.

“… volti affusolati, grandi occhi ovali, lineamenti un po’ grossolani ed abbigliamenti ricchi di pieghe in parte cancellate dall’umidità … Quanta espressione in quelle poche linee che rappresentano la Vergine col Bambino … Che atteggiamento ispirato e terribile in quel San Giovanni Battista dagli occhi pieni di vita e dai capelli scarmigliati! … Quei vecchi dipinti parlano al cuore, e questi nostri [dei moderni realisti] si direbbe che son destinati più ad accarezzare la retina, che ad invitare alla preghiera …”

La prima figura che si incontra, a sinistra dell’ingresso, è seriamente danneggiata e regge un Evangelio su cui si possono leggere, anche se con una certa difficoltà, sulla prima pagina “EGO SUM LUX MUNDI”, mentre sulla  seconda “QUI SEQUI TUR MEN ABUL ATI IN”, cioè “ Io sono la luce del mondo chi segue me non camminerà nelle tenebre”. Tale figura dovrebbe rappresentare un Cristo in trono con la mano benedicente alla greca.

La seconda figura è stata attribuita a San Giovanni Evangelista, anche se le iscrizioni sul libro aperto sono quasi illeggibili, così come l’iscrizione esegetica. Di questa il Fonseca, nel 1979, riesce a leggere poche lettere – “EVAN…”.
La terza figura è la classica rappresentazione di San Nicola a mezzo busto. L’affresco ha una particolarità; reca il nome del santo scritto sia in greco che in latino. Questo particolare testimonia la progressiva latinizzazione che ebbero a subire queste comunità inizialmente di rito greco.

L’ultima figura di santo presente sul lato sinistro dell’ingresso è quella di San Giovanni Battista, vestito con una tunica, benedicente alla greca e con un cartiglio in mano da cui poco o nulla si può leggere. Questo è il Battista che tanto ebbe ad impressionare il De Giorgi durante la sua visita. Anche su questo affresco il Fonseca rintracciò la doppia iscrizione in latino e greco.

Sulla parete a destra dell’ingresso vi è un bellissimo dittico con Sant’Andrea prima e San Michele a seguire. Sant’Andrea indossa tunica e mantello, e regge un cartiglio arrotolato in mano.
Il San Michele non è l’arcangelo ma si ritiene possa essere San Michele Maleinos, rappresentato con un bastone e croce astile, attributi con cui si raffigurano i santi eremiti.

A seguire una bellissima Vergine in trono con bambino benedicente alla greca.

 Sul pilastro a destra vi sono rappresentati due santi. Un santo diacono attribuito a Santo Stefano, dal nimbo perlinato che regge con una mano un incensiere e con l’altra probabilmente l’epigonation per l’elemosine. Secondo Medea potrebbe essere San Lorenzo.
Un santo Vescovo che regge un Evangelio e benedice alla greca. La fattura di quest’ultima figura appare di un periodo diverso (forse XV – XVI secolo) rispetto alle altre figure presenti in questa sezione della cripta (XIII – XIV secolo).

Sullo stesso pilastro una suggestiva Vergine della Misericordia con il tipico mantello aperto in cui sono raffigurati dei flagellanti incappucciati.

L’ultimo affresco presente nella prima sezione della cripta è posto sopra l’altare e rappresenta una Vergine con Bambino. La Vergine con la mano sinistra regge un frutto.

Oltrepassato l’arco, la seconda sezione della cripta è caratterizzata dalla presenza di un bell’altare barocco con incastonata l’icona di una Vergine con Bambino. Molto probabilmente la costruzione di questo altare è riconducibile allo stesso periodo in cui all’esterno venne elevato il Santuario.

Il resto di questa sezione appare molto particolare in quanto le decorazioni sono caratterizzate da numerosi ed estesi motivi floreali e da un bellissimo cielo stellato.  Lungo la parete in cui è presente un sedile in pietra per l’officiante, sono rappresentati un San Rocco e una Crocifissione.

Prima di uscire dalla cripta, vi vorrei far notare alcune strane figure dipinte presenti nei pressi dell’ingresso. Difficile dire cosa siano e a cosa siano servite.

Prima di lasciarci vorrei brevemente tornare sul nome del sito, Coelimanna, manna dal cielo. Perché questo nome? Una delle possibili risposte può essere data dalla presenza in quei luoghi dell’albero della manna. Ad avvalorare questa tesi, sono stati individuati di recente alcuni esemplari di questi alberi nella zona compresa tra il Santuario e la Chiesa della Madonna della Serra (3).

Il sito è stato interessato da un restauro nel corso del 2001. Purtroppo l’umidità presente all’interno è abbondante e rischia con il tempo di compromettere ulteriormente lo stato degli affreschi. Addirittura su una parete erano cresciuti dei funghi.

 

Ringraziamenti. Sezione inusuale ma con piacere dovuta. Intanto un grazie al mio amico “Pasquino Galatino” che mi ha introdotto alla figura di Quintino Venneri. Un grazie anche a Michela Ippolito e all’amico Marco Cavalera che hanno reso possibile la mia prima visita al sito in occasione di una due giorni dedicata alla cripta e ad altri bei luoghi della  zona di cui scriverò in seguito. Ringraziamento doppio, visto che grazie a quella visita ho avuto il piacere di conoscere Marco di Salogentis.it, Franco e Bea di Japigia.com e Lupo Fiore un altro instancabile camminatore del Salento.

Fonti e riferimenti utili:

– (1) Sulla vita di Quintino Venneri rimando alla lettura dei numerosi articoli e note presenti in questo sito:  http://www.pinodenuzzo.com/controstoria/macchiorru.htm

– (2) Sul racconto dell’uccisione di Don Marino Manco, rimando allo scritto dell’amico Stefano Cortese anch’esso raccolto nel sito su indicato.

– (3) Articolo di Francesco Tarantino
https://spigolaturesalentine.wordpress.com/2011/02/03/l%E2%80%99albero-della-manna-nelle-campagne-di-supersano-le/

– Sempre su questo luogo potete leggere su: http://www.japigia.com/le/supersano/index.shtml?A=coelimanna
http://www.salogentis.it/2011/12/11/la-cripta-di-santa-maria-coelimanna-a-supersano/

– Gli insediamenti rupestri medioevali nel Basso Salento – Fonseca, Bruno, Ingrosso, Marotta – Congedo Editore, Galatina 1979.

pubblicato su

http://massimonegro.wordpress.com/2012/03/07/supersano-la-vergine-di-coelimanna-tra-principi-pastorelli-e-briganti/

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!