E noi che di cotognata ci nutriamo da secoli ne perdiamo ogni forma di memoria…

di Pino de Luca

Identità e grettezza di campanile non s’hanno da confondere. Avere una identità forte e radicata è, però, condizione necessaria per aprirsi allo scambio e al confronto, facendosi contaminare contaminando, nello splendido rapporto che è alla base della evoluzione culturale.

Di piccoli alimenti qui ragionammo e proviamo a ragionare, dando a Cesare ciò che a Cesare appartiene e, con grande sincerità, riconoscendo meriti e primazìe. Sarebbe bello che chiunque lo facesse. A volte, credo per pura ignoranza, sfugge e allora tocca lasciar stare l’edonismo e ricorrere alla precisazione.

Qualche settimana fa, su un “grande giornale quotidiano” si raccontò di una ricetta con la mela cotogna espressa da un grande chef, e da qui nulla quaestio, ma sulla distribuzione e tipicità del frutto qualche cosa va detta.

Codogno è il comune simbolo del melo cotogno in quanto così si è qualificato, l’Istituto Agrario ne conserva ben 78 varietà e l’albero è nell’araldica del comune stesso e forse anche il nome da lì deriva.

Ma tra ottobre e novembre, chi attraversa le campagna salentine non può fare a meno di notare delle macchie di giallo sparse, un po’ sospese e un po’ sul terreno.

Mele cotogne che crescono spontanee da tempo immemorabile e per lungo tempo elemento fondamentale della alimentazione delle terre fra i due mari.

Cydonia oblonga si chiama, frutto delle rosacee di forma sferica o oblunga, dal sapore acre, tannico e stopposo, sostanzialmente incommestibile ma ricchissimo di proprietà salutari e capace di regalare profumi e dolcezze inenarrabili.

Infatti i suoi zuccheri sono raccolti in lunghissime catene di polisaccaridi termosensibili.

La cottura della melacotogna infrange queste catene e permette di produrre delle gelatine e delle marmellate di straordinario gusto e olfatto.

La trappola è nelle parole, nei nomi. Il cotogno è un toponimo, il pomo viene così nominato da Plinio il vecchio poiché poveniente da viene da Kydon, cittadina dell’Isola di Creta.

Il cotogno ha origini Caucasiche e i suoi frutti in antico greco si dicevano “Malìmelon” ovvero “mela di miele” proprio perché cotta era dolce e profumata come il miele, anzi lo sostituiva egregiamente.

Oggi la “cotognata” si racconta di Codogno o di Ragusa e financo come prodotto tipico dell’Abruzzo.

E noi che di cotognata ci nutriamo da secoli ne perdiamo ogni forma di memoria. Non ci vuole grande genio, basta l’attenzione. Attenzione che ci mancò e ci manca altrimenti non accadrebbe che si legiferasse in codesta maniera: DpR 8 giugno 1982, n. 401.

….[si intende per] “marmellata, la mescolanza, portata a consistenza gelificata appropriata, di zuccheri e di uno o più dei seguenti prodotti ottenuti da agrumi: polpa, purea, succo, estratti acquosi e scorza.:”

Le cose incredibili sono due:

1 – che umane menti in alto scranno abbiano impiegato la bellezza di tre anni per tradurre tutto questo sapere da una norma di indirizzo (79/663) in Legge dello Stato.

2 – che si ignori che marmellata deriva dal portoghese “marmelo” ovvero mela cotogna che non è certo un agrume.

Prendo un pezzo di cotognata leccese per colazione stamane, dolce e profumata come il miele.

 

NdR: Sull’argomento rimandiamo anche a:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/18/la-cotognata-leccese-un-prodotto-deccellenza/

 

La cotognata leccese, un prodotto d’eccellenza

di Massimo Vaglio
Il cotogno appartiene all’ordine delle Rosales, alla famiglia della Rosacee e alla sottofamiglia delle Pomoidee. La specie da frutto è la Cydonia oblonga Mill 1768.

da: http://www.agriturismosantamaria.com/site/I-frutti-speciali/melo-cotogno.html

La specie a sua volta è divisa in varie sottospecie che sono: la “Cydonia oblonga Pyriformis”, la “Cydonia oblonga Maliformis”, la “Cydonia oblonga Lusitanica”, la “Cydonia oblonga Pyramidalis” e la “Cydonia oblonga Marmorata”.

Le varietà che producono frutti (pomi) eduli, appartengono alle sottospecie Maliformis, Pyriformis e Lusitanica, mentre le sottospecie Marmorata e Pyramidalis, hanno elusivamente un interesse ornamentale.

Si suppone che sia originario della Persia e precisamente della regione
del Caspio, dove lo si ritrova allo stato selvatico. È una delle piante  da frutto più anticamente conosciute, veniva infatti coltivato già 2.000 anni prima di Cristo dai Babilonesi. Nell’antica Grecia era un  frutto consacrato a Venere e come si evince dagli scritti di Catone, Plinio, Virgilio ed altri, era molto utilizzato ed apprezzato anche dai
Romani.

Il cotogno preferisce clima temperato-caldo, ed infatti la  coltura per la produzione di frutti, ha la sua maggiore area di  diffusione nelle zone meridionali ove le piante riescono a dare frutti  dolci, sufficientemente commestibili. In fatto di terreno, il più  indicato è quello profondo, fresco, povero di calcare, con pH inferiore  a 6, ovvero leggermente acido e tendente allo sciolto.

da: http://www.cookaround.com/yabbse1/entry.php?b=68267

La propagazione si effettua per talea, margotta e per innesto su franco, ossia su
piante ottenute da seme. A livello amatoriale viene pure innestato su  azzeruolo o biancospino; quest’ultimo è particolarmente indicato per i  terreni calcarei. La moltiplicazione per seme, per quanto possibile,
viene effettuata solo quando si vogliono ottenere nuove cultivar o per  ottenere soggetti da impiegare come portainnesti per lo stesso cotogno  o per il pero.

L’albero raggiunge a maturità i 3-5 metri di altezza, reca foglie tomentose e fiori solitari bianco-rosati. La coltura è soggetta ad essere attaccata dagli stessi parassiti del melo, anche se in genere dimostra maggiore resistenza. I frutti, che hanno un aroma e un profumo particolare, conservano anche a maturazione il tipico sapore astringente; si presentano ricoperti da una fitta peluria che cade per semplice sfregamento.

La polpa dei frutti, che maturano in settembre-ottobre, è acida, astringente, ma cotta e dolcificata, sia da sola che mescolata alla polpa di altra frutta si presta egregiamente per la preparazione di conserve quali cotognate, gelatine, mostarde e, in misura minore di distillati.

Le logge del frutto, contengono un elevato numero di semi, protetti da un tegumento il cui strato più esterno, che viene appellato tecnicamente “testa”, genera nell’acqua una sostanza mucillaginosa che si utilizza per la preparazione di bevante e pomate.
I frutti, venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria. La produzione mondiale di cotogne, negli untimi decenni ha subito una drastica diminuzione e si attesta intorno ai 2 milioni di quintali, prodotti principalmente in America del Sud, Asia e America del Nord che forniscono insieme, circa il 50% del fabbisogno mondiale, mentre la restante parte, viene prodotta nei paesi dell’Europa orientale, Bulgaria in primis.

La produzione italiana di cotogne è ormai ai minimi storici, è infatti passata dai 175.000 quintali che si producevano nel 1966 ai circa 6.000 quintali rilevati  dall’Istat nel 2007. Alla fine degli anni “50 del secolo scorso, la Puglia, con una media produttiva di oltre 100.000 quintali annui deteneva il primato assoluto di questa produzione, seguita a lunghissima distanza da Campania, Sicilia, Sardegna e Abruzzo. Mentre la provincia italiana dove il cotogno trovava maggiore diffusione era quella di Lecce, seguita da quella di Foggia e di Pescara che sino alla metà degli anni “70 mantenevano ancora una produzione di circa 10.000 quintali ciascuna. A questo punto, si può asserire che in Italia non  esiste praticamente più una coltivazione organizzata praticata in  frutteti specializzati, infatti, l’esigua produzione nazionale proviene  in massima parte da alberi sparsi o coltivati in piccoli nuclei e va a  sostenere le richieste di ancor più risicate nicchie di consumatori.

Sino alla fine degli anni “60 la confettura di cotogne era un alimento diffusissimo, confezionata in pratici cubetti monoporzione, rientrava comunemente nelle razioni dei militari ed era praticamente immancabile nelle refezioni di scuole asili e comunità. Milioni e milioni di
genuini, quanto gustosi e nutrienti pezzi  di confettura che andavano a sostenere una sana economia agricola ed agroalimentare,  ingloriosamente archiviati, sostituiti con la più ghiotta, ma certamente anche meno salutare “Cremalba”, oggi Nutella, fortunatissima creazione dell’agroindustria italica. Il risultato, è che oggi, il cotogno è una delle specie da frutto a maggior rischio d’estinzione, a causa proprio della
perdita d’interesse della sua coltivazione, per cui diviene fondamentale conservare e salvaguardare le diverse varietà locali.
Salvaguardia che andrebbe effettuata facendo una caratterizzazione  morfologica ed agronomica di tutti i principali caratteri vegetativi e  produttivi, procedendo quindi alla loro catalogazione e riproduzione.
Il Salento è fortemente caratterizzato dalla presenza di terreni carsici, in larga parte pietrosi e comunque nella quasi totalità calcarei, quindi la coltura del cotogno, pianta calcifuga per eccellenza, è limitata a delle ben circoscritte aree di origine alluvionale costituite da terre nere argillose e ricche di humus. Di  simili zone, ve ne sono di diverse, di varia ampiezza, distribuite per  tutta la subregione, la più vasta delle quali è la cosiddetta Valle della Cupa, un’ampia, fertile depressione a Ovest di Lecce, che è stata, neanche a dirlo, sempre la primaria fonte di approvigionamento ortofrutticolo di questa città.

Grazie alla ricca e superficiale falda appesa, vi sorgevano dei rigogliosissimi orti e frutteti, e proprio qui, era ed è tuttora concentrata, la quasi totalità della produzione di cotogne della provincia, materia prima della tuttora celebre  “cotognata leccese”. La cittadina di San Pietro in Lama è in testa a  questa produzione, il suo territorio è ampiamente caratterizzato da  questa pianta, presente sia in piccoli gruppi, ai margini di altre  colture, che in piccoli frutteti specializzati. In secoli di coltivazione, sono stati selezionati alcuni cloni (anche se non meglio identificabili), particolarmente adatti al torrido clima locale.

La maggior parte delle coltivazioni ivi esistenti è caratterizzata da alberi anche molto grandi portati a volume, molto produttivi di frutti di pezzatura media, buona presenza e colorazione. Una varietà molto apprezzata è quella trilobata che produce frutti piuttosto allungati, quasi piriformi, localmente nota con la denominazione di “cutugni a piru”.  Infine, è da rilevare l’esistenza di qualche clone di cotogno che produce frutti molto grossi, anche oltre il mezzo chilogrammo di peso, che localmente vengono comunemente distinti con l’aggettivo, di “pacci” = pazzi, Questo termine, infatti, nell’idioma salentino assume anche il significato di gigante.

da: http://www.cookandthecity.it/2010/12/15/cotognata-bars/

Tornando alla cotognata leccese, ovvero alla confettura o composta, che viene localmente tradizionalmente prodotta, non possiamo non convenire che si tratta senza dubbio di un prodotto d’eccellenza, comunemente adoperato come ingrediente nella pasticceria locale. Già magnificata da Vincenzo  Corrado, che nel suo “Notiziario delle particolari produzioni delle  Province del Regno di Napoli”, Napoli (….) così ne parla: “ … e pel  senso del gusto san fare dilicate e gustose cotognate”, pare che questa produzione come quelle di Ruvo e di S. Fenicia, venisse già all’epoca  in larga parte esportata all’estero.

Una tradizione prestigiosa quindi, che non ha trovato soluzione di continuità, se non, l’attuale drastico ridimensionamento dei volumi prodotti. Una produzione che nella prima metà del secolo scorso venne incrementata e razionalizzata raggiungendo il rango di vera industria e diverse erano le industrie dolciarie che stagionalmente vi si dedicavano, a fare da apripista certamente la rinomata ditta Raffaele Cesano che aveva proprio nella cotognata il prodotto di punta e che introdusse l’uso di un particolare macchinario che omogeneizzava la confettura ottenendo così uno standard qualitativo più costante. La memoria di tante altre aziende, non è andata  completamente perduta perché immortalata sulle deliziose scatole di  latta in cui questa veniva confezionata. Nella bacheca di un’appassionata collezionista, mi è capitato di ammirare decine di confezioni diverse e di scoprire, oltre alla Cesano, l’esistenza di altre aziende,  operanti nello stesso periodo in città, fra queste, la ditta Francesco Fiorentino e la ditta Oronzo Tripoli.

Oggi, la tradizione viene brillantemente portata avanti da diverse pasticcerie  di tradizione di Lecce e hinterland, quali: la Pasticceria Franchini; il  Bar della Cotognata Leccese; la Pasticceria Natale e a livello più  industrializzato, ma sempre con la stessa cura artigianale, dall’industria dolciaria Maglio.


Ecco la ricetta come la vuole la tradizione:
Lavate le cotogne sfregandole per eliminare la peluria, eliminate i torsoli e le eventuali ammaccature, tagliatele a pezzi e ponetele in una caldaia unendo mezzo litro d’acqua ogni 800 grammi di prodotto. Llasciate cuocere lentamente il tutto rigirando spesso con un cucchiaio di legno fino ad ottenere una poltiglia che passerete al setaccio, ottenendo così una purea. In un’altra caldaia (tradizionalmente vengono adoperate le caldaie di rame non stagnate)  ponete 500 grammi di zucchero per ogni chilogrammo di purea e fatelo  sciogliere con un po’ d’acqua; aggiungete la purea di mele cotogne e  lasciate cuocere il tutto senza coperchio fino a quando la confettura  avrà assunto una buona consistenza e la tipica colorazione rosso-bruna.
Versate la confettura così ottenuta in formine, oppure in  teglie  quadrangolari dai bordi bassi, una volta raffreddata tagliatela a pezzi  avvolgeteli con carta oleata e conservateli in scatole di banda  stagnata, oppure potete avviarla subito al consumo, tale, o cosparsa di  zucchero semolato.

Come si può notare, in questa ricetta non è prevista l’eliminazione delle bucce, la cui presenza contribuisce ad addensare il prodotto e a caratterizzarlo con un maggiore aroma e una leggera, piacevole granulosità tipica delle produzioni familiari. Volendo ottenere un prodotto più raffinato dovrete procedere quindi alla preventiva eliminazione delle bucce, per proseguire poi  nel modo anzi  descritto.

Liquore di Cotogne
Ecco la ricetta di un piacevole liquore a  base di cotogne, o meglio di bucce di cotogne, apprezzato per il gusto  particolarmente grato e  le ottime proprietà digestive e corroboranti.

Ingr.: 250 g di bucce di cotogne , 500 g di zucchero, 1,2 l di alcool a  95°, 3 dl di acqua minerale. Preparazione: mettete a macerare con l’ alcool le bucce, in un recipiente di vetro a chiusura ermetica. Dopo 40  giorni, sciogliete lo zucchero nell’acqua calda, fate raffreddare e  unite lo sciroppo ottenuto alle bucce macerate. Lasciate riposare per
altri 20 giorni, al buio, agitando di tanto in tanto il recipiente .
Filtrate il liquore ottenuto attraverso una garza e imbottigliate. Si  consiglia di lasciarlo “maturare” per almeno 6 mesi, prima di servirlo.

Lu cutùgnu e lu cuttòne (la mela cotogna e il cotone)

di Armando Polito

Dopo il fallimento delle melagrane debbo registrare quest’anno anche quello delle mele cotogne, scarsissime, piccole, tanto che raccoglierle sarebbe tempo sprecato. È un duro colpo per me che amo i gusti forti e non mi resta che consolarmi a modo mio. Vuol dire che, se anche le cicore creste (cicorie selvatiche) mi tradiranno, sarò costretto ad integrare (non si finisce mai di farlo…) il post a loro dedicato tempo fa. Il lettore è avvertito…prenda, perciò, le opportune precauzioni.

nome scientifico: Cydonia oblonga Miller

nome scientifico: Cydonia vulgaris Pers.

famiglia: Rosaceae

nome italiano: cotògno

nome dialettale neretino: cutùgnu (per l’albero e per il frutto)

Cydònia  è tal quale il nome latino di una città dell’isola di Creta (in greco Kydonìa) ove c’era una produzione molto apprezzata di questo frutto che, comunque, è di origine asiatica.

Rosaceae è forma aggettivale da rosa.

Oblonga (=allungata) e vulgaris (=comune) si riferiscono alle caratteristiche fisiche del frutto, più simile ad una pera il primo, ad una mela il secondo.

Cotògno è dal latino cotòneu(m) che può anche accompagnarsi a malum=mela e che è dal greco kydònion melon o kydonìa malìs=mela di Cidonia.

La voce dialettale è dal latino medioevale cotùgnu(m), attestato nel Chronicon Tarvisinum come un’elementare , ma presumo efficace,  arma1.

Passo ora com’è mia abitudine (anche perché solo questo so, forse, fare) alle testimonianze antiche cominciando dagli autori di lingua greca.

Stesicoro (VII-VI° secolo a. C.) in un suo frammento: “…gettavano molte mele cotogne [kydònia mala] verso il carro per il re, molte foglie di mirto, corone di rose e fitte ghirlande di viole…”2. Dal contesto risulta evidente che “mele cotogne” sta (probabilmente per esigenze metriche) per “fiori di melo cotogno”, anche perché (lo si deduce dal titolo dell’opera, Elena, tramandatoci col frammento) sul carro (nuziale) c’è Menelao insieme con Elena.

Ibico (poeta di Reggio Calabria del VI° secolo a. C.) in un suo frammento: “…in primavera anche i cotogni (Kydòniai malìdes) irrigati dalle acque attinte dai fiumi, dove il giardino inviolato delle vergini e le gemme della vite che si gonfiano sotto gli ombrosi  pampini sono in fiore; a me invece Amore sereno non mi concede stagione felice. Bruciando come il tracio Borea tra i fulmini , irrompendo da Venere spaventoso per le passioni che bruciano, forte della sua imperturbabilità, fin dalla fanciullezza tiene d’occhio la mia mente…”3

Aristofane (V°-IV° secolo a. C.) nella commedia Nuvole: “Nessun ragazzo allora si ungeva al di sotto dell’ombelico, sicché la peluria e la lanuggine sul pube fioriva come sulle mele (mèloisin)”4. Nonostante qui “mela” non sia accompagnato dall’aggettivo è chiaro che si tratta proprio di quella cotogna, l’unica che abbia la caratteristica sfruttata dal poeta greco per la sua similitudine. A tal proposito ricordo che quando la mela cotogna, al pari del fico e di altri frutti, era in auge, c’era l’abitudine di eliminare delicatamente con le mani quella peluria nella convinzione che il frutto sarebbe maturato meglio. Avesse o non avesse fondamento questa pratica, comunque  la pelle del frutto assumeva la lucentezza della seta, ben diversa da quella assolutamente innaturale e probabilmente non innocua di certe mele che ci attendono occhieggianti al supermercato…Proprio su questa lanuggine tornerò…sì, ma dopo la pubblicità, pardon dopo aver fatto parlare gli altri autori.

Plutarco (I°-II° secolo d. C.) nella Vita di Solone (XX, 6) che fa parte delle Vite parallele: “(Le leggi di Solone, legislatore ateniese del VII°-VI° secolo a. C.) prescrivono che la sposa sia chiusa con lo sposo nella stanza nuziale, mangi una mela cotogna (malon kydònion) e che il marito abbia con lei almeno tre rapporti ogni mese; infatti in questo modo, anche se non nascono figli, tuttavia questo rispetto e cortesia manifestati alla casta moglie liberano entrambi dagli inconvenienti che son soliti verificarsi in un matrimonio e si ottiene inoltre che non diventino estranei tra loro per un disaccordo”5.

Lo stesso autore ribadisce il concetto e lo amplia nel De coniugalibus praeceptis che fa parte dei Moralia: “Solone prescrisse che la sposa giacesse con lo sposo dopo aver mangiato una mela cotogna (malon kydònion) dicendo oscuramente che conveniva perché bisogna che la grazia armoniosa e dolce partano anzitutto dalla bocca e dalla voce“6. Condivido pienamente quell’oscuramente di Plutarco perché, se ho già molte difficoltà ad attribuire alla mela cotogna capacità di rendere più gradevole la voce, queste diventano insormontabili quando viene messo in campo il concetto di dolcezza. Probabilmente ci sono allusioni che sfuggivano a Plutarco, figurarsi a me, anche se il tutto potrebbe essere collegato, molto banalmente,  al fatto che il frutto, come tutti i pomi, era caro a Venere. Diametralmente opposta, comunque, la connotazione che emerge dalla locuzione dialettale stae maru comu nnu cutùgnu (è triste come una mela cotogna) e dal proverbio ttre ccose nnòticanu lu core: li cutùgni, li nèspule e li palòre  (tre cose fanno sentire un nodo al cuore: le mele cotogne, le nespole e le parole); in entrambi la spiacevole sensazione legata al gusto diventa metafora di un sentimento.

Dioscoride (I° secolo d.C.): ”Le mele cotogne (kydònia) sono salutari per lo stomaco, diuretiche, cotte diventano più gradevoli, utili a chi soffre d’intestino,  ai dissenterici,  a chi soffre di emottisi  e di colera, soprattutto crude. Il loro infuso come bevanda è adatto a chi soffre di stomaco o di intestino. Il loro succo crudo assunto giova a chi soffre di ortopnea, il decotto come lozione è efficace contro il prolasso rettale e uterino. Col miele favoriscono la diuresi perché esso ne esalta le proprietà di per sé addensanti ed astringente. Cotte col miele sono digestive e gradevoli al gusto , ma meno astringenti. Crude si applicano come cataplasmo contro le ostruzioni intestinali, la nausea e il brucioredi stomaco, la mastite, l’indurimento della milza, i condilomi. Dalle melecotogne pestate e spremute si ricava anche un vino mescolando per l’invecchiamento un sestario di miele a sedici di succo perché non abbia sapore di aceto. Giova a tutte le malattie prima citate. Dalle mele cotogne si ottiene anche un unguento chiamato melino usato ogniqualvolta si abbia bisogno di un olio astringente. Bisogna scegliere le mele cotogne veraci che sono quelle piccole, tonde e profumate; quelle chiamate strutee e quelle grosse  sono meno utili. I loro fiori secchi e verdi sono adatti ai cataplasmi nei casi in cui c’è bisogno di un effetto astringente e contro le infiammazioni degli occhi; bevuti nel vino sono utili contro l’emottisi, la diarrea e la menorrea. I frutti derivanti dall’innesto del melo sul melocotogno (melìmelon) rammolliscono il ventre e ne combattono i vermi, placano la nausea, però danno anche fastidio allo stomaco e causano riscaldamento; alcuni li chiamano mele dolci (glykýmelon)” 7.

Nel mondo latino Catone (III°-II° secolo a. C.) è il primo redattore di un elenco di varietà di meli tra i quali alcuni saranno classificati da autori successivi come varietà di meli cotogni: “Meli  strutei (mala struthea8), cotogni (mala cotonea), allo stesso modo altri che si piantano, meli mustei (mustea9)…”10

Marco Terenzio Varrone (I° secolo a. C.): “A proposito dei pomi che si conservano:  le mele strutee (mala struthea 8), le cotogne (cotonea)…credono che si conservano ottimamente poste in un luogo asciutto e fresco sulla paglia”11

Columella (I° secolo d. C.): “…le mele cotogne (cydònia) che sono di tre varietà: le stutee (strùthia8), le crisomeline (chrysomelìna12) e le mustee (mùstea9); tutte non solo sono gradevoli al gusto ma fanno bene anche alla salute”; “Molti, come fanno con le melagrane, conservano le mele cotogne (cydonia) in fosse o in giare. Parecchi le avvolgono in foglie di fico poi impastano creta da vasai con morchia e ne spalmano le melagrane; quando la creta è seccata le collocano su un tavolato in un luogo fresco ed asciutto. Molti le mettono in piatti nuovi e le ricoprono con gesso secco in modo che non si tocchino. Noi non abbiamo sperimentato altro metodo più sicuro di questo: si raccolgono le mele cotogne molto mature, sane, senza alcun difetto quando il cielo è sereno e la luna calante, dopo averle pulite della lanugine che c’è sul frutto si dispongono in un fiasco  dall’imboccatura molto larga delicatamente e senza esercitare pressione in modo che non possano urtare fra loro. Poi quando si è raggiunto l’orlo del contenitore si bloccano mettendo di traverso ramoscelli di vimini in modo che le comprimano moderatamente e che esse non possano sollevarsi quando verrà aggiunto il liquido. A quel punto si riempie il contenitore fino alla sommità di miele quanto più possibile di qualità e liquido fino a che i frutti sono totalmente sommersi. Questa procedura non solo le conserva ma conferisce al liquido un sapore di vino cotto che senza alcuna controindicazione può essere somministrato ai febbricitanti e che si chiama miele di frutta (melomeli13). Bisogna guardarsi dal conservare col miele mele cotogne non mature, poiché induriscono a tal punto che sono inutilizzabili. È assolutamente inutile, poi, come molti fanno ritenendo che il frutto si guasti,  spaccarle con un coltello di osso e togliere i semi; anzi, la procedura che poco prima ho illustrato è sicura a tal punto che, anche se c’è il verme, cessano di guastarsi quando si versa il liquido di cui ho parlato; infatti il miele ha la proprietà di frenare la corruzione e di non consentire che essa si propaghi; non a caso conserva intatto anche un cadavere per moltissimi anni”14. 

Plinio (I° secolo d. C.): “Sono vicine a queste (le pigne, di cui ha parlato immediatamente prima) in grandezza le mele che noi chiamiamo cotogne (cotonea) e i Greci cidonie (cydonia), portate dall’isola di Creta. Esse (per il peso) fanno curvare i rami e impediscono all’albero madre di crescere. Molte sono le loro varietà: le crisomele (chrysomela12), caratterizzate da solchi, col colore che tende all’oro; quelle che sono più bianche sono dette nostrali, di profumo eccellente; anche le napoletane (Neapolitanae) hanno la loro considerazione; le più piccole della medesima varietà, le strutee (struthea8), emanano un profumo più intenso e sono tardive, le mustee (musteae9), invece, sono precoci. Il melo cotogno poi innestato sullo struteo trasforma la sua varietà in mulviano (mulvianum15), i cui frutti soltanto sono mangiati crudi. Tutte si tengono ora nelle stanze delle udienze e sono poste sulle statue consapevoli delle notti16. Ci sono ancora delle strutee  piccole selvatiche, odorosissime, che nascono nelle siepi “17.

Marziale (I° secolo d. C.): “Se ti vengono offerte mele cotogne (cydonia) sature di miele cecropio puoi dire che sono mele al miele (melimela13)18”; “Hai una peluria così impercettibile, tanto morbida che un soffio, un raggio di sole  e una leggera brezza la consumano. Sono nascoste da una simile lana le mele cotogne ancora acerbe, che brillano spogliate dalla mano di una fanciulla”19.

Ho accennato prima alla lanugine tipica del nostro frutto, un dettaglio non trascurato,come s’è visto, da Columella e non sfuggito al massimo naturalista latino, se in un altro passo  dedicato alle mele propriamente dette  così si esprime: “Quasi forestiere sono quelle che nascono solo nel territorio di Verona e che sono chiamate lanate (lanata20). Le ricopre una lanugine, come succede nelle (mele) strutee (struthea8) e nelle (mele) persiche2122.

E più avanti avverte che “il cotogno piantato così (utilizzandogli stoloni, tecnica efficace, a suo dire, per il melograno, il nocciolo, il melo, il sorbo, il nespolo, il frassino e il fico) s’imbastardisce…si escogitò di piantare i polloni svelti dall’albero. Questo fu fatto prima con i sambuchi, i cotogni e i lamponi per formare siepi…”23.

Nell’Editto emanato da Diocleziano nel 301 per fissare il tetto massimo delle merci più correnti: “10 mele cotogne (mala cydonia) quattro denari” 24.

Palladio Rutilio Tauro Emiliano (IV° secolo d. C.) sulla scia di Columella: “A febbraio si innestano i meli cotogni, meglio nel tronco che sulla corteccia…le mele cotogne vanno raccolte mature e conservate così: o poste tra due tegole se sono spalmate da ogni parte di fango o cotte nel mosto o nel vino passito. Altri conservano le più grosse avvolte in foglie di fico. Altri le mettono semplicemente in un luogo asciutto al riparo dal vento. Altri, dopo averle divise in quattro parti ed eliminato con una canna o con un attrezzo d’avorio la parte centrale, le mettono in un vaso di creta e le coprono di miele. Altri le mettono intere nel miele e per questa conservazione conviene sceglierle sufficientemente mature. Altri le coprono di miglio o le conservano separate da paglia. Altri le mettono in piccoli vasi pieni di ottimo vino oppure per conservarle preparano una mistura di vino o di mosto cotto. Altri le chiudono nei contenitori pieni di mosto, il che rende profumato anche il vino. Altri le chiudono in una padella di creta separate l’una dall’altra e la sigillano con gesso secco”25.

Avevo anticipato che avrei chiuso il post con la lanuggine tipica della mela cotogna. Qualche etimologo fantasioso ma frettoloso potrebbe supporre che il suo nome abbia a che fare col cotone e che quindi cotogna potrebbe pure essere derivata da cydònia, magari con incrocio proprio con cotone. È vero che la pianta del cotone presenta un’infiorescenza che può ricordare (molto vagamente…) il vello del nostro frutto, è pur vero che in Plinio è attestato un arbusto cotonea ma ogni velleità è ridimensionata dalla descrizione: “L’alo, così lo chiamano i Galli, i Veneti cotonea (cotonea);  cura i polmoni, i reni, le contusioni e le fratture. È simile alla cunila bubula e nelle estremità al timo, è dolce, toglie la sete, la radice è ora bianca ora nera26”.

Lascio a qualche (sedicente?) etimologo della Lega nord l’orgoglio di rivendicare l’origine celtica pure del cotone e mi congedo da chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui ricordando che i latini conoscevano molte piante da cui si ricavavano tessuti,  il cui nome, poi, è diventato quello scientifico del genere Gossypium27 (famiglia Malvaceae) cui appartiene anche il cotone, ma quest’ultimo è dall’arabo qutun28.

L’ultima riflessione, amara, è dedicata alla protagonista di questo post. Le mele cotogne riprodotte nella foto di testa mi sono state regalate, ma non hanno per niente quel profumo inconfondibile di quelle della mia prima infanzia, via via svanito nel tempo, e non certo per decadimento per motivi anagrafici del mio olfatto…

Fra qualche anno, purtroppo, nemmeno un orso riserverà la sua attenzione a questo frutto;  ma almeno lui non saprà, forse…, che un suo antenato di duemila anni prima ne andava ghiotto.

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1 Traduco dal testo originale del Chronicon Tarvisinum (prima metà del XV° secolo), in Ludovico Antonio Muratori, Rerum Italicarum scriptores, Società Palatina, Milano, 1731, t. XIX, c. 792: “E, portate lance, pavesi [un tipo di scudo] e mele cotogne (poma cutogna) fece molte prove con una sola mano per sollevare le lance e i pavesi e a scagliare le mele cotogne”.

2 Traduco dal testo originale dell’edizione Stesichori Imerensis fragmenta a cura di O. F. Kleine, Reimer, Berlino, 1828, pag. 94.

3 Traduco dal testo originale dell’edizione  Ibyci Rhegini carminum reliquiae a cura di G. Schneidewin, Mueller, Gottingen, 1833, pag. 85.

4 Traduco dal testo originale (vv. 976-977) dell’edizione Aristophanis Nubes a cura di C. R. Thuring, Weidmann, Lipsia, 1820, pag. 62.

5 Traduco dal testo originale dell’edizione Plutarchi vitae a cura di T. Dohener, Didot, Parigi, 1857, v. I°, Solone, XX, 6, pag. 106.

6 Traduco dal testo originale dell’edizione Plutarchi Chaerinensis Moralia a cura di G. N. Bernardakis, Teubner, Lipsia, 1888, v. I°, pag. 338.

7 De re medica, I, 160-161. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di C. G. Kühn, Cnobloch, Lipsia, 1829, pagg. 148-149.

8 Alla lettera: dei passeri, evidentemente ghiotti di questo frutto. La voce è dal greco strouthòs=passero, gallina, struzzo.

9 Alla lettera, con riferimento ai frutti: dolci come il mosto.

10 De agricultura, VIII. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Berengo, Antonelli, Venezia, 1846, pag. 13.

11 De re rustica, I, 59. Traduco dal testo originale dell’edizione Antonelli, Venezia, 1846, pag. 560.

12 Dal greco chrysòs=oro e melon=mela.

13 Trascrizione del greco melomèli=miele aromatizzato con le mele cotogne, da meli=miele e melon=pomo, mela.

14 De re rustica, V, 10 e XII, 47. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di G. Schneider, Antonelli, Venezia, 1846, pagg. 335 e 775-777.

15 Mulvianus/a/um è aggettivo da Mulvius=Mulvio, personaggio contro cui, per un processo,  Cicerone scrisse un’orazione; il nome, perciò, in assenza di altri riscontri, potrebbe essere di natura prediale, cioè indicare un fondo di un certo Mulvio, ove si praticava la coltivazione di questo frutto.

16 È intuitiva nelle stanze per le udienze la sua funzione di deodorante; le statue, poi, sono quelle che nella stanza da letto erano poste a capo del letto nuziale (e in questo caso c’è da supporre che alla astratta funzione apotropaica ricordata da Plutarco e presumibilmente adottata anche nel mondo romano si accompagnasse anche quella, tutta pratica, di deodorante…).

17 Naturalis historia, XV, 10. Traduco dal testo originale dell’edizione curata da L. Domenichi, Antonelli, Venezia, 1844, v. I°, pag. 1327.

18 Xenia, 24. Traduco dal testo originale dell’edizione Lemaire, Parigi, 1825, pag. 104.

19 Epigrammi, X, 42, vv. 1-4. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di P. Magenta, Antonelli, Venezia, 1842, pag. 753.

20 Lanatus/a/um significa coperto di pelo simile alla lana. Il dettaglio successivo della lanuggine esclude, a parer mio, che ci sia un riferimento alla tecnica di conservazione o di trasporto, come vogliono alcuni commentatori. D’altra parte gli autori latini a tal fine mettono in campo la paglia e non la lana.

21 Le mele persiche sono le pesche.

22 Naturalis historia, XV, 15, op. cit., pagg. 1332-1333.

23 Naturalis historia, XVII, 13, op. cit., pag. 1505.

24 Edictum de pretiis rerum venalium, VI, 73. Traduco dal testo originale dell’edizione a cura di S. Lauffer, Berlino,1971.

25 De re rustica, III. Traduco dal testo originale dell’edizione Les agronomes latins a cura di M. Nisard, Dubocher, Le Chevalier & C., Parigi, 1851, pag. 573.

26 Naturalis historia, op. cit., XXVI, 26, pag. 533.

27 Naturalis historia, op. cit., XII, 21 e XIX, 2, pagg. 1153-1155 e 1737-1739: “Nel più remoto posto della medesima isola (Tilo, nella regione persiana) ci sono alberi che producono seta ma in modo diverso da quelli che ci sono tra i Seri. Hanno le foglie sterili che, se non fossero più piccole, sembrerebbero di viti. Producono zucche grandi quanto una mela cotogna (cotoneum malum) che quando maturano mostrano palle di lanugine, dalla quale si ricavano vesti di prezioso tessuto. Chiamano gossimpini (gossympini) alcuni alberi più fertili in un’isola più piccola di Tilo,che è distante dieci miglia. Dice Giuba che intorno alla pianta c’è una lanuggine e che i tessuti che se ne ricavano sono asai più fini di quelli indiani. Gli alberi d’Arabia dai quali pure si ricaverebbero vestiti sono chiamati cine, con le foglie simili a quelle della palma. Così gli Indiani si vestono con i loro alberi”;”La parte settentrionale dell’Egitto che confina con l’Arabia produce un arbusto che alcuni chiamano gossipio (gossìpion, che ha tutta l’aria di essere la trascrizione di una forma greca, di cui, però, non c’è traccia nei dizionari che ho potuto consultare), parecchi silo e siline le tele che se ne ricavano. È piccolo e produce un frutto simile alla nocciola, al cui interno nasce dal baco una lanuggine. Non ce ne sono di superiori per candore e morbidezza e se ne fanno vesti graditissime ai sacerdoti d’Egitto”.

28 È vero che il Glossarium mediae et infimae latinitatis del Du cange registra un coto sinonimo di gossypium (forma latinizzata del gossipion, presunto greco, della nota precedente), dal cui accusativo (cotonem) è elementare supporre che sia derivato cotone. Coto, però, compare in un inventario del 1444 e il verbo derivato cotonnàre in un documento del 1395. Anche se è  legittimo supporre che coto fosse usato prima di quest’ultima data è altrettanto legittimo ritenere che esso non fosse altro che la trascrizione latina dell’arabo qutun. Per farla completa, poi, dirò che la geminazione della dentale nel dialettale cuttòne non è, come si potrebbe legittimamente supporre, di origine espressiva ma è già presente nel latino medioevale cottònus attestato nel libro X degli Annales Genuenses di Iacopo Auria (XIII° secolo). Cuttòne, perciò, è dall’incrocio tra cotòne(m) (accusativo del precedentemente citato coto) e cottònu(m), avendo preso del primo la desinenza, del secondo la geminazione della dentale. D’altra parte, non è raro trovare fino al XIX secolo cottone anche in testi scientifici.

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