Muretti e furnieddhi, il patrimonio delle costruzioni a secco del Salento

MURETTI E FURNIEDDHI, IL PATRIMONIO DELLE COSTRUZIONI A SECCO DEL SALENTO

Incontro domani alla chiesa di Santa Teresa organizzato dalla Fondazione Terra d’Otranto

 

Le costruzioni a secco del Salento è il tema dell’incontro-dibattito in programma domani, venerdì 4 gennaio, alle ore 19:30 presso la chiesa di Santa Teresa. Si tratta di una iniziativa della Fondazione Terra d’Otranto patrocinata dal Comune di Nardò. Un’occasione di confronto estremamente interessante e attuale, visto che solo poche settimane fa i muretti a secco sono stati riconosciuti Patrimonio dell’Umanità, rappresentando “una relazione armoniosa fra l’uomo e la natura”. La scelta dell’Unesco è stata determinata dal fatto che l’arte del dry stone walling riguardi tutte le conoscenze collegate alla costruzione di strutture di pietra (muretti, furnieddhi e altre) ammassando le pietre una sull’altra, non usando alcun altro elemento tranne, a volte, terra a secco. Si tratta di uno dei primi esempi di manifattura umana ed è presente a vario titolo in quasi tutte le regioni italiane, sia per fini abitativi che per scopi collegati all’agricoltura, in particolare per i terrazzamenti necessari alle coltivazioni in zone particolarmente scoscese. Le costruzioni a secco caratterizzano fortemente il territorio del Salento tanto quanto gli ulivi, dai quali sono spesso circondati. Costituiscono un patrimonio storico, culturale e paesaggistico che necessita di un’azione intelligente di tutela e valorizzazione collettiva, anche a fini turistici.

All’incontro-dibattito interverranno l’agronomo e consigliere regionale Cristian Casili, il direttore dell’ufficio per la Pastorale sociale e il Lavoro della diocesi di Nardò Gallipoli don Francesco Marulli, l’assessore all’Ambiente del Comune di Nardò Mino Natalizio, l’architetto Fabrizio Suppressa, il docente Pier Paolo Tarsi. Modererà il presidente della Fondazione Terra d’Otranto Marcello Gaballo. L’ingresso è libero.

Ufficio stampa Comune di Nardò

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere

di Mario Colomba

Gli arnesi del mestiere (li fierri)

La descrizione delle modalità in cui si sono svolti quei lavori che hanno portato alle realizzazioni che noi oggi ammiriamo non può prescindere dalla conoscenza degli strumenti, delle attrezzature, degli utensili e, in una parola, del cantiere come si presentava, a mia memoria, dagli anni 50 in poi e che praticamente riproduceva le condizioni che si andavano ripetendo da qualche millennio con le stesse modalità.

Per questo è opportuno descrivere preliminarmente non solo l’atmosfera, l’organizzazione produttiva da cui scaturiva il prodotto finale, ma anche gli strumenti e le attrezzature che venivano impiegati nelle varie categorie di lavorazioni che si svolgevano in un cantiere edile:

 

  • per l’estrazione dei conci di tufo veniva adoperato:-   per i lavori di scavo venivano usati:   –   per il confezionamento della malta occorrevano:
  •    Il setaccio (farnaro o sitella o rezza a secondo della dimensione dei fori);
  •    il piccone (lu zappone) e la pala;
  •    il piccone (lu zueccu);

la calderina (recipiente metallico tronco conico della capacità di circa 11l. provvisto di due maniglie contrapposte fissate sul bordo superiore).

la pala, molto simile alla vanga;

Il ruezzulu (sorta di zappa con manico lungo   inclinato, di legno)

–   per lo squadratore occorreva:

una mannaia (mmannara di peso e dimensioni variabili; per la pietra leccese si usava quella più pesante) costituita da un’ascia a doppio taglio (uno più grande “occa” ed uno più piccolo “pinnulu”) con manico in legno leggermente ricurvo;

uno squadro metallico i cui lati misuravano circa 70 e 35 cm;

un metro a stecche ripiegabili;

una taglia (sorta di staggia in legno – tagghia)

–   gli attrezzi del muratore erano:

la cazzuola, (cucchiara –cucchiarottu)

il martello,

il filo a piombo, (costituito da piombo e mazzola)

la corda (firazzulu)

la livella (ma anche l’archipendolo; senza dimenticare che nelle località rivierasche si usava traguardare il piano orizzontale dei cornicioni col livello del mare, quando era calmo, all’orizzonte)

un metro a stecche ripiegabili.

una mannaia (mmannara).

 

Tratto dal volume :

Mezzelune fertili nell’orto dei TU’RAT

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di Daniela Liviello

Il Salento è territorio ad alto rischio desertificazione ma è percorso da venti che, attraversando il Mediterraneo, si caricano di umidità preziosa per imbevere i terreni aridi.

I TU’RAT, costruzioni arcaiche in pietra a secco, dati orientamento e forma a mezza luna, catturano il vapore dei venti di libeccio e scirocco che, condensando, penetra la terra rendendola fertile e produttiva senza emungimento meccanico del sottosuolo che, oltre tutto, darebbe acqua ormai fortemente salmastra dato l’elevato sfruttamento agricolo.

Nell’orto dei Tu’rat, magico luogo risonante di antiche, benefiche vibrazioni, sono presenti dodici mezzelune in pietra a secco, cioè senza uso di malta o altri materiali collanti dette, appunto, Tu’rat e conosciute già in tempi remoti da abitanti di terre aride che così hanno potuto realizzare oasi, frutteti e giardini verdeggianti.

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Il Salento è quasi interamente percorso, nelle campagne, da muretti a secco che delimitano i poderi e segnano le vie campestri con le loro merlettate geometrie; notiamo alla base o fra le pietre crescere e verdeggiare infinite varietà di erbe e piante spontanee. Le mezzelune dei Tu’rat amplificano il potere assorbente data la particolare porosità della pietra di Alessano utilizzata per la costruzione, pietra che è la risulta dello scavo per la realizzazione, nel secolo scorso, dell’acquedotto pugliese quindi ancor più l’orto è un ecosistema altamente sostenibile.

Obiettivo dell’orto è il miglioramento dell’equilibrio ambientale attraverso la semina e la piantumazione di specie autoctone che non richiedono utilizzo eccessivo di acqua, difesa del territorio e riqualificazione dell’incolto.

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Il parco culturale-agricolo-ecologico è situato in agro del comune di Ugento ed accoglie il visitatore con la bellezza di uno scenario incantato dove le fate sembrano armonizzare silenzio e lentezza al riparo delle fantastiche dodici mezze lune in pietra che, sotto i cieli estivi, diventano sipario per le più svariate forme d’arte, dalla poesia alla musica al teatro alla danza.

 

Il Salento e le sue architetture a secco

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto Nicola Febbraro)

 

di Felicita Cordella

Sono significative e affascinanti testimonianze della storia poverissima di uomini ricchi di forza interiore e di solidi valori, avvezzi alla fatica, nonché storia di una terra di prodotti genuini e sapori veraci. Muretti a secco, canali, “chisure”, “curti”, “paiare”, sono opere dei contadini salentini che, dissodando la brulla terra rossa, estraevano pietre e le accumulavano.

Poi queste divenivano muretti di confine ed anche costruzioni, come depositi per attrezzi come ripari per gli uomini o, come dicono gli specialisti, primitiva opera di antropizzazione degli spazi rurali. I muretti erano praticamente una frontiera fortificata per delimitare o per proteggere proprietà e attraversano millenni di stortia. Già in era messapica se ne faceva uso, sebbene avessero una struttura a blocchi poggiati orizzontalmente.

Durante la dominazione bizantina segnavano i confini tra Salento e i restanti territori.

I muretti hanno altresì funzione di sostegno per terrazzamenti, rallentano le sferzate del vento sulle colture, sfruttano il calore del sole, frenano lo scorrere delle acque piovane, mantenendo umido il terreno. In Salento dunque si sviluppò un’arte che, da padre in figlio, si tramanda da secoli e oggi rischia di scomparire: “lu paritaru”. Il muro a secco è costituito da due file parallele di grosse pietre, su cui si costruisce il vero e proprio muro, incastrando le pietre in modo da lasciare tra loro il minor spazio possibile; gli interstizi vengono poi riempiti con materiali fini.

Non si usa malta, né cemento, né calce. Alla fine si posa un cordolo con grosse pietre piatte, “li cappeddhi”. Ogni zona di una masseria o di un podere veniva recintata con muretti, per es. l’allevamento del bestiame era custodito da “lu ncurtaturu” o “lu curtale”.

I “furnieddhi” o “truddhi” o “caseddhe” o “pagghiare sono costruzioni circolari o quadrate (troncoconiche o troncopiramidali) che, ancora negli anni sessanta, costituivano l’abitazione dei contadini, soprattutto in estate. Furnieddhu deriva dalla prima funzione di forni per i fichi, abbondanti nelle campagne circostanti. Fichi che si erano essiccati sulle “littere”o sulle “lliame”, terrazze dove si lasciavano al sole anche ortaggi e legumi. Quando il sole brucia “li cuti”, gli ortaggi, il pomodoro in primis, divenivano concentrati di gusto per l’inverno. E su quelle pietre grige si cuoceva l’eccezionale pane contadino, anch’esso grigio perché a base d’orzo e cereali integrali, che condito col pomodoro, magari di “pendula”, era cibo adatto agli dei. La bruschetta salentina di pane, olio e pomodoro, dice Vasquez de Montalban, è un meraviglioso “paesaggio”, fondamentale nell’alimentazione umana.

Costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio

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di Pier Paolo Tarsi

Avere un tesoro…e non saperlo!
Le pagghiare o pajare o furnieddhi sono delle costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio tanto quanto i sacri ulivi, dai quali sono spesso circondati, anche nel nostro immaginario. Costituiscono un patrimonio storico, culturale e paesaggistico di cui non siamo spesso consapevoli noi stessi.

I furnieddhi sono stati i rifugi per i contadini che hanno edificato la nostra civiltà con fatica ed oggi sono testimoni importanti del nostro sentire più intimo e del nostro passato. Anche se non è noto a tutti, queste dimore si differenziano fortemente per dimensioni, caratteristiche strutturali e soluzioni architettoniche adottate da zona in zona, pertanto una pagghiara presente nel territorio di Copertino non sarà affatto uguale ad una del territorio di un altro Comune (ci sono ottime pubblicazioni per chi fosse interessato ad approfondire). In quanto copertinesi, abbiamo allora il dovere di difendere e valorizzare questo patrimonio di cui siamo gli unici eredi e custodi, preservandolo dalla sua scomparsa dovuta al tempo, all’incuria o peggio alla volontà folle di chi abbatte i furnieddhi o addirittura li sostituisce furbescamente con costruzioni moderne camuffate da antiche dimore a secco per raggirare le leggi.

Un’azione saggia e intelligente di tutela e valorizzazione collettiva non solo è un atto dovuto, nel rispetto dei nostri avi e del nostro paesaggio, ma è un’azione che avrebbe ricadute ottime per ogni copertinese in quanto: 1) incrementerebbe il valore delle campagne; 2) si incentiverebbe il flusso di visitatori e turisti nelle nostre zone; 3) si instaurerebbe un circolo virtuoso che permetterebbe il ritorno di antichi mestieri che vanno del tutto scomparendo (i costruttori di muretti a secco e furnieddhi) e che invece potrebbero occupare nuove giovani leve, a vantaggio dell’economia di tutti e di un benessere sostenibile, rispettoso della natura e della storia.

Se non ci credete, provate a comprare una pagghiara a pochi passi da casa, ossia nelle zone di Leuca o in altri posti del Basso Salento dove la coscienza del valore di questo tesoro è stata acquisita, scoprirete che costano talvolta più di una villa di lusso con piscina!

Libri/ Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento

RIPARI TRULLIFORMI NEL SALENTO

di Paolo Vincenti

E’ stato pubblicato qualche anno fa un pregevole volume ad opera di Francesco Calò: “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento,” edito dalla tricasina casa editrice Progeca di Carmelo Carangelo.

Il volume, patrociniato della Regione Puglia, con Prefazione del Consigliere regionale Antonio Buccoliero, offre un affascinante viaggio fra queste caratteristiche abitazioni salentine,  che costituiscono il fiore all’occhiello di una terra che ha tanto da offrire ai suoi visitatori ed anche ai residenti. Anzi, il libro è una ottima occasione proprio per noi, abitanti della provincia, per ricordarci queste bellezze della secolare architettura rurale  che il nostro paesaggio offre e per riflettere anche su una urgenza, fortemente sentita dall’autore del libro e da tutti coloro che hanno a cuore il patrimonio culturale salentino,  vale a dire il recupero e la salvaguardia dei ripari trulliformi,  che rischiano di scomparire, fra non molto, abbandonati come sono  all’incuria e

Melendugno. Giù le mani dal furnieddhu cranne!

di Dora Elia

Care amiche e cari amici, vi racconto una storia. In una campagna assolata, appena fuori da Melendugno, nei pressi della strada vecchia che porta ad Acquarica di Lecce, c’è uno stradone bianco che conduce ad uno dei più bei monumenti rurali del nostro territorio: lu Furnieddhu Cranne.

I melendugnesi e le genti vicine conoscono bene la straordinaria bellezza di questo imponente monumento rurale, dalla cui cima è possibile osservare tutto il Comune e, se guardi benebene in fondo, il mare. Tanti ricordi sono legati alla grande costruzione a secco: chi ci è andato in bici con gli amici quando era poco più che bambino, chi l’ha raggiunto in motorino con la ragazzina del primo bacio o con il gruppo delle uscite, chi ci è andato da solo per riflettere, chi si è fatto una birra liberatoria ai suoi piedi, chi, salito sul solaio si è messo a gridare la sua rabbia o la sua gioia come sfogo… tutti, ma proprio tutti i melendugnesi almeno una volta nella loro vita sono andati o

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