La recensione tra passato (Giuseppe Domenichi Fapane di Copertino) e presente (?)

di Armando Polito

 

Niente di nuovo sotto il sole, anche quello della letteratura, ma alcuni dettagli, analizzati alla luce della necessaria storicizzazione degli eventi, andrebbero comunque approfonditi. In riferimento alla parola-  chiave del titolo va subito detto che oggi, paradossalmente, una stroncatura può decretare il successo editoriale, dunque di mercato inteso nel significato più rozzo di profitto, di un’opera, come una campagna pubblicitaria furbesca, in cui non solo la recensione gioca un ruolo importante, può in un immaginario collettivo sempre più incolto e passivo, decretarne il trionfo, per quanto effimero.

Siamo un popolo che legge poco o niente ma scrive tanto, troppo, da un decennio a questa parte. E, cavalcando un diffuso ed epidemico narcisismo che si manifesta in velleità artistiche ad esibizione di un talento inesistente, capace solo di dimostrare, senza saperlo …, che c’è sempre uno più imbecille di te, sta proliferando l’editoria fai da te con presunte case editriici che fanno concorrenza ai funghi, quelli velenosi, non solo perché ne spuntano di nuove dalla mattina alla sera, ma perché, perseguendo unicamente  il profitto, sono solo imprenditrici dell’invadente sopravvalutazione di se stessi e della dilagante perdita del senso del limite.

Anche le case editrici tradizionali hanno da tempo abbandonato la finalità di promozione culturale e, a differenza di quelle appena considerate (che pubblicherebbero qualsiasi testo, anche se l’autore pretendesse che esso fosse stampato utilizzando l’estratto della sua merda), danno credito e spazio solo a titoli che, almeno teoricamente, possano avere un riscontro di vendite, ligi al risultato di indagini tese a captare il gusto presente e a prefigurarsi quello futuro, per non correre il rischio di essere bruciati sul tempo dalla concorrenza.

Torno alla recensione. Volutamente tralascio quelle orali che di regola accompagnano le immancabili presentazioni e che non di rado tradisco l’avvenuta lettura del solo titolo e notti insonni sprecate per studiare locuzioni che, per dare un’idea della profondità di un libro non letto, sprofondano nella nullità (fosse ambiguità, già sarebbe meglio ..) del significato. Da queste non differiscono quelle scritte, tra le quali colloco anche le prefazioni. Se in una sola qualcuno di voi ha mai letto qualche osservazione negativa, me la segnali. Certo che sono un grande ingenuo a credere che uno sia disposto a pubblicare un suo lavoro con una prefazione, a firma, magari, dello scemo del paese, che lo gettasse a terra e non lo elevasse al cielo. Sarò pure un ingenuo, ma capace di apprezzare, per contrasto, ciò che in passato (oggi bisognerebbe parlare di consorterie).

L’esempio che fra poco mostrerò, vecchio di 352 anni, appartiene ad un periodo in cui la letteratura encomiastica aveva uno spazio privilegiato e sfruttava tutte le risorse retoriche per celebrare i detentori del potere. Per questo era regola leggervi già nel frontespizio l’elenco dei titoli dell’autore dedicante e del dedicatario. Da quest’ultimo, naturalmente, ci si attendeva riconoscenza, se non nell’immediato o, almeno, in un futuro non troppo lontano. Anche se nessuno, a quanto ne so, ha indagato a fondo sui rapporti tra autori, editori e  politici di quel tempo, ho il sospetto, per non dire la certezza, che proprio questo o quel detentore del potere fosse una sorta di sponsor ante litteram, neppure tanto ante, se si pensa a Virgilio e all’entourage di Augusto. La libertà dell’artista, quello vero …, però, è tale da consentirgli quanto meno di allentare le pastoie del momento e di dare vita, destinata a durare nel tempo, a quei valori che tempo non hanno.

Perfino io so, dopo Virgilio, chi è Dante, ma fino a pochissimi anni fa di Giuseppe Fapane di Copertino ignoravo nome e, di conseguenza, esistenza. Poi una fortuita, fortunosa ma fortunata circostanza me lo ha fatto scoprire e sentire il bisogno di approfondire la conoscenza di un poeta che, secondo la mia modesta opinione, meriterebbe nei manuali di letteratura un posto nella foltissima schiera dei marinisti subito a ridosso dell’inventore e maestro di questa corrente. E se su questo blog tempo fa ne ho parlato genericamente1 e di recente mi sono occupato del suo nome e ho messo in risalto l’enigmista2, oggi è la volta del recensore. Gli lascio la parola dopo aver riprodotto il frontespizio del libro recensito e, da pagina non numerata, il dettaglio che qui interessa, con la solita trascrizione del testo, espediente per aggiungervi la traduzione e le note di commento.

 

Illustrissimo, et excellentis. domino Bartholomaeo de Capua, Altavillae Madno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat. 

Iosephi Domenichi

Historias Ioseph texit: priscique Triumphos

temporis; et nostrae stemmata Parthenopes.

Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare

quam tibi, qui Heroum vincere facta soles.

Tu Calami, et gladii superasti nomine famam;

tu Calamo, et gladio tempora clarificas.

Hinc Campanilis, pennam dat iure, columba:

ut tua gesta sones: ut sua scripta canas.

 

All’illustrissimo ed eccellentissimo signore Bartolomeo da Capua gran conte d’Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le storie della famiglie

di Giuseppe Domenichi

Giuseppe tesse le storie: e i trionfi del tempo antico e gli stemmi della nostra Partenope. Uno scrittore non avrebbe potuto dedicare queste testimonianze a nessun (altro) che a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la gloria della penna e della spada hai oltrepassato la fama, tu  con la penna e con la spada rendi illustri i tempi. Per questo la colomba del Campanile dà giustamente la penna, affinché tu faccia risuonare le tue gesta, affinché tu renda celebri i suoi scritti.a 

a Qui il Fapane raggiunge probabilmente l’acme nell’uso della metafora, strumento espressivo privilegiato della poesia del XVII secolo e lo fa da maestro in un pirotecnico gioco di parole, che coinvolge diversi piani, da quello puramente linguistico e, direi, filologico, a quello storico, con i relativi addentellati che partono dalla botanica per giungere alla musica e alla letteratura, per concludersi con l’esplosione finale di un’ironia arguta, ma tutt’altro che irrispettosa o dissacrante. Le parole-chiave di questa sorta di recensione (di fronte alla quale quelle di oggi dovrebbero arrossire di vergogna, non solo per i connotati formali …), coinvolgente in un solo magistrale colpo dedicante e dedicatario, sono:

1) calami del quinto verso e calamo del sesto, rispettivamente genitivo e ablativo di calamus, trascrizione latina del greco κάλαμος (leggi càlamos), che dal significato originario di canna è passato a quelli traslatoi di flauto  (basta fare una serie di buchi su una canna), zampogna (le canne, insieme con l’otre, ne costituiscono i componenti), penna da scrivere (canna tagliata trasversalmente), canna da pesca (si raccomanda di montare il filo, su questo l’amo e di collocarvi l’esca …), canna da misura. Nei versi in questione la voce ha il significato di penna da scrivere.

2) Campanilis del penultimo verso. Qui bisogna partire dall’italiano  campanile, forma aggettivale derivata dal latino latino tardo campana, a sua volta abbreviazione della locuzione vasa campana=vasi campani. Dunque, qui campanilis (genitivo di un nominativo neutro campanile plausibilmente inventato, perché in latino non è attestato ma la formazione è corretta) vale come nome comune ma anche come latinizzazione del cognome dell’autore del libro. Tra l’altro, anche se nella produzione barocca gli autori, se avessero potuto farlo, avrebbero scritto in maiuscolo pure le virgole, la voce in questione, proprio a servizio del detto valore ambiguo, è stata, volutamente, collocata all’inizio.

3 columba, sempre nel penultimo verso,  può essere alla lettera la colomba del campanile ma, per traslato, pò simboleggiare il volo poetico del letterato Campanile.

4 pennam, accusativo di penna che in latino significa solo piuma, ala e non è mai attestato nel senso di penna da scrivere, come in italiano, dove, addirittura può sostituire scrittore (una buona penna).Tuttavia qui per una sorta di proprietà transitiva o, se si preferisce, di ragionamento sillogistico applicato alla poesia, per quanto detto nelle due note precedenti, in particolare nelle ultime due, la penna intesa come piuma della colomba del campanile, una volta che tale colomba si identifica col Campanile, diventa il noto strumento per scrivere.

 

Quale recensore di oggi, ammesso che per assurdo fosse capace di mettere insieme non distici elegiaci (tanto, chi li capirebbe?…) ma due endecasillabi in un italiano corretto condito dalla raffinata ironia del Fapane? Me lo chiedo, anche se non sono tanto ingenuo da ritenere apprezzabile il numero di coloro che sarebbero in grado, non dico di capirli, ma, almeno, di leggerli correttamente …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

Tra bastioni e feritoie.  Le armi dei Castriota nel castello di Copertino

 

di Giovanni Greco

Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.

La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.

Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e  di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.

Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).

Fig. 2, il cortile interno del castello oggi

 

Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno  25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)

Fig. 3, il mastio

 

Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.

Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli.  Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).

Fig. 4, rappresentazione grafica di cannoni e colubrine

 

Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo  serpentino et le arme di S. Marco  et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata  e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).

Fig. 5, falconetto del XVI sec

 

Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.

Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.

In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).

Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.

Fig. 6, soldato spagnolo con archibugio

 

Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri.  Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle  “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.

Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo,  il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.

Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.

Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio  che il 2 giugno inventariò  16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.

Fig. 7, pettorale in cuoio

 

Dissolto il pericolo turco  e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.

Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca  principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.

Fig. 8, una sala del piano nobile

 

La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con  elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il  proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto  (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio  di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù.  Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche  di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro;  undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.

Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone;  due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua;  altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.

Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.

Fig. 9, scorcio del cortile interno del castello agli inizi del ‘900

 

Fig. 10, facciata della cappella di san Marco nel castello agli inizi del ‘900

Fonti essenziali

ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v;  atto del 17 aprile 1553, 152r ;  atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.

S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.

A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.

AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.

AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.

M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.

L’enigmatico enigmista di Copertino (1/2)

di Armando Polito

 

Dichiaro senza vergogna di aver voluto ricorrere fin dall’inizio a due espediente che, soprattutto il primo,  io stesso, s ho stigmatizzato  ripetutamente  su questo blog e non solo: il titoli “sparato” e la diluizione in più puntate, per attrarre il lettore impegnato pure nell’attesa speranzosa del prosieguo se l’inizio non lo avesse entusiasmato, stimolandone la curiosità, che può essere animata dai più disparati interessi, tutti astrattamente connessi al teoricamente nobile fine della conoscenza oscillante, però,  da quella dell’ultimo amorazzo del vip di turno, a quella di un’opera letterario degno di questo nome.

Perciò, se avessi scelto un titolo diverso, avrei perso l’occasione di tentare di dare il giusto rilievo ad un salentino il cui nome stranamente non è citato nei manuali di letteratura italiana nella schiera, pur folta, dei poeti marinisti, nella cui ammucchiata il letterato di Copertino avrebbe meritato, secondo me, di occupare un posto appena appena a ridosso del caposcuola Giambattista Marino.

Anzi, se la qualità fosse direttamente proporzionale alla quantità, Giuseppe Domenichi Fapane  non avrebbe rivali con i suoi epigrammi di Castaliae stillulae1, opera in sei volumi, pubblicati il primo nel 1654, l’ultimo nel 1671, per un totale di ben 1770 pagine, senza calcolare le mon poche non numerate.

Si tratta di un’opera rara (e da questo potrebbe esser dipeso il disinteresse degli studiosi) e gli esemplari per ciascun volume si contano sulle dita di una sola mano. Addirittura del sesto libro, dal quale ho tratto il gioco enigmistico che presenterò a breve, esisterebbe una sola copia custodita nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò , la cui esistenza, insieme con quella del secondo, pure l’OPAC mostra di ignorare. Quegli stessi appunti a suo tempo presi, che qualche anno fa mi consentirono di riesumare la memoria di questo figlio del Salento2, mi danno oggi la possibilità di chiarire il significato di enigmatico e di enigmista dominanti nel titolo.

Dell’enigmista tratterò nella seconda parte e dico preliminarmente che enigmatico è usato impropriamente per esigenze del titolo sparato, anche se in realtà rientra nella figura retorica dell’ipallage, per cui il mistero non riguarda la personalità del nostro ma solo il suo nome e cognome.

Ma, se ho già scritto Giuseppe Domenichi Fapane, non è evidente che il cognome del copertinese consta di due elementi? Nei manoscritti di una stessa opera, è cosa arcinota,  le varianti e la collazione, cioè il confronto, serve per la scelta della forma più attendibile, che teoricamente dovrebbe essere quella del manoscritto più antico, ma non sempre la teoria trova corrispondenza nella pratica. Lo stesso mi accingo a fare con l’autore di Castaliae stillulae, sfruttando, proprio il titolo completo che si legge nel frontespizio (riprodotto nel secondo link di nota 2) e che di seguto trascrivo:

Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapane à Cupetino (Cinquecento gocce di poesia che formano il sesto affluente del Parnasso [fiume sul monte Elicona sacro alle Muse], ciòè degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino). Questa prova schiacciante (quasi un autografo, più avanti ne vedremo un altro) del doppio cognome, trova conferma  nella lettera indirizzata da Antonio Muscettola ad Angelico Aprosio, custodita nella Biblioteca dell’Università di Genova (Ms. E.IV.14, Muscettola Antonio), che di seguito riproduco, mettendo in rilievo con la sottolineatura il dettaglio e trasctivendone la parte che ci interessa.

 

Appena giunto in Napoli, mi sono accinto a servir Vostra Paternità e perché so quanto le siano care le lettere degli amici, ho dolcemente violentato il nostro Battista, il Crasso, a risponderle, come vedrà dall’incluse. In quanto alle notizie per l’Atene Italica, speriamo mandargliene a dovizia. Per Giuseppe Domenichi, tutte l’opere sue sono stampate in octavo. La parte prime in Lecce appresso Pietro Michiele l’anno 1654 da lui dedicata alla Maestà d’Apollo. La seconda in Napoli presso Luca Antonio de Fusco, 1658 all’illustrissimo don Giovanni Vargas. La terza in Padova per Paulo Frambotto ad Alomso Vargas Principe di Carpino, Duca di Cagnano. Con questo la riverisco ..

La citazione del 1658, data di pubblicazione del terzo libro, ci consente di collocare cronologicamente la lettera tra dopo il 1659 (data in cui uscì il terzo libro).  Importante, ai fini di questa indagine, è il fatto che i precedenti citati Battista e Crasso sono cognomi (con i rispettivi nomi di Giuseppe e Lorenzo) e sarebbe strano che Domenichi non fosse la prima parte di un cognome.

A questo si aggiunga che in tutti i componimenti del nostro non facenti parte di Castaliae stillulae  e pubblicati sparsamente in altre raccolte di vari autori coevi (una sorta di antologia è nel primo link segnalato in nota 2, ma i successivi non pochi rinvenimenti mi hanno convinto dell’opportunità di un aggiornamento, che fornirò a breve) compare sempre Giuseppe Domenichi e l’assenza di Fapane dà la certezza che Domenichi era il cognome, anche se è poco probabile che, a questo punto un po’ di ironia non guasta (come, spero, quella che evoca l’ambientazione della vignetta della prossima seconda e ultima puntata, alla cui lettura nessuno vorrà rinunciare …), che Fapane fosse il soprannome legato all’attività di fornaio esercitata non da lui ma da qualche antenato.

E ppure, nonostante questo, le varianti, sia pure di epoca posteriore, non mancano.

In Nicola Toppi. Biblioteca Napoletana, 1678 a p. 172 si legge Giuseppe Domenico Fapano (sic!), più avanti (p. 245) Domenichi Giuseppe, che infine nell’indice generale (s. p.) diventa Fapane Giuseppe Domenichi.

In Domenico De Angrelis, Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710: nella parte finale, pagina non numerata, dell’elenco dei letterati che l’autore  si riprometteva di trattare nella prima parte di Istoria de’ scrittori salentini, opera che mai vide la luce, si legge Giuseppe Domenico Fapane.

In Giovanni Bernardino Tafuri, Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo XVI, Venezia, Zane, 1738,  p. 206:  Giuseppe Domenichi Fapane.

In Camillo Minieri Riccio, Notizia delle accademie istitute nelle provincie napolitane,  in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 294: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Napoli nobilissima, volume XIV, fascicolo II, s. n. Napoli, 1905, p. 27: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Michele Maulender, Storia delle accademie d’Italia, Cappelli, Bologna, 1930, p. 10: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Luisa Cosi e Mario Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Congedo, Galatina, 1995, p. 122: Giuseppe Domenico Fapane.

 In Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto a cura di a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza e F. Rizzo, Congedo, Galatina, 2003, p, 12: Giuseppe Domenico Fapane.

In Le antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 91: Giuseppe Domenico Fapane.

Dalla collazione, lasciando da parte il Toppi che con le sue tre varianti, soluzione diplomaticamente irresponsabile, mostra, facendo onore non al cognome del copertinese ma al suo, di aver toppato, risulta che merita attenzione il Domenico del De Angelis. Egli mostra di intenderlo come traduzione del Domenichi del titolo del libro del copertinese. Anche se la forma latina di Domenico è Dominicus (il cui genitivo è Dominici) sono attestate fin dal secolo XIV le varianti Dominichus  (con genitivo Dominichi) e Domenichus (con genitivo Domenichi). Da questo probabilmente è nato il Domenico del letterato leccese contro il Domenichi che abbiamo visto ricorrere puntualmente nella cronologia a lui precedente.

C’è da aggiungere, dettaglio non secondario, che sicuramente la maggior parte della vita, come tanti letterati del suo tempo, il Fapane la trascorse lontano da Copertino e che i rapporti stretti con l’ambiente napoletano, del quale il Muscettola della lettera è uno dei rappresentanti, come tutti napoletani sono gli altri letterati (Giuseppe Campanile, Baldassarre Pisani, Tommaso di S. Agostino e Pietro Casaburi Urries, per loro vedi il primo link di nota 2), tutti suoi contemporanei,  che lo ricordano come Giuseppe Domenichi Fapane.

E, a dare poca credibilità al Giuseppe Domenico Fapane del salentino De Angelis c’è il Giuseppe Domenichi di un altro letterato salentino, Giuseppe Battista di Grottaglie (pure per lui vedi il link appena segnalato), contemporaneo del copertinese e posteriore, dunque, al De Angelis. Appare credibile che essi abbiano concordemente propalato un dato fasullo? Fuori gioco, per quanto prima detto, resta il Toppi che, pur essendo nato a Chieti, trascorse la parte più significativa della sua vita a Napoli, dove morì.

Se il Domenichi del frontespizio di Castaliae stillulae (al pari di Iberi fulminis scintilla breuia poemata. D. Iosephi Domenichi Phapanis a Cupertino. Poetae, et academici furibundi, Micheli, Lecce, 1654) continua a lasciare qualche dubbio, la pistola ancora fumante il valore di cognome di Domenichi la offre il frontespizio della terza ed ultima opera pubblicata autonomamente (le altre due sono quelle che avevo appena citato), quasi una seconda (non nel senso di alternativa) firma, dopo la prima di Cataliae stillulae.

Si tratta di Musarum lessus in obitu. Iosephi Baptistae. À Iosepho Domenichi, Cavallo, Napoli, 1675  (Il pianto delle Muse in morte di Giuseppe Battista. Da Giuseppe Domenichi). Se Domenichi fosse stato nome, avremmo letto,  À Iosepho Domenico(o, al limite, Domenicho) e, oltretutto, l’assenza di Fapane conferma la natura di cognome di Domenichi.

La demolizione dell’enigmatico del titolo è stata completata. Mi auguro che la mia fatica serva almeno ad apportare la dovuta correzione almeno ai due cataloghi considerati un punto di riferimento3. Appuntamento a breve con l’enigmista.

 PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/11/lenigmatico-enigmista-di-copertino-2-2/?fbclid=IwAR2yAqYaB2OHfEgOBZY0aVSLPaS50ZeoMPekSFlAr038FV3xbcvMRbRXEqw_aem_Abye8qV6DFwRycNFNi1GZHgU31caxiAQ7ngnk1y-OQcvDNVZtM29dgZ_rJSxnmkbPkUV7YRp4viTJEBdb_eJ_r9L 

_________________________

1 Traduzione: Gocce di poesia. Castalia è una fonte che prende il nome da quello della ninfa che in essa si gettò per sfuggire alla libidine di Apollo. Secondo una variante del mito fu Apollo a trasformarla in fonte conferendo alle sue acque il potere d’infondere ispirazione poetica a chi avesse bevuto le sue acque.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/26/galeazzo-pinelli-il-marchese-fatuo-di-galatone-nella-celebrazione-di-giuseppe-domenichi-fapane-di-copertino/

 

3 https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata?fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40&fieldvalue%5B1%5D=Domenichi+Fapane&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016#1712050322253

https://www.beweb.chiesacattolica.it/benilibrari/libro/859871116/Castaliae+stillulae+trecentae%2C+quae+quintum+riuulum+permessi+conficiunt.+Hoc+est+epigrammaton+Iosephi+Domenichi+Phapanis+a+Cupertino+liber+quintus#action=ricerca%2Frisultati&view=griglia&locale=it&ordine=&ambito=XD&liberadescr=Castaliae+stillulae&liberaluogo=&highlight=Castaliae&highlight=stillulae

 

Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

Copertino, 1878: melodramma patriottico dalla penna di Sigismondo Castromediano

di Davide Elia

La morte di Vittorio Emanuele II, il 9 gennaio 1878, colse l’Italia di sorpresa. Nonostante il re non avesse ancora compiuto 58 anni e apparentemente godesse di ottima salute, la sua forte fibra venne fiaccata nel volgere di pochissimi giorni da un male il cui decorso fu così repentino da non consentire nemmeno una diagnosi certa (forse polmonite o addirittura malaria).

 

In tutta la nazione, che ancora cercava di assestare e consolidare la propria unità così di recente e a caro prezzo raggiunta, vennero organizzate solenni esequie per il monarca. Nelle grandi città come nei piccoli villaggi ogni comunità allestì, sulla base delle proprie risorse finanziarie e della propria inventiva, cerimonie pubbliche arricchite di apparati scenici e caratterizzate da grande concorso di pubblico.

La Terra d’Otranto non si mostrò da meno. Le modalità con cui la figura del monarca venne commemorata in provincia furono adeguatamente descritte da un pamphlet pubblicato a cura dell’amministrazione provinciale[1]. Si tratta di un’opera scritta a più mani, ma tra i testi contenuti il contributo di gran lunga più ampio risulta la cronaca delle manifestazioni di lutto che si erano tenute praticamente in tutti i centri della provincia. Se si ha la pazienza (o magari il piacere) di leggere questi reportage fino all’ultimo, si scopre la firma in calce è quella di Sigismondo Castromediano.

Erano passati 30 anni dai moti del 1848, il cui coinvolgimento valse al “Duca bianco” la condanna al carcere duro, e 19 anni dalla sua rocambolesca riconquista della libertà. Nel 1861 Castromediano era stato eletto nel collegio di Campi al primo parlamento nazionale. Successivamente, la mancata rielezione nel 1865, oltre a farlo piombare in un’amarezza e un senso di scoramento che non lo avrebbero mai più abbandonato, gli fece lasciare definitivamente Torino per tornare a vivere stabilmente nel suo Salento. Qui, oltre a spendersi, come è noto, per il recupero e la salvaguardia delle memorie storiche della sua terra (opera che culminò nella creazione del museo provinciale a lui intitolato), fu anche fecondo scrittore e consigliere provinciale dal 1869 al 1879. Non sorprende, quindi, il fatto che il compito di stilare per conto dell’amministrazione provinciale il resoconto delle onoranze funebri rese dal Salento a Vittorio Emanuele II cadesse proprio su di lui. Circa un terzo di quel testo consiste nella descrizione delle manifestazioni tenutesi nel capoluogo (in figura possiamo vedere l’allestimento funebre del duomo di Lecce per l’occasione), cui seguono, più succinte, le cronache da ciascuno dei numerosi centri di terra d’Otranto, elencati alfabeticamente.

 

Il resoconto da Copertino porta la data del 26 gennaio. La “pingue e laboriosa cittadina chiuse spontanea le botteghe e i luoghi pubblici, ma li chiuse del pari nel dì in cui furon celebrati i riti sacri nella Collegiata, dove gl’Impiegati, le Autorità e con essi il Pretore, 18 Carabinieri col Capitano, le Guardie di Finanza, il Delegato delle Scuole coi Maestri e Maestre e circa 300 loro alunni, e l’Agente delle Tasse di Lecce, Sig. Eugenio Canudo, vi si recarono in Corteggio[2], preceduto dalla banda, la quale frequente intuonava dolorose melodie composte dal Maestro Zuppa, direttore della medesima”.

Non conosciamo esattamente la data in cui si tenne questa celebrazione: se da un lato non può essere stata troppo posteriore al 9 gennaio, è pur vero che almeno qualche giorno doveva essere servito per allestire un complesso catafalco nella chiesa collegiata di Copertino: “L’interno del Tempio, oltrecchè addobbato a gramaglia, mostrava in mezzo eretto un monumento tutto di marmo bianco, circondato da epigrafi lapidarie, da coni piramidali, da quattro stendardi agli angoli e da quattro simulacri di donne piangenti che sostenevano le armi di Torino, Firenze, Roma e Napoli. In alto poi, presso la volta, splendeva una stella d’oro, dai raggi della quale scendevan veli neri quasi a cuoprirlo a simiglianza di cortine. N’era stato inventore l’ingegnere Raffaele Leo[3]: gli alunni delle scuole vi deposero molte loro corone”.

Fatto tutt’altro che scontato in quell’epoca di conflitti tra Stato e Chiesa, il clero (o una sua parte, quantomeno) partecipò con convinzione alle onoranze: “Le solennità consuete vennero adempite dai Canonici della Collegiata e dal Capitolo; l’Arciprete[4] pronunziò senza scrupolo il Rex noster, e il canonico D. Vincenzo Calassi[5] predicò le funebri lodi. Dopo seguiron le altre del Maestro elementare Annibale Castaldi”.

 

Il momento di partecipazione popolare fornì l’occasione per un’opera di pubblica beneficenza, come l’elargizione della dote a tre giovani orfane e prive di mezzi: “La Congregazione di Carità estrasse a sorte tre maritaggi a favore di tre povere orfane, di 50 lire[6] ciascuno, due dei quali per conto dell’erario comunale, e il terzo del proprio”.

A questo punto, però, prende forma il dramma… “È da notare che scossa l’urna, il primo nome che ne uscì fu quello d’una infelice, la quale nel medesimo momento col Viatico era licenziata da questa vita, e che ciò non ostante benedisse a Vittorio Emanuele”. In altre parole: una delle ragazze estratte come beneficiarie delle doti estratte a sorte si trovava, derelitta, ormai in fin di vita e sarebbe morta di lì a poco, non mancando tuttavia di ringraziare il defunto monarca per quel dono tanto inaspettato quanto ormai inutile.

Per provare a dare un nome alla protagonista di questa straziante vicenda non resta che sfogliare gli atti di morte del comune di Copertino relativamente al periodo in questione, un intervallo di giorni che deve necessariamente andare dal giorno della morte di Vittorio Emanuele II alla data della relazione del Castromediano, ossia dal 9 al 26 gennaio 1878. In quei giorni vennero ufficialmente registrati i decessi di Sebastiano Camisa, di 7 anni, Santa Lillo[7] (4 anni), Liberato Salvatore Martina (43 anni), Giuseppe Cazzato (43 anni), Rosaria Greco (4 mesi), Sebastiano Pedone (5 anni), Licinia Leo (14 mesi) e Donata Renis (70 anni)[8].

Come si può constatare, nessuno di questi profili è compatibile con quello di una giovane donna in età da marito. Dobbiamo dunque ritenere infondata la straziante scena narrata dal Castromediano.

Da chi e perché, allora, fu ideata quella che oggi definiremmo una fake news? È al di sopra di ogni sospetto la buona fede del “Duca bianco”, che improntò la propria intera esistenza a un inflessibile rigore morale, spesso facendone dolorosamente le spese. D’altronde sarebbe contrario a ogni logica immaginare che egli avesse potuto presenziare a tutte le manifestazioni tenutesi in quei giorni nei numerosissimi centri della provincia, pertanto è plausibile che le notizie sulle celebrazioni di Copertino gli fossero pervenute da terzi, ossia da testimoni oculari locali. Se anche così fosse, non è necessario ravvisare a tutti i costi il dolo da parte della “fonte” copertinese del duca scrittore: la morte della giovinetta potrebbe essere realmente accaduta qualche tempo prima o dopo l’intervallo di date cui si accennava in precedenza, e “avvicinata” ad arte a quel periodo per aggiungere un tocco di pathos alla cronaca patriottica delle esequie regali. Un’altra ipotesi, infine, potrebbe essere che si tratti di un episodio accaduto in realtà in un altro comune, e attribuito a Copertino solo in seguito ad una banale svista.

 

Ciò che sembra innegabile, tuttavia, è che il Castromediano non si lasciò certo sfuggire l’occasione di narrare, in accordo con il gusto del tempo per i toni da melodramma, un simile episodio da libro Cuore: la giovane orfana che finalmente riceve una piccola gioia da una sorte avara, ma non può goderne perché la vita stessa la abbandona subito dopo. Nell’attimo supremo – e qui il melodramma si ricopre di edificante retorica patriottica – ella spira benedicendo la memoria dal re, quel Vittorio Emanuele II nel quale Sigismondo Castromediano vent’anni prima aveva definitivamente riposto tutte le speranze per un’Italia indipendente e unita.

In ogni caso, la tentazione a cui non si deve cedere nel rileggere la pagina del Castromediano e nel discuterne la veridicità è quella di formarsi un giudizio basato su un’ottica, la nostra, distorta dai quasi 150 anni trascorsi da quei fatti. I temi delle lotte risorgimentali da un lato e della povertà e della morte in giovane età dall’altro, lo stile con cui venivano espressi in forma di testo “giornalistico”, nonché la sensibilità del pubblico a cui tutto ciò era indirizzato, sono quanto mai lontani dal contesto e dal modo di sentire odierni. Quanto oggi ci potrebbe apparire ingenuamente artefatto rispondeva invece, all’epoca, a precise esigenze di carattere morale e civico.

All’antico patriota perdoniamo dunque la piccola imprecisione e, anzi, restiamo riconoscenti per averci lasciato questo ampio e vivace spaccato di vita pubblica nel Salento tardo-risorgimentale.

 

Note

[1] AA. VV., “A Vittorio Emanuele II, onoranze funebri in Terra d’Otranto”, Lecce, 1878. Per quanto riguarda le cronache da Copertino, parzialmente citate nel seguito, si vedano le pagine 77-79.

[2] Corteo.

[3] Raffaele Leo (1841-1910) fu una figura di primo piano nella seconda metà del XIX secolo a Copertino, e non solo, nella realizzazione di opere di edilizia civile, religiosa e privata. Il suo nome si incontra continuamente nei progetti di opere pubbliche e nelle perizie richieste per cause civili relative a suoli e fabbricati dell’epoca. Suoi furono anche progetti per interventi architettonici nelle chiese di San Giuseppe da Copertino e del SS. Sacramento.

[4] Alla data del 20 dicembre 1878, in occasione della visita pastorale del vescovo di Nardò  Michele Mautone, la carica di arciprete risultava vacante (O. Mazzotta, M. Spedicato [a cura di], “Copertino in epoca moderna e contemporanea. Vol. III: Le fonti ecclesiastiche. Tomo I: Le visite pastorali”, Galatina, 1997, p. 467). Figurava come “ex arciprete curato”, non più in carica da diversi anni, Nicola Leonardo Pisacane (1819-1906), mentre svolgeva le funzioni di parroco, con il titolo di economo curato, Francesco Verdesca Zain (1838-1921), futuro arciprete a partire dal 1880. È possibile dunque pensare che l’arciprete qui menzionato sia monsignor Pisacane.

[5] Si tratta in realtà del canonico Vincenzo Calasso (1827-1903).

[6] La moneta da 50 lire di quegli anni era in oro 900/1000, con un peso totale di poco più di 16 grammi. Il suo contenuto in oro fino, al cambio attuale, corrisponderebbe a un valore di circa 730 euro. Più interessante del cambio attuale è, però, il potere d’acquisto di questa somma all’epoca: 50 lire corrispondevano, grosso modo, a una singola mensilità dello stipendio di un maestro elementare o di una guardia municipale.

[7] Santa Lillo era nata a Monopoli, figlia di Antonio, imprenditore che si era poi trasferito a Copertino impiantando una distilleria nel soppresso convento dei Cappuccini, sulla via per Leverano (il decesso della bambina risulta infatti avvenuto a tale indirizzo).

[8] Archivio di Stato di Lecce, Stato Civile del Comune di Copertino, Registro degli Atti di Morte, a. 1878, nn. 2-9.

 

Un “consiglio di famiglia” per un matrimonio copertinese del 1809

di Davide Elia

Domenica 7 maggio 1809 una giovane coppia comparve al Comune di Copertino per formalizzare la propria volontà di contrarre matrimonio e procedere ai relativi adempimenti di legge, quali l’accertamento delle identità, la verifica delle certificazioni prodotte e l’affissione delle pubblicazioni. Lui era Baldassarre Isacco Verdesca, 26 anni, muratore; lei Tersilla Marulli, 19 anni, “artista” (ossia artigiana).

 

Entrambi abitavano alla “strada dei Pappi”, l’attuale via Matteotti, ed erano quindi vicini di casa. “Tersilla” non era certo un nome dei più consueti, soprattutto tra le famiglie di estrazione popolare …ma insoliti erano anche il nome del padre Eliodoro, defunto diversi anni addietro, e dei numerosi fratelli e sorelle: Prassede, Emerenziana, Florentino, Emilio, Demetria e Realina[1].

Il promesso sposo quel giorno si presentò munito dell’autorizzazione al matrimonio concessagli dai genitori, ancora viventi. La futura moglie, al contrario, orfana di padre e madre, era “assistita dal consiglio di famiglia, per la mancanza di detti genitori, avo ed ava”.

Entra in scena, quindi, un “consiglio di famiglia” interpellato per vigilare e deliberare sulla scelta di una giovane orfana. Un istituto oggi del tutto scomparso, che non può non suscitare curiosità oggi, ma che probabilmente anche all’epoca risultava poco consueto: esso era infatti retaggio di una legislazione straniera, solo da pochi mesi introdotta da Napoleone Bonaparte nel meridione d’Italia.

 

La figura di Napoleone non si distinse solo per le imprese militari e per gli sconvolgimenti politici che produsse in Europa, ma anche per una quantità di intuizioni epocali che si tradussero in altrettanti “balzi in avanti” per il progresso della civiltà occidentale. Tra queste, sicuramente l’introduzione del Codice Civile, che dalla Francia, dove era stato promulgato nel 1804, venne esteso agli altri paesi via via assoggettati dal Corso. In qualunque luogo d’Europa arrivasse, questa raccolta dall’enunciazione chiara, snella, elegante, spazzava via ogni obsolescenza e ambiguità insite nell’antiquata legislazione precedente. Nel Regno di Napoli, conquistato dai Francesi nel 1806, il Codice entrò in vigore il 1° gennaio 1809, regnante Gioacchino Murat. Riconoscendone l’efficacia, al loro ritorno sul trono nel 1815 i Borboni si guardarono bene dall’abrogarlo in toto: al contrario, lo mantennero in vigore in via provvisoria fino al 1819, quando venne varato il nuovo “Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, che nei fatti era poco più che un suo rimaneggiamento.

 

…Ma torniamo al 1809 e al Codice Napoleone. Ben dettagliata era la parte dedicata al diritto di famiglia. In particolare, il codice introduceva la novità del matrimonio civile, regolato dal Titolo V del Libro I, per un totale di ben 85 articoli.

L’età minima per contrarre matrimonio era di 18 anni per l’uomo e 15 per la donna (articolo 144), derogabile in casi eccezionali (145). Nondimeno, fino ai 25 anni per l’uomo e 21 per la donna era comunque necessario chiedere il consenso dei genitori (148), o di uno solo qualora l’altro coniuge fosse già morto (149); in mancanza di entrambi, il placet doveva provenire dai nonni (150)[2].

L’articolo 160, tuttavia, aggiungeva: “Se non vi sono né padre né madre, né avoli né avole, o se si trovino tutti nella impossibilità di manifestare la loro volontà, i figli o le figlie minori di anni ventuno non possono contrarre matrimonio senza il consenso del consiglio di famiglia”. Compare qui un’istituzione, il “consiglio di famiglia”, che suona insolita, quantomeno alle nostre latitudini. Al Titolo X del Libro I, il Codice civile precisava: “Il consiglio di famiglia, non compreso il giudice di pace, sarà composto di sei parenti od affini, metà del lato paterno, metà del materno, secondo l’ordine di prossimità in ciascuna linea, i quali potranno prendersi tanto nel comune ove si farà luogo alla tutela, quanto nella distanza di due miriametri. Il parente sarà preferito all’affine nello stesso grado; e, fra i parenti di ugual grado, verrà preferito il più vecchio” (407), e: “I fratelli germani del minore, ed i mariti delle sorelle germane sono i soli eccettuati dalla limitazione del numero stabilito nel precedente articolo. Quando siano sei o più, saranno tutti membri del consiglio di famiglia, che da essi soli verrà composto, unitamente alle vedove degli ascendenti ed agli ascendenti legittimamente scusati, se ve ne fossero. Quando fossero in numero minore, saranno chiamati gli altri parenti per completare il consiglio” (408).

 

La nostra giovane copertinese Tersilla Marulli, minorenne e priva di genitori e nonni, dovette pertanto ottenere l’autorizzazione alle nozze da un consiglio di famiglia che, però, nell’occasione appare costituito da due soli componenti (ossia i due fratelli maschi), anziché i sei previsti sopra: “[…] e noi Florentino Marullo, ed Emilio Marullo fratelli col presente atto prestiamo il nostro consenso alla nostra sorella Tersilla Marullo figlia degli quondam Eliodoro, e Teresa Cordella, stante la mancanza degli genitori, e dell’avo, e dell’ava a poter contrarre matrimonio con Baldassarre Isacco Verdesca, essendo del nostro piacere, e volontà[3].

Per chi fosse giunto fin qui con la lettura e avesse maturato ormai la curiosità di sapere se i due sposi “vissero felici e contenti”, possiamo dire che il matrimonio civile ebbe luogo il 17 maggio 1809[4] e fu allietato dalla nascita di una prima figlia il 23 marzo 1810[5].

Il consiglio di famiglia, introdotto dai francesi, venne mantenuto anche dopo la Restaurazione sia nel diritto civile napoletano sia nella legislazione degli stati sabaudi, finendo anche per comparire nel Codice Civile dell’Italia unita del 1865, il cui modello fondamentale continuava a essere il codice napoleonico. Nella legislazione italiana il consiglio di famiglia scomparve definitivamente nel 1942, con la promulgazione del nuovo codice civile, tuttora in vigore pur con significative rettifiche e aggiornamenti.

 

Note

[1] Archivio Vescovile di Nardò, Stati delle Anime, Comune di Copertino, anno 1805.

[2] Il successivo articolo 152 estendeva ulteriormente agli uomini fino ai 30 anni e alle donne fino ai 25 la raccomandazione di richiedere, come forma di “atto rispettoso”, un “consiglio” ai genitori (o, in mancanza di questi, ai nonni). In caso di mancata risposta, si sarebbe dovuto reiterare tale richiesta mensilmente per tre mesi di seguito, dopo i quali l’interessato avrebbe acquisito in ogni caso la facoltà di convolare liberamente a nozze. Questo spiega perché, come narrato in precedenza, il Verdesca esibì l’approvazione dei genitori pur essendo ormai maggiorenne.

[3] Stato Civile del Comune di Copertino, 1809, Processetti, n. 4, foglio 2.

[4] Stato Civile del Comune di Copertino, Registro dei Matrimoni, 1809, n. 16.

[5] Stato Civile del Comune di Copertino, Registro delle Nascite, 1810, n. 33.

La Macennula, 75 anni di satira e umorismo a Copertino

edizione del 1945

 

di Giuseppe Trono

La Macennula, giornale satirico-umoristico copertinese, viene realizzata per la prima volta nel settembre del 1945, in concomitanza dei festeggiamenti per il patrono, San Giuseppe da Copertino, ripresi dopo la fine del secondo conflitto mondiale.

Un unico foglio, sulla prima facciata l’articolo di fondo, che spiega lo spirito con cui è nato il giornale “… e proprio nel pieno clima della libertà poteva germogliare la nostra Macennula che interpreta una tradizione nel folclorismo ambientale, a cui il popolo crede con la fede di un religioso e la ingenuità di un bambino” e lo scopo “ricreativo certo, anche se in funzione della satira fine e arguta” , è affiancato da una vignetta che ritrae un somaro e la scritta “l’olocausto”, in riferimento alla tradizione copertinese di mangiare polpette d’asino nei giorni della festa.

In seconda pagina tra articoli, rubriche, storielle esilaranti, la caricatura di un giovane copertinese “la commissione” della rinata festa per San Giuseppe.

Il nome della testata si rifà all’umile strumento delle massaie d’un tempo, utilizzato per dipanare matasse di lana, la macennula, appunto che, secondo una consolidata tradizione, fu posta dai copertinesi sul campanile della chiesa matrice per vedere in che direzione andasse il vento…

Diventa così, agli occhi dei paesi confinanti, l’emblema dei Copertinesi, della loro volubilità, uomini inaffidabili, usi a cambiare continuamente opinione, in un senso e subito dopo nell’altro, proprio come il vecchio arcolaio cambia direzione. Ma il termine Macinnulari, imposto come malevolo nomignolo, non ha più il valore di un’offesa, assume un’accezione positiva, diventa un appellativo di cui andare orgogliosi, si trasforma in un marchio, una bandiera, un sinonimo di assoluta libertà di pensiero.

edizione del 1954

 

E la Macennula diviene un tormentone nella vita del paese, posa il suo sguardo sui personaggi più in vista, i politici, gli amministratori in primis, quindi sul popolino, sui diversi aspetti della quotidianità, ironizzando, mai sbeffeggiando, rimarcando vizi e virtù dei copertinesi.

E la satira arguta, un tempo sicuramente più graffiante e… contundente, continua a colpire, non immaginando, i primi redattori, che al primo sarebbe seguìto, puntualmente, ogni anno, un nuovo numero.

La politica primeggia negli articoli, così come nella prima pagina caratterizzata da un grande disegno con le caricature degli amministratori resisi protagonisti degli avvenimenti più salienti dell’anno trascorso.

Nei primi anni le caricature non sono firmate, né compare il nome dell’autore all’interno del giornale.

edizione del 1974

 

Nel 1957, a sorpresa esce, dopo quello di settembre, un nuovo numero del giornale, in pratica un manifesto anticomunista, realizzato in occasione di vicine elezioni, che sull’ultima pagina riporta un enorme scudo crociato.

L’anno successivo questa iniziativa viene bollata come sacrilega dai redattori che si dissociano da quel gesto ritenuto meschino e scellerato, a dimostrazione dell’assoluta “neutralità” della Macennula, libera nello spirito, non legata ad alcun colore politico.

Negli anni sessanta si afferma come illustratore un giovane artista, il professore Raffaele Viva, valente pittore, che incide su lastre di linoleum (questa la tecnica del tempo) le figure al contrario, al negativo, rendendole idonee alla stampa.

A lui si deve la testata arricchita dall’immagine del campanile della Collegiata, a richiamare la leggenda popolare già ricordata, utilizzata per qualche anno.

Nel 1973 il compito di illustrare il giornale viene affidato al giovane aviere, ora Colonnello, Cosimo Martina: il suo tratto pulito, elegante, da raffinato ritrattista ad olio prestato alla caricatura, caratterizzerà la grafica della Macennula per un decennio.

Nel 1976 vengono pubblicate contemporaneamente due edizioni del giornale; questa volta, però, per incomprensioni fra redattori. Singolare il fatto che su entrambe, le caricature sono a firma di Martina.

edizione del 1994

 

Il 1983 segna il passaggio di consegne tra questi e Giuseppe Trono, studente universitario, ora medico e ancora illustratore del giornale.

Nel 1985 la linotype lascia il posto al computer.

La Macennula continua, imperterrita a bacchettare soprattutto i politici con le sue prime pagine, e a mettere in evidenza, con caricature e articoli, diversi personaggi e le loro “gesta”.

Antonio Viva, direttore responsabile da quegli anni, arricchisce il giornale con articoli di analisi politica, racconti di fantasia, cronache di fatti realmente accaduti, descrizioni di vari personaggi in prosa o in rima.

Il 18 settembre 1987 vede, per la terza volta nella sua storia, l’uscita di due giornali, sempre per divergenze di opinioni fra i vari redattori.

Nel 1999, ancora due uscite, questa volta la seconda “Sotto l’albero”, per salutare l’arrivo del 2000.

edizione del 2004

 

Il 15 giugno 2014, dopo una serata dedicata ai 70 anni del giornale, si inaugura la mostra “La Macennula, 70 anni, dal dopoguerra ai nostri giorni”, esposizione di tutte le prime pagine e di decine di caricature originali, dagli anni 70 in poi, nella Galleria Maria d’Enghien del castello, che permane per mesi.

mostra del 2014

 

Il colore rende molto più piacevole la veste grafica; le caricature, sempre più numerose, diventano motivo di richiamo e di curiosità per i lettori che, ogni anno, attendono l’uscita della Macennula per scoprire storie, avvenimenti, aneddoti dell’anno trascorso. Diventa così una sorta di almanacco che riporta puntualmente vicende, anche a carattere nazionale o internazionale, meritevoli di ricordo. Un appuntamento fisso la rubrica “Medici e pazienti”, strafalcioni raccolti, anno per anno, negli studi di medicina generale. Altrettanto interessanti e seguìte: “Il borsino della politica copertinese”, “Copertino e il resto del mondo”, “La Macennula giovani”, che vede protagonisti, appunto, i ragazzi della città.

Molto spazio è riservato, negli ultimi anni, a coloro che portano il nome di Copertino in Italia e nel mondo e a tutte le manifestazioni atte a promuovere il territorio e le tradizioni locali.

Seguìto sempre con molto interesse, con articoli e caricature, il gemellaggio, datato 1963, con Cupertino, in California.

Ospiti fissi, dal periodo del loro esordio, Giuliano Sangiorgi e Andrea Mariano, i copertinesi della rock band “Negramaro”.

Con la Macennula, Copertino si sente comunità, i Copertinesi la aspettano ogni anno con trepidazione e curiosità, come imprescindibile coronamento dei festeggiamenti per San Giuseppe.

Il 15 giugno p.v., presso la sala consiliare della Cantina Sociale “Cupertinum”, si terrà un incontro culturale animato da Docenti dell’Università del Salento, in ricorrenza del 75° anno d’uscita del giornale.

Durante la serata, tra gli interventi dei relatori, saranno letti articoli, poesie, aneddoti estratti dalle diverse edizioni.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (5/7): Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano

di Armando Polito

Maglie, il Municipio

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Maglie, la piazza
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Gallipoli. il borgo
Gallipoli, il ponte
Gallipoli, Il porto
Galatina, chiesa di S. Caterina
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Soleto, il campanile
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Copertino, Il castello
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Leverano, la torre di Federico
Immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?                                                                                                                                                  fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

La travagliata (ed anche comica) storia del monumento ai caduti di Copertino

di Pier Paolo Tarsi

La storia del monumento dedicato ai caduti copertinesi è incredibilmente travagliata e ricca di poco chiari impedimenti protrattesi per anni: per quel che ne traspare dai frammenti scrutabili, le vicende che portarono alla sua definitiva edificazione si colorano delle più varie sfumature di pathos, talvolta quelle comiche, proprie della migliore commedia all’italiana, talaltra quelle dell’acuta e pungente tensione.

Le interessanti fonti di natura giornalistica che illuminano fiocamente tali fatti aprono al contempo spiragli sui costumi, sulle dinamiche interne cittadine e, come vedremo, sulle rappresentazioni sociali di alcuni copertinesi proprie dell’arco di tempo che si interpone tra il 1919, anno in cui la costruzione del monumento viene promossa da un comitato cittadino, fino al 1925, quando ne viene finalmente celebrata l’inaugurazione. Come vedremo tuttavia, la storia del monumento ci trascinerà nell’indagine molto oltre quegli anni, addirittura fino alle soglie dei nostri giorni, riconducendoci ad una riflessione su noi stessi e alle nostre attuali responsabilità civiche.

Il primo brano giornalistico, pubblicato in data 13 aprile 1919 su “La Provincia di Lecce”, annuncia la genesi dell’intenzione progettuale di erigere il monumento, indica i promotori di quella che si rivelerà, come vedremo, una vera e propria impresa, e informa infine circa le prime modalità organizzative adottate per lo scopo:

«Un gruppo di militari copertinesi, recentemente tornati dalle aspre fatiche della guerra alle feconde opere di pace, ha pensato di onorare, con la erezione di un monumento, la memoria di quei concittadini che, con l’olocausto della propria vita, hanno scritto la gloria non peritura della nuova Italia. Certamente la cittadinanza darà in questa occasione una vibrante manifestazione di solidarietà e patriottismo, come segni di gratitudine per i suoi figli. Per domenica 13 corr. il Comitato promotore ha invitato tutti i militari congedati e congedandi a intervenire alle ore 17 nei locali dell’Associazione Democratica Popolare per prendere i relativi accordi»

Da quella domenica d’aprile, con un lungo percorso implicante autorizzazioni, delibere comunali, l’approvazione del Vescovo di Nardò (rilasciata in data 23 gennaio 1923) per lo spostamento dell’Osanna allora presente nella piazza prescelta, fino all’arrivo della statua monumentale, dovranno trascorrere più di quattro anni; sullo stesso giornale infatti, in data 30 settembre 1923, leggiamo:

«Fervono i lavori del Comitato pro-monumento ai Caduti, egregiamente presieduto dal dott. Cav. Antonio Pisacane. In questi giorni è arrivata la statua di bronzo che rappresenta un atletico soldato che con la spada in pugno difende la bandiera. L’opera è ispirata e magnifica e ne è autore il vostro valoroso giovane concittadino Raffaele Giurgola certamente destinato a luminoso avvenire»

Gli ulteriori dettagli forniti da questo articolo e che di seguito esporremo saranno clamorosamente smentiti dagli eventi successivi; a tali dettagli si accompagnano inoltre dei coloriti commenti del giornalista a proposito di alcune vicende che potrebbero costituire i primi segnali di preludio a un processo difficile e per certi versi comico che porterà alla più che tardiva inaugurazione del monumento.

«Il monumento – leggiamo – sarà inaugurato il 4 novembre prossimo con una solenne celebrazione di fede e con l’intervento di molte autorità, sorgerà in una vasta e magnifica piazza circondata di alberi e ricorderà agli immemori il sacrifico dei nostri soldati»

Così tuttavia non sarà: sullo stesso giornale, ma addirittura due anni dopo – precisamente il 24 maggio 1925! – un brevissimo, lapidario e arido comunicato ce ne dà conferma:

«Il Municipio ha fissato per oggi la cerimonia per l’inaugurazione del monumento, eretto a spese della cittadinanza, in memoria dei 165 caduti in guerra».

Cosa comportò dunque un così stupefacente ritardo e un così succinto e stanco annuncio finale delle effettive celebrazioni? Una pista per setacciare una plausibile risposta alla nostra curiosità potrebbe essere rinvenuta tra le vicende cui si alludeva prima ed esposte nel già citato pezzo del 30 settembre 1923, il medesimo che annunciava la data di inaugurazione solenne prevista per il 1923 e poi disattesa. Tra quelle righe, andando oltre quanto sopra riportato, leggiamo:

«Anche per questa opera alta e nobile che avrebbe dovuto far tacere tutti gli odi, sono stati i soliti quattro Catoni che hanno cercato di avvelenare la popolazione e hanno informato il Vescovo di Nardò, affermando che il monumento rappresenta un soldato…ignudo e che, quindi, è scandaloso. A parte che l’arte non può immiserirsi in certe grossolane considerazioni, i Catoni e i timorati possono tranquillizzarsi perché il drappo della bandiera sostituisce magnificamente la tradizionale…foglia di fico!!».

Potrebbero essere stati lo scandalo e le conseguenti polemiche dei “quattro Catoni” timorati cui alludeva il giornale già nel 1923 a suscitare un simile differimento di due anni per l’inaugurazione ufficiale? Così potremmo concludere, almeno se ci basiamo su quanto narrato dalle fonti qui usate e su ciò che da quelle se ne può inferire. Ad ogni modo, al di là dello stupore e del mormorio scandalizzato dei Catoni copertinesi dell’epoca, il giusto e simbolico riconoscimento al valore e alla memoria dei caduti fu infine inaugurato nella grande piazza alberata di Copertino.

Nemmeno con ciò, tuttavia, ebbero termine le travagliate vicende del monumento: negli anni del secondo conflitto mondiale la bronzea statua del Giurgola rischiò infatti di essere smantellata a causa delle requisizioni dei materiali metallici necessarie per lo sforzo bellico. Una lettera[1] del suo stesso artefice inviata al Podestà ci offre testimonianza del reale pericolo che la statua rientrasse nell’elenco degli oggetti in bronzo da destinare alla raccolta:

«Lecce, 19 novembre 1940 Al Sig. PODESTà. è a mia conoscenza che si chiedono informazioni ai Comuni sul peso dei bronzi dei Monumenti ai caduti, da cedere alla Patria. Quale progettista del Monumento ed esecutore della scultura in bronzo del medesimo in questo Comune, Vi prego di volermi tenere informato quando la statua deve essere smontata. Faccio presente che volendo servirei dello stesso modello per realizzare la riproduzione in marmo o in altra materia sarebbe necessario procedere al calco della statua prima di inviarla ai rottami. Ciò perché si realizzerebbe una grandissima economia nei raffronti della esecuzione della nuova opera, che dovrebbe sostituire quella rimossa. In attesa di un cenno di risposta Vi saluto cordialmente. Scultore Prof. Raffaele Giurgola»

Fortunatamente, solo la ringhiera in ferro che in origine circondava il monumento venne di fatto requisita ed il pericolo di una distruzione della statua fu effettivamente scongiurato dopo la comunicazione prefettizia del 12 ottobre 1941[2]:

«Si avverte che, per superiore disposizione, i monumenti in bronzo ai Caduti, o dedicati a personaggi di rilevante importanza storica, o comunque in particolare attaccamento alla popolazione, non devono essere per ora rimossi. […] Si avverte, infine, che nessuno dei monumenti stessi dovrà essere demolito se non quando la sostituzione sia pronta. Assicurante. Il Prefetto»

Dopo i tanti travagli di un storia dalle tinte varie qui brevemente ripercorsa, l’ormai quasi centenario monumento ai caduti copertinesi è giunto ai nostri giorni e, con esso, giunge a noi cittadini anche la piena responsabilità e il dovere della sua preservazione e cura a beneficio della memoria delle future generazioni. Al realistico timore che oggi l’incuria e l’indifferenza possano giungere con la loro portata annientatrice persino là dove le estreme ragioni della guerra non osarono, rispondiamo con queste pagine volte sia a far cogliere il complesso valore simbolico incarnato dal monumento consegnatoci con fatica dai nostri avi concittadini, sia a richiamare l’impellente necessità di un suo restauro, da realizzare – come ci auguriamo con questa pubblicazione, finalizzata anche al conseguimento di tale scopo concreto – nello spirito solidale e nella responsabilità collettiva che nel tempo hanno animato la comunità copertinese nel compiere condivisi e ben più ardui sforzi di questi.

 

[1] A. Raganato, “Atti di Pubblica amministrazione del Podestà a Copertino”, Università del Salento, a.a.2007-08, pp.56-7.

[2] Ibidem.

19/11/2018

Su segnalazione dell’Arch. Fabrizio Suppressa si integra il testo con alcune foto d’epoca sul monumento ai caduti di Copertino, tratte dal catalogo di una mostra fatta a cura della Pro Loco durante l’ultima festa di San Giuseppe. Lo stesso segnala inoltre che esisteva anche un’altra cancellata a Copertino rimossa durante il fascismo, che era quella che circondava le scuole di via Roma.

Ad ulteriore integrazione pubblichiamo altre foto gentilmente messe a disposizione da  Cosimo Tarantino:

Monumento ai caduti (1958)

Una solidale comunità: i copertinesi negli anni della Grande Guerra

di Pier Paolo Tarsi

Il gravoso tributo di vite e sacrifici versato dalla cittadinanza copertinese nel corso del primo conflitto mondiale si può intuire anche semplicemente dall’imponente numero dei soldati caduti. Nelle pagine che seguono proveremo tuttavia ad andare oltre quelle pur importanti cifre e i relativi avvenimenti militari, cercando di scorgere con l’ausilio delle fonti giornalistiche dell’epoca alcuni volti, le vicende personali e le imprese di quei copertinesi la cui vita fu drammaticamente segnata o spazzata via dal passaggio della grande storia. Questo pur succinto excursus nei fatti e nei protagonisti di quegli anni restituirà, come vedremo, lo spaccato immediato di una comunità altamente dignitosa, solidale e fraterna.

Il 13 Gennaio 1915, un mercoledì sera, i primi soldati copertinesi in partenza sfilarono in parata per le strade del paese, accompagnati da una partecipante folla di concittadini, parenti, amici e persone care che molti, purtroppo, non rivedranno mai più. Avevano tutti vent’anni, come si legge in un comunicato de “La Provincia di Lecce” pubblicato in data 15 gennaio:

«Mercoledì sera i soldati della classe 1895, che partiranno tra giorni, seguiti da una calca di popolo, improvvisarono una solenne manifestazione patriottica. L’assessore Salvatore Trono dalla balaustrata del Palazzo Municipale, disse poche parole inneggianti al valere della nostra armata e poi al Concerto Musicale con tutta la folla percorse le vie del paese tra entusiastiche acclamazioni. L’organizzatore principale della manifestazione, come sempre, il meccanico Vincenzo Raganato, infaticabile».

Quella prima partenza, accompagnata da un così vivace saluto, costituiva solo il preludio di una tragedia collettiva che da lì in poi avrebbe coinvolto per lunghi anni tanto coloro che in quei giorni e in seguito partirono, quanto coloro che restarono, sia gli uni che gli altri trascinati nel sacrificio comune dalla guerra. I tormenti della sorte di alcuni nostri concittadini si dovettero protrarre talmente a lungo che ancora il 2 marzo 1919 – a conflitto ormai da mesi terminato – sul quotidiano locale “La Provincia di Lecce” si pubblicavano comunicati come il seguente, “Per un soldato disperso”:

«Chiunque sappia notizie del soldato Cordella Rosario di Giovanni da Copertino del 115° fanteria 1. Comp. Prigioniero a Kriegsgefa u genenlager Ulm a. D. Germania è pregato di comunicarle alla nostra redazione. Tanto per quietare le ansie della famiglia».

impietosisce allora scoprire tra i documenti che quello stesso soldato, atteso con straziante ansia dalla propria famiglia, sarebbe morto proprio una settimana dopo quel disperato appello, esattamente il «9 marzo 1919, in prigionia per malattia».

La guerra che sconvolse il mondo intero chiamò dunque a raccolta diverse generazioni di copertinesi, intendendo con ciò non solo centinaia di combattenti – tra i quali molti seppero distinguersi con atti d’eroico valore – ma anche i tanti civili che si mobilitarono verso gli avamposti per servire la patria o che, restando in paese, offrirono da lì il contributo della loro preziosa opera. Sempre ne “La Provincia di Lecce” del 2 aprile 1916 leggiamo ad esempio che in quei giorni:

«[…] partirono per il medio e basso Isonzo circa cento operai copertinesi, che saranno adibiti a lavori d’indole militare. Nei luoghi del pericolo e della lotta […] sono corsi ad offrire anch’essi il contributo alla causa della Patria […]».

Su questi manovali inviati nelle zone di guerra non ci è purtroppo dato sapere molto altro, se non la notizia della morte di uno di loro. Più informazioni riusciamo invece a trarre dalle pagine dei giornali su quei concittadini che, instancabilmente, dalle strade del proprio paese contribuirono con sforzi quotidiani, slanci generosi e con impegno sociale al sostegno di quanti erano partiti e dei loro familiari. Animati da un profondo spirito di solidarietà e organizzati ad esempio intorno ad un “Comitato di Assistenza Civile” presieduto dall’avv. Francesco Giove, molti si adoperarono nell’attività di supporto per i nostri soldati. In data 19 novembre 1916 “La provincia di Lecce” informava che tale Comitato aveva deliberato «di abbonare alla Croce Rossa di Roma tre prigionieri al pane mensile che la nobile istituzione si obbliga di spedire dietro pagamento di L. 7.50 per ogni mese». I componenti si dichiaravano inoltre «[…] oltremodo lieti che questa forma di assistenza da noi propugnata nel giornale, cominci a farsi strada e dare i suoi benefici effetti», augurandosi «che l’esempio del Comitato Civile di Copertino, sia largamente imitato dai Comitati della provincia». Gli stessi copertinesi, esempio e sprone all’impegno sociale per la provincia intera, informavano infine nella medesima pagina «che parecchi altri cittadini hanno sottoscritto la loro quota che pagheranno ogni mese durante il periodo di guerra, e ci proponiamo […] di pubblicare i nomi di quanti hanno assunto il nobile impegno […]». Di fatto, solo alcuni giorni dopo, in data 3 dicembre 1916, sullo stesso giornale fu pubblicato un lungo elenco di nominativi di donatori e le relative offerte, il tutto preceduto dalle seguenti parole:

«Assolvendo una promessa fatta in una precedente corrispondenza, pubblichiamo un primo elenco, fornitoci dal solerte segretario del Comitato sig. Ferdinando Galbiati, di quanti hanno sottoscritto in favore dell’Assistenza Civile, lieti se potremo rubare molte altre volta ancora un po’ di spazio al giornale per consimili registrazioni».

Tali esempi mettono in luce la motivata partecipazione di una comunità operosa e impegnata in un sinergico sforzo condiviso di piena solidarietà per i propri uomini. Da un simile sfondo collettivo, possiamo talvolta provare a distinguere alcuni profili individuali, tratteggiandone fiocamente i contorni, intuendone le umane virtù o saggiandone il valore dei sacrifici personali compiuti. Così, semplicemente incrociando gli aridi dati a disposizione di chi voglia scrutare nelle tracce di quei frammenti del passato, possiamo talvolta riuscire a vivificarli, restituendo un nome, un volto o il calore di una storia vissuta all’umanità che è velata dalle cifre e dai freddi elenchi. Ad un simile sguardo non può allora sfuggire che, per citare un esempio, in quell’elenco di solidali benefattori sopra riportato compare un nome che ritroviamo anche in un più funereo e mesto elenco, quello dei nomi dei caduti: Luigi Moschettini. Da simili intrecci tra i residui della storia, riemerge allora da sé l’altezza d’animo di un giovane copertinese, figlio unico di una benestante famiglia dell’epoca, il quale non offrì solo il dono del proprio sostegno materiale alla sua gente, ma, come altri suoi valorosi coetanei, il sacrificio della sua stessa vita. All’appello delle armi, del resto, altri cittadini illustri dell’epoca non esitarono a rispondere, a partire dal prosindaco, destinato al fronte per circa quindici mesi; in un pezzo datato 13 giugno 1915, pubblicato sull’ormai consueto quotidiano, così veniva data notizia della sua partenza:

«Mercoledì scorso, salutato dai familiari e da pochi intimi amici, partì per il fronte, col grado di tenente medico, il dott. Tito De Martino, nostro prosindaco, destinato ad un ospedale da campo».

Di ogni ceto sociale ed età, sia uomini che donne, persone note oppure umilmente nascoste sotto la coltre difficilmente rimovibile del loro anonimato che non ne scalfisce il valore ma, al contrario, lo esalta, gran parte dei copertinesi furono dunque sottoposti alle medesime durezze e ai tremendi sacrifici cui la guerra chiamava. Provando a esplorare leggermente al di sotto di quel velo d’anonimato è in qualche caso possibile svelare altri interessanti profili umani meno noti ma non per questo meno valorosi e operosi nel sostegno della propria comunità. Ci riferiamo ad esempio alla commovente figura di Antonio Trono. Questi non era che un semplice impiegato municipale al quale la guerra aveva strappato via l’unico figlio, il giovane Trono Umberto Amedeo, classe 1896, disperso già nel 24 luglio 1915 sul Monte San Michele durante un combattimento. Antonio, nonostante la profonda ferita subita, dimostrò un’indefessa dedizione al proprio lavoro e al servizio della comunità, svolgendo, oltre ai compiti professionali spettanti e legati all’ordinaria amministrazione, un’ulteriore opera a sostegno delle vedove dei militari caduti per le quali, da solo, si curò di procurare le pensioni. La cittadinanza non mancò di esprimergli un breve ma sentito elogio attraverso la penna del giornalista Pantaleo Verdesca che il 3 dicembre 1916 firmava le seguenti parole su “La Provincia di Lecce”:

«Le varie chiamate alle armi, le concessioni dei soccorsi giornalieri, le innumerevoli informazioni richieste e date alle autorità militari nell’interesse delle famiglie dei richiamati, ha gravato questo ufficio comunale di un lavoro enorme e delicatissimo. Tuttavia nonostante tutto questo, non solo non si sono trascurati gli altri rami di amministrazione, ma con una encomiabile speditezza si è dato corso a ben 37 pratiche di pensione […] Noi sentiamo il dovere di esprimere una parola di vivissimo elogio all’impiegato sig. Antonio Trono, che da solo, si occupa di quanto concerne servizio militare e pratiche pensioni, senza tralasciare gli altri delicati rami assegnatagli dall’Amministrazione Comunale, che ha riposto in lui una grandissima fiducia meritata».

Ciò che quell’elogio omette è la particolare condizione esistenziale in cui quell’uomo, privato dell’unico figlio come evidenziato, si dovette prodigare così intensamente per il soccorso delle famiglie colpite dal lutto: simili elementi aggiuntivi costituiscono, crediamo, preziosi dettagli in grado di restituire le tonalità originarie ai volti sbiaditi di quanti, come il nostro impiegato, nel silenzio operoso del proprio anonimato furono i tanti valorosi seppur invisibili eroi della comunità copertinese in quei terribili anni.

Copertino. Cronache cittadine del secondo Novecento

CRONACHE CITTADINE DEL SECONDO NOVECENTO. STORIA DI UNA STATUA CHE NON C’E’ PIU’

La statua della Madonna di Fatima quand’era sul campanile della Chiesa del Rosario

 

di Luigi Marcelli

All’indomani della rimozione della statua, ormai corrosa e parzialmente crollata, della Madonna di Fatima dal campanile della Chiesa del Rosario, raccolsi il disorientamento di un caro amico che mi chiedeva accorato se avrebbero provveduto ad una sua solerte sostituzione. E aggiungeva: “Ogni mattina, al risveglio, aprivo la finestra e La vedevo di fronte. Le rivolgevo il mio pensiero e sentivo di poter affrontare fiducioso gli impegni della giornata” . Rimasi commosso dalla sua schietta devozione, tanto più perché sapevo che la statua della Madonna non sarebbe più tornata a far bella mostra di sé sul campanile con le braccia e le mani in atto di proteggere la città, sia per insuperabili problemi statici e sia per il parere contrario della Sovrintendenza ai Monumenti.

Il mio amico, dott. Rolli, ha raccolto, su questa statua, delle notizie come al solito dettagliate, che propongo agli amici di facebook.

Nella notte fra domenica 28 e lunedì 29 febbr. 2016, un forte vento abbatteva parte della statua della Madonna che sormontava il campanile della Chiesa del Rosario. L’ora tarda evitava che i grossi frammenti, caduti sul sagrato della Chiesa, provocassero danni a persone e cose. Quella statua (Ovvero quello che rimaneva di essa), che per cinquantacinque anni aveva svettato sul campanile della Chiesa, dovette essere tempestivamente rimossa nella stessa giornata del 29 febbr. Per motivi di pubblica incolumità.

Il campanile con la statua della Madonna

 

LA STORIA – Quando, alla fine del 1959, venne completato il campanile, costruito “a spese” del vecchio Calvario, tipo tempio greco, del 1931, sorse l’idea di issare sulla sua sommità una statua mariana a religiosa protezione della città e dei suoi abitanti. Angelo Martina (Angelo “Francese”) che aveva sostenuto le spese per l’erezione del campanile, si offrì di assumersi anche l’onere economico della scultura della statua. L’incarico venne affidato allo scultore leccese Prof. Oronzo Castelluccio (Lecce 1931-2007).
La statua, che rappresentava la Madonna di Fatima, era in terracotta smaltata color bianco avorio ed ebbe il costo di 250.000 lire. Scomposta in diversi pezzi, giunse in parrocchia l’11 febbr. 1961 e i lavori di sistemazione sul campanile terminarono il 15 apr. 1961. La crimonia di benedizione ebbe luogo il 21 maggio 1961, Domenica di Pentecoste, e Padrino e Madrina dell’inaugurazione furono il Prof. Francesco Renis e la consorte Sig.ra Candia Pugliese.

21 maggio 1961 – Cerimonia della benedizione della statua

 

PICCOLA CURIOSITA’ COLLEGATA – Quando nel 1960 si diffuse per Copertino l’idea del progetto di collocare una statua della Madonna sul campanile del Rosario, l’editore di cartoline illustrate Martina (Rivendita tabacchi n. 4 di Via Roma) dovendo, proprio nel ’60, editare una nuova serie di cartoline, volle anticipare i tempi e per rendere più verosimile l’illustrazione fece stampare una cartolina di Via Vittorio Emanuele in cui si vede il campanile con sopra una finta statua di dimensioni decisamente fuori proporzione.

Il campanile come appare oggi senza la statua

 

L’illustrata del 1960 con una finta statua palesemente sproporzionata

 

Dimore storiche a Copertino. Palazzo Venturi

di Giovanni Greco

Il 500esco palazzo, disposto su due piani, si sviluppa ad angolo tra le attuali vie Margherita di Savoia e I° Maggio. Appartenne alla famiglia dè Ventura, poi Ventura e infine Venturi, stabilitasi a Copertino da Salerno, nel XIV secolo, con Raguzio dè Ventura. All’origine si estendeva su circa 450 mq ed era tra le più eleganti dimore rinascimentali della città.

Riscontri in tal senso sono visibili sul lato sud a primo piano dove si intravedono tracce di beccatelli (tagliati) e alcuni estradossi (tagliati) che incorniciavano due finestre e la porta d’ingresso al palazzo, al quale si accedeva attraverso uno scalone che principia nel cortile interno.

Un ingresso di servizio si trovava in vico del Crocifisso (via S. Palma), preceduto da una cappella interamente affrescata, scorporata dal palazzo negli anni ‘90 e trasformata in centrale termica a servizio del cinema Centrale.

Tornando in via I° maggio troviamo un elegante loggiato costituito da una bifora. Su una architrave delle due finestre si legge ancora una parziale iscrizione umanistico-barocca: “Attende tibi et latra…” .

Altre iscrizioni sono disseminate su architravi interne del palazzo. Tra cui quella situata in un sottoscala che recita “Deus in nomine tuo” (In nome di Dio), probabile accesso ad una cappella privata.

cortile interno

 

All’origine, la copertura del palazzo era a tegole sorrette da capriate. Poi, nel XVIII sec. diversi vani furono voltati a botte con lunette poggianti su eleganti peducci rinascimentali. Gli ambienti a primo piano erano riservati ai proprietari mentre i locali a pianterreno, dove erano ubicati un forno per cuocere il pane, un pagliaio, le stalle e le cucine vi dimorava la servitù.

Altro intervento di epoca 700esca fu la creazione dell’artistico portale decorato a stucco, sovrapposto al precedente che era più ampio e a pianta semicircolare.

stemma della famiglia Venturi

 

Consolidata la posizione economico-finanziaria sul finire dell’800 i Venturi abbandonarono questo palazzo e acquistarono quello in piazza del Popolo di proprietà dei Cosma, presso il quale avviarono il primo istituto di credito cittadino.

Da allora, per la storica dimora ha inizio il declino. I coloni che lo abitarono unitamente agli affittavoli ai quali erano stati concessi i locali a piano terra, ne accelerarono la decadenza. Tant’è che, nel dopoguerra, per agevolare il transito dei carri carichi di concimi l’attuale portale d’ingresso fu scriteriatamente allargato. L’area adiacente, in direzione sud-est dove esisteva un ampio agrumeto, nel 1949 fu utilizzata dal trio Venturi-Del Prete-Verdesca per costruirvi il cinema Centrale.

Per la valorizzazione della storica dimora bisognerà attendere il 4 settembre 1946 quando, con atto di notar Francesco Buonerba, fu acquistata per la simbolica cifra di 100 lire dalla parrocchia S. Maria ad Nives che ne fece un centro di formazione morale e religiosa.

La cappella di S. Maria di Costantinopoli nel centro storico di Copertino

BAROCCO NASCOSTO: LA CAPPELLA DI S. MARIA DI COSTANTINOPOLI

 

testi e foto di Giovanni Greco

Solitamente esclusa dal tradizionale itinerario turistico la cappella di S. Maria di Costantinopoli, detta anche dell’Iconella per la presenza di una piccola icona della Vergine col Bambino di epoca 500esca, costituisce uno dei numerosi esempi di spiritualità mariana presenti in Copertino.
La cappella, attualmente tra le proprietà della famiglia Galbiati, è a pianta rettangolare.
Secondo l’epigrafe collocata nella parte superiore della facciata, fu realizzata nel 1576 durante il sindacato di Scipione de Ventura con il contributo spontaneo dei copertinesi sei anni dopo la memorabile sconfitta dei Turchi a Lepanto (1571), in segno di gratitudine verso l’intercessione della Vergine invocata dalla flotta pontificia.
Sorge al centro dell’antico nucleo bizantino di Copertino, a ridosso del castello intorno al quale si sviluppò il primo impianto urbano della città.
Il prospetto è animato da un portale sormontato da un rosone e, alla sommità, da un campanile a vela di epoca 700esca.
La volta ottagonale è stata dipinta a tempera nel 1645, come risulta dal millesimo riportato all’interno poco sopra il rosone, da un artista dotato di buona esperienza e commissionata dalla famiglia Mongiò dell’elefante, entratane in possesso 69 anni dopo l’edificazione.
Le pareti interne sono pressoché spoglie. In quella centrale è presente un modesto altare al centro del quale campeggia il tondo che racchiude l’affresco della Vergine. Ai lati, due ovali al cui interno sono dipinti a tempera due composizioni floreali di pessima fattura.

Quasi certamente all’origine contenevano due dipinti sacri poi asportati. Il paliotto, invece, è decorato da una tela tardo 800esca raffigurante il Cristo morto.
La volta è un tripudio di angeli (ben 37 in tutto), che insieme a decorazioni in forma di foglie di acanto circoscrivono l’arma del committente e le raffigurazioni sacre. Chiaro esempio di arte barocca che allude allo spazio infinito e alla natura-spettacolo.

La SS. Trinità

Nella sezione centrale la Trinità corredata alla base di un lungo cartiglio parzialmente leggibile.
Un’altra sezione della volta è dedicata all’estasi di San Francesco confortato da un angelo musicante, esemplato su un dipinto di Guido Reni del 1605 presso la Pinacoteca di Bologna. In alto campeggia un ovale in cui è raffigurato l’Angelo custode. La lettura, o perlomeno ciò che resta di un cartiglio alla base sinistra potrebbe svelare l’autore delle decorazioni.
Non meno suggestiva è la raffigurazione del “Riposo durante la fuga in Egitto” il cui refrigerio l’autore lo contestualizza ai piedi di un albero di corbezzoli a cui sembra attingere il canuto S. Giuseppe.

San Girolamo

 

Altro riquadro è quello dedicato a S. Girolamo penitente in cui sono presenti tutti gli elementi della tradizionale iconografia di questo dottore della Chiesa. In alto l’arma dei Mongò. Sorprende, inoltre, l’immagine di S.Lucia racchiusa in un ottagono che rimanda all’impianto della cappella, al pari della raffigurazione del “Riposo”. Un’auspicabile analisi ravvicinata del dipinto consentirebbe di stabilire se sia coevo alla costruzione dell’edificio o perlomeno antecedente alle decorazioni del 1645.


Infine, lo stemma dei Mongiò dell’elefante con la torre, famiglia giunta nel Salento al seguito degli angioini alla fine del XIV sec. e divisa in due rami nel XVI sec. nei Mongiò del giglio e dell’elefante, appunto.

stemma dei Mongiò dell’Elefante
Il Cristo morto sul paliotto dell’altare

Copertino. Alcune vicende intorno alla colonna di S. Sebastiano

copertino

di Giovanni Greco

A distanza di trent’anni dall’abbattimento della porta del Malassiso, Giovanni Nicolaci (fratello uterino di Giuseppe Trono che insieme ad altri aveva acquistato e poi abbattuto il convento di San Francesco intra moenia), avanzò al Comune la richiesta di voler costruire a proprie spese una colonna per ricollocarvi la statua di San Sebastiano, attribuita allo scultore copertinese, Ambrogio Martinelli, originariamente situata sulla sommità della porta omonima e parcheggiata nel frattempo nella chiesa dei Domenicani. Accertato che la colonna, tre metri di base e dieci di altezza non avrebbe creato intralcio alla circolazione, sul finire del 1924 il Comune deliberò a favore della costruzione.

Ma l’iniziativa divenne subito oggetto di scontro fra la popolazione locale che si divise tra favorevoli e contrari.

Il 27 febbraio 1925, a lavori già iniziati, un gruppo di copertinesi inviò al prefetto di Lecce una vibrante protesta. Ne riportiamo uno stralcio. “Trent’anni e più or sono si sentì la necessità di abbattere la porta di S. Sebastiano (Malassiso). Fu un respiro per questa nostra cittadinanza che di giorno in giorno si estendeva specie al di là della porta suddetta […] Ad opera di un ricco ignorante si è voluto costruire una colonna in cemento armato per collocarvi la statua di S. Sebastiano […]. I lavori sono iniziati. V. S. Ill.ma non può immaginare lo sconcio che è per verificarsi […] volendo innalzare un mausoleo cosi ingombrante. Eppure vi è la piazza in uno dei lati della stessa non verrebbe nessun fastidio […]. Dove ora si cerca di piantarla non solo storpia e deturpa una via, ma è fonte di grave pericolo per i veicoli di qualsiasi genere”.

Quindi, invocano l’intervento delle autorità locali, della prefettura e del Genio civile. Dal canto loro i sostenitori dell’iniziativa, venuti a conoscenza della protesta passarono al contrattacco e in 219 sottoscrissero la loro accorata lettera al prefetto affermando che “non vi è altro posto più adatto del prescelto per speciale ubicazione del paese, storia, tradizioni, volontà e concorso di popolo. L’asserzione che possa nuocere al transito è ridicola perché la colonna avrà d’ambo i lati strade di metri 6.60 ciascuna”.

Il prefetto, dopo aver assunte informazioni dal sindaco, stabilì di inviare un ingegnere del Genio Civile il quale, al termine dell’apposita perizia affermò che la struttura era tecnicamente solida, che non vi sarebbe stato alcun pericolo per la incolumità pubblica e che il traffico non ne avrebbe sofferto. La querelle era chiusa. I lavori potevano completarsi.

Il mese di luglio del 1925 sulla colonna, ingabbiata da una fitta impalcatura di legno, con l’ausilio di funi e carrucole venne issata la statua di S. Sebastiano. Per ricordare ai posteri il suo gesto il filantropo Nicolaci fece incidere la seguente epigrafe:

A/San Sebastiano/Giovanni Nicolaci/esaudendo fervido voto di popolo/questo monumento/eresse/a.d. MCMXXV.

Il teologo Maritati di Copertino

copertino-aerea

di Giovanni Greco

 

Percorrendo via Matteotti, nel centro storico di Copertino, si incrocia via Teologo Maritati. Mi sono sempre chiesto perché di questo studioso di teologia si scelse di omettere il nome. Forse perché fu talmente famoso che bastò ricordarlo ai posteri con il solo titolo accademico. E poiché queste figure operano normalmente nelle università, in seminari o scuole pubbliche ho pensato che di lui potessero esserci anche delle pubblicazioni. Le ho cercate, per quanto mi è stato possibile, ma la ricerca è risultata finora infruttuosa.

Non rimaneva che guardare in altre direzioni per saperne di più su questo copertinese che si guadagnò l’onore della toponomastica cittadina. Il suo nome era Vincenzo Maria e fu il quarto di cinque fratelli, figlio del notaio Lazzaro Domenico e di Serafina Margarito, entrambi originari di Nardò.

Nel 1740 la coppia si trasferì a Copertino dove il notaio rogò fino al 1777. Dal loro matrimonio nacque Giuseppe Tommaso Leonardo che fu battezzato per procura l’11marzo 1758 nella chiesa Matrice di Copertino dall’abate Felice Cicala di Nardò. A somministrare il battesimo fu l’arciprete Cataldi.

Il 30 gennaio 1761 nacque Elisabetta Francesca Salesia Marina e il 13 novembre di due anni dopo venne alla luce, Francesco Saverio Leonardo. Il 31 luglio, don Pietrangelo Tumolo battezzo il Nostro. Padrini furono il reverendo don Giuseppe Margarito, rappresentato per procura dall’abate Salvatore Del Prete di Nardò, giusto atto notarile di Tommaso Trotta del 30 luglio. Il 5 marzo 1770, infine, nacque il quinto fratello, Oronzo Maria. Vincenzo Maria Maritati, fu sacerdote e teologo.

Dal 1° dicembre 1812, all’età di 46 anni, fu il secondo arciprete regio della Collegiata di Copertino, carica che conservò fino alla morte sopraggiunta all’età di 73 anni il 16 febbraio 1839. Fu autore di una lunga serie di “Stati di Anime” di Copertino, dal 1823 al 1830, ricca di puntuali annotazioni sul movimento migratorio del paese e sulle “condizioni civili” della popolazione.

Di questi censimenti (otto anni in tutto), oggi non resta che qualche prospetto conservato presso l’archivio della Curia vescovile di Nardò.

Copertino: una mancata veduta settecentesca

di Armando Polito

Chiunque sfogli, come ho fatto io, il testo (integralmente consultabile in https://books.google.it/books?id=DYil3DWkU2oC&printsec=frontcover&dq=editions:T30UfxWID0IC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjB7syu8aTOAhWFVhoKHYZIBFYQ6AEIHDAA#v=onepage&q&f=false) del quale riporto di seguito il frontespizio

s’imbatterà proprio all’inizIo (p. III) nell’unica immagine che correda il testo e che di seguito riproduco.

Considerando il titolo dell’opera uno pensa immediatamente ad una rappresentazione, per quanto approssimata, di Copertino. Ma dopo la fabbrica fortificata in primo piano e sul suo lembo sinistro quella specie di minareto, che potrebbero pure starci, inevitabilmente l’occhio coglie nella restante parte un paesaggio che presenta connotati ben diversi dal nostro.

Come il lettore avrà notato, il frontespizio non reca né data né editore né luogo di edizione, ma la penultima riga di p. XCII consente di dare una datazione, se non all’edizione, almeno alla scrittura della difesa.


Giacinto Dragonetti (L’Aquila 1738-Napoli 1818) fu un famoso avvocato fiscalista. Entrato in magistratura negli anni 8o del XIX secolo (quindi dopo la stesura di questa difesa), nel 1792n ricoprì la carica di magistrato della Monarchia di Sicilia, carica inferiore solo a quella di vicerè. Nel 1798, rientrato a Napoli, fu prima consigliere della Regia Camera della Sommaria e poi presidente della Gran Corte della Vicaria. Di seguito il suo ritratto tratto da Alfonso Dragonetti (suo nipote), Le vite degli illustri aquilani, Perchiazzi, L’Aquila, 1847.

A questo punto mi pare abbastanza probabile che l’immagine si riferisca a L’aquila (ma potrebbe essere di pura fantasia), che cioè nella scelta (se pure fu lui a farla) Giacinto si sia lasciato trascinare dall’amore per la terra natia. Probabilmente nulla sarebbe cambiato, per un intersecarsi di genealogie, nemmeno se fosse vissuto dopo, quando, cioè, Laura de Torres (morta nel 1838) sposò il marchese Giulio Dragonetti e quando, in seguito al matrimonio fra Francesco de Torres (1808-1881) e Luisa Sanseverino (1707-1869) quest’ultima portò il titolo di duchessa di Seclì, che, com’è noto, dista 20 km. circa da Copertino. Credo che nemmeno questo, se per assurdo si fosse verificato, sarebbe stato sufficiente per evocare in Giacinto la Terra d’Otranto ed indurlo a scegliere un’immagine della città della cui chiesa, pure, aveva scritto la difesa.

Santa Maria di Casole a Copertino e le sue Sibille

copertina sibille

L’ultima fatica della Fondazione Terra d’Otranto riguarda Copertino e il suo convento di Santa Maria di Casole, che ospita nella sua navata sinistra un ciclo completo delle 12 Sibille, come in nessun altro luogo della provincia e forse della Puglia.

Edizione in tiratura limitata, non in commercio, riservata ai soci e alle biblioteche, brossura, formato A/4, 324 pagine, con centinaia di illustrazioni di Sibille nella storia dell’arte.

 

il convento di Casole a Copertino
il convento di Casole a Copertino

 

Dal capitolo II del volume:

La storia di Casole[i] è lunga e travagliata e la leggenda vuole che essa sia stata fatta edificare e donata ai monaci basiliani dalla gente del posto. La conquista normanna rase al suolo l’abitato e parte del convento rispettando solo la chiesa; e qui c’è un buco di quattro secoli, cioè dalla partenza dei basiliani fino al passaggio ai francescani al principio del secolo XVI. È legittimo supporre che poco prima la chiesa e il convento fossero stati completamente rifatti dalla munificenza della famiglia Castriota. Alla fine del XVI secolo Casole passò ai frati riformati che dal 1622 apportarono trasformazioni radicali anche all’interno del tempio. Altri cambiamenti si susseguirono nel corso del secolo successivo finché, con la soppressione del 1812, iniziò l’abbandono[ii].

La valenza culturale del convento, per quanto non in grado di competere con quella dell’omonimo otrantino è testimoniata dalla presenza di testi di rilievo, alcuni dei quali, poi, confluirono nella Biblioteca Vergari di Nardò, con annotazione della provenienza[iii]. Di alcuni di loro si tratterà in apposito capitolo.

Nel passare alle Sibille ci pare doveroso e corretto sottolineare che il nostro intento è solo documentario, per cui non ci avventureremo in tentativi di comparazione, tanto meno con lo scopo di far emergere per questo ciclo (che, comunque, ci sembra da collocare nella temperie barocca[iv]) un pregio artistico improbabile (sarà per questo che in nessun testo riguardante la chiesa non compare nemmeno un cenno a questo ciclo di pitture?[v]) non solo per lo scadente stato di conservazione che in Italia, purtroppo, costituisce in molti casi un alibi per riservare a queste testimonianze del passato la considerazione di solito riservata, questa volta giustamente, alle croste riconosciute come tali.

una delle Sibille in S. Maria di Casole
una delle Sibille in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole

 

Le nostre Sibille sono ubicate nella navata sinistra e ne sono visibili dieci.

Delle quattro raffigurate negli spicchi della volta solo due, cioè la Samia e l ‘Eritrea, sono visibili, delle rimanenti (sicuramente, per esclusione, la Libica e la Persica) sono leggibili pochissimi lacerti, insufficienti, comunque, ad identificarle singolarmente.

In totale, dunque, dodici: un hapax di sopravvivenza per il Salento, per il deterioramento subito dalla presumibile rappresentazione del tema nelle testimonianze pittoriche oggi solo parzialmente leggibili in altre fabbriche (per esempio: nella cappella dei Tolomei nel convento di Santa Maria la Nova a Racale e nella cappella di Santa Caterina dei Francescani Neri a Specchia[vi].

Sibilla Delfica a Specchia (ph Stefano Cortese)
Sibilla Delfica a Specchia (ph Stefano Cortese)

Non è da escludere l’esistenza, in passato, di cicli completi andati poi in parte o totalmente perduti. Quella di Casole rimane, comunque, una testimonianza in comune con non molti altri esempi, tra cui spicca quello della chiesa di S. Bernardino (XVI secolo) a Lallio, in provincia di Bergamo, quello della chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi in provincia di Salerno e, su un supporto diverso, quello del santuario della Madonna del Castello nel comune di Almenno San Salvatore, sempre in provincia di Bergamo.di capitolo IV), per cui la lacuna va integrata con e virgine absque umana corruptione (da una vergine senza umana corruzione).

 

 

Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole
Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole

 

sibille

[i] Ci permettiamo di correggere un’imprecisione del bel saggio di Cosimo Franco, Santa Maria di Casole tra storia di ieri e cronache di oggi, Edi/Storia 3, Copertino, 2011, dove a pag. 66 si legge parola greca che significa Casupole; in realtà casulae, con lo stesso significato, è parola tutta latina, diminutivo di casa. il greco κάσα di Ateneo, scrittore di meccanica militare del III-II secolo a. C., è lezione dubbia. Comunque, anche se non lo fosse stato, nulla sarebbe cambiato, perché il suffisso diminutivo di casulae è tipicamente latino (cfr. arèola=cortiletto, diminutivo di àrea=spazio libero senza edifici; cùpula=cupola, diminutivo di cupa=botte, etc. etc.).

[ii] Per un dettagliato e documentato excursus sulle vicende storiche della Chiesa e dell’annesso convento vedi F. B. Perrone, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Congedo, Galatina, 1981-1982, vol. I, pagg. 83-110 e Cosimo Franco, Santa Maria di Casole…, op. cit.

[iii] Nell’archivio della Basilica Collegiata di Copertino Santa Maria ad nives è custodito un inventario, comprendente anche i libri (326 volumi) , redatto il 18 dicembre 1818 nel corso della soppressione del convento; l’inventario è stato pubblicato da Cosimo Franco, Santa Maria di Casole…, op. cit., pagg. 251-259.

[iv] Tutte le pitture del tempio furono già ascritte dal De Giorgi al XVII secolo (C. De Giorgi, La provincia di Lecce, II, Spacciante, Lecce, 1884, pag. 333).

[v] Nemmeno nel saggio di G. Palumbo, Santa Maria di Casole presso Copertino, in Arte cristiana, t. XLVII (n. 7 e 8, luglio-agosto 1959) pagg. 143-147.

[vi] Si ringrazia Stefano Cortese per la segnalazione della loro presenza nelle due fabbriche e per le foto, sue, gentilmente concesseci.

sibille

sibille

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sibille

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Ci pensa alla gente campa miseru e pizzente!

mugnaio_asino_fontaine

di Vincenzo Mariano

Or mi ricordo e vi racconto. La provenienza? Boh… Forse una lettura alle elementari o nu cuntu ti lu zi Totò da me fantasiatu.
Quella mattina si erano alzati presto padre, figlio e puru lu ciucciu. Lu jaddru non aveva fattu ncora lu sua dovere e iddri stìanu già alla distilleria.
La giornata fu lunga da passare: li fae a ncufanare e poi a spuntare, li fiche a putare e poi li sarmente pi li spicaluri.

Tutto fatto. “Giusta lu ciucciu ca turnamu a casa”, tisse lu sire a lu figghiu.
Il timido sole diceva che era già passata menzatìa quannu giùnsera alla distilleria.

Su lu purtone, cu lu sicaru curtu, lu Ntoni li edde e disse:

– iti e biti, lu poru ciucciu, no sulu li sarmente, ma puru iddri a ncaddru. Ah sorta sua!

Il padre, sentito, scese dall’asino e così fece fare al figlio. Prese lu fascettu ti sarmente sulla spalla e si avviarono. Lu castieddru ncora no parìa quannu li edde la Consulata ti li passaricchi, che alla scena, così reagì:

– lu munnu s’à firmatu, comu! iddri a mpete e cu li sarmente a ncueddru e lu ciucciu a passeggiu? Fanne salire almenu lu frusculieddru. Mah, ah sorta loru.

Fu sotta a la fica ti li Capuccini che il padre fece salire il figlio sull’asino e così, con lui a piedi, andettero.
Lu firraru faceva sentire il martello sull’incudine e più forte la sua voce:

– a cosa si assiste, lu figghiu a ncaddru e lu sire a mpete e puru cu li sarmente. E lu rispettu? S’à persu!

Rriati alla porta ti San Giuseppu, il padre fece scendere il figlio, ni tese a manu la corda ti lu ciucciu e lui si accomodò ngroppa cu tutte li sarmente. Superata la porta, ma no castieddru, fu na Trisicchiula che rivolta a na Carcaluru strulicàu:

– quiddri sta bèninu ti la fica paccia, lu figghiu a mpete e lu sire a ncaddru. Mmara a lu figghiu ci tene nu tristu patri.

Alla funtana ti castieddru, lu Filiciettu, che sarebbi statu lu patri, pigghiàu lu pane ti la sacchittola, lu mmuddrau e cu la muddrica fece quattru palle. Toi a li recchie ti lu figghiu e doi a li sua. Salira su llu ciucciu e caminara. Quannu girara pi la chiesa rande, no sintianu mancu li zzòcculi ti lu ciucciu sobbra a li chianche. Silenziu assolutu.
Videra nu Scaculi gesticolare, ma non sentendolo, proseguirono sereni fino a lu palazzu ti don Ronzu, dove nelle vicinanze insisteva la staddra e fu subito casa, fu famiglia e fu riposo.

 

Copertino a tutela dell’ambiente

Amianto

La raccolta fondi cittadini per l’acquisto di telecamere mobili contro l’abbandono dei rifiuti nelle periferie non decolla? Basta non arrendersi! I copertinesi che ci tengono alla tutela dell’ambiente rilanciano infatti con determinazione, presentando nuove iniziative per incentivare la raccolta anche nel mese di marzo! Un rapido resoconto: finora sono stati raccolti 1360 euro dei 4600 necessari all’acquisto delle telecamere.

campagna salentina (ph Fondazione TdO)

Mancano dunque ancora 3240 euro all’obiettivo ambito dai cittadini coinvolti, semplici copertinesi accomunati da una iniziativa che, sebbene avanzata da alcuni attivisti 5 Stelle, non ha e non vuole avere connotazioni politiche. Si tratta infatti di una inziativa aperta alla partecipazione di tutti, volta com’è alla tutela di un ambiente sano e pulito che avvantaggia semplicemente tutti, senza distinzioni di sorta. Le idee e la voglia comune di molti cittadini di raggiungere presto l’obiettivo non mancano. Ne è un esempio l’iniziativa spontanea del dottor Alessandro Calcagnile, noto cardiologo copertinese, il quale, proprio a sostegno della raccolta fondi, si propone alla cittadinanza tutta offrendo una sua visita gratuita per tutta la giornata di domenica 12 marzo, a partire dalle ore 9:00, in via Campania n° 3 a Copertino, presso la propria abitazione.

Il dr. Calcagnile effettuerà un controllo cardiologico, una visita più un elettrocardiogramma, in cambio solo di un libero contributo (anche di un solo euro!) da destinare ai salvadanai cittadini per le telecamere.

Per prenotare la propria visita basta chiamare al numero 3282168921.

Altri cittadini inoltre piazzeranno 15 nuovi salvadanai in nuovi punti di Copertino (bar, farmacie, attività commerciali ecc). Per non favorire alcuna attività, si è lasciata ai titolari di pubblici esercizi che volessero partecipare massima libertà di farsi avanti per accogliere un salvadanaio a disposizione della propria clientela. Per domenica 26 marzo infine tutta la cittadinanza è invitata in piazza Umberto I, dove sarà posizionato un gazebo per pubblicizzare ulteriormente l’iniziativa e raccogliere altri contributi con cui chiudere il bilancio della raccolta di marzo.

Copertino: una mancata veduta settecentesca

di Armando Polito

Chiunque sfogli, come ho fatto io, il testo (integralmente consultabile in https://books.google.it/books?id=DYil3DWkU2oC&printsec=frontcover&dq=editions:T30UfxWID0IC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjB7syu8aTOAhWFVhoKHYZIBFYQ6AEIHDAA#v=onepage&q&f=false) del quale riproduco di seguito il frontespizio,

s’imbatterà proprio all’inizio (p. III) nell’unica immagine che lo correda e che di seguito riproduco.

Considerando il titolo dell’opera uno pensa immediatamente ad una rappresentazione, per quanto approssimata, di Copertino. Ma dopo la fabbrica fortificata in primo piano e sul suo lembo sinistro quella specie di minareto, che potrebbero pure starci, inevitabilmente l’occhio coglie nella restante parte un paesaggio che presenta connotati ben diversi dal nostro.

Come il lettore avrà notato, il frontespizio non reca né data né editore né luogo di edizione, ma alla fine di p. XCII il testo che in basso ho sottolineato in rosso consente di dare una datazione, se non all’edizione, almeno alla scrittura della difesa.

Giacinto Dragonetti (L’Aquila 1738-Napoli 1818) fu un famoso avvocato fiscalista. Entrato in magistratura negli anni 80 del XVIII secolo (quindi dopo la stesura di questa difesa), nel 1792 ricoprì la carica di magistrato della Monarchia di Sicilia, carica inferiore solo a quella di vicerè. Nel 1798, rientrato a Napoli, fu prima consigliere della Regia Camera della Sommaria e poi presidente della Gran Corte della Vicaria. Di seguito il suo ritratto tratto da Alfonso Dragonetti (suo nipote), Le vite degli illustri aquilani, Perchiazzi, L’Aquila, 1847.

A questo punto mi pare abbastanza probabile che l’immagine, se non è di pura fantasia, si riferisca a L’aquila, che cioè nella scelta (se pure fu lui a farla) Giacinto si sia lasciato trascinare dall’amore per la terra natia. Probabilmente nulla sarebbe cambiato, per un intersecarsi di genealogie, nemmeno se fosse vissuto dopo, quando, cioè, Laura de Torres (morta nel 1838) sposò il marchese Giulio Dragonetti e quando, in seguito al matrimonio fra Francesco de Torres (1808-1881) e Luisa Sanseverino (1707-1869) quest’ultima portò il titolo di duchessa di Seclì, che, com’è noto, dista 20 km. circa da Copertino. Credo che nemmeno questo, se per assurdo si fosse verificato, sarebbe stato sufficiente per evocare in Giacinto la Terra d’Otranto ed indurlo a scegliere un’immagine della città del patronato reale della cui chiesa, pure, aveva scritto la difesa …

L’editoria in Terra d’Otranto nel XVI secolo

di Armando Polito

 

Non potendo esibire nessuna immagine (che scoop sarebbe stato!) relativa alle officine tipografiche del Salento nel XVI secolo, rimedio, prima di entrare in argomento,  con l’immagine che segue, veramente eccezionale, se, come credo, è la più antica che contenga la rappresentazione di un’officina tipografica. Essa è tratta da La grant danse macabre, opera uscita a Lione nel 1499  per i tipi di Mathias Huss. Mi auguro che l’eccezionalità dell’immagine basti a compensare il sentimento che alcuni suoi dettagli possono suscitare, in linea, d’altra parte con il titolo del libro (La grande danza macabra), sul cui argomento chi è interessato troverà dettagli in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/23/le-origini-antiche-di-una-poesia-popolare-gallipolina/. Fatti i dovuti scongiuri, procedo.

Qualsiasi innovazione tecnologica ha sempre avuto bisogno di tempo per diffondersi, un tempo, direi, inversamente proporzionale alla sua stessa evoluzione. Effetto, certo, dell’economia di scala e in parte pure del bisogno, subliminalmente indotto dalla pubblicità, di non poter fare a meno  se non dell’ultimo modello, spesso dal costo proibitivo per l’utente medio, almeno del penultimo. Quarant’anni fa, per esempio, un tv color di 28” (il massimo che la tecnologia potesse consentire) costava non meno di 800.000 lire , cioè il triplo dello stipendio medio. Oggi con la cifra in euro corrispondente al triplo di uno stipendio, per chi ha la fortuna di averlo …,  medio (diciamo 1300 euro netti), di tv (smart e 4k) te ne puoi comprare due da 70”.

Lo stesso dicasi per la stampa, in cui l’avvento dei processi digitali ha favorito la rivoluzione della rivoluzione a suo tempo operata da Gutenberg, con esiti allora inimmaginabili, se si pensa ai moderni programmi di videoscrittura, alle stampanti in 3d e, perché no?, alla crisi del libro stampato.

Se dovessimo operare pure con il libro il calcolo fatto poco fa per i tv, lo scarto sarebbe infinitamente maggiore, nonostante il punto in comune, sostanzialmente identificabile con il costo costo che, unito alla scarsissima alfabetizzazione, rendeva il libro un oggetto riservato ad una ristrettissima élite (la locuzione è quasi il superlativo di un comparativo …).

C’è da meravigliarsi, perciò, se nel Salento furono solo due i tipografi attivi nel XVI secolo? Io lo reputo già un miracolo, vista la classifica, che ho compilato con i dati risultanti da una mia ricerca specifica, in cui i primi posti (ci si poteva attendere altro?) sono occupati dai centri  che allora  detenevano una specie di monopolio in questo campo, figlio diretto della loro egemonia culturale. Da notare, inoltre, che  più di un tipografo ebbe officine in sedi diverse. Ecco la classifica emersa:  Venezia (380), Roma (239), Milano (194), Firenze (136), Napoli (131), Torino (79), Padova (50), Siena (36), Palermo (35), Reggio Emilia (21), Pesaro (20), Genova (16), Urbino (13), Foligno (7), Città di Castello (6), Cosenza (6), Como (3), Fossombrone (3), Pisa (2), Bari (1), Copertino (1), Taranto (1).

Se non sorprendono i nomi delle città occupanti i primi cinque posti, se era scontato, dunque, che la Puglia non spiccasse, sorprende, invece, l’entità del contributo regionale (2/3 editori) dato dal Salento. C’è da aggiungere, oltretutto, che l’unico tipografo registrato per Bari non era neppure italiano, ma francese:  Gilbert Nehou (attivo anche a Venezia) che pubblicò il volume: Colantonio Carmignano, Operette del Parthenopeo Suavio in varij tempi & per diversi subietti composte, et da Silvan Flammineo insiemi raccolte, et alla amorosa & moral sua calamita intitulate, In le case de Santo Nicola1, 15 ottobre 1535 (Di seguito il frontespizio e il colophon).

È giunto il momento di presentare questi due imprenditori salentini. Comincio da Copertino, in cui esercitò l’attività di tipografo Bernardino Desa, che ivi era nato. Non so dire se ci siano rapporti di parentela con San Giuseppe da Copertino, al secolo Giuseppe Maria Desa (1603-1663). Se non fosse che, quando il santo nasceva, Bernardino aveva cessato la sua attività (o, addirittura era già passato a miglior vita, cosa più che certa quando il futuro santo fioriva e lapalissiana quando, dopo la morte, si cominciarono a scrivere le biografie), pensate che scoop editoriale sarebbe stato per il nostro tipografo pubblicare un libro sul santo dei voli. Probabilmente anche allora, parenti o non parenti, l’omonimia avrebbe quanto meno indotto ad una più cospicua tiratura …

Di seguito l’elenco dei volumi stampati da Bernardino; ho potuto corredare qualche titolo col relativo frontespizio, ma è facilmente intuibile quanto questi volumi siano rari, ragione per la quale bisogna ringraziare la rete che con le sue digitalizzazioni ci permette di farcene un’idea un po’ più rimarchevole di quella offerta dai semplici dati bibliografici.

Successi dell’armata turchesca nella citta d’Otranto nell’anno MCCCCLXXX. Progressi dell’essercito, et armata, condottavi da Alfonso duca di Calabria; scritti in lingua latina da Antonio Galate, in Cupertino : appresso Gio. Bernardino Desa, 1583.

Constitutiones editae in dioecesana synodo Andriensi, quam Lucas Antonius Resta episcopus Andriensis habuit, anno Domini MDLXXXII, Apud  Io.  Bernardinum Desam, Cupertini, 1584

Alla fine del volume, prima dell’indice, c’è l’attestazione del notaio circa la corrispondenza tra il testo dei documenti trascritti nel volume e gli originali; segue la ratifica della dichiarazione notarile e l’imprimatur del vescovo  di Nardò Fabio Fornari  (1583-1596).

(Traduzione: Io suddiacono Filippo Pipino notaio per volere dell’autorità apostolica e segretario di questo sinodo diocesano di Andria attesto di aver di aver fatto la presente copia in trentasei carte qual è al presente dal suo proprio originale esistente nell’archivio della curia vescovile di detta città; fatto il confronto si è trovata esatta corrispondenza, fatta salva etc. E in fede ho sottoscritto ed ho apposto, richiesto, il mio solito sigillo che uso in simili circostanze. Luogo del sigillo. Così sta la varità. Il medesimo di sopra,notaio Filippo Pipino di propria mano.

Si stampi insieme con le lettere dell’illustrissimo Signor Cardinale Carafa scritte in latino sulla stessa materia e dirette al Reverendissimo Signor Vescovo di Andria e con le osservazioni aggiunte dalla mano del medesimo illustrissimo Signor Cardinale, di cui si fa menzione nelle dette lettere. Fabio Vescovo di Nardò).

Riprendo l’elenco delle pubblicazioni momentaneamente interrotto.

Pythagorae Scarpii Salentini Philosophia acerrima de anima, eiusque immortalitate, nature capacissima elaboratione cum omnium antiquorum opinione comprehensa, eorumque dilucidatione celeberrima , Cupertini, apud Iohannem Bernardinum Desam, 1584

Minimi,  Haec sunt acta et decreta trium capitulorum generalium Ordinis minimorum Avinonensium Barchinonensium & Januensium  repurgata per r. p. f. Gasparem Passarellum, Cupertini, apud Johannem  Bernardinum Desam, 1585

Statuti provinciali di frati Minori osservanti della provincia di San Nicolò. Fatti su l’anno del Signore MDLXXXV da tutti frati di detta provincia et confirmati dal reverendissimo padre fra’ Fr., In Cupertino, appresso Gio. Bernardino Desa, 1585

 

Ordinationi per la chiesa, e diocesi di Nardò, appresso Gio. Bernardino Desa, in Cupertino, 1591

 

Se Bernardino fu un copertinese attivo a Copertino, a Taranto, invece, il tipografo attivo fu Quintiliano  Campo, delle cui origini nulla si sa e del quale ci resta solo una pubblicazione:

Girolamo da Dinami,  Divina predestinatione ristretta in cinque capitoli dal r.p. fra’ Girolamo Dinami calabrese cappuccino, predicando, e leggendo in Venetia, a Santo Apostolo ne l’anno 1565 e dal medesimo in molti luoghi ampliata, e con migliore deligentia ristampata in Taranto, in Taranto : per Quintiliano Campo, nel primo del mese di marzo 1567.

 

P. S. Riporto il prezioso commento del sig. Francesco Guadalupi, apparso il 19 settembre c. a. sul profilo in Facebook della fondazione:

Credo sia opportuno fare un riferimento anche al libro che nel 1627, fu stampato a Brindisi, nel palazzo dell’Episcopio pur se questa fu una tipografia d’occasione, installata soltanto per la stampa dell’opera di Falces e bisognerà aspettare il 1699 perchè Tommaso Mazzei impianti una stabile officina che fu chiamata Stamperia Arcivescovale. Dice N. Vacca su Brindisi Ignorata p. 276: “L’arcivescovo Falces, per stampare una sua opera invitò nel 1627 in Brindisi un colto tipografo romano, Lorenzo Valeri, che da alcuni anni lavorava in Trani. Egli allogò la sua officina nell’episcopio e soggiornò in Brindisi per tutto il tempo che occorse per comporre e stampare la “Practica brevis ac universalis” di cui due esemplari sono posseduti dalla biblioteca Prov. di Lecce e uno dall’Arcivescovile di Brindisi.” Questa è l’immagine del frontespizio con marca e note tipografiche.

 

Approfitto dell’occasione per rinnovare  una comunicazione di servizio: si  pregano i gentili lettori di replicare il loro commento anche sul blog della fondazione, al fine di evitare che contributi preziosi come questo vadano perduti. In questo caso il destino ha voluto che casualmente mi imbattessi in questo commento, peraltro non notificatomi,  su Facebook, ma non si può sempre sperare nella buona sorte.

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1 S. Nicola è il protettore di Bari, per cui In le case de Santo Nicola vale Bari.

2 Due erano state le edizioni precedenti: una era uscita a Venezia per i tipi di Domenico e Luigi Giglio nel 1566, la seconda nello stesso anno a Padova, senza indicazione del nome del tipografo.

 

Copertino nella seconda metà del ‘900

Copertino nella seconda metà del ‘900

Ricordi a volte tragici, a volte amari, a volte grotteschi

 

di Antonio Gala

Ascoltavo nel corso della mia infanzia il rombo assordante delle sirene, quando sotto il fuoco incrociato degli aerei angloamericani o tedeschi, scuotevano il nostro inconscio costringendo tutti, adulti o in tenera età, a trovare scampo nei rifugi o all’ombra dei nostri pergolati, ove riuscivamo, nonostante il rombo dei bombardamenti, a consumare gli avanzi delle nostre calde minestre, lasciate sul tavolo da pranzo delle nostre povere mense.

La città di Copertino, nel secondo dopoguerra, ha vissuto tutti i disagi legati alle problematiche della ricostruzione dalla fame e dalla povertà, ma soprattutto alle divisioni di una società, lacerata dai due conflitti mondiali che spesso si ripercuotevano anche all’interno delle famiglie. Piazza del Popolo era lo specchio delle idee che animavano i tre principali schieramenti; dagli altoparlanti posizionati nei punti cruciali del paese si scandivano i nomi dei protagonisti che si alternavano nelle piazze, quasi sempre affollate secondo gli orientamenti espressi dai partiti principali: le bandiere rosse sventolavano al nome di Pippi Calasso, il pioniere dell’antifascismo e dell’affrancamento del popolo salentino e regionale dalla povertà; l’onorevole Giuseppe Calasso affiancato dalla compagna e consorte Cristina Conchiglia che spese le sue energie per l’affrancamento delle tabacchine dallo sfruttamento e dalla servitù, per approdare poi al riconoscimento dei loro diritti, vilipesi e calpestati dai padroni, mentre il primo si prodigava per l’assegnazione delle terre dell’Arneo, incolte ed abbandonate nelle mani di feudatari che sfruttavano i contadini, in presenza di un vuoto sindacale che li proteggesse.

cristina-conchiglia e Calasso
Cristina Conchiglia e Calasso

Che dire poi delle risposte legittimate da quello che accadeva in Russia, ove la dittatura social comunista mieteva vittime tra gli oppositori politici, risposte fatte proprie dallo Scudo Crociato, che con i vessilli bianchi alternava sul palco emeriti oratori, quali Codacci  Pisanelli, l’attuale senatore a vita Urso o De Giuseppe, cui facevano seguito i copertinesi politici dott. Pando, dott.  Ruberti, il prof. De Carlo.

On. Piero Sponziello
On. Piero Sponziello

Una ciliegina sulla torta piazzaiola ricomponeva le varie sfaccettature di diatribe e schiamazzi, che si sommavano in un quadro tragicomico quando entrava in scena l’onorevole Clemente Manco che insieme a Piero Sponziello attiravano l’attenzione pubblica con la loro bravura oratoria e competenza politica, il primo reduce della repubblica di Salò, ambedue poi militanti del M.S.I. di Giorgio Almirante.

on. Clemente Manco
on. Clemente Manco

Giovani universitari, di qualsiasi provenienza ideologica e di svariati settori professionali, accorrevano numerosi in piazza del popolo per ascoltare la verve oratoria dell’on. Manco, il quale ammaliava con la sua parola il pubblico, quando sotto il riflesso di quella lampada paonazza, come un globo fosforescente, che rendeva il suo viso come una figura spettrale, dal palco posizionato a lato del nostro amato Pascià, ricamava il suo discorso che non presentava una grinza di sgrammaticatura ed avviluppava destra e sinistra in un tiro a bersaglio, con la resa finale delle due parti sotto il fuoco incrociato delle sue invettive e della sua satira.

Era una fantasmagorica gara al diverbio, allo schiamazzo e agli insulti quella satira così forbita, che iniziando dall’elogio simpatico dell’oppositore politico, finiva poi col dileggio, definendolo come ciarlatano e parolaio, da cui derivavano tra i vari gruppi politici scorribande furibonde. Definire questa come allegria paesana, sarebbe forse riduttivo per chi è malato di nostalgia incurabile per  un passato che definirei festaiolo rispetto ai tempi di oggi, in cui si è portato a perfezione l’istinto alla ribellione, divina (quella di satana contro Dio e le leggi divine), quella umana (con l’assassinio di Abele da parte di Caino), che ci ricorda le stragi dell’umanità, non ultima quelle dei campi di concentramento nazisti.

Sarebbe certamente bello rivedere, a proposito di Copertino  nel secondo dopoguerra, il carretto con cui si vendeva la fortuna col pappagallo rinchiuso nella gabbietta, o i nostri nonni recarsi in campagna con l’asino e le bisacce, o lu “Sardone” raccogliere gli escrementi degli animali “lu rumatu” col carretto o ancora il cantiere de “li cazzapetre” pilotato dall’amico  Totò  Cimino, avaro di imprecazioni e parolacce , per la sistemazione delle strade  dissestate e piene di pozzanghere.

Oratorio di Don Rosario Trono nel 1964
Oratorio di Don Rosario Trono nel 1964

Tempi felici quelli, quando i giovani  si radunavano nell’oratorio di Don Rosario  Trono, che ricordava  il fondatore  San  Giovanni  Bosco o nella  Chiesa di San Giuseppe Patriarca, sotto la vigile e solerte presenza di  Don  Antonio  Delle  Donne;  come non ricordare ancora  Don Giuseppe Marulli, il custode delle  memorie storiche copertinesi nella Basilica  di Santa  Maria ad  Nives. Tempi felici, in cui i nostri ulivi secolari  non  avevano contratto il virus della  xilella o non c’era la moria delle palme a causa del punteruolo rosso, ed un primario emerito  come il Dott. Prof. Antonio  Marcucci si  salutava da questo mondo  abbracciato  alla  madre  natura, sotto un albero di fico o lu Cosiminu  ‘Ttaccascope si portava nell’aldilà il ricordo dei suoi attrezzi con cui confezionava i suoi manufatti, che poi esponeva al mercatino, in piazza  Castello.

Che dire poi del nostro  asilo e delle  suore dell’Istituto  Moschettini, dei primi  passi  nella scuola elementare, con tanti  bravi insegnanti, ligi alla  cultura  e rispettosi  del  nostro Tricolore  e del  Crocifisso, così vilipeso da alcuni docenti di  oggi. A voi, cari  miei predecessori, dedico  questo mio componimento, con l’affetto  che ancora mi porto nel cuore pi lu  Ronzu ti li  Scole e famiglia.

Sono arrivati i santi! Tutti al teatrino dei guitti…

 

 

La piazza di Copertino in una veduta agli inizi del secolo scorso, ricavata da un vetrino a coppie stereoscopiche (coll. priv. Nino Pensabene)

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

LI SANTI A ‘NDINIEDDHRU

 

Il teatrino dei guitti che col carrozzone, di tanto in tanto, allietavano i pomeriggi domenicali, si basava su delle figure statiche (i santi, interpretati dagli stessi guitti) che – a tende abbassate , nel segreto di cinque cabine – andavano indovinate solo attraverso suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo.

  

GUSTO DELLA SCOMMESSA

ED OSTENTAZIONE DELLA CONOSCENZA SACRO-CULTURALE

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Fra gli spettacoli piazzaioli che di quando in quando interrompevano la monotonia delle domeniche paesane offrendo ai contadini un gradito diversivo al loro abitudinario incontrarsi, bere un quarto di vino assieme e parlare di lavoro, il più elettrizzante era “Lu tiatrìnu ti li santi a ‘ndiniéddhru” (“Il teatrino dei santi da indovinare”). E questo non perché offrisse un maggiore divertimento, che anzi, al confronto delle spericolate esibizioni dei funamboli, delle clownesche uscite dei saltimbanchi o delle lunghe tessiture dei cantastorie, poteva dirsi misero – basato com’era su delle figurazioni statiche e prive di un qualsiasi commento verbale -, ma per la capacità di coinvolgimento che esercitava. Una forza dovuta unicamente alla formula d’impianto, studiata in modo di garantire agli spettatori, oltre al godimento della fruizione – comune a tutti gli spettacoli -, la possibilità di una partecipazione nonché esibizione personale, con ciò venendo a centrare quelli che – al riguardo – erano i due punti sensibili della psiche contadina: il gusto della scommessa sostenuto dalla speranza di una vincita, e la soddisfazione di potere pubblicamente ostentare la personale conoscenza sacro-culturale acquisita attraverso li cunti ti li santi patriarchi (i racconti dei santi patriarchi), al cui tramando orale scrupolosamente attendevano gli anziani ritenendolo inescludibile patrimonio del sapere familiare.

Era infatti sulla rappresentazione di personaggi arcaico-biblici o neotestamentari che il suddetto spettacolo si imperniava, ovviamente

Il pittore del “Santo dei voli”. Saverio Lillo da Ruffano

1. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
1. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

di Stefano Tanisi

Il santuario di San Giuseppe da Copertino conserva i più significativi esempi dell’iconografia josephina di tutto il Salento. Costruito nel 1754, in seguito alla beatificazione di frà Giuseppe (1753), il santuario incorpora la stalla in cui era nato nel 1603. I pellegrinaggi verso la città del “Santo dei voli” furono notevolmente incrementati nel 1767, quando il frate fu iscritto all’albo dei santi. È stato probabilmente in questo periodo che la chiesa fu arricchita da sei grandi dipinti ovali che illustrano scene della vita e dei miracoli dell’umile francescano: “San Giuseppe da Copertino in estasi davanti alla principessa Maria Savoia”; “San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia”; “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino”; “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione”; “San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario” e “San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi”.

2. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
2. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino converte il duca Giovanni Federico di Sassonia. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
3. S. Lillo (attr.), Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
3. S. Lillo (attr.), Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe da Copertino. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
4. Autore ignoto, San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
4. Autore ignoto, San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

Queste raffigurazioni devozionali furono identificate nel 2003 da Nuccia Barbone Pugliese. La stessa studiosa attribuiva questi dipinti all’operato del settecentesco pittore Domenico Antonio Carella (cfr. N. Barbone Pugliese, Domenico Antonio Carella mentore dell’iconografia del Santo dei voli in Puglia, in Il ‘Santo dei voli’ San Giuseppe da Copertino. Arte, storia, culto, Napoli 2003).

Un’indagine stilistica approfondita rivela che in cinque dipinti su sei – ad eccezione del dipinto di “San Giuseppe da Copertino riceve l’ultima comunione” d’altra fattura – si possono riscontrare, oltre l’intonazione dei colori, le tipiche fattezze dei volti e le posture dei personaggi presenti nelle opere del pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796). In queste tele copertinesi il pittore si avvale di bozzetti e cartoni utilizzati in altre opere autografe: nella tela di “San Giuseppe in estasi davanti alla principessa Maria Savoia” troviamo il volto della principessa simile al profilo della donna che regge l’uomo malato nel dipinto di “San Paolo” del 1795 della cappella di S. Paolo di Galatina.

5. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
5. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino pianta la croce sul Calvario. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

La figura del duca in “San Giuseppe converte il duca Giovanni Federico di Sassonia” è la stessa di quella di Salomone nella tela della “Visita della regina di Saba al re Salomone” del 1765 della chiesa matrice di Ruffano. Nel dipinto de “Il fanciullo Stefano Mattei riacquista la vista pregando sulla tomba di San Giuseppe” riscontriamo che la donna inginocchiata a destra ha lo stesso volto e postura della Vergine dell’“Annunciazione” del 1793 della chiesa dei Domenicani di Galatina; mentre le due donne (di cui una tiene in braccio un bambino) della tela di “San Giuseppe guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi” sono pure nel dipinto di “San Nicola abbatte il cipresso di Diana” della chiesa matrice di Maglie.

Sempre a Copertino, nel convento della Grottella, vi è una tela ovale di “San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino”, altro inedito dipinto attribuibile al Lillo. In quest’opera la fisionomia del volto di san Giuseppe è la stessa dei dipinti del Santuario.

6. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
6. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)

La presenza di Saverio Lillo a Copertino è avvalorata ulteriormente da un dipinto autografo, collocato nel presbiterio della basilica di Santa Maria della Neve, raffigurante “La Trinità e il trionfo della Fede”, firmato in basso al centro “Xav[erius] Lillo Ruf[fan]o” e commissionato nel 1777 da “D. Thomas Lagheza pro sua devotione”. Di quest’opera, il Lillo, riprenderà la figura di Cristo e la inserirà nell’inedito dipinto della “Trinità e anime purganti” della chiesa matrice di Cutrofiano.

7. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino. Copertino, Convento della Grottella (ph. S. Tanisi)
7. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino che appare a una donna e un bambino. Copertino, Convento della Grottella (ph. S. Tanisi)

 

 

Da: S. Tanisi, Il pittore del “Santo dei voli”. Saverio Lillo da Ruffano, in “Il Paese nuovo”, Quotidiano del Salento, Anno XX, Numero 104, 3 maggio 2012.

 

 

San Giuseppe da Copertino (1/2): San Giuseppe e Dante

di Armando Polito   Nella prima immagine (tratta da http://www.beniculturali.marche.it/Ricerca.aspx?ids=9675) un olio su tela custodito nell’Ospedale di Fabriano ed attribuito a Giuseppe Cades (1750-1799); nella seconda una tavola che fa parte della serie di illustrazioni della Divina Commedia realizzata da Gustavo Doré tra il 1861 e il 1868, riferita ai versi 54-57 del canto XXIX dell’Inferno. Certamente chi ha un’esatta nozione del tempo e, cosa che non guasta mai, un minimo di cultura avrà fatto un sobbalzo nel leggere il titolo che presenta un’accoppiata impossibile. Credo, infatti, con tutto il rispetto, che nemmeno il santo dei voli sarebbe in grado di compiere uno di quei miracoli che sono appannaggio solo del mondo televisivo, cioè intervistare Dante così come, per esempio, Socrate venne intervistato da Edoardo Sanguineti in una delle ottantadue puntate della serie radiofonica Le interviste impossibili, andata in onda tra il 1974 e il 1975. E allora? Si tratta solo di un’associazione di idee partita dalla cosiddetta legge del contrappasso. In un paese in cui le leggi godono il rispetto riservato a ciò che non esiste …, in cui Dante evoca in un gran numero di giovani un marchio di olio d’oliva e, quando non è scritto con l’iniziale maiuscola, crea, sempre in un altro buon numero di giovani che ne ignorano perfino  la differente funzione, seri problemi nell’individuare il modo e il tempo di questa voce del verbo dare, sempre che più di uno, ignorando la funzione dell’apostrofo e considerando dante come d’ante (roba da spaccargli in testa l’intero infisso …) , non sentenzi che si tratta di un complemento di specificazione, sentenza, fra l’altro, figlia di un colpo di culo e non certo di conoscenza in cui di logica non è rimasta nemmeno l’analisi, in un paese siffatto, dicevo, bisogna pure che qualche vecchio rimbambito si prenda la briga di dire, a coloro che probabilmente non lo sanno ed a coloro che, pur sapendolo l’hanno dimenticato, che la legge del contrappasso potrebbe essere chiamata pure legge del taglione o legge dell’occhio per occhio, dente per dente. Mi rendo conto che per un ex insegnante è indegno spiegare un concetto con una procedura sinonimica che, nella fattispecie, non facilita certo le cose, evocando gli scenari più disparati: così, per i giovani di cui sopra, taglione potrebbe essere inteso come una grossa taglia messa sulla testa di un delinquente altrettanto grosso e occhio per occhio, dente per dente potrebbe essere scambiato per una rara formula di pagamento con ricevuta fiscale estremamente dettagliata sulla prestazione fornita da un oculista e da un dentista che hanno deciso di metter su uno studio in comune a mo’ di centro commerciale parzialmente specializzato. Dopo aver detto che il contrappasso non è nemmeno un movimento di danza, i giovani sappiano che legge del contrappasso, secondo la definizione che riporto dal vocabolario De Mauro (bella conclusione dopo tanto predicare …!), è un criterio punitivo che consiste nell’infliggere una pena uguale o simile al delitto commesso. Tale criterio è rigorosamente seguito da Dante nella sua Commedia, con la variante che talora la pena può essere anche opposta alla colpa. Aborro la pena di morte, non auspico nemmeno l’applicazione della legge del taglione che era alla base delle Leggi delle XII tavole (prima codificazione scritta, risalente alla metà del V secolo a. C., del diritto romano) ma mi chiedo se veramente da allora la civiltà giuridica abbia fatto progressi, perché ho l’impressione che la pletora di leggi e l’ambiguità del loro testo, che può propiziare le interpretazioni più contrastanti, abbiano dato vita solo all’incertezza della pena, tutto  per la gioia di chi delinque. Paradossalmente a distanza di secoli si è sgretolata via via quella certezza, in un certo senso anche democratica, avviata col passaggio dalla legge non scritta (soggetta all’arbitrio non certo del più debole …) alla scritta e, forse, proprio l’eccesso di scrittura e soprattutto la sua ispirazione sovente capziosa, hanno di fatto legittimato la forma più perversa d’intelligenza che possa esistere: la furbizia. Dopo il riferimento a Dante, tocca a S. Giuseppe. Innumerevoli sono le biografie e lascio volutamente da parte Il frate volante, vita miracolosa di San Giuseppe da Copertino, Edizioni San Paolo, 1998, sceneggiatura scritta da Ennio De Concini per un film mai girato, in cui la storia, secondo il vezzo antico della rielaborazione artistica che nei nostri tempi ha lasciato il posto alla spettacolarizzazione travestita, nei casi peggiori, da divulgazione scientifica, è usata per darne libera interpretazione, che diventa arbitraria (e non disinteressata) manipolazione quando si inventano, come succede in questo caso, documenti inesistenti o alcuni passi di quelli autentici vengono criminalmente e consapevolmente alterati. Ora mostrerò, attraverso quattro brani tratti da altrettante biografie e che riporterò in ordine cronologico, come progressive superfetazioni (arbitrarie perché non documentate e neppure documentabili) trasformino agli occhi di chi legge in verità storica quella che già all’inizio potrebbe essere considerata una pura illazione (il rischio riguarda tutte le biografie ma in particolar modo le agiografie), per quanto plausibile. Benedetto Mazzara, Leggendario francescano, Lovisa, Venezia, 1721: tomo IX, p. 248, seconda colonna:   Domenico Bernino, Vita del Venerabile Padre Fr. Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, p. 3:   p. 23   Paolo Antonio Agelli, Vita di San Giuseppe di Copertino, Stamperia Bonducciana, Firenze, 1768, p. 3 Angelo Pastrovicchi, Compendio della vita, virtù, morte e miracoli di San Giuseppe di Copertino, Quercetti, Osimo, 1804, p. 1 Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli di San Giuseppe da Copertino, Tipografia Paccasassi, Fermo, 1851, p. 5 Dall’estasi iniziale descritta genericamente (restando fuora di sé) nel primo brano si passa nel secondo al dettaglio (colla bocca alquanto aperta) e alla sua metamorfosi onomastica (Boccaperta), nel terzo ricompare il solo dettaglio (colla bocca mezz’aperta), mentre nei rimanenti si afferma definitivamente la sua caratterizzazione onomastica (il chiamavano Bocca-aperta/gli misero sopranome Bocca aperta). Ancora oggi occapièrtu è a Nardò l’appellativo conferito ad una persona della cui intelligenza non si ha grande considerazione. Recentemente l’amico torinese Sergio Notario nel suo commento ad un mio post ha usato la voce piemontese badòla che è l’esatto sinonimo del salentino occapièrtu, ma questa volta il gemellaggio è solo di ordine semantico perché badòla è dal latino medioevale badare (da cui la voce italiana)=stare a bocca aperta, sbadigliare. Il lettore si starà già da tempo chiedendo quando arriverà l’ormai famigerata associazione d’idee che a mio dire  avrebbe dato vita a queste righe. Lo accontento subito dicendo com’è andata. Mi sono messo nei panni di Dante (calma, non è la mia migliore performance: più di una volta ho indossato quelli di Hitler …) e mi son chiesto come il divin poeta (se gli fosse stato possibile con una macchina del tempo compiere un viaggio nel futuro …) avrebbe immortalato, con l’applicazione della legge del contrappasso,  quei ragazzi di Copertino dopo averli posti, forse troppo severamente, tra i dannati della decima bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno (i falsari, nel nostro caso quelli della parola, dunque in compagnia della moglie di Putifarre e di Sinone1). E se San Giuseppe non reagì (essendo già in odore di santità?),  al nomignolo di occapièrtu, non abbiate paura a chiamare pàcciu (pazzo) me, anche se santità sta a me come onestà sta alla politica, dopo aver letto questa gionta al canto XXIX:

E ‘l maestro, placando il mio disio:                        

– Questi i figli son di Cupertino;                                

a Gioseppe fer torto, servo di Dio,                          

ché gli dier di leggier  dell’asinino.                           

A bocca ora stanno spalancata,                              

col sembiante crudel di fantolino                              

e la lor mente tutta avviluppata                            

del fraticello ai voli dispiegati,

per quel “Boccaperta” ognor crucciata -.  

 

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/19/san-giuseppe-da-copertino-22-due-voli-offensivi/

__________

1 La prima, secondo il racconto biblico (Genesi, XXXIX), accusò ingiustamente Giuseppe (naturalmente non il nostro …) di violenza; il secondo, greco, (immortalato da Virgilio nei vv. 57-194 del II libro dell’Eneide, fattosi fare a bella posta prigioniero dei Troiani, li ingannò convincendoli ad introdurre nelle mura il famoso cavallo di legno da lui presentato come dono di espiazione e riconciliazione. Poi, porca Elena!, tutti (?) sanno come andò a finire …             

Copertino: se non ci aiuta San Giuseppe …

di Armando Polito

stampa tratta da Le cento città d’Italia, numero del 26 giugno 1892, Sonzogno. Milano
stampa tratta da Le cento città d’Italia, numero del 26 giugno 1892, Sonzogno. Milano
stampa tratta da Gustavo Strafforello, La patria, geografia dell’Italia, Unione tipografico-editrice, Torino, 1899, p. 216
stampa tratta da Gustavo Strafforello, La patria, geografia dell’Italia, Unione tipografico-editrice, Torino, 1899, p. 216
stampa tratta da Enciclopedia popolare illustrata a cura di Palmiro Premoli, Sonzogno, Milano, 1896-1899
stampa tratta da Enciclopedia popolare illustrata a cura di Palmiro Premoli, Sonzogno, Milano, 1896-1899

Il titolo non allude ad un improbabile scontro campanilistico tra macinnulari e nnardiati1, con l’auspicio da parte di questi ultimi dell’intervento pacificatore del santo dei voli; nemmeno presso gli antichi mi risulta che qualcuno, forse perché deluso dal proprio,  tentava di corrompere con preghiere e offerte il dio dei nemici …

Il problema è infinitamente meno grave, cioè di natura filologica, e riguarda l’etimo del nome della cittadina distante da Nardò non più di dieci km. Ecco a tal proposito cosa scriveva Girolamo Marciano (1571-1628) nell’opera postuma (Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855)  Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, p. 476: “Fu detto Cupertino secondo alcuni da Cuperio suo primo edificatore, e secondo altri a Cooperio voce latina, ovvero da Aperio Apertino, e dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella del Poeta: Vix e conspectu exierat campumque tenebat,/cum pater Eneus saltus ingressus apertos. Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio, per essere stati i popoli de’ suddetti casali dopo la loro distruzione conversi e convenuti ad abitare in questo luogo. Onde Servio sopra quei versi di Virgilio: Tunc manus Ausoniae et gentes venere Sicanae;/saepius et nomen posuit Saturnia tellus dice che tutti gli abitanti della terra o sono ivi geniti, o forastieri, o vennero da un solo luogo, ovvero da luoghi diversi, come si dice essere stati questi che da’ suddetti diversi casali convenuti edificarono questa terra, e la chiamarono Convertinio. Il che si pruova chiaramente dalle sue insegne, le quali sono un pino carico di frutta con queste lettere C. P. significando i frutti e la raccolta natura del pino, i cui frutti sono l’immagine della natura, l’unità e ferma conversione di quei diversi popoli congregati in uno dinotati con quelle due lettere, le quali dicono Conventio et Custodia populorum, che convenuti si doveano con naturale ordine custodire e conservare unitamente in un sol popolo a guisa del frutto del pino, il quale si unisce, e con naturale ordine conserva in un sol corpo i suoi molli semi, come ben disse il beato Ambrogio e nota Pierio nei suoi Geroglifici, così dicendo: Naturae immaginem esse pinum Divus Ambrosius dixit, quippe quae semina ab illo primo divino celestique privilegio accepta custodiat, partusque suos quadam veluti annorum vice et ordine referat, neque nisi vi coloris admota excludat. Atque eadem ipsa nux flammae speciem imitatur, lacinatis, in turbinem toris reticulato opere circumductis”.

Cerchiamo di dare dei connotati più precisi ad alcuni nomi, anche comuni, messi in campo dall’umanista di Leverano senza indicazione della fonte (per uno come me, che in questo campo non dà fiducia a nessuno, me stesso in primis, è dura …). 1) Cuperio,  secondo alcuni non meglio identificati sarebbe stato il fondatore di Copertino. Un Cuperius Hostilianus è attestato in un’epigrafe (CIL, XI, 3614) rinvenuta a Cerveteri: Vesbinus Aug(usti) l(ibertus) phetrium Augustalibus / municipi(i) Caeritum loco accepto a re p(ublica) / sua i<m=N>pensa omni exornatum donum dedit / descriptum et recognitum factum in pronao aedis Martis / ex commentario quem iussit proferri Cuperius Hostilianus per T(itum) Rustium Lysiponum / ……  Un Caius Cuperius compare col titolo di quinquennalis1 insieme con innumerevoli altri in un’epigrafe (CIL, XIX, 244) lunghissima (per questo non ne riporto il testo) rinvenuta ad Ostia antica. Un terzo Cuperius, infine, compare in un’iscrizione funeraria (AE, 1987, 388)  , riprodotta nella foto che segue, rinvenuta nei pressi di Saturnia (in provincia di Grosseto):  D(is) M(anibus) / Cuperiu[s] Cleme[ns(?)] / Cu[peri

immagine tratta da http://db.edcs.eu/epigr/bilder.php?bild=$ILSaturnia_00013.jpg
immagine tratta da http://db.edcs.eu/epigr/bilder.php?bild=$ILSaturnia_00013.jpg

Ora, se Copertino è di origine prediale, Cuperius avrebbe dovuto dare Cuperianus (ager)=territorio di Cuperio  e, quindi non Copertino ma Coperiano. Ignorando chi sono gli alcuni padri della proposta, non posso chiedere loro ragione della scomparsa di una  –i– e dell’aggiunta di una –t-; e poi, anche se conoscessi il loro nome, la mia domanda resterebbe inevasa, essendo defunti da una manciata di secoli , a meno che qualcuno non voglia organizzare una bella seduta spiritica … 2) a Cooperio: sicuramente errore di stampa per “da cooperio” (cooperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo del verbo cooperìre=coprire); per capire anche quello che vien subito dopo, qui debbo precisare che secondo altri (pure questi non identificati) Copertino deriverebbe da *coopertinus, forma aggettivale di coopertus, participio passato di cooperìre. 3)da Aperio Apertino”. Anche qui per il non addetto ai lavori va chiarito: aperio è la prima persona singolare del presente indicativo attivo di aperìre=aprire e Apertino sarebbe forma aggettivale da apertus, participio passato di aperìre; “e  dopo per la figura protesi Copertino, o Coopertino dalla sua quasi chiusa ed aperta campagna, simile a quella …”: a parte il fatto che con la protesi di c– da Apertino si ha Capertino e non Copertino, è inverosimile l’ammucchiata concettuale successiva in cui, ricordandosi di quanto detto al n. 2, si mette in campo contemporaneamente una chiusura ed un’apertura senza la minima copertura … alla quale maldestramente si cerca di ricorrere scomodando, addirittura, un poeta. 4) “Altri dicono Convertino dal verbo Converto, ed altri Conventino da Convenio; qui gli effetti della sbornia precedente sembrano svaniti perché, anche se le fonti non sono citate, almeno Convertino è la forma con cui il toponimo appare, come vedremo di seguito, nelle mappe più datate.   5) Convertinio: sicuramente errore di stampa per Convertino. 6) Conventio et Custodia populorum (unificazione e protezione di popoli). Così il Marciano scioglie le lettere C e P dello stemma, attribuendo, dunque, a C quasi una doppia valenza abbreviativa ed introducendo il concetto nuovo della protezione, semanticamente in linea con cooperìre; a questo punto, però, poteva farla completa e mettere in mezzo pure conversio (rivoluzione) …

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Copertino#mediaviewer/File:Copertino-Stemma.png
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Copertino#mediaviewer/File:Copertino-Stemma.png

Ecco ora le mappe promesse:  Il Regno di Napoli in una tavola di Pirro Ligorio (1513-1583) inserita nel Theatrum orbis terrarum di Abraham Ortelius pubblicato ad Anversa da Gilles Coppens de Diest nel 1570:

Puglia piana terra di Bari, terra di Otranto, Calabria et Basilicata, 1589, di Gerardo Mercatore: A

puliae, quae olim Iapygia, nova corographia, 1595, di Giacomo Gastaldi: Da notare come in quest’ultima mappa in Convertino è saltata la –v– e come il toponimo latino Neritum (Nardò) risulta tradotto nello strano Naroi. Siccome il Marciano mostra che già al suo tempo il toponimo era Copertino Cupertino2, sorge  il sospetto che il Convertino delle mappe, più o meno coeve, sia stato indotto proprio dalla maggiore considerazione riservata  all’ultima delle elucubrazioni etimologiche già viste.

Insomma, per tornare al titolo: sull’etimo sarebbe opportuno un illuminante intervento del santo; ma dovrebbe essere diretto, concreto, pubblico, inequivocabilmente autentico, per evitare che qualche cialtrone, magari, sfrutti a modo suo qualche sogno dovuto ad una cena troppo abbondante, credendo di poter volare, sia pure metaforicamente, anche lui. Forse sto chiedendo troppo, anche ad un santo, per giunta protettore degli studenti?

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1 Macinnulàri è da macènnula=arcolaio (da un latino *machìnula, diminutivo del classico màchina, che è, a sua volta, dal greco dorico μαχανά (leggi machanà), in attico μηχανή (leggi mechanè), da cui  son derivati Meccano (il nome commerciale del gioco in passato più diffuso prima che Lego e successivamente le diavolerie elettroniche ne prendessero il posto), meccanica, meccanico, meccanismo e meccanizzare;  la voce primitiva è μῆχος (leggi mechos)=mezzo, espediente. Se il nomignolo si riferisse all’arte della filatura, di regola riservata alle donne, sarebbe sinonimo di effeminati. Le cose, però, stanno diversamente. Si racconta che un contadino per sapere da che punto esatto spirasse il vento collocò una macennula sul campanile di una chiesa e, siccome essa girava un po’ da una parte e un po’ in senso contrario, concluse che in quel giorno il vento spirava da tutte le direzioni. Siccome, poi, le disgrazie non vengono mai sole gli abitanti di Copertino hanno anche il nomignolo di Mangiaciùcci, ricordo del fatto che in occasione della festa patronale il piatto speciale era la carne ti ciùcciu a ppignàtu (carne di ciuco cotta nella pignatta). ‘Nnardiàti è di formazione piuttosto recente; Nardò, infatti, è uno dei pochi centri del Salento i cui abitanti non hanno un nomignolo tradizionale. Debbo fare i miei complimenti a chi ha inventato questo participio passato da un inusitato *innardiàre (da in+*nardiàre) in cui, poi, l’aferesi di i- ha finito per sottolineare anche foneticamente la valenza dispregiativa. Il lettore avrà capito che nutro una particolare simpatia per questi nomignoli e, quindi, non mi piace il fatto che i neretini non abbiano un nomignolo tutto loro, più caratterizzante di quello di cui ho già detto. Mi conforto pensando che, pur risiedendo da sempre a Nardò, sono nato a Manduria, i cui abitanti possono esibire la bellezza di tre nomignoli: mangiacàni, ccitipidùcchie (uccidipidocchi) e sonacampani (campanari). Se i primi due contengono un’allusione a condizioni di vita non certo ottimali, il terzo potrebbe far riferimento al numero notevole di chiese della città ma, più probabilmente, contenere una punta d’invidia nei confronti di una popolazione che più volte nella storia seppe resistere, reagire nella sconfitta, ricostruire.

2 Quinquennalis era un magistrato che nelle colonie e nei municipi ricopriva una carica quinquennale con funzioni analoghe a quelle dei censori in Roma. 3 In numerosissimi atti del XVI secolo ricorre, in riferimento al luogo di origine di persone nominate, de Cupertino che suppone un latino Cupertinum, da cui l’italiano Cupertino, forma utilizzata dal cartografo dell’esploratore spagnolo Juan Bautista de Anza (1736-1788) per dare, in onore al santo di origini salentine, il nome San José de Cupertino (oggi Stevens Creek) ad un ruscello e nel XX secolo il solo Cupertino divenne il nome della città californiana cuore della Silicon Valley. Insomma, un po’ di benemerenze informatiche, anche se non richieste, ce l’ha pure il santo copertinese, ma sarebbe veramente azzardato mescolare il sacro col profano sostenendo che con Copertino abbia a che fare Coppertone, il noto marchio di abbronzanti. I meno giovani tra i lettori ricorderanno senz’altro la simpaticissima immagine pubblicitaria che segue: A stroncare sul nascere l’azzardo di indebita mescolanza prima nominato va detto che in Coppertone il primo componente è copper=rame e il secondo tone=tonalità. W l’America, dunque? Ma neppure per scherzo! Copper è dal latino cuprum=rame rosso [dal greco Κύπρος (leggi Chiùpros)=Cipro (il rame abbonda nell’isola)] e tone dal latino tonos=tono, a sua volta dal greco τόνος (leggi tonos) con lo stesso significato. E in Cera di Cupra, la crema per il viso creata dal mitico dottor Ciccarelli insieme con il dentifricio Pasta del capitano, Cupra potrebbe avere la stessa origine ma far riferimento a Venere che, secondo Esiodo, dal mare di Cipro sarebbe nata.  È chiaro ora perché mi vien da ridere il doppio quando sento qualche nostro esponente politico esprimersi isolatamente o in forma distesa (direi un po’ troppo …) in inglese (?)?

Stradetta di Copertino

copertino 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

Non ha mutato volto

la vita in via Iconella.

 

Sferruzzano, le donne,

o rammendano panni

sugli usci bassi,

all’ombra che trasmigra;

e vivacemente intrecciano parole

che sono di sfogo ai vari sentimenti.

 

Uomini, sudati e scalzi,

spaccano legna per l’inverno

al centro del selciato;

e alle scintille

che genera l’accetta

sognano dolcezza di camini accesi,

profumo di melecotogne

cotte nella brace,

sapore di legumi

nella vecchia pignatta di creta.

 

Grida di monelli

dilagano nel sole,

che festoso accoglie i giochi

e le innocenze.

 

Appese, lungo i muri, ad asciugare,

lenzuola di cotone barbarescu

si gonfiano nel vento;

e tanto, ma tanto è l’intreccio dei rattoppi

che per il forestiero

sono inediti mappamondi di miseria.

 

3 luglio 1964

Copertino. Considerazioni estive da un belvedere

copertino

di Nino Pensabene

 

Nessuno immagina la ‘rabbia’ e nello stesso tempo l’affettuosa invidia che d’estate provo nel vedere i turisti che, con i polmoni saturi d’ossigeno, se la danno a  passeggiare per il centro storico di Copertino godendosi tutte le meraviglie architettoniche e artistiche  della città. Loro non dormono in  paese: a conclusione dei tours,  organizzati o non,  si ritirano o nei paesi di mare da dove si spostano per le escursioni turistiche o, se villeggiano in paese, negli alberghi o nei bed & breakfast  situati nelle periferie, dicat all’aria aperta, quasi in campagna.

veduta del centro storico di Copertino dalle terrazze (ph N. Pensabene)

Il centro storico di Copertino, anticamente racchiuso nelle mura di cinta, delizioso nella sua architettura medioevale e caratteristico nella sua proporzionata piccolezza, tanto da sembrare una bomboniera posata nell’aperta campagna, oggi è imprigionato in una morsa di cemento, sprofondato come in una valle irrespirabile per mancanza d’aria, tanto da essere guardato – da chi ci vive stabilmente – come abitato da una folla di martiri che agonizzano in una fossa di leoni.

La campagna che lo contornava, avvolgendolo di aromi e profumi, e facendolo apparire come l’abitazione plurifamiliare in un’enorme villa, è ormai un ricordo lontano, sostituita da grandi e alti palazzoni che non solo tolgono il respiro financo ai tufi o a lli liccìse che decorano la parte nobiledell’antico borgo, ma ne  influenzano lo stato di buona conservazione,  determinandone, addirittura, affrettatamente, la corrosione attraverso il morboso inquinamento.

Chi scrive  ne parla con cognizione di causa, essendo  uno dei ‘martiri’ che  d’estate, pur trascorrendo le serate (o le notti) sulle più alte terrazze di casa, si trova a non respirare come se vivesse in fondo ad una valle o peggio ancora in una fossa. E inutile sarebbe salire ed affacciarsi alla torretta belvedere, elemento che, neanche a farlo apposta, ha seguito la decadenza di tutte le nobiltà sociali, comprese le aristocrazie civili, militari ed ecclesiastiche. Per via della nuova allargatissima pianta urbanistica della città, la torretta è andata in pensione,  perdendo tutte le  funzioni che la caratterizzavano fino alla prima metà del Novecento, quando ancora, salendo, la si poteva sfruttare sia nella versione terapeutica respiratoria sia in quella  paesaggistica naturale.

Finché è vissuta la Giulietta vi salivamo una volta l’anno, e precisamente l’ultima sera della festa di San Giuseppe, quando l’altezza ci aiutava a goderci meglio lo spettacolo dei meravigliosi fuochi pirotecnici, nella cui fabbricazione gli artigiani salentini sembra siano dei veri maestri specializzati.

Ma chi può immaginare  cos’è  stata la torretta per le generazioni che ci hanno preceduto, quando appunto, oltre le mura di cinta, Copertino  era ancora tutto campagna?   Il bisnonno Giuseppe*, tanto per fare qualche esempio, la sfruttava tangibilmente tutte le volte che – tramite messaggio di un servitore arrivato, qualche giorno prima, a piedi o a dorso di mulo –  sapeva di stare a ricevere la visita della figlia Amalia (la nonna di Giulietta), la quale, avendo alla fine dell’Ottocento, sposato un signore di Salice (Don Felice Capocelli*) , era andata a vivere in quel paese.  Con un bel binocolo in mano,  da sopra la torretta  ne vigilava così l’arrivo in carrozza; cosa che faceva anche per il viaggio di ritorno, per lo meno fino a Leverano,  e – alberi permettendo – anche per qualche altro tratto fuori dal paese.

Torrette, carrozze, binocoli:   lussi da signori, nel contesto di un mondo privo di cellulari o telefoni fissi, di mezzi motorizzati o di strade illuminate, non dimenticando oltretutto che siamo in un’epoca quando i briganti derubavano  quei pochi che si azzardavano ad affrontare la strada, per cui il viaggio si doveva concludere entro l’imbrunire non solo per motivi logistici ma anche per paure legate alla sopravvivenza. Oggi non abbiamo l’idea di quante difficoltà fosse costellato il vivere in quel tempo, e già mi riferisco a persone privilegiate che potevano appunto permettersi tutte quelle comodità che  facilitavano il correre dell’esistenza, prima fra tutte la possibilità di avere altri esseri umani come servitori.

Non mi è stato detto, né credo potesse essere attribuito alla condotta degli appartenenti a questa famiglia, tramandata  come dotata di virtù benefiche nei confronti del prossimo, ma parlando di difficoltà esistenziali e differenze di classe il mio pensiero  corre  alla torretta, al binocolo e ai contadini che lavorando nelle vicinissime campagne potevano essere controllati alla stregua di chi si trovasse a lavorare con il padrone accanto, intimorito e  condizionato pure nel desiderio di raccogliere un frutto per mangiarlo.

Non posso non concludere queste note senza fare ancora una volta riferimento ai turisti: è vero, loro di giorno si godono i centri storici e di  notte respirano all’aria aperta, ma è pur vero che io, incallito eremita, dalle mie terrazze, mi godo un paesaggio a loro precluso: le tre torri, quella campanaria, quella dell’orologio e quella di palazzo Verdesca Zain (dalla Giulietta ribattezzato “Casa dei Poeti”);  tre torri che, stando a pochi metri una dall’altra, fanno quasi da sentinelle (una al centro, una a destra e una a sinistra) all’antica “Piazza” di Copertino, ma che soltanto da pochissime terrazze si offrono in  uno spettacolo unico, soprattutto quando – all’imbrunire – le rondini,  impazzendo di  gioia, ti fanno volare con loro da una torre all’altra, dando  conferma – per chi non lo sapesse – che questo è il paese del Santo dei Voli.

 

* Ho citato i nomi, esclusivamente per dei riferimenti storici: il nonno Felice, così come parecchi appartenenti alla famiglia Capocelli sono citati nei libri di Storia Salicese, così come il bisnonno Giuseppe è citato nel libro  “Tre santi e una campagna”.

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmineappartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore

Copertino. Il santuario della Madonna della Grottella

 

di Fabrizio Suppressa

Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.

Santuario della Grottella (ph F.Suppressa)

L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi  rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.

Affresco raffigurante il ritrovamento miracoloso

Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.

Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”

La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.

Navata centrale (ph F. Suppressa)

Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.

All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.

Particolare del portale in pietra leccese

Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.

Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.

Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.

Altare Privilegiato, affresco della Madonna della Grottella

Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.

Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.

Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.

Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.

Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.

 

Bibliografia:

P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.

F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.

 

Particolare del rosone (ph F. Suppressa)

Copertino. Antichi riti nella notte di Parasceve anticipando la Risurrezione di Cristo

CULTI MAGICO-RELIGIOSI

NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

LA NNUCCICATA TI CHIASCIONE

 

 

Nella notte di Parasceve

 i pastori copertinesi anticipavano la Risurrezione di Cristo

celebrando un loro rito simbolico sul sagrato della chiesa matrice.

 La “Nnuccicata ti chiasciòne” (“Piegatura di lenzuolo”)

era la cagliata ivi approntata:

simboleggiando la sindone e quindi l’avvenuta risurrezione

la distribuivano gratuitamente ai poveri e ai derelitti

sicuri che  fosse apportatrice della benedizione di Cristo,

riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Nel contesto di un dettato storico-sacrale che la figura del Cristo fondeva al costrutto sacrificale degli agnelli nell’insistita cornice di simbolici pascoli e altrettanto simboliche premure per il gregge, i pastori salentini vedevano nella Pasqua non solo la ricorrenza liturgica più importante ma anche il figurativo convenzionale del loro vissuto, che pertanto ne usciva avvalorato nei termini di un’autoidentificazione per rispecchiamento.

Partendo da questa piattaforma di credute equivalenze – comodo strumento di mediazione nel disagio provocato dalle inevitabili contraddizioni insorgenti fra l’investimento metaforico di un privilegio categoriale e la realtà del quotidiano individuale – si sentivano autorizzati ad esprimersi in chiave di libere interpretazioni e rappresentazioni. Con la scusa della loro impossibilità a partecipare alla Messa di resurrezione – in quanto, all’epoca, liturgicamente Cristo risorgeva il mezzogiorno del sabato santo, ora di pascolo per le greggi e quindi di loro impegno nella sorveglianza – si arrogavano il diritto di anticiparne i tempi di proclamazione. Priorità nell’enunciazione peraltro espressa attraverso una ritualità per così dire autonoma, cioè discostata da quelli che erano gli ufficiali canoni ecclesiastici, pur se, in definitiva, a questi si rifaceva traducendone in proprio la manifestazione simultanea dell’emozione, dell’azione e della trasmutazione. Emozione come adesione affettivo-memoriale dell’evento messianico; azione come riconoscimento interpretativo del sublime nella donazione – insito nella passione, morte e deposizione del Cristo -; e trasmutazione nel senso celebrativo di quell’energia vitale che si era appalesata nel momento della risurrezione; energia che loro, arbitrariamente accostando al misterioso intervento divino il tentato parametro di una possibile rappresentazione umana, prefiguravano nel processo enzimatico del latte. Un assunto la cui peculiarità costitutiva si imperniava su una voluta esaltazione dei significanti, primo fra tutti quello di una presunta complicità di Dio, che nella compiacenza di un’elezione a beneficio categoriale, li voleva nelle vesti di fervorosi pur se anomali ministri.

Da ciò si può evincere come nell’ambiente pastorizio vigesse il legame con un arcaismo di marca ebraica attestante, nella strutturazione mentale del divino privilegio, l’implicito riporto a Israele, popolo eletto per antonomasia, gratificato dalla facilitazione  a un esodo tanto storicamente liberatorio quanto miticamente consolatorio. Popolo dedito appunto alla pastorizia, organizzato in tribù i cui vertici patriarcali avevano non solo il diritto al comando ma anche il permesso all’officiatura, da intendersi come rapporto diretto conla Divinità al di fuori di ogni intermediario.

Sarebbe certo di troppo affermare che, nel compiere la loro ritualità pasquale, i pastori fossero consapevoli dell’originaria matrice e di riflesso agissero in netta funzione rievocatoria di quello che – nella loro misura cognitiva – si poneva come il più remoto degli atavismi. Col trascorrere del tempo e più che altro con l’avvenuta sovrapposizione del Cristianesimo si era determinata un’intersecazione di moduli fideistici per cui anche le suggestioni evocative dell’eredità arcaica ne uscivano commiste venendo a creare nella dominante simbolica un’interscambiabilità di applicazioni. Nel momento che si accingevano a dare corpo alla ritualità pasquale avveniva un’assunzione globale di moventi che, scartando ogni differenza o incidenza cronologica, flettevano fra la visita al sepolcro di Cristo e il cammino versola Terra Promessa, antonomastica meta del celebrato esodo. Due elementi fusi in un’unica funzione liberatoria, perché se l’esodo biblico era valso ad affrancamento dalla schiavitù egiziana e contemporaneamente dal nomadismo – grazie ai pascoli opulenti di una terra dove scorreva latte e miele -, l’andata al sepolcro di Cristo valeva la remissione delle colpe commesse e quindi ad accaparrarsi la promessa del paradiso. Un senso di rinascita spirituale che prendeva corpo dal loro raccogliersi in gruppi sotto la guida degli anziani per subito uscire dall’abituale dimora e affrontare a piedi il lungo cammino nella notte, eloquente figurale e della dolorosa Via Crucis e della faticosa marcia nel deserto.

Sul calare della notte di Parasceve infatti, nelle masserie sparse nel profondo della campagna copertinese, si avvertiva un clima frenetico e insieme sofferto, quasi aleggiasse nell’aria la consapevolezza di una imminente partenza sospesa alla dialettica di una necessaria reintegrazione morale ottenuta attraverso l’offerta olocaustica. Un procedere alla cancellazione di ogni colpevolezza – singola e collettiva – che prendeva avvio nel momento che si provvedeva a trasferire il bestiame, togliendolo dagli abituali stazzi esterni per ammassarlo intr’a lla curte ti lu mmàsunu, ovverosia lo spiazzo situato all’interno dell’arco d’ingresso e di solito prospiciente la casa del massaro. Un provvedimento che si offriva a ulteriore chiarificazione di quello che era l’atavico nucleo ideologico che governava l’agire: nella spontaneità delle equivalenze non elaborate mentalmente ma avvertite sensibilmente quale frutto di avvenute sedimentazioni, quel cortile, così invaso di pecore e agnelli, veniva a rapportarsi ai recinti del tempio di Salomone dove i pellegrini israeliani ammassavano i capi del  bestiame in offerta, subito abbandonandoli per recarsi il più vicino possibile all’Arca e attendere alla propria depurazione.

Quasi vedessero rinsaldare il circuito delle affinità, anche i nostri pastori si comportavano allo stesso modo: non appena si assicuravano di aver convogliato nel recinto tutti i capi di bestiame, si estraniavano da ogni immanenza di cure terrene, cercando integrazione solo nell’urgenza di raggiungere il sepolcro di Cristo, dove di lì a poco, nel contesto della loro ritualità a nette scansioni testamentarie, la vita avrebbe trionfato sulla morte.

Sbarrato il portone d’ingresso, legato ai battenti due cani scelti fra i più svegli e aggressivi e accesa la linterna ti lu camìnu (la lanterna da viaggio), mmassàru, picuràri e ppicurasciùli (massaro, pastori e pastorelli), lasciando le donne nella masseria, a gruppo stretto e a marcia serrata si avviavano frettolosamente verso il paese, ad ogni curva o bivio invocando l’aiuto di Santu Ggiuànni ti lu picurièddhru, cioè San Giovanni Battista che, per essere appunto iconograficamente raffigurato con in un braccio un agnello, consideravano loro particolare protettore.

Quella notte, nel desiderio di renderne concreta la presenza e quindi ottenere il desiderato aiuto, il capogruppo simbolicamente ne assumeva l’identità facendo – per così dire – piovere dall’alto ogni sua parola, incitamento o raccomandazione, cioè intercalando nel dialogo un’autoritaria declinazione di accredito: “Cu lla occa mia stà cconta lu Ggiuanninu” (“Con la mia bocca sta parlando Giovannino=San Giovanni Battista”). Curioso scambio di oggettività nel linguaggio, per di più adottato non soltanto nei confronti degli altri componenti il gruppo, ma addirittura usato con il mulo che li accompagnava trasportando sulla groppa nnu cutrùbbu (un recipiente di zinco della capacità di cinque litri) pieno di latte e nna mmarzàta, ossia un secchio di legno provvisto di coperchio, normalmente usato per il trasporto delle marzòtiche (pezzotte di formaggio fresco impastato con erbe aromatiche) ma che quella notte si portavano dietro vuoto, più esattamente con all’interno un rametto verde di mortella.

Punto di convegno dei vari gruppi era il sagrato della chiesa matrice, a quell’ora già chiusa e perciò emanante una gelosa accumulazione di trascendenza che la rendeva dolorosamente fusa all’atmosfera di quella notte già di per sé stessa satura di mistero. Notte sacra che sembrava trasformare gli umidori del selciato in lacrime rapprese e rimandare in permanenza di echi i singulti della Vergine Addolorata, la cui statua poche ore prima era stata portata in processione per le vie del paese, passando da chiesa a chiesa, da cappella a cappella nell’affannata ricerca del Figlio crocefisso. Un peregrinare sincopato dal rullìo funebre dei tamburi e convertito in assillo umano dal coro lamentoso delle donne che interpretando, da madre a madre, lo strazio della Madonna, chiedevano a gran voce, spesso roteando su sé stesse:

Fìgghiu, fìgghiu mia!… a ddò stàe lu fìgghiu mia?!… Lu stà ccercu e nno llu ttròu!… Fìgghiu, fìgghiu mia!… Ticìtime a ddò stàe lu fìgghiu mia!…

Richiesta tanto umanamente delirante quanto spiritualmente ancorata ai sensi di una catarsi la cui certificazione si era esplicata a processione conclusa, su quel sagrato appunto, quando il padre quaresimalista, rimasto ad attendere in chiesa, aveva spalancato la porta facendo portare all’aperto e proprio ai piedi dell’Addolorata l’urna di vetro con dentro la statua del Cristo morto: “Ecco tuo figlio”, aveva esclamato con voce accorata, e cincischiando un rettangolo di lino bianco a simbolica testimonianza del sudario, aveva precisato: “E’ morto Maria, è morto in croce per i nostri peccati!”.

Cadendo in ginocchio e battendosi il petto a pugni chiusi, il popolo aveva singhiozzato:

Pi’ lli piccati nuésci è mmuértu… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce!… Pirdònane, Maria, comu nn’à ppirdunàtu Iddhru!…

Come fosse doverosa assimilazione di un sollecito al pentimento, anche i pastori, salendo i gradini del sagrato, proiettavano sul metafisico schermo di quella notte la loro dolorosa considerazione, ripetendo – ognuno per suo conto e tutti insieme – “E’ mmuértu an croce pi’  lli piccati nuésci… pi’ lli piccati nuésci è mmuértu an croce…”.

Un intrecciarsi di voci basse, di parole sussurrate che si interrompeva di colpo non appena raggiunta la porta della chiesa, ai cui stipiti i componenti dei vari gruppi si addossavano in silenzio nell’attesa che lu nannimmassàru (il nonno massaro, ossia il più anziano fra di loro) li raggiungesse. Questi infatti non saliva subito e insieme agli altri i gradini del sagrato: si attardava sulla strada prospiciente la chiesa al fine di dare previa sistemazione al rituale che nel suo svolgimento non doveva essere turbato da distrazioni o preoccupazioni di ordine materiale.

Coadiuvato da due giovani aiutanti agiva con decisione, e nell’impartire i suoi ordini spesso preferiva al suono delle parole l’eloquenza dei gesti, quasi volesse accreditare una sorta di iniziatico misterioso cifrario. Bisognava infilare il muso dei muli dentro li puppàri (i sacchetti di iuta dentro i quali a ristorazione delle bestie si mettevano manciate di biada), scegliendo il punto più riparato dove farli riposare; bisognava trasportare sul sagrato li cutrùbbi pieni di latte e li mmarzàte con dentro il rametto di murtèddhra; e infine si doveva accendere nel mezzo della strada un piccolo falò di ramaglie d’ulivo, cosa che si faceva battendo forte l’acciarino sobbra’a nna èsca ti pirnacòcchia (su un’esca ricavata dal tronco marcito di un albicocco) cosparsa di salnitro.

Al primo divampare del fuoco lu nannimmassàru si chinava a baciare per terra e subito dopo, tracciando nell’aria un grande segno di croce, dava il via allo svolgimento della cerimonia schioccando la lingua contro il palato e ricavandone quel suono caratteristico che era il loro abituale richiamo delle mandrie. Da quel momento non si poteva pronunciare parola che non fosse di preghiera, e anche nel muoversi si doveva  fare attenzione a non suscitare rumori capaci di incrinare il silenzio o, come usavano dire, nfastitiàre lu ssignùttu ti l’Angilu ca stàe ncucculàtu nnanzi a lla petra ti lu santu sipùrcu (infastidire il singhiozzare  dell’Angelo che sta accoccolato davanti alla pietra che ottura l’ingresso del santo sepolcro).

Era perciò con mosse lente, quasi timorose, che i pastori si staccavano dalla porta della chiesa per convenire l’uno dopo l’altro al centro del sagrato e deporre a terra i loro bastoni, sovrapponendoli a forma di croce in chiaro riferimento all’avvenuta deposizione di Cristo. Un gesto che, al di là di ogni valenza memoriale, veniva assunto attivamente come doverosa risposta all’appello da parte dei capifamiglia, la cui singola identità  si intendeva appunto dichiarata e testimoniata dalla presenza del bastone.

L’ultimo a declinare – si fa per dire – le proprie generalità era lu nannimmassàru, che dopo aver salito lentamente i gradini del sagrato, deponeva il suo teste al vertice della piccola catasta calcandolo con le mani a più riprese, quasi volesse mettere in risalto l’ipotetica apposizione di un sigillo di compatibilità fra la suggestione di un figurato rievocatore e la tangibilità del quotidiano. Un gesto di qualificazione sociale esercitato non come semplice potere acquisito con l’età, bensì come frutto di un’avvenuta elezione nel cui conferimento era sottinteso un preciso privilegio divino, oseremmo dire una predestinazione a condottiero di popoli. Legittimazione che acquistava sostanza  di convincimento ideologico sovrapponendo alla realtà dell’azione l’allegoria di un immaginario ambientale triangolato fra il divampare delle ramaglie nel mezzo della strada – riporto al mitico roveto ardente –,  la nudità del sagrato simboleggiante il deserto, e la presenza dei bastoni valevole tanto come certificazione di cammino, quanto come dichiarazione di arrivo nella terra promessa. Arrivo come sospensione di penitenza, come conquista di potere, come affermazione di spettanza.

Con il lento spegnersi del piccolo falò scattava infatti la tacita comunicazione di un mutamento in atto, ovverosia cessava quello che poteva intendersi come scenografico riporto alle mitiche radici bibliche immettendo, sia per completamento sia per superamento, in un pregnante clima neotestamentario. A chiave di svolta del graduale passaggio veniva eletto il latte, più precisamente le sue proprietà enzimatiche, proprietà che, come abbiamo già detto, nel processo ideativo dei pastori ben si comparavano a quella combustione di energie vitali che aveva determinato la resurrezione di Cristo. Ne conseguiva un’immediata parificazione fra i pastori presenti sul sagrato, quale trasformazione della patriarcalità nei ritmi indifferenziati di una collettività che  annullava la privativa del geloso “io” nell’amplificazione di un “noi” tanto più valevole quanto maggiormente espresso nell’uniformità dell’agire.

Smessi i panni di Mosè – figura antonomastica del celebrato esodo – lu nannimmassàru rientrava nel gruppo, assieme agli altri intonando a mo’ di preghiera:

“Lu fuécu s’à stutàtu

e cce gghète… e cce nno gghéte…

lu santu patriarca nduliràtu

si nn’à sciùtu rretu a llu parète.

 

Stà spètta la nzuppittàta

ti l’àunu mmaculàtu

ca intr’a lla rutta mpitràta

si nni stàe mpannàtu”.

 

“Il fuoco si è spento / e cosa succede… e cosa non succede…/ il santo patriarca addolorato / se n’è andato dietro al muro. // Sta aspettando il risveglio / dell’agnello immacolato / che dentro la grotta ostruita da una grossa pietra tombale / se ne sta addormentato”.

A “grotta ostruita da una grossa pietra tombale” veniva focalizzata la porta della chiesa, a ridosso della quale i pastori allineavano li mmarzàte, pronti a riempirli con il latte trasportato nei capaci cutrùbbi. Un travaso che eseguivano con religiosa delicatezza, attenti a sincronizzarne il flusso affinché simultaneo risultasse il momento delle varie colmature e altrettanto simultanea l’immissione dei pizzichi di caglio che, a travaso avvenuto, lasciavano cadere nel latte, a questo amalgamandoli con un lungo tramestio circolare eseguito con i rametti verdi di mortella. Il tutto in una crescente assimilazione di solleciti emotivi, sicché quella che di base voleva essere motivazione mitico-allegorica si trasformava in tensione oggettiva, sorpassando il compiaciuto senso di partecipazione al rito in favore di una profonda immedesimazione. L’iniziale misura di memento cedeva infatti il passo all’azione del momento, e i convenuti sul sagrato non si consideravano semplici coadiutori al buon andamento della celebrazione: si sentivano protagonisti nella totalità del significato, e accoccolati sui talloni – ognuno accanto  il più possibile alla propria mmarzàta – attendevano in religioso silenzio il concretizzarsi dell’evento, convinti che lo stesso potesse trarre forza di esplosione anche dalla loro affettuosa presenza.

L’àngilu à nnuccicàtu lu chiasciòne!” (“L’angelo ha ripiegato il lenzuolo!”), proclamava lu nannimmassàru non appena constatava il definitivo indurimento della cagliata; e questa volta, non essendo in clima di passione e morte e quindi non più vincolato alla mortificazione e al silenzio, batteva forte le mani, palma contro palma, incitando i presenti: “Asàmu a nterra e spartìmune lu bene ca Cristu nn’à rricalàtu” (“Baciamo a terra e scambiamoci il bene che Cristo ci ha regalato”).

Se baciare per terra era gesto di ringraziamento e lode a Dio, spartirsi il bene ricevuto significava mettere in atto il comandamento dell’amore fraterno, per prima cosa cancellando dal proprio animo ogni eventuale dissapore nei confronti del prossimo. Un invito che nel contesto del rito celebrato nella notte di Parasceve, non si poneva come frutto di vana retorica, essendo più che risaputo come, fra pastori, spesso e volentieri si entrasse in rivalità: per la contesa di un pezzo di pascolo, per la perdita di un capo di bestiame o sia pure semplicemente per gelosia connessa alla maggiore o minore fortuna nello smercio dei prodotti.

Quali che fossero i motivi del risentimento, questo non poteva e non doveva permanere fra i convenuti sul sagrato: all’invito del nannimmassàru dovevano subito riconciliarsi, tant’è che, a segno tangibile del ritrovato sentimento fraterno, usavano scambiarsi i secchi con le relative cagliate: “A tte la nnuccicàta mia, a mme la nnuccicàta tua”.

Traendo spunto dal passo evangelico che racconta come nel sepolcro scoperchiato fu rinvenuta soltanto la sindone ripiegata, la cagliata preparata sulla soglia della chiesa veniva detta “nnuccicàta ti chiasciòne” (“piegatura di lenzuolo”), intendendo con tale denominazione alludere alla sua simbologia e sottolinearne le proprietà sacre che aveva sviluppato. Metaforicamente elevata a sudario di Cristo non poteva infatti non rappresentarlo e quindi essere vista come apportatrice della sua benedizione riconducibile ai doni della salute, della prosperità, della pace.

Affinché il rito avesse, oltre all’equivalenza mitico-psicologica, la concretezza di un tracciato informatore, il principio – fino a quel momento perseguito idealisticamente o al massimo come cementazione di rapporti categoriali –  doveva attuarsi a livello comportamentale più vasto, ovverosia ricondotto alle radici primarie dell’amore fra tutti e per tutti. La cagliata approntata sulla soglia della chiesa nella notte di Parasceve – simbolicamente eletta a testimone del trionfo nel conflitto fra la dualità morte-vita, tenebre-luce, condanna-redenzione – andava perciò distribuita gratuitamente, destinando a fruitori di tanto dono i più poveri e derelitti.

Ancor prima che l’alba schiarisse il cielo, i pastori, con appese al braccio le loro mmarzàte colme di cagliata, si sparpagliavano per il paese, percorrendone il dedalo di viuzze e vicoli alla ricerca di usci filtranti luce, segno convenzionale che in quella casa si poteva fare l’opera di misericordia: c’era un ammalato, una partoriente, un orfanello o più comunemente un vecchio.

Chiasciòne ti Cristu!…” (“Lenzuolo di Cristo!…”), annunziavano con voce cantilenante, e battendo con un cucchiaione di legno sulla fiancata del secchio, attendevano che la porta venisse aperta e nel tenue fiotto di luce si delineasse l’orlo di un piattino entro il quale deporre tre cucchiaiate di cagliata: “Quista comu pruitènzia ti lu Patre, quista rricàlu ti lu Fìgghiu, quista asu ti lu  Spìritu Santu” (“Questa come provvidenza del Padre; questa, regalo del Figlio; questa, bacio dello Spirito Santo”).

Così di strada in strada, di vicolo in vicolo, di porta in porta, finché nei secchi non rimaneva che un sottile strato di cagliata, capace appena di coprirne il fondo: era lu rispìcu ti la ràzzia (il racimolo della grazia), ossia la porzione di benedizioni che i pastori trattenevano a beneficio delle proprie famiglie, nonché del gregge a loro affidato. Una volta tornati nelle masserie – il che avveniva subito dopo l’alba – si premuravano infatti di versare questo residuo dentro nnu fiscariéddhru (un piccolo cestello di giunchi intrecciati usato per sgrondare la ricotta), ricavandone  una pezzotta di pseudoformaggio che poi seccavano rigirandola quotidianamente nel sale, accorgimento reso necessario dal fatto che, essendo il composto a base di latte non cotto, tendeva a inacidire. E se per qualsiasi prodotto caseario l’inacidimento rappresentava un pericolo da evitare, nel caso specifico sarebbe stato recepito come il peggiore degli accadimenti, in quanto superstiziosamente interpretato come presagio di sventura per la masseria: le persone che vi abitavano si sarebbero di certo ammalate; il gregge sarebbe stato decimato da qualche morìa; i pascoli distrutti dalla grandine; e c’era il rischio che financo le opere murarie avrebbero accusato un improvviso deperimento. Questo perché la piccola forma di formaggio ricavata dai residui della nnuccicàta ti chiasciòne non veniva vista alla stregua di un qualsiasi prodotto destinato al normale consumo, bensì ritenuto elemento apotropaico, tanto più efficiente in quanto commestibile.

Una volta indurita, infatti, la si metteva gelosamente da parte, se possibile addirittura sotto chiave, ricorrendovi solo in caso di bisogno, cioè quando occorreva sventare una minaccia, arginare un pericolo, combattere una malattia, ristabilire la pace in una famiglia lacerata da gravi discordie.

Se in famiglia scoppiavano liti o si temevano delle infedeltà, le donne ne grattugiavano un pezzettino e lo mescolavano alla pasta del pane, sicure di esorcizzare in tal modo lo spirito della discordia e riavere integro l’amore del marito; sempre grattugiata e sempre a parsimoniosi pizzichi, veniva aggiunta alle minestre degli ammalati per affrettarne la guarigione, al pancotto degli anziani per salvaguardarli dal micidiale risintèriu (dissenteria) e financo inserita nelle pupatelle (succhiotti) degli infanti, soprattutto nel periodo critico della dentizione, spesso costellato da febbri e deperimenti. Né da tanta panacea venivano escluse le bestie, ché anzi si può dire ne fossero le maggiori fruitrici: nessun massaro dimenticava di elargirla alle sue pecore gravide, certo di aiutarle in tal modo a partorire agnelli sani e di vello bianco; con la stessa premura ne assicurava una porzione ai capri e ai tori da monta per regolare la pericolosa violenza, così come non mancava di somministrarla ai puledri per renderli docili alla domatura. Si può ben dire che financo i cani riuscivano ad assaggiarla, anche se, in verità, solo di traverso e cioè quando, nell’incalzare di una tempesta, il massaro, per placare la furia degli elementi, ne gettava un pezzettino all’esterno, certo di salvaguardare così i campi dalla grandine e a tenere lontane eventuali trombe d’aria.

Tutte queste credenze sui poteri “soprannaturali” della nnuccicàta ti chiasciòne derivavano dal fatto che le benedizioni assorbite durante il rito nella notte di Parasceve erano state determinate dalla forza enzimatica del latte, principio base dell’operato-vissuto pastorizio (riportabile all’agricolo impinguarsi della spiga) e quindi anche fulcro di tutta una formulazione di implicazioni superstiziose. Il positivo o il negativo di una masseria, infatti, si decretava in base alla maggiore o minore riuscita del caglio giornaliero, ché se questo accidentalmente (imperizia nella preparazione, condizioni atmosferiche sfavorevoli o anche difetto di pascolo) per più giorni sortiva male, non si esitava a parlare di malocchio e di conseguenza  richiedere con urgenza un intervento esorcistico, non dissimile da quello richiesto per una scarsa fermentazione del vino o per un  insolito inverminirsi del grano.

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Nino Pensabene, quale collaboratore ed erede dell’autrice, si riserva tutti i diritti.

Raffaella Verdesca e i suoi Volti di carta, oggi a Copertino

Copertino, Piazza Umberto, ore 18

8 Marzo 2013 – Volti di carta

Ornella Castellano dialoga

con l’autrice Raffaella Verdesca

La raccolta “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” è composta da venti racconti ispirati alla vita del popolo salentino nel secolo scorso.

Le fatiche e i sogni di contadini, vedove, soldati e gente comune vengono filtrati dalla sensibilità femminile, quella delle protagoniste, soggetti in primo piano o talvolta echi di sottofondo a vicende che un tempo scandirono la vita tanto nei centri rurali del tacco italico quanto nel resto della nazione. S’intrecciano folclore e storia dando vita a spennellate d’ingenuità contadina e di profonda saggezza umana. Il riscatto e l’emancipazione risiedono nelle mani delle donne, continua a pensare qualcuno ancora oggi, e le storie custodite in questo libro gliene danno piena conferma mettendo in luce il coraggio di mogli, sorelle, figlie e madri capaci di addolcire la brutalità delle ingiustizie e dei sacrifici con la forza del proprio essere culla di vita. E’ proprio questo prezioso messaggio di positività e coraggio che le donne portano in sé a trasformare la fine in un nuovo inizio, la sciagura in insegnamento e il dolore in dignità.

Non manca tra i righi il tocco poetico dei canti popolari, è particolarmente curato il divertimento nato dai paradossi, dalla semplicità dei personaggi, è vitale il tratteggio di personalità capaci di respirare anche a libro chiuso.

Se da una parte si lavora a sdrammatizzare, dall’altra si lascia intatto il lirismo del dolore e la sacralità della conoscenza, quella di chi deve lottare per sopravvivere e vivere per conquistarsi sereno e onore: le nostre radici sono l’assicurazione migliore sui nostri frutti.

Motivazioni

Da una valigia piena di vecchie fotografie e ricordi, salta fuori l’idea di raccontare storie utili a restituirci il valore del passato rivalutando quello del presente.

In questa raccolta si è lasciata la parola al Salento e ai ritratti che delle sue genti portano alla luce momenti di vita e voci di donna capaci di raccontarla.

Il periodo storico che fa da sfondo al libro è quello attorno alle due guerre, momento importante per enfatizzare la forte volontà popolare di ricostruzione dei princìpi e dei sentimenti contro il caos della miseria, della violenza e del sopruso sempre perpetrato ai danni dei più deboli.

Le donne di “Volti di carta”, all’apparenza parte integrante di quest’ultima categoria, raccontano invece gioie e dolori con l’integrità di un Titano, pronte a chiarirci gli orizzonti del nostro essere.

Siamo tutti figli di una madre e da questa abbiamo ricevuto e imparato la vita, la stessa che qui si cerca di non far dimenticare e soprattutto di fare amare secondo i giusti meriti.

 

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ph. Stefano Crety

Verdesca Raffaella è nata a Lecce e qui ha conseguito il diploma di maturità classica proseguendo poi i suoi studi pressola Facoltàdi Medicina e Chirurgia di Pisa.

Ha pubblicato i romanzi Chandra Mahal (Il Filo, 2005) e Deliri di una verità (Gruppo Albatros Il Filo, 2010) e le raccolte dei racconti All’ombra dell’Arca (Il Filo, 2007), Racconti per ridere- La lisca (Gruppo Albatros Il Filo, 2010) e Volti di carta- Storie di donne del Salento che fu (Gruppo Albatros Il Filo, 2012).

 

Scheda del libro:

Autore: Raffaella Verdesca

Titolo dell’opera: “Volti di carta – Storie di donne del Salento che fu

Editore: Gruppo Albatros Il Filo

Anno di stampa 2012

Formato: 21x14cm – 171 pagine

Numero illustrazioni: 26. Prezzo: 12 Euro.

Prefazione di Pier Paolo Tarsi. Patrocinio della Fondazione Terra d’Otranto

Cod  ISBN 978-88-567-5710-1

Il libro può essere ordinato all’indirizzo mail ordini@ilfiloonline.it  e in qualsiasi libreria italiana fornita da PDE.

 

Sono arrivati i santi! Tutti al teatrino dei guitti…

 

 

La piazza di Copertino in una veduta agli inizi del secolo scorso, ricavata da un vetrino a coppie stereoscopiche (coll. priv. Nino Pensabene)

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

LI SANTI A ‘NDINIEDDHRU

 

Il teatrino dei guitti che col carrozzone, di tanto in tanto, allietavano i pomeriggi domenicali, si basava su delle figure statiche (i santi, interpretati dagli stessi guitti) che – a tende abbassate , nel segreto di cinque cabine – andavano indovinate solo attraverso suoni o rumori alludenti a una particolarità episodica o iconografica del santo.

  

GUSTO DELLA SCOMMESSA

ED OSTENTAZIONE DELLA CONOSCENZA SACRO-CULTURALE

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Fra gli spettacoli piazzaioli che di quando in quando interrompevano la monotonia delle domeniche paesane offrendo ai contadini un gradito diversivo al loro abitudinario incontrarsi, bere un quarto di vino assieme e parlare di lavoro, il più elettrizzante era “Lu tiatrìnu ti li santi a ‘ndiniéddhru” (“Il teatrino dei santi da indovinare”). E questo non perché offrisse un maggiore divertimento, che anzi, al confronto delle spericolate esibizioni dei funamboli, delle clownesche uscite dei saltimbanchi o delle lunghe tessiture dei cantastorie, poteva dirsi misero – basato com’era su delle figurazioni statiche e prive di un qualsiasi commento verbale -, ma per la capacità di coinvolgimento che esercitava. Una forza dovuta unicamente alla formula d’impianto, studiata in modo di garantire agli spettatori, oltre al godimento della fruizione – comune a tutti gli spettacoli -, la possibilità di una partecipazione nonché esibizione personale, con ciò venendo a centrare quelli che – al riguardo – erano i due punti sensibili della psiche contadina: il gusto della scommessa sostenuto dalla speranza di una vincita, e la soddisfazione di potere pubblicamente ostentare la personale conoscenza sacro-culturale acquisita attraverso li cunti ti li santi patriarchi (i racconti dei santi patriarchi), al cui tramando orale scrupolosamente attendevano gli anziani ritenendolo inescludibile patrimonio del sapere familiare.

Era infatti sulla rappresentazione di personaggi arcaico-biblici o neotestamentari che il suddetto spettacolo si imperniava, ovviamente

Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

Il chiostro di S. Francesco di Paola a Grottaglie e il pittore Bernardino Greco da Copertino

 

IL CICLO BIOGRAFICO DI S. FRANCESCO DI PAOLA NELLE LUNETTE DEL CHIOSTRO DEI PAOLOTTI DI GROTTAGLIE

 

di Rosario Quaranta

 

Il chiostro dei Paolotti non è l’unico in Grottaglie; altri ve ne sono, infatti, nei diversi complessi conventuali dei Carmelitani, dei Cappuccini e delle Monache di S. Chiara. Di questi però solo quello annesso al maestoso convento del Carmine risulta degno di particolare nota, sia per la struttura che per le interessanti pitture e decorazioni. Quello dei Cappuccini, molto semplice e di modeste dimensioni, è ormai irriconoscibile come quasi tutta l’imponente struttura conventuale sita, peraltro, in un sito altamente suggestivo sullo spalto  nord della storica gravina del Fullonese, da tempo abbandonata allo scempio e alla distruzione ed ora in fase di recupero e restauro. Il minuscolo chiostro delle Clarisse, in aderenza alla peculiare severità ed estrema semplicità del monastero, non presenta interesse artistico o architettonico. Il chiostro del Carmine appartenente strutturalmente al secolo XVI e completato nelle decorazioni nel secolo XVIII, rappresenta sicuramente un elemento di notevole interesse artistico e architettonico del territorio. Nonostante le modeste dimensioni, si presenta all’occhio del visitatore snello, elegante e ricco, come quello dei Paolotti, di un ciclo pittorico di tutto rilievo.

Il chiostro di S. Francesco di Paola, annesso alla chiesa e al grandioso convento dei Frati Minimi, qui introdotti nel 1536 dal grottagliese  P. Girolamo Sammarco. è di sicuro il più importante di Grottaglie, e tra i più interessanti e significativi dell’Ordine dei Minimi, sia per la struttura che per il richiamo del ciclo pittorico quasi completo della vita del taumaturgo calabrese. La struttura architettonica risale, perciò alla seconda metà del  secolo XVI, mentre le lunette  vennero  completate nel 1723, con fresca e originale vena popolaresca, dal pittore salentino Bernardino Greco da Copertino, il quale per le varie scene si ispirò abbastanza fedelmente a una serie di incisioni di Alessandro Baratta stampate con didascalie poetiche a Napoli nel 1622: La  vita e miracoli del gloriosissimo Padre Santo Francesco di Paola, con le rime di Don Oratio Nardino Cosentino, dato in luce per Ottavio Verrio genovese, Napoli 1622 (altra edizione a Napoli nel1627 a cura di Giovanni Orlandi).

1723 FIRMA DELL’AUTORE BERNARDINO GRECO DA COPERTINO

Nelle lunette di Grottaglie vengono proposti, senza un vero e proprio ordine, episodi della vita miracolosa del  santo di Paola, insieme con figure e personaggi legati alla storia dell’Ordine dei Minimi. Ogni scena è illustrata da una didascalia poetica (quattro quartine sono del celebre letterato minimo del Seicento Francesco Fulvio Frugoni)  e riporta i nomi e gli stemmi delle famiglie grottagliesi che commissionarono l’opera, tra le quali quella dei feudatari principi Cicinelli.

Il chiostro, in parte restaurato, è un monumento studiato e giustamente decantato in diverse pubblicazioni da P. Francesco Stea; in particolare nel suo Un monumento barocco (Fasano, 1979): Ecco come ne parla: “Al centro del convento si allarga il chiostro: costru­zione ad ampio respiro, quadrilatero perfetto, che si articola in venti arcate a tutto sesto, rette da colonne doricheggianti di carparo locale. Su tre lati — sud, est, ovest — esse sono quadrate e sormontate da brevi capitelli; a nord sono ottagonali a diretto sostegno dell’arco. A somiglianza del tempio dorico, poggiano, senza base, sullo stilobate, «come albero che spunta direttamente dal terreno»; la loro base è un unico rialzo perimetrale, con due cuscinetti accennati a dop­pio ripiano; il fusto è senza scanalature, assottigliato, per accentuare l’energia di tensione verso l’alto. Il ca­pitello si compone d’un cuscinetto a linea curva — echino — e di un parallelepipedo — abaco — sul quale poggia un semicatino con foglie ai lati; un’ampia cor­nice a più ripiani, inizia il pie’dell’arco. Nella parte superiore del lato nord, i pilastri ripeto­no motivi analoghi a quelli del piano inferiore: echino ed abaco più evidenziati e fregi ai quattro lati. Corre sull’orlatura la “sima” con le docce per l’acqua piova­na; il tetto, infine, è a terrazze lastricate. Le volte sono a vela; al centro una pigna, di forma quasi sempre diversa, fa da chiave di volta. Sei ampi finestroni luminosi del corridoio di sog­giorno soprastante l’atrio si affacciano sul lato nord, in proiezione prospettica, conferendo eleganza e son­tuosità (…) Oltre all’equilibrio architettonico e alla simmetria dell’intero corpo di fabbrica, pur nel continuo variare dei diversi elementi, in mirabile armonia tra loro ad accrescere fascino e bellezza concorrono gli affreschi sotto le vele. Sono trentadue le lunette, comprese quattro dell’ ingresso, di cui una è andata completamente perduta, l’altra è visibile solo per metà. Di fronte, nel vestibo­lo, si apre l’albero genealogico dell’Ordine; le altre si snodano come in un interessante diorama storico: la vita del Santo Fondatore dei Minimi e la sua azione prodigiosa, lungo tutto l’arco dei suoi novantuno anni. Tra l’una e l’altra, dove si allarga l’angolo della vela, sono inseriti dei medaglioni di illustri personalità: re, regine, duchi, arcivescovi, vescovi, benefattori insigni, terziari dell’Ordine con i loro stemmi e blasoni: venti in tutto (…) Ove meglio le pitture si conservano, è sul lato nord, a ridosso di tramontana; qui non hanno perduto nien­te della loro primitiva freschezza, come la canonizza­zione del Santo, affollatissima di alti dignitari pontifici ed ecclesiastici di ogni rango. In un’altra, il Santo appare circonfuso di fulgore nella gloria della sua apo­teosi, con i lembi della tonaca che sembrano toccare terra, come per assicurare i suoi devoti, dal cielo, che egli continua a guardarli e proteggerli. Importanti, per l’araldica grottagliese e di qualche famiglia di paesi forestieri, i nomi di chi ne ordinò l’esecuzione; alcuni sono tuttora esistenti: Marra, Lo Monaco, Serio, Ciracì, Lillo, Finto, Maranò, Caforio, Bucci. Di ventisei lunette conosciamo il committente, de­gli altri il nome non è riapparso dopo i restauri; sei della famiglia Pinto; sei del Principe di Cursi e Duca di Grottaglie; sei di sacerdoti grottagliesi; una del Viceduca Antonio Damiano; una del Barone Tommaso Basta di Monteparano; le rimanenti di altri de­voti. Pitture fatte eseguire senza finalità specifiche o particolari riferimenti ai soggetti raffigurati: alcuni com­mittenti avevano il nome “Francesco”, evidente la de­vozione al Santo; i sacerdoti erano quasi tutti del locale Capitolo Collegiale; anch’essi vollero in tal modo manifestare l’attaccamento al Paolano, oltre che all’Ordine dei Minimi, orgogliosi del decoro e del lustro che il monumento conferiva al paese. I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza (…) Negli affreschi domina sovrana la figura del Santo, attorniato da alcuni suoi religiosi o seguito da ammi­ratori e devoti. Gli spazi sono pieni, qualche volta, di immagini senza vita e movimento, che balzano all’oc­chio dell’osservatore, non senza un fascino alla luce del giorno, suggestiva e piena di mistero nella penom­bra della sera. Le scene conferiscono una sacralità a tutto il chiostro, e non pochi sono coloro, che, en­trando, in ore vespertine, vengono presi da religioso rispetto e timore: sembra che il Taumaturgo di Paola, dipinto nelle lunette, abbia, operato qui, tali pro­digi. La storia, così varia, di oltre quattro secoli, svoltasi sotto queste arcate e nell’intricato dedalo dei lunghi corridoi del convento, la severità e la ieraticità di tanti personaggi dicono che «ora, veramente, questo luogo è santo», specie se si considera il forzato abbandono da parte dei religiosi, quando, tristi e foschi episodi ne hanno profanato la sacralità.”

L’Autore delle pitture murali: Bernardino Greco

Per quanto riguarda l’autore, gli unici dati certi derivano dalla sottoscrizione e dalla data che si possono ancora  leggere, inserite in un cartiglio nel vestibolo del convento: “Bernardino Greco di Copertino dipingeva nell’anno del Signore1723”.  Di sicuro sappiamo che egli dipinse pure il ciclo pittorico sul santo di Paola del convento di Monopoli (Bari): 20 lunette corredate, come a Grottaglie,  da didascalie, ritratti di personaggi illustri, stemmi nobiliari e decorazioni. Si  tratta di una serie di episodi dipinti con una vena leggermente più sommaria e semplificata.

Il pittore copertinese, di certo su indicazioni dei religiosi grottagliesi, dipinse gli episodi della vita del santo su 28 lunette del chiostro e su tre lunette del vestibolo; sull’intera quarta parete del vestibolo, ed esattamente quella posta di fronte all’ingresso, raffigurò l’albero dell’Ordine dei Minimi (Arbor Religionis Minimorum). Quindi in tutto 31 episodi biografici, dei quali, però, quello raffigurante probabilmente la morte del Santo è andato completamente perduto, e altri tre sono cancellati per oltre la metà (Il Santo che ripara la fornace ardente, l’asinello restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco e l’episodio dei pesci arrostiti fatti tornare in vita). Diversi altri, poi, versano in uno stato di progressivo deterioramento che nel volgere di pochi anni ne rovinano vistosamente i tratti; è il caso degli episodi riguardanti il passaggio dello stretto di Messina, il miracolo dell’uomo assiderato da tre giorni e tornato in vita, del guerriero miscredente e dello stesso Albero della Religione del vestibolo ormai irriconoscibile per oltre la metà. Una vera iattura da fronteggiare al più presto se si vuole salvare questa testimonianza di religiosità e di cultura.

Per buona fortuna, ad eccezione della lunetta del tutto perduta, siamo in grado di identificare e riconoscere tutti gli altri episodi grazie al modello che il pittore tenne presente abbastanza fedelmente, tratto, come si è detto, dalla serie delle tavole realizzate nel primo Seicento dal pittore-incisore Alessandro Baratta.

Il lavoro del pittore si protrasse per un certo tempo prima di concludersi nel 1723 che, evidentemente, è la data di conclusione dei lavori fissata nel cartiglio del vestibolo; una prova di ciò si può intravvedere nella mancanza di un preciso ordine nella sequenza degli episodi e dei medaglioni dei personaggi. Probabilmente si dovette procedere in base agli interventi finanziari di coloro che commissionarono le pitture con gli episodi miracolosi scelti da loro stessi tra quelli che maggiormente li avevano colpito e corredandoli con didascalie poetiche e con la raffigurazione dei propri stemmi o blasoni nobiliari. Spiega ancora P. Stea: “I versi, quartine e terzine rimate, risentono del gu­sto del tempo e s’intonano perfettamente al soggetto rappresentato. Essi, oltre che deteriorati, non sono stati, in parte, riprodotti con fedeltà. Alcune strofe non prive di pregio denotano spontaneità e scioltezza: evidente il fine di magnificare ed esaltare la potenza taumaturgica del Santo.

Ecco l’oro del cor fatto assassino

Spander punito i sanguinosi umori;

Perché succhiò le vene a tanti cori

Rende il sangue rubato il ladro fino.

Nella reggia di Napoli, dove Ferdinando d’Aragona non si fa scrupolo d’angariare e di vessare le popo­lazioni, l’Eremita di Paola tuona con la forza del suo animo contro i soprusi che immiserivano la povera gente.

A stupir qui, natura, Egli t’invita

Informe volto a disegnar s’accinge;

Ad immagine sua qual Dio, lo pinge,

Sputo è il color, e son pennel le dita.

Pittura e poesia si fondono mirabilmente: non sap­piamo dove l’una cominci e l’altra finisca. La fresca vena popolare, è componente unica nella cornice architettonica di colore.

Questo sincronismo ci induce a ritenere il chiostro un’opera degna di nota tra le altre della nostra regio­ne; giudicarlo diversamente sarebbe voler obliare ogni espressione d’arte minore e limitarsi alle mag­giori.”

Gli episodi della vita del Santo

La biografia del Paolano viene perciò efficacemente illustrata con una sequenza consistente di episodi che così si possono riordinare:

  1. Un bagliore nel cielo di Paola nella notte in cui nacque il Santo
  2. Nascita del Santo (27 marzo 1416)
  3. Il giovane Francesco si consacra a Dio coi i 4 voti (ubbidienza, povertà, castità e vita quaresimale)
  4. Il giovane Francesco riceve dagli angeli le insegne dell’Ordine (il cappuccio e lo stemma CHARITAS)
  5. Un capriolo scampa ai cacciatori rifugiandosi presso il Santo
  6. Con l’applicazione di erbe il Santo guarisce il barone di Tarsia da una cancrena alla gamba
  7. Il Santo accetta una generosa offerta da un nobile cosentino per la costruzione di un convento
  8. S. Francesco entra nella calcara ardente per ripararla (nel vestibolo, in alto, sul portone)
  9. Risana un religioso che si era tagliato il piede nel fare legna nel bosco
  10. Richiama in vita dalla fornace ardente l’agnellino divorato dagli operai
  11. Fa tornare in vita un morto assiderato nella neve da tre giorni
  12. I soldati inviati dal re non riescono a catturare il Santo
  13. E’ sorpreso in estasi davanti alla Trinità con una triplice corona sul capo
  14. Guarisce un lebbroso
  15. Ordina all’asinello di restituire gli zoccoli al maniscalco avaro (vestibolo, in altro a destra)
  16. Guarigione di forsennati e furiosi
  17. Ridona sembianze umane  a un bambino deforme servendosi delle dita come un pennello
  18. Risuscita il nipote Nicola D’Alessio che poi diventerà frate
  19. Passa miracolosamente lo stretto di Messina
  20. Consegna ai soldati del conte d’Arena la candela benedetta per la guerra contro i Turchi
  21. Un soldato rifiuta la candela benedetta dal Santo; per questo egli non fece ritorno dalla guerra contro i Turchi
  22. S. Francesco di Paola spezza le monete d’oro davanti a Re Ferrante d’Aragona a Napoli
  23. Ridona la vita ai pesci arrostiti che il re gli aveva fatto portare (rovinata)
  24. Il Santo è ricevuto a Roma dal Papa Sisto IV. In alto a destra egli profetizza il pontificato a Giovanni dei Medici che poi lo canonizzerà nel 1519 (Leone X).
  25. La nave che aveva portato il Santo in Francia, al ritorno, scampa al naufragio grazie agli zoccoli del santo gettati in mare
  26. Il re di Francia Luigi XI accoglie il Santo
  27. Profetizza a Luigia di Savoia la nascita di un figlio.
  28. Luigia di Savoia presenta al Santo il figlio avuto per sua intercessione (Francesco I di Francia).
  29.  (Perduta: probabilmente raffigurava la morte del Santo)
  30. Canonizzazione del Santo in S. Pietro (1 maggio 1519)
  31. Il Santo Taumaturgo guarisce i malati di ogni sorta (vestibolo, in alto a sinistra)
  32. Albero dell’Ordine dei Minimi (vestibolo, di fronte)

Il vestibolo del convento appare oggi molto diverso da come si presentava nei secoli scorsi. L’incuria degli uomini e lo scorrere inesorabile del tempo ne hanno irrimediabilmente compromessa la bellezza: la parete che si trova di fronte all’ingresso, una volta interamente ricoperta dalla pittura murale raffigurante l’Arbor Religionis, oggi conserva solo una parte di questo interessante soggetto iconografico e per giunta in condizioni pietose. Delle tre lunette sovrastanti, solo una (e cioè l’azione taumaturgica del Santo) si può ancora osservare nella sua interezza, mentre le altre due (e cioè l’episodio della fornace ardente e l’asinello che restituisce gli zoccoli all’avaro maniscalco) risultano perdute per oltre la metà. Anche la volta, interamente decorata, è molto rovinata; nonostante tutto è ancora possibile leggere sui due cartigli il nome dell’Autore e la data di realizzazione:

BERNADINUS GRAECUS   [CO]PERTINENSIS  [PINGE]BAT

[……………………………………… ]   A. D. MDCCXXIII

Il significato allegorico dell’albero che, partendo alla base dal corpo del Fondatore, si innalza maestoso nella storia della Chiesa e  che porta i suoi buoni frutti di virtù e di santità, viene espresso in maniera alquanto diversa e semplificata rispetto a una nota incisione del 1622.

Comunque , si può ancora vedere in alto, “ il Fondatore S. Francesco di Paola; sul suo capola SS.ma Trinità; intorno, un coro di angeli festanti e uno stuolo di venerabili martiri, confessori, dottori e vergini, re, regine, personalità illustri, alti dignitari, ecclesiastici, religiosi del primo Ordine, suo­re e terziari d’ambo i sessi; sotto, si diramano maesto­si e folti i rami di questo albero secolare, che «diede fiori e frutti santi», al dir di Dante.”

Il progressivo deterioramento sta gradualmente cancellando dal basso verso l’alto, numerosi personaggi al punto  che alcuni di questi già riportati nella monografia di P. Stea, sono ormai scomparsi. La stessa sorte sta interessando purtroppo molte altre lunette.

Recentemente sono state restaurate le due lunette relative al fausto presagio della notte in cui nacque il santo e al miracolo della nave in tempesta, salvata per intercessione del santo. Si attende anche per le altre un intervento sollecito per salvare questo significativo monumento di spiritualità di arte e di cultura del nostro territorio.

Sul feudo copertinese di Specchia di Normandia o Cambrò e sulla masseria “la Torre”

di Marcello Gaballo

Uno dei più bei complessi masserizi dell’agro di Copertino è la masseria comunemente nota come “la Torre”, sulla strada Nardò-Copertino, a poche centinaia di metri da quest’ultima, raggiungibile mediante più tratturi. Posta al centro di un territorio coltivato ad uliveto di antico impianto, confina a nord con la masseria Li Tumi, a ovest con proprietà Licastro, a sud con la ferrovia, ad est con altra proprietà Licastro.

La singolarità e la peculiarità della sua forma, pur nella varietà delle tipologie masserizie della Puglia, è data nel nostro caso dall’imponenza del torrione, che rinvia al mastio e alle torri angolari del cinquecentesco castello copertinese e particolarmente allo stile delle torri costiere a pianta quadrata della “serie di Nardò”. Se queste ultime avevano prevalentemente funzione di avvistamento, la nostra masseria possiede più i connotati di una residenza signorile, fortificata per la difesa patrimoniale del bestiame, dei prodotti agricoli e delle suppellettili. Attorno ad essa si sono man mano aggiunti, e sino a pochi decenni addietro, locali di lavoro e di deposito, inevitabile segno delle dinamiche storico-produttive del complesso, che hanno alterato la struttura originaria, che tuttavia non ha risentito delle grandi trasformazioni agrarie tra Otto e Novecento.

Una prima testimonianza architettonica della masseria, anch’essa singolare ma più tarda, è a meno di 200 metri. Si tratta di una vera e propria dimora in tufi, aperta su tutti i quattro lati, con due archi laterali per parte ed uno, più alto, avanti e dietro. Al centro ospita il pozzo, il cui boccale è delimitato da blocchi di pietra piuttosto voluminosi.

Il prospetto della masseria è rivolto a mezzogiorno, verso Copertino, e su di esso spiccano l’unica caditoia, localizzata al centro della facciata, a sbalzo su mensoloni lobati, in corrispondenza dell’ingresso originario (ancora raggiungibile con scala in muratura), il cordolo marcapiano, la cornice a beccatelli, la base quadrata con leggera scarpa, che ricordano ancora i tempi in cui i pirati degli stati barbareschi rendevano insicure le nostre terre.

Evidente come essa sia stata concepita quale difesa passiva, vista la possente muratura, e come difesa piombante, basata sul lancio dalla terrazza di pietre o liquidi contro gli assalitori. Sulla restante cortina muraria, anche questa in blocchi squadrati di pietra locale a faccia vista e di buona fattura, nel corso dei secoli sono state arbitrariamente aperte diverse finestre, più grandi a pianterreno, ed un secondo ingresso, resosi necessario per essersi in essa stabilito un ulteriore proprietario. Tale divisione ha comportato anche all’interno della struttura molte variazioni architettoniche, certamente utili e funzionali per l’attività lavorativa, purtroppo deturpanti nella maggior parte dei casi, come è dato dal voluminoso corpo aggiunto adibito a forno.

Dell’impianto originario interno, anche questo caratterizzato da una architettura essenziale e priva di ogni ornamento, sopravvive il collegamento tra i locali superiori e gli inferiori, un tempo consentito dalla rimovibile scala in cordame. Il recinto, ottenuto con antichissime pietre pazientemente incastrate “a secco”, delimita l’ampio cortile col suo frantoio ipogeo, stalle e granai, cui si sono aggiunti nel corso dei secoli locali voltati usati ad abitazione e depositi, immaginando di aver potuto ospitare almeno trenta-quaranta persone. La distanza dalla strada carrozzabile, ma non dalla ferrovia che passa vicinissima, ha permesso all’ambiente circostante di conservarsi nella sua fisionomia e ancora oggi agli uliveti si alterna l’incolto, dove un tempo erano prevalenti la coltura granaria e l’allevamento del bestiame.

L’antichissimo feudo in cui il complesso è ubicato è quello denominato Cambrò o Specchia dei Normanni, compreso tra quelli di Castro, Puggiano, S. Barbara e Mollone, che nel 1316 possedeva Nicola de Buggiaco, per eredità del padre Roberto . Nel corso dei secoli la distinzione tra il feudo e la masseria fu sempre meno netta, tanto che nei documenti spesso veniva citato l’uno per l’altro, perché coincidevano i proprietari: nel 1550 i terreni e l’abitato sono del barone Carlo Balsamo e nel 1564 è detta la “masseria del defunto Antonio Bove” . Nel 1567 il nome è variato, ritrovandosi come “la massaria de li Troyali”, derivata dal nome del nuovo proprietario di Copertino, Giorgio Troyali alias Arenito , che nel 1570 l’ha ceduta, con l’annessa chiesa di S. Martino, al concittadino Organtino Verdesca, da cui ad Angelo Lombardo nello stesso anno.

Il feudo invece nel 1568 appartiene al nobile Lucantonio Sambiasi di Copertino che vende, per poi ricomprare nel 1583, diversi appezzamenti di terreno al barone neritino e suo congiunto Lupantonio Sambiasi per 1300 ducati . L’omonimia fu ancor più evidente negli ultimi anni del secolo XVI e nei primi del successivo quando del feudo non si fa più menzione negli atti notarili, né tantomeno nei secenteschi Cedolari di Terra d’Otranto, forse perchè integrato col confinante feudo di Castro, che detenevano i baroni Personè.

Intanto la masseria ha cambiato denominazione per la nuova proprietà passata ai nobili Lombardi e infatti nel 1577 è dei fratelli Cesare e Giacomo Lombardi, figli di Angelo. Gli stessi vendono, a beneficio dello spagnolo Giovanni de Sisegna, alla ragione del 10% per un capitale di 200 ducati, un vigneto di 10 orte ed un uliveto con casa lamiata, pila e palmento, in loco vulgariter dicto la massaria dè Lombardi, con atto del notaio Russo Antonio di Copertino del 6/5/1577. Successivamente i fratelli vendono gli stessi beni al neritino Alessio Sambiasi, il quale si impegna a versare i predetti 200 ducati al Sisegna . A distanza di una ventina d’anni la fortuna dei due fratelli dovette man mano scemare, visto che si registrano diversi loro atti di vendita dei beni ubicati nel feudo: nel 1581 vendono un uliveto di 300 alberi al monastero di S. Chiara di Copertino per 100 ducati ; diversi appezzamenti li vendono nel 1592 al barone Cesare Sambiasi di Nardò, figlio del predetto Lupantonio.

In altro atto del notaio neritino Fontò del 1588 il predetto Cesare figura signore del feudo “Specle de Normandia” e forse anche della nostra masseria, visto che da cinque anni continua ad acquisire altri appezzamenti circostanti per accorparli in una più efficiente unità poderale; alcuni dei terreni li acquista ancora da Giorgio e Domenico Troyalo , altri da Giovan Battista Imbeni e suo figlio Guglielmo . Notevoli dovettero essere i capitali investiti dal barone in questa proprietà, che nel 1598 continua ad acquisire gli ultimi appezzamenti rimasti in altrui possesso: nel 1598 Cesare Lombardi gli cede i terreni in loco la Carcara, confinanti coi beni di Cesare Imbeni e le terre dotali di Francesco Lubelli , e Giacomo Liuzzi un oliveto con 800 alberi. Questi sono gli anni in cui si affermava progressivamente il sistema di masserie in tutta la Terra d’Otranto e così cospicua proprietà, come per molte altre del territorio, da una lato assicurava la regolarità dei rifornimenti alimentari, dall’altro rappresentava una eloquente testimonianza del benessere e del comprovato status delle famiglie più ricche della provincia, tra cui anche i Sambiasi.

Numerosi atti notarili di questo decennio documentano il fitto scambio di derrate alimentari e, particolarmente, l’esportazione via mare del commerciabile e prezioso olio dall’opulenta terra salentina in ogni parte del Regno di Napoli.

Dopo un intricato sistema di vendite e ricompra dei terreni circostanti, finalmente nel 1613 la nostra masseria, chiusa di pariti di pietre, in loco Specchia Lombardia, feudo Castri, risulta di Giuseppe Sambiasi, figlio di Alessio, a sua volta erede del predetto Cesare. Tra gli altri beni essa comprende un curaturo lini, uno palmento et pilaccio dentro, puzzo seu cisterna e curtali, e numerosi appezzamenti con terre scapole, dei quali uno con arbori di olive 1000 incirca, et altri arbori communi venduto ai Sambiasi da Cesare Lombardi e dai suoi figli Angelo e Lucio per la considerevole somma di 1950 ducati.

La torre-masseria risulta finalmente realizzata nel 1625, quando, in altro rogito, il complesso viene descritto tra le proprietà del chierico Giuseppe Sambiasi, titolare anche del feudo Specle de Normandia, e consiste in terriis factitiis et machosis, olivetis, turri, capannis et ovilibus et aliis membris suis . Lo esplicita un altro atto dell’anno seguente, quando è comproprietario Bernardino, fratello del predetto chierico: vi è la torre, detta li Lombardi, ubicata nel feudo inhabitato vulg. nuncupato Specchia di Anormandia, vicina ad altri beni di Giuseppe .

L’ingente investimento da parte del facoltoso Alessio Sambiasi fu senz’altro dovuto alla disponibilità pecuniaria pervenutagli dalla dote della seconda moglie, la galatonese Vittoria de Ferraris, che gli aveva procurato ben 3200 ducati, che si aggiungevano ai beni di famiglia e a quelli ottenuti dalle prime nozze con Isabella, figlia del barone neritino De Pantaleonibus. Visto che la ratifica del secondo matrimonio avvenne nel 1618, è da pensare che la costruzione della torre possa essere iniziata dopo il 1618, per essere ultimata nel 1625. Certo è difficile sapere se si trattasse di un ampliamento ed innalzamento della domus lamiata del 1603, a sua volta magari costruita su un’antichissima sopraelevazione del suolo che dava il nome al feudo.

Si può anche ipotizzare che a metterla su furono gli Spalletta, mastro Angelo o più probabilmente suo figlio Vincenzo, che qualche anno prima aveva ultimato la costruzione della torre costiera del Fiume, oggi nota come Quattro Colonne, e che in più occasioni aveva lavorato per i Sambiasi di Nardò. Vincenzo, come il padre, era partitario Regie fabrice nuncupata de Fiume e nel 1609 riceve per quest’opera un ulteriore acconto o saldo definitivo dal cassiere dell’università neritina Donato Antonio Massa.

I proprietari della masseria però dovettero avere qualche problema finanziario e a causa di censi non pagati il complesso viene venduto all’asta e liberato da Melchiorre de Filippo di Racale, con atto del not. Palemonio del 9/10/1636. Da Melchiorre viene donata al fratello chierico Antonio, ma il pieno suo possesso risulta bloccato dalla Curia Vescovile di Nardò, in quanto la masseria era stata già venduta su istanza del monastero dell’Annunziata di Copertino che doveva esigere i predetti censi.

Rimessa all’asta la masseria viene acquistata da Bartolomeo de Magistris di Gallipoli, ma residente a Copertino, per 260 ducati, con atto not. Giacomo Panarello di Lecce del 1/8/1636. Il de Magistris la cede al citato monastero con istrumento del notaio copertinese Pietro Fulino del 3/12/1637.

Nel 1662 comunque conserva la dizione di massaria de’ Lombardi e si trova in Specchia di Normandia , di cui è feudatario il gallipolino Diego Sansonetti . Il figlio di Alessio Sambiasi, Giuseppe, nel frattempo ha saldato la quota restante dei 200 ducati dovuti a Giovanni Sisegna da suo padre nelle mani di Maddalena, per conto di sua sorella Isabella Isalas, a sua volta rappresentata dal procuratore Pietro Alvarez, hispano .

Per quasi un altro secolo la masseria passa da padre in figlio tra i Sambiasi, per ritrovarla proprietà del leccese Francesco Maremonti, come si evince dal Catasto Onciario di Copertino del 1746, cui è pervenuta per dote della moglie Maddalena Sambiasi, una degli ultimi rampolli del facoltoso ramo copertinese, figlia di Tommaso e Maria Sambiasi, eredi di Vitantonio. Il Maremonti dovette poi vendere il complesso ai baroni Personè, già titolari dei vicini feudi di Castro e Ogliastro, dei quali Giuseppe possiede la masseria “la Torre” nel 1774 .

Dai Personè probabilmente fu venduta per una parte ai Licastro di S. Cesario di Lecce, in persona di Francesco (deceduto a S. Cesario il 29/12/1937), possessore anche delle vicine masserie Cambrò e Marulli, che la cede al figlio Raffaele, da cui ai figli Roberto e Giovan Francesco Licastro-Scardino, residenti in Lecce. Questi, con atto per not. Astuto di Lecce del 3/4/1970 la vendono ai coniugi Giovanni Mele e Lucia Marinaci di Copertino, da cui al figlio Salvatore che la possiede tuttora. Tale quota è al foglio 51, part. 45, ha superficie abitativa di 350 mq. ed un terreno circostante di 55.000 mq. di cui 10.000 piantumati con ulivi e 45.000 di seminativo e alberi da frutto La restante parte, di ettari 38, are 19 e centiare 24, era di Luigi Vaglio, che la trasmise ai figli Teresa e Giuseppe. I figli di quest’ultimo, che avevano avuto anche la parte degli zii Teresa, Bartolo, Felicetta, Pasquale, Maria e Giuseppina, nel 1964 vendono la parte alla “Cassa per la Formazione della Piccola Proprietà” , che successivamente viene acquistata da Rolli, dei quali oggi Giuseppe possiede la restante parte.

Nonostante la bellezza e la vetustà del complesso, purtroppo si constata il lento dissolversi del modello originale e molti punti stanno miseramente franando per mancanza di manutenzione. Per svariati motivi il suo sistema produttivo non è più proponibile e spontaneamente nasce l’idea di una sua utilizzazione a fini turistici, sempre che le vertenze giudiziarie trovino presto risoluzione.

Sarebbe un altro esempio della civiltà contadina salentina che troverebbe giusto recupero, come timidamente si osserva in qualche altro sito della opulenta e bella provincia, che fatica a trovare il suo rilancio sul mercato internazionale del turismo, dimostrandosi incapace di valorizzare le sue risorse e, come in questo caso, il suo caratteristico paesaggio, che la benefica natura ha voluto favorire colmandola dei doni di Bacco, Cerere e Minerva.

La porta bronzea della basilica Sancta Maria ad Nives di Copertino

Le figure, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.

  

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

La creazione di un’opera d’arte che si trovi, già in partenza, condizionata da precisi moduli di collocazione, e quindi subordinata alle esigenze di un contesto ambientale, non può non rivelarsi complessa, se non addirittura difficile. La sua maturazione, infatti, deve scontare in anticipo la prigionia dell’orbita assegnatale, e perciò spesso si svolge in un clima di contrasti, o per lo meno in un conglobamento di motivi non sempre facilmente incastrabili fra di loro.

Per semplificare l’idea, la si potrebbe paragonare alla sorte delle antiche donzelle reali che, promesse spose fin dalla nascita, dovevano dalla più tenera infanzia adeguarsi – a volte torcersi – alle abitudini e culture del popolo che in un domani le avrebbe avute a regine. Il loro, era perciò un crescere nella messa a fuoco della cornice che le avrebbe inquadrate, e ogni giudizio sulla loro adeguatezza al ruolo andava sempre rappresentato in chiave di trapianto.

Un costante gioco di trasposizione che, tornando all’arte, non può che rivelarsi stressante per l’artista, costretto a far marciare insieme la carica creativa e le remore di ordine logistico. Considerazione questa da non dimenticare quando si accede a una valutazione dell’opera, che necessariamente deve essere giudicata nel contesto del suo inserimento, oggettivata cioè non soltanto nelle sue incidenze espressive, ma anche, forse soprattutto, nella sua maggiore o minore concordanza con l’insieme. Che se poi l’insieme è una costruzione antica come la basilica S. Maria ad Nives di Copertino, l’asserto si complica, poiché al di là dei rispetti architettonici, dei rapporti spaziali e delle eventuali fedeltà iconografiche, si impone la necessità di non generare strappi all’atmosfera stessa della costruzione, quell’atmosfera  complessa – impossedibile ma percepibile – che è propria  dei monumenti antichi e contemporaneamente sacri, e che scaturisce non tanto dalla sedimentazione del tempo, quanto da un’avvenuta permealizzazione spirituale. Elemento sottile e pur non di meno determinante per un approccio artistico che, in questo caso, deve essere condotto sul filo dell’avvertibile più che del semplice visibile.

Quasi una sintonizzazione sulle onde del sensoriale che Raffaele Del Savio deve avere bene eseguito durante le sue visite di studio alla Basilica – precedenti e seguenti all’incarico di realizzare in bronzo la porta centrale della chiesa – e intelligentemente teorizzato, tanto da riuscire poi a lievitarne la presenza nella dipanazione dell’opera, che appare appunto come patinata dal passaggio di una luce che la insegue, la raggiunge e la supera in uno stabilirsi di circuito.

Patina che peraltro potremmo definire composita, poiché al di là della luce – che è la risultanza più avvertibile, soprattutto quando si avvita sul tondeggiare delle figure – s’inseriscono delle modulazioni diaframmatiche, quasi parvenze di un tempo vissuto e perciò unificato alla porosità delle scansioni circostanti.

Le figure, infatti, pur nel loro vitale proporsi, non irrompono prepotenti, non asservono la loro carica alla limitazione del momento, bensì la carpiscono a un’armonia cuneiforme che le rende promanazione di un passato o, se preferiamo, concretezze riassuntive di una scenografia preesistente.

Che Raffaele Del Savio abbia solide esperienze scenografiche (è infatti Direttore di Scenografia al Teatro Comunale di Firenze) lo si comprende a primo acchito, e non tanto dall’armonica formulazione delle scene, quanto dall’aver saputo brillantemente risolvere il rischio di un’immanenza del fondo come piano d’appoggio, pervenendo, in virtù di ritmi spaziali ben congegnati, a un’abolizione del piano come superficie geometrica. Le figure, nascendo, già autonomizzate e quindi non soggette a schiacciature di appoggio, incrinano il piano, dissolvendone l’ingrata schematicità, sicché la porta esiste soltanto come proiezione, come orizzonte interno, quindi, ovviamente, assorbita dalla  contestualità delle immagini e felicemente mutata in spessore atmosferico.

Il rapporto diretto esistente tra figure e piano di appoggio ne esce così traslato o,  meglio ancora, incuneato in uno spazio indefinito che può essere

L’arte di scavare la pietra

di Fabrizio Suppressa

I primi abitanti che popolarono il nostro territorio erano prevalentemente semi-nomadi, si spostavano a seconda dei periodi stagionali con gli armenti al seguito, alla ricerca di pascoli da utilizzare. I loro ricoveri erano costruiti con materiale vegetale (legno, canne, fango, pelli), sul suolo calcareo, come testimoniano i numerosi buchi da palo, scavati nella roccia in aree costiere o sulle alture rocciose.

Con lo stanziamento, le invasioni e l’influenza di altri popoli, nonché con lo sviluppo di nuove tecnologie, l’uomo iniziò a sfruttare ciò che aveva in abbondanza – il materiale lapideo – ricercando nuove soluzioni edilizie adatte ai nuovi bisogni.
Sulle scogliere di Porto Selvaggio è presente una cava, datata all’epoca messapica, da cui si estraeva una roccia calcarea molto compatta e resistente, cavata con un metodo molto antico: venivano scavati i contorni del concio da estrarre e si infilavano al di sotto dei cunei di legno che, bagnati abbondantemente con acqua, dilatandosi provocavano il distaccamento del pezzo dal substrato roccioso;  sono ancora visibili i segni lasciati dagli scalpelli, e numerosi blocchi monolitici, alcuni di notevoli dimensioni, che aspettano da millenni un imbarco, dai resti del sommerso molo d’attracco delle navi.

Passarono i secoli e dal vicino Oriente arrivarono i monaci Basiliani, portatori di grandi conoscenze tecniche, oltre che della cultura e della lingua. Essi erano dediti prevalentemente all’esercizio spirituale, in ascesi, o in piccoli cenobi. A causa delle persecuzioni iconoclaste e delle scorrerie di pirati e barbari, preferirono realizzare i loro luoghi di culto e le loro dimore in cavità ipogee che scavarono a mano, creando cripte, abitazioni a grotta, depositi per derrate alimentari. Alcuni complessi molto articolati dove si uniscono con splendidi affreschi raffiguranti scene di rievocazioni evangeliche e figure di santi per lo più orientali sono tra i capolavori del Salento. I monaci insegnarono alle nostre genti medievali i benefici di queste tipologie abitative di cui rimangono molte testimonianze nei pressi di Casole a Copertino, come pozzelle e case a grotta, ormai riempite di terra per piantarvi ulivi. Rimangono ancora alcune cripte, come a Veglie quella della Favana, in agro di Nardò quella di Sant’Antonio Abate, a Copertino quella di Masseria Monaci, della Grottella; rimangono anche alcune testimonianze orali, seppur molto fantasiose di lunghe gallerie che collegano varie località, come i conventi.

 

Dal Basso Medioevo agli Anni ’50

Con la necessità di accorpamento della popolazione e la relativa difesa, cresce il bisogno di materiale edilizio per la costruzione delle strutture. Nasce così la nuova figura dello zzoccatore, o del cavamonti, mentre il paesaggio rurale si trasforma; alcune aree adatte all’estrazione vengono trasformate per la nuova attività “industriale”. Lo zzoccatore, era uno dei mestieri più duri e meno pagati, il nome deriva dall’unico attrezzo usato, lo zzueccu; un ferro con due punte, la prima lunga circa 35 cm e stretta, disposta a coltello, serviva per creare i quattro solchi paralleli, che davano i lati al concio, la seconda punta più corta, lunga circa 20 cm, con forma di ascia, serviva ad estrarre il pezzo mediante lievi colpi e facendo leggermente leva alla base, e per livellarne le irregolarità.

Lu zzueccu Esiste ancora a Copertino, il vico degli zoccatori, un rione all’epoca molto povero e con le condizioni igieniche ai limiti della vivibilità, caratterizzato da una strada molto stretta con le case ammassate le une e le altre, situata appena fuori le mura sulla direttrice, stradale che portava alle tagghiate, ovvero alle cave.

In base alle richieste de lu mesciu, il cavamonti estraeva i cuzzetti, i pezzi, che in cantiere in base alle dimensioni prendevano il nome di purpittagnu con sezione quadrata di 25 cm, pizzottu con 30 cm di base, Palmo e mezzo con 35 cm di base. L’altezza veniva definita tagghia, ed era in legno e costante per tutti i zoccaturi (25 cm nel Novecento, ma varia a seconda delle epoche), la lunghezza invece variava a seconda dell’utilizzo e si misurava in palmi.

La qualità del tufo faceva dipendere il prezzo, quello rosso, era di scarso valore poiché il primo strato sotto il terreno era ricco di umidità e molto più friabile, sovente era utilizzato per le fondazioni o scartato, quello bianco, di media qualità veniva estratto dalle parti più basse della cava, quello giallo, per tutti gli impieghi variava di prezzo in base all’area di estrazione, le più rinomate erano presso masseria la Torre (torre te lu fieu) e li Monaci. Infine il materiale veniva trasportato dalla cava al cantiere tramite il trainieri.

Il paesaggio che si viene a creare è molto singolare, le cavità prendono forma a gradini, a causa dell’ingombro laterale dello zzueccu, con un labirinto irregolare costituito di varie stanze, dislivelli, scale e pinnacoli di pietra non estratta poiché di cattiva qualità (con catene o linee di cozza).
Una volta esaurita, la cava veniva recuperata a giardino, pian piano la natura si riappropriava della terra, e crescevano spontaneamente, chiappari, tumi, fichi, ficatigne, mentre in anfratti più ampi venivano piantati ulivi o agrumi; con il materiale tufaceo di scarto venivano realizzati muretti a secco di contenimento o di confine, e furnieddhi per riparo dalle improvvise intemperie.
La natura geologica del tufo permette la creazione di questi miracolosi giardini ad esempio il mantenimento dell’umidità in caso di siccità; questi esempi sono ritrovabili nell’area a sud est di Copertino, ma purtroppo c’è da constatare l’ignoranza di molte persone, che hanno utilizzato questi anfratti per liberarsi di elettrodomestici non più funzionanti, materassi rigorosamente bruciati, carcasse di auto, e l’immancabile “cesso” incontrastato principe delle improvvisate discariche salentine.

Consiglio ai lettori la visione di questo bel documento dell’Istituto Luce, a proposito delle nostre cave:

http://www.youtube.com/watch?v=n1Q8WJcalTY

Copertino. Il santuario della Madonna della Grottella

 

di Fabrizio Suppressa

Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.

Santuario della Grottella (ph F.Suppressa)

L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi  rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.

Affresco raffigurante il ritrovamento miracoloso

Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.

Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”

La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.

Navata centrale (ph F. Suppressa)

Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.

All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.

Particolare del portale in pietra leccese

Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.

Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.

Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.

Altare Privilegiato, affresco della Madonna della Grottella

Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.

Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.

Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.

Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.

Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.

 

Bibliografia:

P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.

F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.

 

Particolare del rosone (ph F. Suppressa)

Metereologia salentina e celebrazione dei Santi, dall’8 settembre a Natale

 

 

CULTI MAGICO-RELIGIOSI  NEL SALENTO  FINE OTTOCENTO

 

TI LA MMACULATA L’ACQUA SERVE SULU PI LLI PUCCE

 

 Le celebrazioni dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico in una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Dal niente al troppo. Era questa la scomoda altalena della meteorologia salentina, nel cui quadro però, il “troppo” non veniva tanto rappresentato dagli improvvisi nubifragi – statisticamente rari nel Salento -, quanto dalle possibili eccedenze pluviali del tardo autunno, capaci di determinare, con l’impantanamento delle campagne, non solo la crisi economica dei coltivatori (era periodo di semine e di raccolta delle olive), ma soprattutto la disperazione dei sciurnaliéri (giornalieri) che, privati di ogni possibilità di trovare ingaggio di lavoro, soffrivano la fame.

Uno spauracchio che nella frequenza del suo proporsi aveva generato una vera e propria psicosi stagionale, a sua volta convertita, quasi a contrasto propiziatorio, in una sorta di tabella delle piogge da scandire in misura calendariale, ovverosia assumendo le celebrazioni native dei santi come termini convenzionali di riferimento meteorologico. Riferimento che, sia pure inconfessatamente, voleva adire alla messa in orbita di un condizionamento, la cui sostanza magico-religiosa la si poteva carpire più che dalla valenza delle singole aggiudicazioni, dalla curiosa eterogeneità di significanti espressi dallo stessa scadenzario, nel quale venivano a confluire, unitamente ai sensi di affidamento devozionale, una strumentale emissione di volontà collettiva e l’accanita ricerca di segni a carattere divinatorio.

Appena iniziato settembre, con ancora sulla nuca lo specchio ustorio dell’estate, i contadini cominciavano a parlare di pioggia come di un ospite che avesse già annunziato il suo arrivo, fissandone la data in concomitanza con la festa della Madonna delle Grazie (8 settembre), giorno ritenuto di stura ai doni celesti e perciò quanto mai adatto a segnare l’avvio di quello che era il ciclo di fertilità della terra:

Pi’ lla Matònna ti li razzie,

ssetta li roddhre, scupa la lliàma

e mminti lu limmu sott’a llu canàle,

scuscitàtu ca l’acqua la tiéni an capitàle.

Entro la ricorrenza della Madonna delle Grazie, / sistema i semenzai, scopa la terrazza / e metti la vaschetta sotto il canale di scolo, / sicuro di avere l’acqua già sotto il guanciale.

Pur se attinte al comune canovaccio delle consuetudini contadine e perciò ricche di una certa spontaneità nella scelta, le tre azioni da compiere in sostanza risultano ideologicamente mediate nella sovrapposizione dei simboli, ovverosia finalizzate a rappresentare il passaggio da un presente ancora in debito col passato a un presente già in commistione col futuro: la terrazza da liberare dalle scorie accumulatesi durante  il tempo dell’arsura; la presenza della conca che da vuota deve farsi piena; la sistemazione dei semenzai– momento icastico del rinnovamento nel festoso schiudersi dei germogli -, nel mentre provvedono ad assolvere a quelli che sono gli strascichi della patita sofferenza estiva, si convertono in rituale di accoglienza dell’acqua, peraltro celebrata non in quanto oggetto della speranza, ma come bene già assicurato, prova ne sia che la si dà presente sotto il guanciale, notturno posto di deposito dei risparmi contadini e quindi significante il pieno possesso del tesoro.

Non è infatti difficile notare come il tutto tenda a stabilire un magico processo di decretazione, quasi si voglia, attraverso la forza coercitiva del pensiero, vincere le leggi della fisicità facendole incappare nel tranello di una finzione che vuole dare per conclusa una stagione ancora in attivo.

Malgrado gli alberi di fico fossero ancora carichi di frutti in maturazione e si prevedesse di continuare il lavoro di essiccazione per tutto settembre, li ficalùri (i ficaioli) si imponevano l’aria del disarmo già dai primi del mese, non trascurando di far rimbalzare da campo a campo l’interessato monito:

A Mmatònna rriàta,

furnìta la spaccata…

Stà rrusce lu mmuddhràtu…

ncanìscia lu siccàtu,

ccuégghi lu siccatiéddhru

e lli littére mìntile a ccastiéddhru.

L’8 settembre, / la spaccatura dei fichi è conclusa!… / Si avverte già il crepitìo della pioggia… / ci conviene, pertanto, radunare nella canestra l’ultimo prodotto seccato, / raccogliere da terra quello appassito sugli alberi / e mettere i cannicci a deposito, sistemandoli, come si fa a ogni fine stagione, uno sull’altro a mo’ di castello.

Né diversamente si comportavano gli ortolani di Copertino: pur sapendo che avrebbero aspettato la festa ti li paisàni [1] (19 settembre) per portare al mercato li ponte ti cucùzza (le cimature delle piante di zucca), ritenute una leccornia in quanto raccolte solo una volta all’anno – in concomitanza cioè con l’estirpazione di tutta la coltura -, nell’approssimarsi della festa della Madonna delle Grazie davano già per conclusa la stagione orticola:

La tìa ti li ràzzie

no ffranca la mmuddhràta:

scigghiàmu la pagghiàra

e ffacìmu scapuzzàta.

Il giorno dedicato alla Madonna delle Grazie / non ci rinfranca dalla pioggia: / smontiamo perciò il pagliaio / e, raccogliendo gli ultimi frutti, sradichiamo le piante.

 

A quanti potranno trovare assurda tanta finzione, magari giudicandola incompatibile col rozzo semplicismo campagnolo, facciamo presente che lo spirito d’impostura non era estraneo al comportamentale  dei contadini spesso obbligati dalla necessità a prospettare ai padroni, più precisamente ai fattori, una situazione  – familiare, economica o agricola – diversa da quella reale, all’uopo mendicando la complicità dei vicini e sempre riservandosi la possibilità di cambiarne i termini allorché venivano a mutare le tangenze della loro convenienza.

Ugualmente impotenti di fronte alle forze della natura, trovavano logico ricorrere allo stesso stratagemma, credendo di poter influire sul proporsi della fenomenica meteorologica così come, imbrogliando, condizionavano le decisioni dell’avversario padrone: unica differenza  che questa volta la complicità la chiedevano ai santi, delle cui ricorrenze si servivano come di altrettante chiavi di volta in sintonia con i loro tornaconti. L’avere scelto la festività della Madonna delle Grazie a data della prima pioggia, rientrava in un loro calcolato piano di ipotetica regolamentazione degli avvicendamenti atmosferici, nella convinzione che solo attraverso lo scatto del primo passo le nuvole stabilivano il tempismo dei successivi: un partire col piede giusto, in base al quale – e proprio in virtù di quelle che erano le naturali leggi di avvicendamento fra periodi di sereno e giornate piovose -, una volta piovuto ai primi di settembre, si sarebbe avuto bel tempo durante la vendemmia, il cui travaglio aveva inizio subito dopo la festa di San Giuseppe da Copertino (18 settembre).

Va da sé che simili previsioni erano del tutto aleatorie, nessuno essendo certo che una volta ottenuta la pioggia questa non avrebbe poi continuato a cadere per giorni e giorni, miseramente fagocitando quello scampolo di sereno necessario ai vendemmiatori, nonché a quanti dovevano approntare i campi per la semina delle granaglie. Un’apprensione che, sollecitando al rimedio preventivo, faceva sì che i contadini, appena superata la festa della Madonna delle Grazie, avessero di colpo a cambiare bandiera, incentrando la loro volontà – sino a quel momento evocativa della pioggia – in uno scongiuro orientato a ottenere bel tempo. E poiché la vendemmia, come già detto, si poneva a ruota delle celebrazioni patronali, era proprio a San Giuseppe che si appellavano, coinvolgendolo in un’azione di salvaguardia comprendente festa e campagna:

Ti la paratùra e ddi lu innimàre

Sangiséppu nuésciu no ssi nni pote scirràre.

Della luminaria e della vendemmia / San Giuseppe nostro non se ne può dimenticare.

   L’associazione delle due proposte beneficiarie – luminaria e vendemmia – risultava più che pertinente ai fini atmosferici, e non soltanto perché l’addobbo stradale, per essere l’elemento più fragile della festa, offriva perfetta corrispondenza alla deperibilità dell’uva in caso di gravi intemperie, ma anche per il sottile concatenamento di incomodi che pure una semplice piovuta avrebbe provocato e ai festeggiamenti e ai vendemmiatori.

Per comprendere l’oggettività della concatenazione, occorre rifarsi all’epoca, cioè tenere presente che nell’Ottocento, essendo l’illuminazione elettrica una realtà di là da venire e non avendo il  Salento adottato quella ad acetilene – attestatasi solo ai primi del Novecento -, le luminarie venivano ancora allestite fissando alle arcate di legno – in una composizione a tappeto – dei piccoli bicchieri di vetro variamente colorato, che debitamente riempiti d’olio  e muniti di luminelli venivano accesi dai paratori con un paziente passare di stoppino.

A tanta laboriosità di accensione corrispondeva un’altrettanta precarietà di funzionamento, essendo bastevole un semplice piovasco a decretare non soltanto l’immediato abbuiarsi, ma anche l’intransitabilità delle strade addobbate: la pioggia, colmando i bicchieri, faceva infatti traboccare l’olio, macchiando i vestiti di chi si trovava a passare sotto gli archi e, quel che era più grave, rendendo pericolosamente sdrucciolevole il selciato. Un incomodo che durava anche a pioggia finita, convertendosi in vero e proprio ostracismo al passeggio, soprattutto a quello dei contadini, i quali, calzando acchétte cu lli tacce (stivaletti con le suole bullonate), nel contatto fra metallo e pietra unta facilmente finivano stesi per terra.

Analoghe conseguenze si registravano in campagna se la vendemmia si svolgeva sotto la pioggia: nel passa e ripassa fra i filari di vite, il terreno bagnato diventava estremamente viscido, non  offrendo stabile appiglio ai piedi nudi ti li scufanatùri (dei trasportatori) che, già sbilanciati dal peso delle tinéddhre (tinozze) rette sulle spalle, sommavano capitomboli con grave rischio per la loro incolumità e ovvio danneggiamento dell’uva così malamente scodellata per terra. C’è da aggiungere che all’impraticabilità dei terreni faceva riscontro quella dei viottoli e strade sterrate, per cui spesso capitava che i carri pieni d’uva s’impantanassero, richiedendo,  per il loro disincaglio, immani sforzi di uomini e bestie messi insieme.

Alla luce di tanta collimanza e soprattutto tenendo presente la stretta successione dei tempi – inizio di vendemmia a fine celebrazioni – , vien fatto di pensare che i contadini, nel basare la richiesta di protezione sull’abbinamento “paratùra-innimàre”, al di là dell’indiscusso interesse alla buona riuscita dei festeggiamenti, perseguissero un calcolo di opportunistica connessione delle due citazioni, volendo far sì che l’una (luminaria) avesse a risultare il preambolo dell’altra (vendemmia): se infatti avesse piovuto durante i giorni di festa, all’untuosità del selciato avrebbe corrisposto la fanghiglia della campagna, mentre il bel tempo assicurato ai festeggiamenti – qui rappresentati dalla luminaria – si convertiva in terreno asciutto per chi si accingeva a vendemmiare. Un esplicito sfruttamento delle circostanze, che trasferito sul piano morale veniva a configurarsi in manovra di incastro per le buone disponibilità di S. Giuseppe, il quale, dopo aver vigilato sinu all’ùrtimu scungulàre ti nucéddhre (fino all’ultimo sgusciare di noccioline [fino agli ultimi minuti di festa]), e presumibilmente soddisfatto per le onoranze ricevute, non poteva ingratamente uscirsene con un ”Sparàti li fuéchi, ccenca bbole fazza, fazza!” (“Una volta esplosi i fuochi d’artificio, quel che il tempo vuol fare, faccia!”), fregandosene della vendemmia: se per tre giorni consecutivi il paese si trasformava in un “paradiso di suoni e di luci”, lo si doveva in buona parte al contributo economico di pastori e contadini, i quali, abituati com’erano all’obbligatoria  spartizione dei prodotti cu lli patrùni ti stu munnu (con i padroni terreni), si facevano scrupolo di non concorrere personalmente e tangibilmente alla spesa per i festeggiamenti in onore ti lu  patrùnu an celu ti tuttu lu paése (del santo padrone di tutto il paese). Quasi il pagamento di una decima, il cui saldo, per i contadini avveniva proprio durante la vendemmia, quando i componenti del comitato feste patronali imboccavano i viottoli campestri sollecitando i coltivatori – così come d’estate avevano fatto con i pastori per le pezzotte di formaggio – a offrire uno o più panieri d’uva.

Nna stiddhra ti miéru pi llu Santu nuésciu!…” (“Una goccia di vino per il nostro santo!…”), chiedevano con voce stentorea fermando al margine del campo il loro traino con sopra due botti vistosamente contrassegnate da più croci dipinte con la calce; e a ogni vuotata di paniere si facevano obbligo di prendere un grappolo d’uva e sollevarlo verso il cielo, quasi volessero lasciare intendere che S. Giuseppe stava lì, affacciato a conteggiare l’entità dell’offerta. “Bbiùnnali a ccentu vussignurìa…” (“Ricompensali centuplicando, vostra signoria…”), dicevano infatti, dandone per scontata la presenza; e  rifacendosi alla necessità del momento, concludevano pressanti: “E stiénni la manu a ttiémpu ssuttu… ca topu nn’annu ti fatìa, no bbògghia Ddiu àggianu a sprangìre jastìme!…” (“E stendi la mano a trattenere il bel tempo… ché dopo un anno di lavoro, non voglia Dio abbiano motivo di snocciolare bestemmie!…”).

L’abitudine a minacciare i santi di un possibile ricorso alla bestemmia in previsione di un qualsivoglia accadimento avverso – viziosità della religione popolare, altrove messa in rilievo – in questo caso viene a spogliarsi da ogni sospetto di esagerazione nella causa, suffragata com’è dal fatto che settembre era periodo di rotture atmosferiche, facili a passare dalla semplice piovuta alla catastrofica grandinata. Un peggio che se pure scaramanticamente taciuto per non creare nell’alone evocativo dell’immagine una qualche forza di richiamo, era nel senso e nella destinazione dell’appello, implicitamente intendendo stabilire nella raccomandazione “stendi la mano a trattenere il bel tempo” il più radicale dei fermi all’evoluzione del negativo.

Non a caso fra richiesta di intervento e minaccia di ricorso all’imprecazione scatta la cognizione di causa “dopo un anno di lavoro”, pregiudiziale che nel mentre si fa consuntiva dei sacrifici affrontati, allude a una temuta vanificazione degli stessi, qualificando lo stato apprensivo in paura di completa distruzione dell’uva. Un attestarsi sul problema di fondo – quello degli interessi economici -, del resto implicito nello scongiuro iniziale, non certo esauribile agli incomodi provocati dalla banale piovuta ma chiaramente finalizzato a salvaguardare quello che era il nocciolo e della vendemmia e della festa: il guadagno, appunto.

Dietro l’ostracismo al passeggio, in sé per sé patetico – e diciamo pure alquanto comico -, scattava l’anticipato rientro dei pellegrini, decurtando, se non addirittura azzerando, l’introito dei venditori. E in quei tre giorni di festa, venditore non era soltanto il piazzista venuto da fuori a rizzare la sua bancarella, ma anche la contadina che, collocando sulla soglia di casa uno sgabello con sopra tre fichi e un grappolo di ua rosa (uva da tavola bianco-rosata), invitava i forestieri a entrare e comprare i frutti della sua campagna; o l’artigiana che, sperando di ottenere commesse di lavoro, appendeva agli stipiti della porta – a seconda se era tessitrice, frangiaia o filatrice – un lembo di tela, due fiocchetti di frangia o una matassina di cotone filato. Un intrecciarsi di piccole industrie casalinghe che venivano a saldarsi agli introiti delle improvvisate trattorie, ai contributi pro-festa, alle offerte lasciate in chiesa e – perché no? – all’accarezzata speranza delle ragazze di trovare marito, assillo che le madri fronteggiavano corredando le figlie di un vestito nuovo, magari stentatamente pagato cu ssordi pigghiàti a spiéttu (con denaro preso in prestito) e per la cui restituzione attendevano i risultati della vendemmia.

Nel malaugurato caso di una grandinata, altro che mancato pagamento del vestito! Dopo un intero anno di lavoro non retribuito in quanto svolto nel proprio campo, e privata di quella che sarebbe stata la giusta ricompensa dei sudori, la famiglia si ritrovava sul lastrico, impossibilitata non solo ad assolvere ai debiti contratti nell’attesa del raccolto, ma tragicamente catapultata nel contesto di una miseria in alcuni casi talmente nera da far dubitare circa le possibilità di sopravvivenza. Ecco perché a scongiurare simile catastrofe i componenti il comitato festa patronale si rifacevano all’uso del ricatto: furbamente menzionando il disperato ricorso alla bestemmia erano convinti che S. Giuseppe, interessato come tutti i santi a salvare l’anima dei fedeli, pur di non indurre in tentazione i contadini facendoli peccare, avrebbe soddisfatto le loro suppliche, quella preventiva e quella memorativa, che ripetevano in continuazione mentre vendemmiavano:

Sangiséppu no tti nni scirràre

mantiéni lu tiémpu

pi’ ttuttu lu innimàre.

 

S. Giuseppe non te ne dimenticare; / trattieni il bel tempo / finché tutti abbiano finito di vendemmiare.

 

Richieste che in fin dei conti si riducevano a ottenere solo una breve parentesi di sereno, essendo bastevoli pochi giorni a eseguire il taglio di tutte le uve: a parte l’abbondanza della manodopera, all’epoca il Salento non vantava le odierne estensioni di vigneto, trovando gli agricoltori pari convenienza economica in coltivazioni alternative, quali i seminativi e i ficheti, senza parlare poi degli uliveti, ai cui impianti secolari nessuno si sarebbe mai azzardato di sostituire la vite. “Cinca tàgghia nn’àrriru t’aulìa / scetta nna chésia!” (“Chi taglia [estirpa] un albero d’ulivo / abbatte una chiesa!”), dicevano i contadini a difenderne la sacralità, ben lontani dall’immaginare i sacrilegi che invece furono perpetrati subito dopo la seconda guerra, quando, col sorgere delle cantine sociali e quindi nel miraggio di una redditizia esportazione vinicola, vaste zone furono selvaggiamente disarborate.

C’è da aggiungere che, allora, si coltivavano solo ue nustràli (uve nostrane, cioè vitigni non innestati), capaci di dare qualità, non quantità di prodotto, per cui a fine settembre la vendemmia poteva dirsi conclusa o quanto meno agli sgoccioli. In verità, se qualche ritardo c’era, lo si doveva al caparbio ordine di quei padroni che, dovendo vinificare solo per uso familiare, pretendevano uva ultramatura, spesso cozzando con gli intendimenti dei coloni, il cui credo, in tempo di vendemmia, era solo quello di “manisciàmune mmanisciàmune prima ca rrìanu l’àngili”  (“sbrighiamoci, sbrighiamoci, prima che arrivino gli angeli”).

Nel loro quadro meteorologico, infatti, il 2 di ottobre (festa degli Angeli custodi) era giornata di rientro nel clima piovoso; e questo porsi nuovamente in aspettativa dell’acqua lo si poteva notare già nella mattinata del 27 settembre, quando le donne, convenendo in chiesa per la messa dei SS. Cosimo e Damiano (protettori della salute), si auguravano l’un l’altra: “La casa a mmanu a lli Santi miétici / e lli gnofe a mmanu a ll’Angili ti Ddiu” (“La casa sia affidata ai Santi medici [affinché custodiscano la salute degli abitanti] e le zolle agli Angeli di Dio [affinché non le abbiano a privare dell’acqua]”). Un buttare in avanti le mani nel timore che il bel tempo, una volta instauratosi, non avesse più a finire, in questo caso confermando lo sgradito detto:

Ci l’Angilu no ssi mmoddhra l’ale

no cchiòe fenca a Nnatale.

Se il 2 ottobre l’Angelo non si bagnerà le ali / non pioverà fino a Natale.

 

Previsione preoccupante per l’andamento agricolo, essendo ottobre e novembre gli antonomastici mesi delle piogge, periodo che i contadini, vigili traduttori delle necessità della campagna, definivano ti mpurpamiéntu (di rimpolpamento [nutritizio]), poeticamente immaginando la terra nello stadio della primissima infanzia, quando unico compito – e spettanza – è quello di dormire e succhiare. Dal canto loro avevano provveduto ad assicurare questo nutrimento, spargendo a larghe manate il letame curato nelle concimaie, ma affinché lo stesso penetrasse ingrassando le zolle e raggiungendo le radici delle piante, occorreva la collaborazione delle nuvole, ovverosia l’azione dissolvente della pioggia, in assenza della quale il processo rigenerativo non sarebbe avvenuto, mettendo in serio dubbio la sperata produttività:

Fiàcca nnata si para nnanti

ci ti tutti li Santi

la nuégghia no cchiànge

e lla gnofa no rrufa!…

Cattiva annata si prospetta / se arrivata la festività di Ognissanti / la nuvola non piange / e la zolla non tracanna!…

Situata com’era il I° di novembre, proprio al centro di quello che veniva ritenuto il periodo delle piogge, la festa di Ognissanti si poneva a data di resoconto della situazione, diciamo pure di verifica dell’ansia insorta un mese prima, cioè quando, ricorrendo la festa degli Angeli custodi, si era paventata la iattura di un asciutto protratto sino a Natale. Ormai non si era più nell’ambito delle ipotesi, bensì dei riscontri oggettivi, al di là dei quali c’erano solo urgenze, venendo inesorabilmente a restringersi il tempo giudicato utile all’impinguamento idrico della campagna. La ricorrenza di San Martino (11 novembre) era vicina e per quella data ogni acquiescenza nell’attesa si intendeva bandita, letteralmente cancellata dal montare di una fretta tradotta in perentorietà di affermazione:

Ti Santu Martinu

la gnofa s’à ttaccàre a lla menna ti la nuégghia

comu lu mbriàcu a lla entre ti la otte.

 

Di San Martino / la zolla deve attaccarsi alla mammella della nuvola / come l’ubriaco si attacca al ventre della botte.

 

     Considerando come questo era l’ultimo dei detti affermanti la necessità della pioggia e senza trascurarne il senso di voluttuosa imbibizione – già espresso nel detto riguardante la ricorrenza di Ognissanti e perciò piuttosto esasperante nella rimarcatura -, vien fatto di pensare che i contadini, nella scelta della data e  più che altro mediante la metafora comparativa terra-ubriaco, intendessero – sia pure in modo indiretto – prefigurare i termini di quella che, nella loro visuale, doveva essere la svolta meteorologica.

Decretando l’immancabilità della pioggia per l’11 novembre, in sostanza concedevano parecchio spazio al pacifico susseguirsi delle precipitazioni, ma nell’istintiva rimonta dell’atavica diffidenza prudentemente cercavano di segnarne  la cessazione ricorrendo, appunto, alla comparazione terra-ubriaco: se da una parte l’ubriachezza relazionava l’avidità del bere, per cui ne usciva esclusa l’immagine limitativa del bicchiere – controfigura dell’isolata pioggerellina -, dall’altra, proprio in virtù dell’ingordo tracannare, scattavano i limiti dell’assorbimento: continuando a bere, l’ubriaco rischiava di vomitare, così la terra, nell’esagerato intridersi, si sarebbe impantanata.

Una deduzione che potrebbe apparire frutto di arzigogolamento, se ad assolvere ogni dubbio di arbitraria interpretazione non concorresse il successivo detto imperniato sul 30 novembre, ricorrenza di S. Andrea Apostolo:

Pi’ Ssantu Ndrea ti li corde

tinne croce fatta;

ca ci nno rria jùtu ti limòne

nni tocca lu maru ti lu fele.

Il giorno di Sant’Andrea delle corde[2] / devi dire “Sia croce fatta [punto e basta]”; / perché se non viene in aiuto il limone [fermo della pioggia] / ci toccherà l’amaro del fiele [vomito, cioè tanta pioggia d’averla a nausea].

 

Ora, premettendo come questi detti, che a noi possono apparire isolati, in realtà si ponevano a tasselli di un mosaico unico, per cui, nascendo concatenati nella significazione, l’uno si prestava a complementarità dell’altro, va sottolineato che quest’ultimo riguardante S. Andrea non aveva esclusiva applicazione agricolo-meteorologica, essendo ampiamente sfruttato dai cantinieri allorché, per una certa etica professionale, si vedevano costretti a rifiutare la mescita agli ubriachi che palesemente non erano più in grado di reggere altro vino. Esortazione-imposizione che accompagnavano appunto con l’offerta di un limone (ne tenevano sempre un cesto pieno sul banco), le cui proprietà antiemetiche e astringenti venivano a rappresentare sia il rimedio pratico, sia la scansione simbolica del punto e basta.

Detto questo, al lettore risulterà chiara – e soprattutto giustificata – l’interpretazione fornita circa il ricorso alla comparazione terra-ubriaco; tanto più se riuscirà a convincersi che i simbolismi popolari – spesso esposti in accozzaglia – non erano riducibili a semplice funzione connotativa, ma erano invece condizioni della decifrabilità stessa dell’esposto, in quanto metro delle effettive denotazioni psicologiche. Un eleggere l’immagine a mezzo di svisceramento della tensione interna, e che, per quanto riguardava il 30 novembre, denunciava un vero e proprio subbuglio negli animi, venendo di lì a due giorni a scattare la ricorrenza di S. Bibiana, giornata pericolosa ai fini meteorologici, gravata com’era dalla scoraggiante affermazione:

Ci chiòe ti Santa Bbibbiana

quarànta sciùrni e nna simàna.

Se piove il giorno di S. Bibiana / pioverà per quaranta giorni e una settimana.

 

     Se in ottobre e novembre l’acqua veniva invocata, compiacentemente  tollerandone anche l’eccesso, con l’attestarsi di dicembre si reclamava un tassativo ritorno del sereno, nel timore che le granaglie già seminate avessero, per il troppo ammollo, a marcire e ponendosi la fretta di iniziare la raccolta delle olive, per la quale occorreva poter contare su un terreno agibile al via-vai dei passi. Ansia che, pur quando veniva brillantemente superato lo scoglio di S. Bibiana, non  si acquietava, tant’è che il 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata, ci si impegnava a dire e ridire “Ti la Mmaculàta / l’acqua serve sulu pi lli pucce” (“Il giorno dell’Immacolata / l’acqua serve solo per fare le pagnottelle con le olive”), enucleando, nella laconicità della frase, e la tangenza del rifiuto, e la blandizie devozionale.

Essendo le pucce assurte a emblema del digiuno vigiliare, nominandole si faceva presente alla Madonna la pia disponibilità alla penitenza, implicitamente chiedendole, a contropartita, di appoggiare il rifiuto dell’acqua, peraltro espresso in una forma che oseremmo definire elegante, cioè basandolo su un simbolo privilegiato e facendolo nascere per gioco di antitesi: nel dichiarare l’acqua necessaria solo alla produzione delle pucce, ci si riferiva a quella occorrente per sciogliere il lievito e impastare, operazione per la quale si adoperava solo acqua piovana, essendo quella sorgiva di scarso sollecito alla fermentazione; nel momento però che si tirava in campo la panificazione, automaticamente si entrava nell’aura di quelli che erano i rituali domestici, sicché l’immagine mentale che ne conseguiva escludeva l’acqua piovana come contemporaneità di effetto-pioggia, focalizzata com’era sulla madre di famiglia che, scoperchiando la cisterna – sua o della vicina di casa -, religiosamente vi attingeva ripetendo ad alta voce una delle tante antiche formule di benedizione scrupolosamente trasmesse da madre a figlia. Tirando le somme e tenendo presente che in quel periodo le cisterne erano già colme, si può affermare che nel dire “L’acqua serve solo per le pucce” i contadini intendevano precisare: “La pioggia non serve affatto”.

Dal diplomatico rifiuto all’aperta provocazione il passo era breve; sette giorni appena, quelli appunto che intercorrevano fra la vigilia dell’Immacolata e la ricorrenza di S. Lucia (13 dicembre), al cui approssimarsi i contadini non si peritavano di commentare “Santa Lucia éte pisciacchiàra!…” (“S. Lucia è pisciona!…”), furbamente sperando che la santa, risentita per così irrispettoso epiteto, si impegnasse a smentirlo tenendo lontana la pioggia.

Azzardo curioso nel suo farsi chiave di convincimento attraverso l’offesa, ma non certo unico nella proposizione, poiché se ne trovava copia pressoché conforme il 16 di luglio, quando la Madonna del Carmine veniva definita “La Madonna latra ca pìzzica la ua” (“La Madonna ladra che ruba l’uva”), nell’ingenuo convincimento, appunto, di indurla a moderare i raggi solari che, battendo sui chicchi d’uva ancora troppo teneri, ne provocavano la bruciatura con ovvia decurtazione del raccolto.

E’ chiaro che, pur se anomali nella formulazione, tali detti nascevano per così dire comprovati, traendo origine dal riscontro oggettivo di quelle che erano le climatiche stagionali: se la Madonna del Carmine diventava “ladra”, era perché, essendo piena estate, bastava una giornata di sole più cocente a danneggiare i chicchi in gonfiatura; così come con  S. Lucia, alla quale si dava della “pisciona” perché piscione poteva essere il tardo autunno, spesso caratterizzato da uno snervante rincorrersi di pioggerelle che, si sapeva, erano di preludio a quelle più compatte dell’inverno ormai alle porte.

L’accanimento con il quale i contadini perseguivano lo stralcio di sereno era dovuto in  buona parte a questa consapevolezza, diciamo pure paura dei mesi a venire, a moderare la quale altro non rimaneva che aggrapparsi alla consolatoria previsione scandita a chiusura della tabella calendariale:

Ci uéi bbegna nna bbona nnata

Natàle ssuttu e Pasca mmuddhràta.

Per avere una buona annata / Natale asciutto e Pasqua sotto la pioggia.

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[1] Essendo la festa di S. Giuseppe da Copertino (16-18 settembre) frequentatissima da pellegrini che giungevano da tutto il Salento, gli abitanti del luogo, per un senso di ospitalità, l’avevano soprannominata “Festa ti li furastiéri”. Di contrasto, il 19, giornata ritenuta di ponte fra la stanchezza delle celebrazioni e la ripresa della normale attività lavorativa, era festa tutta per loro; festa ti li paisàni, appunto, durante la quale potevano, senza la confusione dei giorni precedenti, fermarsi con calma alle bancarelle superstiti, comprare a minor prezzo, e a sera, sia pure a luminaria pressoché spenta, assistere tranquillamente all’esibizione concertistica di una delle bande rimasta in paese esclusivamente per loro.

[2] Detto “delle corde” per agevolarne la visualizzazione iconografica che lo presentava su una croce decussata, oltre che confitto, legato con più giri di grosse funi.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari 1994, pagg. 359-373

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