A.A.A.: cognomi, nuclei famigliari e costumi marittimesi

Elzeviro di rimembranza e nostalgia

A.A.A.: cognomi, nuclei famigliari e costumi marittimesi

 di Rocco Boccadamo

A quanti, bontà loro, hanno dimestichezza con le mie narrazioni, chiedo venia se, nella parte iniziale di queste note, gli capiterà d’imbattersi in elementi o dettagli già snocciolati, e quindi riscontrati, in precedenza. E, però, in questo caso, la reiterazione concorre a incorniciare gli appunti nel miglior modo possibile.

Dopo aver, per lunghi evi, raggruppato anche la località/comunità di Castro, a un certo punto divenuta invece autonoma sotto l’aspetto amministrativo, il Comune di Diso, dal 1975, comprende l’omonima frazione capoluogo (1097 residenti) e una seconda frazione, Marittima, ossia a dire il mio paese natio (1854 residenti).

Fra gli abitanti di Marittima, sono quattro i cognomi con maggiore diffusione: in ordine decrescente, Nuzzo, Minonne, Boccadamo e Arseni.

Si tratta, chiaramente, di una piccola realtà territoriale, con popolazione risicata e confini angusti, e, tuttavia, ugualmente recante traccia, ancora oggi, sebbene in termini vie più ridotti, di una tradizione consolidatasi nell’arco di millenni a livello universale, sin dai tempi degli antichi Egizi e Greci.

Mi riferisco alla consuetudine, in certo qual modo, rigorosa se non ferrea, di conferire al proprio figlio il nome di battesimo del proprio genitore. Ciò, non solo con finalità meramente dinastiche o successorie in senso materiale, ma con l’intento ideale di creare, mediante il collegamento onomastico fra nonno e nipote, una specie di continuità fra generazioni, ben oltre il tempo.

Ciò raccontato a stregua d’introduzione, passo a spostarmi e a concentrarmi su una delle A.A.A. del titolo: A. come nome di famiglia Arseni (per puro caso, corrispondente a quello portato da mia moglie); dopodiché, a zumare sullo specifico nucleo domestico impiantato, agli albori dello scorso secolo, da Alessandro (in gergo dialettale, Lesandru) Arseni e dalla sua sposa Vincenza (detta ‘mmare, per comare, Vicenza).

Sette figli, Gervasio, Vitale, Costanza, Lucente, Valeria, Michele e Peppino, di cui l’ultimo mancato da poco,

Un focolare, verosimilmente, animato e riscaldato, in pari misura, dai ciocchi, ricavati in campagna dalla potatura degli alberi e posti ad ardere nel camino e da intensi aliti di semplice religiosità e profonda devozione ai culti locali, come comprovato dalla circostanza che, fra gli appellativi della prole, compaiono quelli della famiglia del Santo Patrono del paese, Vitale con la moglie Valeria e uno dei loro figli, Gervasio, tutti martirizzati  per non aver inteso rinnegare la fede cristiana, durante l’impero di Nerone.

E, insieme, sia direttamente fra le pareti domestiche di Lesandru e ‘mmare Vicenza, sia in seno alle famiglie create man mano dai loro discendenti, affiorano sentimenti di rispetto, riguardo e omaggio verso le figure genitoriali, cosicché, a tempo debito, i sette fratelli e sorelle sopra menzionati, a eccezione di Valeria, rimasta senza prole, si determinano indistintamente e immancabilmente a dare al loro primo figlio il nome del padre, precisamente Alessandro.

Mi piace rievocare la figura, prima accennata, di Valeria, maestra in una delle manifatture di tabacco del paese e abilissima maestra, anzi vera e propria artista, di telaio per la produzione di tessuti, la quale abitava, col marito Angelo, nel mio stesso rione dell’Ariacorte.

Come pure, mi viene alla mente la casa di Costanza, allietata da sei figli tutti maschi. Fra loro, Alessandro, primogenito, che faceva il contadino e, nelle ore libere, anche il barbiere, con una bottega dove, la sera, si radunavano stuoli di giovani amici per musiche con l’armonica a bocca e canti vari; quindi, Angelo e Damiano, avviatisi, da ragazzi, alla vita monastica, attualmente ancora presenti e attivi presso un’istituzione religiosa di Lecce.

E poi, e di più, vengo a far cenno alla famiglia di Gervasio, andato a nozze con Concettina, nucleo arricchito, anch’esso, da sei figli maschi: il primo, Alessandro, non c’è più, al pari del secondo e del terzo, Antonio e Vitale, mentre Vittorio, mio coetaneo e compagno di classe alle Elementari, Pippi e Mario sono tuttora in mezzo a noi.

A differenza del marito, grande lavoratore, autorevole capo famiglia ma persona discreta, Concettina era una donna estroversa, di grande cordialità, per questo amica benvoluta da tutte le compaesane, nondimeno anche lei impegnata nella cura e crescita dei figli, nella gestione della casa e nel supporto al coniuge per i lavori agricoli.

Aveva una bella voce intonata, Concettina, tanto che, agli inizi degli anni Sessanta del secolo passato, in occasione di un giro radiofonico per l’Italia, il noto presentatore Rai Silvio Gigli, portando una sua trasmissione nel Salento e sostando a Marittima, la chiamò, unitamente a un gruppo di compaesane contadine, e la fece esibire al microfono con due canti popolari dialettali, di cui ho presente il titolo: il primo, “Purciddruzzi e pittule”(specialità culinarie e/o dolciarie salentine), il secondo “Quannu lu ceddru pizzica la puma” (quando l’uccello dà un morso alla mela) che recita:

 

Quannu lu ceddru pizzica la puma

la ucca se la sente zzuccarata,

la ucca se la sente zzuccarata.

Cusì se sente na carusa zita

quannu se bacia cu lu fidanzatu.

Quannu lu ceddru vola su lu fiore

azzati beddra mia e facimu amore.

 

Versi tradotti in italiano:

 

Quando l’uccello da un morso alla mela

si sente la bocca zuccherata,

si sente la bocca zuccherata.

Così si sente una giovane fidanzata

quando si bacia con il fidanzato.

Quando l’uccello vola sopra il fiore

alzati mia bella e facciamo l’amore.

 

A quell’epoca, io avevo già preso a lavorare in banca, a Taranto, ma ebbi casualmente occasione di ascoltare la straordinaria esibizione della mamma del mio compagno Vittorio, attraverso l’apparecchio radiofonico della padrona di casa che mi ospitava da pensionante.

Una piccola chicca di ricordo, rimastami sempre impressa dentro.

Il primo nato di Gervasio e Concettina, Alessandro, intorno ai vent’anni, aveva concorso per l’arruolamento nel Corpo della Guardia di Finanza, ramo mare, partendosene così dal paese natio e, però, restandogli sempre legato, sino alla scomparsa.

Analogamente, aveva lasciato la famiglia d’origine il secondogenito Antonio, arruolandosi, da parte sua, nell’Esercito e compiendovi una lodevole carriera da Sottufficiale in una cittadina capoluogo nel Veneto, mai mancando, comunque, di tornare puntualmente, ogni estate, a Marittima. Anzi, sulla strada per l’Acquaviva, nei pressi della collinetta denominata Acquareddre, si è costruita una villetta di vacanza, adesso abitata, durante la stagione bella, dalla moglie, dai figli e dai nipotini, pure loro dimoranti, in via stabile, nel Veneto o in altre località lontane.

Termino, con un pensiero di vivida memoria all’indirizzo delle figure che non ci sono più: a cominciare da Gervasio e Concettina che, dalla dimora sopra le nuvole, continuano a guardare e a vigilare, credo soddisfatti, sulle generazioni succedutesi dopo di loro e, quindi, rivolgendomi ad Alessandro, Antonio e Vitale che li hanno raggiunti lassù.

Da ultimo, con un cordiale saluto al mio compagno di classe Vittorio, a Pippi e Mario e, pur non conoscendoli, ai tre figli maschi di Antonio, due dei quali, a quanto ho potuto apprendere, ispirandosi alla carriera militare del genitore, hanno scelto di calcarne le orme e sono arrivati a conseguire il grado di alti ufficiali dell’Esercito Italiano, mentre il terzo è un brillante avvocato. Da ragazzo di ieri, sospinto dalle comuni origini marittimesi, desidero esprimere ai suddetti ultimi giovani e affermati uomini d’oggi, sinceri complimenti e auguri. Ad maiora.

Cognomi e soprannomi salentini di origine greca

salentomappa6405

di Piero Vinsper

 

Parlare dell’origine dei cognomi è compito quanto mai arduo e difficile, e comporterebbe un discorso lungo. Molti studiosi hanno affrontato questo problema con zelo, ottenendo degli ottimi risultanti. Dirò solo, e in maniera semplice, che i cognomi derivano da nomi patronimici, matronimici, da qualità e difetti fisici, da animali domestici e selvatici, da insetti, dal nome di giorni e mesi, da numeri, da soprannomi, da sostantivi del sostrato greco, da luoghi, da città e nazioni, da arnesi dell’uso quotidiano, da mestieri e professioni, ecc. Aggiungo anzi che gli studiosi hanno stilato una certa statistica, e non sono le statistiche di stile berlusconiano: quelle sappiamo che vanno sempre nello stesso senso, attratte dall’ago di una politica scialba, vuota, patetica, inconcludente, meschina, retrograda, dannosa e per decoro personale mi fermo qui, basata, beato lui!, su quel vecchio adagio galatinese: “Articulu quintu, ci tene a mmano have vintu!”, strafottendosi delle istituzioni, della nazione e del popolo. Però vorrei ricordare a lui, e lo scrivo con la lettera minuscola, un altro dittèriu nostro: “nu’ bulare throppu ertu mo’ c’hai l’ale, ca sempre si’ suggettu a llu cadire!”.

Dicevo che gli studiosi sono giunti a questa conclusione: i cognomi derivano soprattutto da tre fonti: onomastica, toponomastica, soprannomi. Una piccola percentuale spetta a cognomi di derivazione straniera, un’altra, sparuta, costituisce un nome augurale, che la carità cristiana ha riservato ai trovatelli. Poi il Concilio di Trento del 1564 sancisce l’obbligo per i parroci di aver un registro per i battesimi, sul quale scrivere nome e cognome di una persona, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei.

Ebbene, quel che a noi interessa è cercare i cognomi e soprannomi galatinesi che abbiano un sostrato greco. E’ chiaro che prenderemo in considerazione quelli che sono ancora in voga tralasciando, invece, quelli che sono già estinti e quelli che non sono ormai sulla bocca di tutti.

Antonica e Antonaci son formati dall’unione di due sostantivi: anthos + nike e anthos + nake; sicché il primo significa fior di vittoria, il secondo fior di pelle lanosa, di pelliccia. Infatti il termine dialettale naca che deriva da nake o dal neogreco naka non è altro che la culla sospesa, formata di un vello di pecora.

Sambati e Sabato è la stessa cosa, solo che uno è al plurale, sambata (grico sabati) e l’altro al singolare (neogreco sabbata, sabati). Lo stesso si può dire di Stomaci e Stomeo; Stomaci da stomachi, stomaco, oppure dal diminutivo di stoma, stomaki, piccola bocca. Se invece facciamo riferimento al grico stoma, acciaio, come per Stomeo, allora Stomaci sta per piccola tempra di ferro e Stomeo per acciaio. E ciò che avvalora la seconda ipotesi e che la stirpe degli Stomaci erano abili “ferrari”, cioè ottimi maniscalchi.

Colazzo, Cudazzo, Codazzo, Cutazzo sono tutti uguali cognomi che traggono origine da Colazzo. Molto probabilmente, quando le persone si recavano all’ufficio anagrafe per dichiarare il nascituro, vuoi per la cattiva pronuncia del richiedente, vuoi per l’incompetenza dell’ufficiale dell’anagrafe, si incorreva a questi mutamenti di cognome. D’altra parte erano quelli periodi in cui la gente era in massima parte analfabeta, e perciò non poteva rendersi conto di ciò che c’era scritto sul certificato di nascita. Comunque questi cognomi derivano da colazo, io freno, e indica il freno dei guarnimenti da applicare alla coda degli animali da tiro o da soma.

Colaci è un vezzeggiativo di [Ni]kolakis, Nicolino. Però azzarderei un’altra ipotesi: potrebbe avere a che fare con il diminutivo di cholòs, cholàki, un po’ zoppo, claudicante.

Musarò da musaròs, sudicio, impuro, detestabile; Mauro da mauròs, nero. Nel primo caso si fa riferimento a persona trasandata, alla buona, nel secondo a persone dalla carnagione scura.

Spano da spanòs è un uomo privo di barba, sbarbato; Piscopo da [e]pìscopos significa vescovo; Sanzico da sàmpsicon si riferisce, forse, a persona che coltivava in campagna la maggiorana.

Papadia, derivando da papadìa, sta per moglie del prete; Patera, accostato a patèras, sta per padre, ma se lo facciamo discendere dal grico patèra, è il prete.

Ostace e Campa richiamano due simpatici animaletti: ostacòs è il granchio oppure il gambero, kampe è il bruco.

Onesimo si rifà a onèsimon, che si traduce cosa utile, vantaggiosa, benefica, buona. Il termine onèsimos si riscontra nelle opere di antichi scrittori greci: in Sofocle, Antigone v. 995, in Eschilo, Eumenidi v. 924, negli Inni omerici, Mercurio v. 30, e come nome di uomo nell’Antologia palatina. Prendo, così per caso, il verso 995 della tragedia Antigone di Sofocle. Chi parla è Creonte, rivolto a Tiresia: ècho peponthòs martureìn onèsima [posso riconoscere di aver avuto (da te) del bene].

Izzi è una desinenza di origine greca che ha la funzione di diminutivo. Quindi Stefanizzi viene da Stefanitsis, stèfanos + itsis, piccola corona, ghirlanda, oppure dal verbo stefanizo, incorono. Mutatis mutandi il significato è perlopiù identico.

Castriota, Kastriotis, è il signore del castello; Ciriani, Kyr’Jannis, signor Giovanni; Coroneo, da Koronaios, significa abitante di Corone, città del Peloponneso. Marti, Martios o dal grico Marti, è il mese di marzo.

Il cognome Moscara ha a che fare con moschàrion, vitellino; Calso con Kàltios, calzare; Misciali con Michàlis, Michele; Cretì con krytìs, giudice; Mairo con màgeiros, cuoco.

Nei soprannomi, invece, appare più chiaro il sostrato greco; il dialetto, infatti, conserva  la forma più antica del linguaggio.

Sciòi, da skiòeis (leggi sciòis), vale ombroso; pisino, da pisinòs, equivale a culo.

Scuddhrana, figlia de lu Scuddhru, rimarca skulos, codolo della zappa, della scure. E c’è un modo di dire galatinese, vutàmula de lu scuddhru, giriamola dalla parte del codolo, quando non si riesce a dare una spiegazione a qualcosa, oppure non si trova una via d’uscita a una situazione scabrosa.

Canzeddhra è il soprannome dato a una persona di bassa statura, ma nel nostro dialetto rappresenta il tavolo di lavoro del calzolaio. Infatti, kantòs significa cerchio esterno della ruota; ma potrebbe essere un diminutivo di kàmpsos, curvo. Comunque stiano le cose noi sappiamo che la canzeddhra è una specie di mobile molto basso che poggia su tre o quattro piedi. Il Tavolo di lavoro è a forma circolare, diviso in piccole parti, in cui vengono adagiate le semenzelle, le puntine, la tanaja, i capitieddhri, la tavoletta di pece, la ssùja, pezzi di cuoio, ecc. ecc. Lu scarparu, stando seduto può servirsi in maniera maneggevole e degli arnesi e del materiale per riparare le scarpe.

E a proposito di sutor mi torna in mente l’agnomen calopa. Calopa deriva da kalò + pous, forma per le scarpe, “piede di legno”. Quest’attrezzo usato dal calzolaio ha una forma sgraziata e il soprannome riferito a una donna denota trascuratezza nel vestire, impaccio nel portamento e nel camminare.

Panta da pas, pasa, pan, ogni cosa, tutto, sempre, e parà, preposizione greca, ora, mentre, accanto, presso, contro, sono nomignoli appioppati a due rami di una famiglia il cui cognome è molto diffuso qui da noi.

Cista, kiste, è la cesta, il paniere. Famoso a Galatina era Peppinu ‘u cista, gran venditore di ghiaccio. I lettori devono sapere che, un tempo, non esistevano frigoriferi; solo i nobili avevano in casa la ghiacciaia; la povera gente, nel periodo estivo, per far diventare fresca ‘na vucala d’acqua o ‘nu ‘rsulu di vino, possibilità permettendo, mandavano da Peppinu cista i bambini a comprare cinque o dieci lire di ghiaccio. E lui dall’aspetto portentoso e fiero, ma sempre con il sorriso sulle labbra, lasciava cadere un colpo di mannaia sul blocco di ghiaccio e te ne porgeva un pezzo. Poi con un fare bonario, tipico della gente salentina, raccoglieva i pezzettini di risulta e li aggiungeva al ghiaccio comprato esclamando: “Quistu è de cchiùi!”.

Thraca viene da trachùs, duro, violento; calieddhru da kalòs, bello; capasa da kapasa, grande vaso di creta, idoneo alla conservazione delle friselle; soprannome quest’ultimo dato a persona bassa di statura ma dalla pancia prominente.

Chetta deriva da chaite, criniera, chioma: soprannome dato a persona calva; cerasa da keràsion o dal neogreco keràsi, ciliegia; cuja da guion, membro, borsa dei testicoli; cuvizzi da kuix, bulboso.

Panaca da panàke, panacea, è l’agnomen dato, forse, a qualcuno che empiricamente trovava un rimedio per tutti i mali, così come murecca da murèpsos era l’unguentario.

Piricocu risale a berycoca. Alla lettera si traduce albicocca ma nel nostro dialetto equivale a pesca. ‘U piricocu per eccellenza a Galatina era un certo Alfieri, che con due altri amici, Picinera e Naticeddhru, aveva messo su il Carro di Tespi e insieme con loro andava in giro per le piazze a rappresentare il teatrino dei burattini.

Kalès diakopès e a risentirci a presto!

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!