di Alfredo Romano
di Alfredo Romano
di Alfredo Romano
PREMESSA
D’estate ci si levava presto per la raccolta del tabacco. Si andava sul campo che era ancora buio. Mio padre Giovannino si alzava per primo e, mentre mia madre Lucia preparava il caffè, lui, sigaretta già in bocca, cominciava la perlustrazione del campo che stava nei pressi della casa colonica: andava a fare una verifica della parte di campo con le foglie più mature da raccogliere. La mamma intanto con le tazzine di caffè fumanti apriva la camera che io dividevo con tre fratelli più piccoli e, pur a malincuore, cominciava il rito della sveglia:
“Su, il caffè, alzatevi figli miei, fatelo per amore della mamma vostra!” ‘Na parola, e chi si alzava!
“Va bene, state un altro minuto, ma solo un altro minuto, ché vostro padre mo’ che torna, se non vi trova in piedi, quello si mette a bestemmiare tutti i santi del paradiso e se la prende pure con me.”
E papà tornava, ma io e i miei fratelli eravamo inseguiti ancora dai sogni della notte profonda, non ultimo quello di un mondo senza tabacco.
Ciaaa!, l’hai chiamati li fiji toi, l’hai chiamati? Sangu te la matòmbula bbuttana! Sta bene lu sole e quiddhi me stanu ‘ncora curcati… Azzàtive! ca li cristiani hanu fattu ‘na sciurnata!
Fràtuma lu Pippi hae dô ore ca stae ddha mmienzu: è sciùtu cu lle citilene…
di Alfredo Romano
PREMESSA
Una cosa che ci fece meraviglia a Civita Castellana fu la vista delle case del centro storico. Quel tufo nero senza intonaco, che poi è caratteristico nel Viterbese, ci fece una certa impressione. Abituati alle nostre case dai mille colori del sole, del mare e dell’aria… Ma com’è, ci siamo detti, questi civitonici devono stare peggio di noi se non hanno neppure i soldi per intonacarsi le case. Stai a vedere che ci hanno chiamati apposta per farsele intonacare da noi? E infatti, passata la buriana del tabacco, i leccesi diventarono tutti muratori e ceramisti. Se andate in Piazza Duomo potete ammirare un palazzo di colore celeste. Certamente vi si è sbizzarrito un mio paesano che forse sognava uno spicchio di mare o un remoto angolo di cielo come si vedono nel Salento!
Testo in dialetto salentino.
Quandu rriàmme a Civita Castellana, ‘na cosa ca ne fice meravija foe la vista te tutte ddhe case nìure te lu centru storicu, nìure comu lu carbone e mmenze scazzafittate. L’ùrtime cazza fitte, ci sape… forsi ne l’ìane tate a lli tiempi te Ponziu Pilatu?
Nui ca simu bituàti ca le case noscie su’ ppitturate cu ttutti li culuri te l’arcubalenu, imu tittu: Nnah, simu venuti cquai cu stamu meju… ma quisti te Civita hanu stare pesciu te nui se nu’ ttènanu sordi mancu cu sse ncazzafìttanu le case. Sangu te ddhu porcu! vo’ tte fazzu biti ca n’hanu chiamati amposta cquai cu nne le ncazzafittàmu nui le case loru?
E ggh’era veru, ca nu’ ppassau mancu ‘n annu ca tutti li giovani leccesi lassàra te fare tabaccu e sse menàranu ffàzzanu li ceramisti, li mesci conza e sconza, li cazzafittari, ‘nsomma tutti cu ffannu e ccu giùstanu case.
Iu te fatti su’ bituatu, quandu passu nnanzi a ‘nnu cantieri, cu ccuntu an dialettu: me vene nnaturale, ca sia ca stau a llu paese miu. Certe fiate àzzu lu razzu e nne fazzu: “Italiani![1] (ca nui cquai ete comu sia ca stamu all’esteru, no?) nnah fatìa nah!” E quiddhi me crìtanu: “Ma cce ssi’ de Foggia[2]”?
Ma have ‘nu pocu te tiempu a quista parte ca, quandu passu te li cantieri e ba’
PREMESSA
Voglio raccontarvi adesso di come venne accolto mio padre quando mise piede per la prima volta a Civita Castellana, in località Terrano. Correva l’anno 1965. Fu scaricato alle quattro del mattino da un furgone Wolkswagen stracarico di salentini, stipati come sardine, nei pressi della casa colonica. Era buio e fu scambiato per un ladro e, come in guerra, mio padre si gettò a terra per scansare due colpi di fucile sparati al suo indirizzo. Pregò Vittorio, l’autista del furgone, di riportarlo al suo paese. Ma, chiarito l’equivoco, si convinse a restare ed ebbe inizio la sua avventura a Civita Castellana. I civitonici a quel tempo ignoravano le piante di tabacco e facilmente le scambiavano per insalata.
Il video: monologo di Alfredo, poi Mina e Alfredo
cantano “Fìmmene fìmmene“
Testo in dialetto salentino (scrittura fonetica).
Quandu iu tenìa sìtici anni, tantu tiempu rretu, paru cu mmàma e ccu lli frati mii, sìrama ne purtau a Civita Castellana, nnanzi Roma, cu cchiantamu tabaccu. Tandu tante famije te tutte le parti te lu Salentu scìanu a Civita Castellana cu cchiàntanu tabaccu.
Partìmme cu llu Vittoriu: era unu te Specchia ca facìa jàggi nnanzi rretu cu ‘nnu furgone. Nci vulìa ‘na sciurnata sana tandu cu rrìi a Civita Castellana, ca percé nun c’era autostrada (sulamente la Napoli-Roma) e sse passava te paese ppaese. Quandu te scia bona, ca certe fiate lu furgone furava puru dô fiate, e se succetìa te notte, tuccàa cu spetti sse fazza mmatìna cu ppozza rriare ‘nu meccanicu. E ‘ntantu, ncarrati comu fiche intru lla capasa, stìame tutti mpassulati e stritti susu cquiddhe muntagne mare te l’Appenninu.
Sìrama partìu pe’ pprimu a Civita Castellana, ca ia ppreparare li chiantinari, e
di Irene Mancini
C’era il progetto di tornare giù o si pensava di rimanere qui a Civita?
“Alcuni si fermavano a Civita solo per il lavoro stagionale del tabacco, da marzo a settembre, ma i restanti mesi li trascorrevano nel Salento. Altri prendevano fissa dimora qui a Civita col solo obiettivo di trovare delle opportunità di lavoro che non fossero quelle del tabacco. Il tabacco non costituiva un avvenire. I miei genitori sono rimasti qui per dieci lunghi anni, fino a quando io e i miei fratelli non siamo diventati economicamente autonomi. Sono stato io stesso a incoraggiarli a tornare al paese. «È tempo che torniate, che ci fate più qui? Giù avete un pezzo di terra, una bella casa, c’è gente che parla come voi…». Sono tornati e hanno vissuto più da ‘cristiani’ gli anni che gli rimanevano da vivere. Ma quante lettere ci siamo scritti e quante telefonate. Spesso tornavo giù a sorpresa, anche dopo un anno. Erano emozioni, era festa, irripetibile la gioia”.
Oggi tornerebbe a vivere giù?
“No, non tornerei giù… o almeno non so… È che ormai, sradicato dal paese, sono diventato un cittadino del mondo… Anche se poi in effetti a Civita Castellana ho messo radici: il lavoro, le persone, gli amici di sempre, le conoscenze, i luoghi… Sono sicuro che se dovessi allontanarmi da Civita Castellana, finirei per relegarla nel mito. In fondo, 35 anni non sono pochi: ho amato, ho avuto tante cose belle qui… alla biblioteca comunale ho dato molto, ma poi sono stato ‘ricambiato’ in qualche modo. Di esperienze brutte, a Civita, ne ho avute tante, ma anche tantissime belle. E sono queste ultime che ti restano”.
Ho trovato dei leccesi che come ritmi, come orari, hanno preso la piega dei civitonici…
“Sì, lo capisco, anche nello stile di vita. Per tanti il bisogno di integrazione è stato così forte, da diventare, come si dice, più realisti del re, cioè più civitonici dei civitonici. La ricerca di un’identità è qualcosa di molto complesso, e non mi meraviglio se talvolta il diritto alla sopravvivenza passa per la perdita delle proprie radici: certo, è un prezzo troppo alto per integrarsi. Io ho un’idea di integrazione diversa, che non passa per il diventare civitonici a tutti i costi, anche perché civitonici non si diventerebbe mai, per via che le radici sono un imprimatur che non si cancella. L’integrazione passa
di Irene Mancini
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Ma c’erano salentini che abitavano nel centro storico? non stavano tutti nelle campagne?
“Abitare nel centro storico, per i salentini, era una conquista: significava aver rotto i legami col tabacco e aver trovato un lavoro più da cristiani, un lavoro preferibilmente in ceramica, ma anche nelle cave di tufo o nell’edilizia. Tutti miravano a uno di questi traguardi, dipendeva dalla composizione del nucleo familiare. Là dove c’erano figli piccoli, l’unica risorsa era il tabacco, e in tal caso anche i bambini davano una mano, ma, giunti i figli in età da lavoro, e trovata un’occupazione, cambiava il tenore di vita, fino al punto di poter dire addio al tabacco e potersi affittare o comprare una casa nel centro storico. Certo, si trattava di case spesso fatiscenti che i civitonici avevano abbandonato per case o villette più comode in periferia, ma il costo a quei tempi non era eccessivamente caro. Oggi, con gli immigrati stranieri, c’è speculazione, gli affitti sono vergognosi ed è più difficile comprare una casa. Al nostro posto adesso ci sono i rumeni nel centro storico; anche tunisini, marocchini, latino-americani e altri. C’è un avvicendamento. I salentini ormai sono bene integrati, anche loro hanno raggiunto sistemazioni più comode in periferia. A dire il vero c’è anche un fenomeno inverso: quello di civitonici che ristrutturano una vecchia casa e decidono di tornare a vivere nel centro storico. Si tratta di una scelta culturale, perché il centro storico dà il senso della comunità: si apre la finestra e si può parlare col dirimpettaio, ci si può sedere sotto casa e chiacchierare coi vicini, ci si scambiano i primi piatti, il sale, il prezzemolo, una bottiglia di vino. Fuori dal centro storico, invece, ma più in periferia, abbondano case e villette quasi tutte con recinto e cane da guardia. Qui è esclusa la possibilità di comunicare, e ognuno si gode, si fa per dire, la sua piccola isola”.
Chi viveva nel centro storico era privilegiato rispetto a chi viveva nelle case coloniche?
“Lo era soprattutto perché non coltivava più tabacco, perché era finita una maledetta schiavitù, perché, cambiato lavoro, era pure migliorato il suo tenore di vita; in paese poi c’erano più spazi per la socializzazione. Ma qualche rimpianto restava per quella vita all’aria aperta, o per quel pezzo d’orto che era una genuina fonte di frutta e verdura e al tempo stesso di svago; il rimpianto anche per amici e parenti lasciati lassù nella tenuta. C’erano circa 45 famiglie su a Terrano: occupavano altrettanti casali divisi per caseggiati; la distanza tra un caseggiato e l’altro era pressappoco di300 metrie ognuno era intitolato a un santo: il mio si denominava San Massimo. Qui eravamo tutti parenti, il cognome prevalente era Romano, per cui finirono per chiamarlo il ‘casale dei Romani’. D’inverno, quando non si lavorava il tabacco, di domenica pomeriggio, ci si incontrava talvolta con quelli degli altri caseggiati, e allora si ballava, si faceva la pizza insieme, ci si ritrovava a far festa insomma. Era difficile d’altronde
di Irene Mancini
L’intervista è tratta dal libro I leccesi a Civita Castellana: storia di emigrazione e di tabacco, edito dalla Biblioteca Comunale di Civita Castellana nel 2008. L’autrice, Irene Mancini, è nata a Civita Castellana. Vive e lavora a Viterbo, dove insegna sociologia e svolge il ruolo di operatrice sociale presso la casa circondariale. Si è laureata in Lettere alla Sapienza di Roma (Ndr.).
Premessa dell’autrice
Alfredo Romano è nato a Collemeto, una frazione di Galatina in provincia di Lecce, nel 1949. È arrivato con la sua famiglia a Civita Castellana nel 1965 per la lavorazione del tabacco. Dal 1970 dirige la biblioteca comunale ‘Enrico Minio’ di Civita Castellana. È autore di vari volumi (poesie, racconti, due romanzi, raccolte di tradizioni popolari salentine) e articoli su periodici nazionali e locali. Ispirandosi alla storia dei suoi paesani a Civita Castellana e ai temi della tradizione salentina, ha portato in scena degli spettacoli dove narra e canta accompagnandosi con la chitarra e il tamburello. Ha dato uno spettacolo anche a Roma, al mitico Folkstudio, e a Wholen, in Svizzera, per gli immigrati italiani. Negli incontri periodici con i ragazzi della scuola dell’obbligo, oltre al compito di far loro conoscere i servizi della biblioteca, li intrattiene con letture animate di poesie e racconti, nonché cantando delle filastrocche su testi di Gianni Rodari, che lui stesso ha messo in musica. Lo incontro diverse volte. Poter raccontare la sua storia lo appassiona. Mi aiuta a cercare tutto il materiale possibile sull’argomento, perché l’idea che qualcuno faccia conoscere le vicende della comunità salentina immigrata a Civita Castellana, gli sembra un lavoro molto importante per la memoria storica non solo dei salentini, ma anche dei civitonici [abitanti di Civita Castellana. Ndr.]. Partecipa all’intervista con manifesta sensibilità, passando dall’ironia alla malinconia, fino alla commozione.
Come si arrivava a Civita Castellana?
“In genere, come nel caso della mia famiglia, perché qualcuno c’era già stato, e, tornando una volta l’anno al paese natio, ti invogliava a partire. Fu gente di Collemeto emigrata a Civita alcuni anni prima a capacitare mia madre; mio padre invece era restio. E non gli si poteva dare torto, visto che emigrare a 52 anni, quanti ne aveva allora, non era cosa semplice. La verità è che papà da qualche tempo aveva perso il lavoro (commerciava in tufi da costruzione) e a casa si attraversava un momento difficile. Perciò Civita Castellana apparve come una soluzione. Ho saputo in seguito che a quei tempi ogni proprietario terriero usava sborsare circa 50 mila lire di premio a chiunque convincesse una famiglia salentina a migrare a Civita per lavorare nella propria azienda. Nel 1965 erano soldi! Per cui, chi ti sollecitava a partire aveva un qualche interesse
Domenico Amato, un albanese illetterato di Calabria, finito a far tabacco con i Leccesi a Civita Castellana
di Alfredo Romano
L’addetto al censimento invano scrutava l’aperto orizzonte, a metà strada sulla via di Terrano, per una casa, un muro, qualcosa. Domenico Amato insomma.
Né un fazzoletto rosso legato in cima a uno dei due pali che segnano l’ingresso d’una carreggiata che s’incurva fino a perdersi nell’orrido, poteva rappresentare per il suddetto una traccia sufficiente.
Fu così che Domenico Amato non venne censito e, buon per lui, visto che le statistiche (non si sa mai) vanno magari a spiare quel po’ di prosciutti e capocolli conservati per l’inverno.
In realtà quella carreggiata portava in quell’interrata e abusiva casa di Domenico che il figlio muratore ha tirato su di festa in festa aggrappandola sui fianchi di un fosso malvagio. Cacciato letteralmente dalla Tenuta Terrano, Domenico ha dovuto vendere i suoi tre aridi ettari di terra calabrese in cambio di un povero appezzamento a Civita Castellana. Niente paura, niente trattore, le mani bastano a ridurre in fertile polvere quei massi di tufo lunare, le mani per dar luce e respiro a un terreno di vecchia sterpaia.
Le mani di Domenico. Osservatele: sono rami d’un tronco nodoso dove s’aprono fessure di carne che non conosce suture. il gelo le spacca e il caldo
di Alfredo Romano
Qualcuno si chiederà come mai molti leccesi abbiano scelto come luogo d’emigrazione Civita Castellana e non le tradizionali città del Nord. Non si tratta, innanzitutto, di una scelta, ma del risultato di una congiuntura economica nel mercato delle braccia.
La coltivazione del tabacco
Ci fu a Civita Castellana, dal dopoguerra in poi, una forte richiesta di manodopera specializzata nella coltivazione del tabacco. Il risveglio dell’economia ceramica aveva provocato una carenza di salariati e braccianti. I proprietari terrieri erano per ciò costretti a ripiegare su colture estensive, per lo più seminativi e pascoli che, se da una parte non ri
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