Il “Romanico fiorito” a Lecce. Una sintesi esplicativa e le sue immagini

di Paolo Marzano*

Questa indagine ha lo scopo di riflettere sull’arte di agire dell’uomo, sulla materia. Egli in effetti, ricerca e sperimenta le diverse espressività che il mondo e il corpo consentono, generando con la sua ‘industria’ artistica, delle ‘serie’ di oggetti che soddisfano quelle soluzioni formali capaci di tradurre i suoi bisogni, evidenziando prima di tutto, il grado della tecnologia adottata per produrli ed essenzialmente confermando come sia sempre più appropriato il metodo ‘multidisciplinare’, d’intervento, proprio quando si tratta di analizzare, come in questo caso, il salto che fa passare una forma da un’arte all’altra.

L’oggetto d’arte ha particolari premure nel far rispettare le condizioni del suo uso in un particolare tempo, mediando di continuo la propria autonomia con l’ambiente esterno che lo ingloba e lo considera. Far mutare il progetto della sua identità sia nella forma e sia per l’uso a cui è destinata, è il compito degli ‘artigiani’ che creano e inventano nuovi ‘assoggettamenti’ tra materiali e tra materiali e luoghi. D’altronde tutta una vasta letteratura coglie dettagliatamente quel valore ‘limite’ tra il profilo dell’oggetto e la sua potenziale propagazione nello spazio; la continua e costante dilatazione o contrazione progettuale, permette all’antiquaria di inventare, vivendo di sorprese e interazioni inattese sulla base delle prevedibili mutazioni che quella particolare materia, sollecitata fino al suo limite, può permettere di creare.

E’ il caso di dire che la proprietà di un ‘manufatto’ artigianale (intendendolo anche come architettura o sistema urbano) si possa affermare come risultato della variante di un ‘modello’ che, sapendo ‘usare’ la materia, ne gestisce la grandezza e permette all’oggetto di “ricollocarsi” tra gli schemi conosciuti e di riferimento, ai quali di certo si rifanno i committenti con l’appoggio della migliore esperienza tecnologica. A questo proposito tra i tanti casi che possiamo individuare nella storia delle arti delle “cose” dell’uomo, ricordiamo l’esempio della cornice di coronamento mistilineo tardogotica che, coinvolse diversi materiali; dai gioielli alle suppellettili, dai mobili alle finiture delle pale d’altare, agli apici di edifici, all’arredo liturgico, impreziosendosi di dorature e contemporaneamente venendo “adottata” per diventare il profilo aggiornato, quindi riconoscibile, della “linea/forma” di quel tempo. Un ‘oggetto’ (linea) garante di sofisticate preziosità che dunque ha fatto salti da un’arte all’altra, ripresentandosi tradotto poi, in altre serie con le dovute varianti, per molte facciate di altrettante chiese e palazzi lungo le rotte europee, nelle diverse latitudini.

Successe anche con i mobili in noce intagliato che pur sulla base della trattatistica italiana seppero modificare la loro competenza assolvendo a compiti del tutto rinnovati. Essi, infatti, vennero ‘riscritti’, riaggiornati e trasformati nelle diverse varianti che dalle Fiandre, alla Spagna, alla Francia fino al Salento e dunque in tutta Europa, confermavano l’importanza del commercio e dei flussi di linguaggi decorativo-figurativi seguendo tendenze ben precise, quasi standardizzate, a conferma di una dotta selezione e controllo di qualità (vedi l’esempio approfondito la facciata del San Domenico di Nardò

La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Adottiamo allora lo stesso metodo di osservazione, di confronto, di ricerca, di studio e verifica, facendone l’obiettivo delle nostre riflessioni ed esaminiamo attentamente quel monumento stra-ordinario, in “romanico fiorito”, della facciata di Santa Croce a Lecce.

Cerchiamo di sommare alla sua riconosciuta peculiarità, data dall’inatteso luminoso impatto plastico-visivo, anche l’origine (ed è questo lo scopo dello studio) della scelta della sua ‘forma’. L’insieme viene letto come una confluenza di elementi accordati dallo stesso suono, costituenti la sua struttura ‘materica’. Mi riferisco all’originaria, molto probabile, componente ‘antiquaria’ che ne rappresenta la matrice generativa e filologica.

Ogni forma per meglio esprimersi ha degli ambiti di riferimento e di ‘competenze’ relative all’ eco delle tante modifiche assorbite che l’hanno poi individuata, tra-dotta (selezionata) e dunque fatta diventare ‘linguaggio’ per quel preciso tempo. Un principio che conosciamo bene e che fonda le sue radici su ottime riflessioni discusse da una vasta letteratura. Invece qui, cercherò di evidenziare a quale probabile tipologia di riferimento appartiene o a quale presumibile forma può essere assimilabile, la facciata di Santa Croce di Lecce, rispetto alla ‘serie’ da me individuata tra le “cose” che l’uomo, il tempo e la tecnologia, in quel periodo avevano già prodotto.

Un’interpretazione (o variazione, ritengo, della serie già esistente) assolutamente di altissimo livello che i nostri scalpellini hanno saputo ‘ri-collocare’, riproponendone la sublime traduzione in pietra di un testo “di ritorno” a favore dell’ampliamento delle possibilità espressive e dell’esperienza umana a contatto del mondo delle ‘cose’. Ancora una volta, come detto in premessa, ‘linee’, poi ‘forme’ e ‘oggetti’ sono capaci di trasportare messaggi utili ad una maggiore conoscenza del potenziale espressivo inserendolo nell’evoluzione della storia utile a spostare ‘artigianalmente’ l’attenzione verso un prodotto/forma che, in-potenza, è gioiello, edificio, città.

Una condizione di gestione progettuale che, sceglie la procedura scultorea ed è capace di regolare ed organizzare un fitto palinsesto di temi, simboli e significati che la Chiesa realizza per meglio comunicare la sua dottrina. Lo scritto non ha la presunzione di scoprire nulla se non individuare l’appartenenza di genere e di serie, di alcuni linguaggi e procedure costruttive, confrontando e verificando come sia meraviglioso il fenomeno della rivelazione delle qualità dell’architettura e quali strumenti preziosi possa usare, per propagarsi e così viaggiare sui territori, spostarsi tra gli oggetti e muoversi fra le cose.

Un dovuto e obbligato allineamento di dati e immagini che ritengo possano aprire ad una possibile alternativa percettiva della nostra realtà monumentale e paesaggistica, verificandone l’interessante profilo d’eccellenza proprio perché derivante da una commistione di lingue e dalle competenze che ne fanno un esempio altamente culturale. Vediamo dunque come funziona l’interessante ‘salto’ concettuale e fisico che permette ad una materia di modificarsi e specializzarsi in altra competenza, mutando funzione, grandezza e la sua stessa intima struttura, aiutandoci così a percepirla per il suo tono e la sua migliore ‘voce’.

Siamo nel periodo delle corti ‘ambulanti’ come quella di Carlo V, per le quali, durante un viaggio (conosciamo bene l’immenso territorio del suo Impero), una volta decisa la sede della sosta e del soggiorno, si prevedeva, nelle sedi adeguate ad ospitare il suo seguito, la possibilità di dislocare le centinaia di persone e di bagagli, arredi e suppellettili, in ambienti non fissi, pur mantenendo un dignitoso e autorevole aspetto. In effetti fu Filippo II che scelse di fermarsi a Madrid. Ricordo che proprio Carlo V prediligeva certi tipi d’armadi a ‘due corpi’ dalla Germania, come gli stipi dall’Italia e molti rappresentanti dei relativi paesi erano in Spagna per questo importante commercio. Da quali materiali e di quali forme e disegni era composto il mobilio? Ecco allora bauli, cassoni, stipi, che il ferro compatta il legno sovrapponendosi con schermature a celle e disegnando alveari di pigne, con punte lanceolate metalliche si salvano gli angoli o con i rombi si inglobano gli spigoli, consolidandosi in grandi cerniere; praticamente il segno considera l’altra sua funzionalità e allora ecco le forme più elaborate delle maniglie, dei pomi d’apertura e delle toppe di serrature tonde, quadre o romboidali poste e adeguate alla ritmata decorazione mudejar. E’ come se la scena esterna della città entrasse in casa sotto forma di modelli della scala di un baule o più bauli posti l’uno sull’altro.

Si alternano blocchi e volumi sovrapposti come fosse un allestimento di piccoli opulenti edifici o di ridimensionati, ‘grandiosi’ palazzi che costituiscono davvero l’arredo di un paesaggio. Una fantastica città/mobilio che contiene facciate-estraibili o ad ante e cassetti, con interi modelli di edifici trasformati in preziosi scrigni. Il mobilio è l’oggetto che definisce la grandezza media proporzionale tra il piccolo gioiello decorato e la città da allestire, per comunicare l’importanza e la potenza dei regnanti, compresa la cultura della gente che vi ci vive e se ne pregia. L’arredo recupera le linee di forza e le “adatta” alla materia secondo l’uso e il desiderio che l’individuo, aspirando ad una vita diversa e sicuramente migliore, sceglierà.

Tra questi particolari mobili, quello che diventò l’elemento caratterizzante gli interni delle case spagnole è il bargueño (piccolo stipo). E’ un pregiato contenitore con anta a ribalta composto al suo interno da diversi piccoli cassetti per conservare denaro, documenti, carte. La caratteristica più importante di questo mobiletto era quella che fondava la sua funzionalità sul contrasto e sulla sorpresa che poteva provocare la decorazione del contenuto una volta aperto.

Poteva contenere scomparti segreti o cassette nascoste difficili da trovare (la tipologia simile ad una cassaforte). Faceva parte del bagaglio di viaggio del conquistatore o del missionario quando si trattava di trasportare effetti amministrativi, diplomatici o personali specialmente nelle spedizioni nel Nuovo Mondo. Oppure faceva bella mostra di sé, con il suo tono ‘aureo’, quando era aperto, nei grandi saloni tra arazzi murali e tappeti.

Lo sportello aperto poggia su due aste estraibili telescopicamente dai lati, decorate alle estremità con una conchiglia che funge da pomo prensile e, aprendolo scopre la splendente serie di cassetti diversamente posizionati. Alternatamente sia nella parte centrale che in quelle laterali sono evidenti, nella maggior parte dei casi, per questo genere di mobile, delle piccole facciate, simili a quelle di piccoli templi architettonici. Tutti questi elementi stilisticamente elaborati, sono formati da piccole placchette sovrapposte in avorio, a volte dipinte con decori floreali e si caratterizzano dall’uso di legno policromo su fondo di velluto rosso o colorato o ancora dai profili dorati.

Ogni piccolo tempio in effetti è un’anta apribile o cassetto estraibile, incorniciato da un fregio scolpito; il tempietto consiste di un ‘portico all’antica’, brevi volute a frontone spezzato poi arrotondato a voluta o orecchia nascono dallo spazio d’intervallo tra le due corrispondenti colonnette inferiori. Lo spazio della toppa della chiave centrale dunque è affiancato da doppie colonnine tortili in osso, che rimanendo staccate dal fondo, offrono un prezioso effetto di rilievo. Seguito da un architrave con spessa trabeazione può anche essere fiancheggiato da placchette in avorio, poggiante su quattro o più colonne di osso tortili, che incorniciano la serratura. Queste a loro volta sono posizionate su appoggi mensole modellate e dorate.

I pomelli dei cassetti molte volte hanno la forma di un guscio Saint-Jacques, in riferimento ai bauli portatili utilizzati dai pellegrini in viaggio verso Compostela. Ricordo che il bargueño rappresentava per molti l’oggetto del desiderio, in quanto arredava da sè intere zone di ambienti interni, infatti era considerato sia un mobile per cerimoniali da parata che veniva mantenuto aperto nelle sontuose sale del palazzo, o una volta chiuso, riproponeva il suo antico significato, un baule da viaggio come è attestato dalle maniglie laterali e dall’imponente dispositivo di serrature. Con l’affilato strumento della ‘variazione di scala’, l’architettura riesce dunque a propagarsi nello spazio con i flussi commerciali e, nel tempo, attecchendo sui territori, soddisfacendo bisogni e desideri.

Le piccole facciate riproposte nei piccoli modelli per le antine del bargueño si svilupparono in tantissime tipologie diverse, appartenenti tutte a quella classicità ‘ri-trattata’ che “tornava” dalla Spagna, ed arrivava nel Viceregno, in Italia o scendendo dal nord, nel meridione, seguendo la direzione adriatica, ad ispirazione per architetti e artigiani, guidati da capitoli o commissioni ecclesiastiche per la composizione di facciate di chiese, conventi, monumenti e altari. Lo scritto conferma ancora una volta come la possibilità del cambiamento di scala degli oggetti, comporti, a seconda della sensibilità, della tecnologia e della cultura di chi li adotta, quell’alchimia della mutazione, risultato dell’azione diretta dell’uomo sulle materie a sua disposizione.

Una fondamentale condivisione di espressività antiquarie che continuando a proporre con diplomazie le sue specifiche potenzialità all’architettura, capace di sostanziarle e coglierne per vocazione naturale, una visione sempre fantastica e sempre possibile del nostro paesaggio. Il bargueño dunque dava il senso di un “tutto possibile”, proprio come nella scoperta di spazi nascosti e luoghi riservati come può esserlo una donna o la propria casa e ancora, il proprio spirito. Il concetto figurato ed evidente della luce dorata come simbolo di purezza, nascosta, meditata, attesa, ma che si rivela, in tutto il suo splendore, aprendo un cupo scrigno, ogni giorno, all’alba di sé.

 

Immagini:

Alcune tipologie di bargueño: il bargueño con taquillón” (stipo con mobile di base) e “bargueño de pie de puente” (stipo con sostegno a ponte decorato ad archetti e colonne). La tipologia di bargueño è presa in esame per lo studio della mia ipotesi di recupero della forma del piccolo tempietto centrale o laterale del registro centrale del mobile, assimilabile alle varianti antiquarie tra le quali è possibile individuare la soluzione compositiva del secondo livello della facciata di Santa Croce a Lecce.

E’ evidente nel secondo livello della basilica, la presenza, come nel bargueño, delle due colonnine laterali che poggiano all’altezza della balaustra aggettante e mensolata. Poi lo spazio quadrato al centro, con l’alta trabeazione e il timpano, ormai inesistente, che non è del tipo spezzato, ma trasformato e ripreso solo come coronamento con orecchie laterali contratte, la cui genesi corrisponde esattamente al vuoto delle colonnette inferiori. Sono tanti i dettagli che coincidono con quella che si rivela come la cultura formale diffusa e sempre più comunicante, esistente nell’immaginario consolidato e ben strutturato da Filippo II e sostenuto dai suoi successori. Infatti, è Filippo III che pone il suo stemma sulla facciata sopra l’ingresso principale di Santa Croce a Lecce; chiaro a questo punto il risultato impreziosito, ma disponibile a trasformazioni, di una cultura potente spagnola tornata da noi, con il suo immaginario figurativo, dopo la sua partenza post-rinascimentale, da trattato. Il bargueño tipico di Salamanca. Una volta aperto mostra il fronte dorato con decorazioni di osso in rilievo che richiama l’impianto dei grandi retabli. I materiali usati sono i più diversificati, alcuni esempi del XVI secolo, hanno una decorazione di intarsio di osso di mucca e legno di noce su plateresco, talvolta manierista. Nel XVII secolo i due stili mudéjar e plateresco sono misti. Generalmente questi mobili sono fatti di noce o noce su legno meno ricco. Ricordo che la tecnica dei ‘mori’ (mussulmani spagnoli), era proprio quella di usare l’intarsio come replica della tecnica del mosaico consistente nell’intarsiare piccoli pezzi di legno pregiato sovrapponendoli ad altri meno pregiati. E dunque l’ebano, l’aloe, il limone o piccoli pezzi di avorio ricoprivano legni più semplici, pur mantenendone alto, il valore artistico. Teniamo presente che artigiani che lavoravano in Spagna per questi mobili erano per la maggior parte moreschi o ebrei molto abili nella lavorazione di legno, cuoio, metallo e benché ricevessero nuove soluzioni decorative, tendenzialmente privilegiavano le soluzioni a nodi, stuccatura a fogliami come rappresentazioni schematiche di vegetali miste talvolta a lettere mussulmane o altra simbologia.

Sostengo da sempre l’importanza di recuperare l’immaginario progettuale e artistico per scoprire e tradurre meglio i “caratteri” delle storie dell’arte, non legati al tempo, ma alla tecnologia artigianale e alle lingue (forme) diverse che la compongono, con attenzione all’approccio alla diversità della materia lavorata.

 

 

Le foto della facciata di Santa Croce sono di Élise Delle Rose.

Le immagini dei dettagli del bargueño sono prese dal Web e sono accessibili scrivendo le parole chiave: “bargueño con taquillón”, “bargueño de pie de puente”, “bargueño di Salamanca”, “bargueño”.

Il testo è una sintesi dell’articolo già pubblicato, con allegate le immagini mancanti: di Paolo Marzano, L’ Impero delle città mobili – Storie di viaggi e di idee, dall’architettura all’antiquaria e ritorno, in “Rassegna Storica del Mezzogiorno, Studi in onore di Alfredo Calabrese”, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, Continuazione della “Rivista storica del Mezzogiorno” fondata da Pier Fausto Palumbo, n. 4, Stampa CMYK – Alezio (Le), 2020.

(note e riferimenti bibliografici sono nell’articolo già pubblicato nel 2020)

QUEL BASTONE DEL SANTO PONTEFICE, REGALATO CON PROFONDO AFFETTO E STIMA, AL NUOVO VESCOVO DI NARDO’

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di Paolo Marzano

Ho ritenuto opportuno, introdurre, in queste mie riflessioni, con due brani, scelti, tra i tanti ed interessanti episodi, che descrivono la densa vita di Ambrogio Salvio, il domenicano vescovo di Nardò che come si già raccontato, dal 1569 al 1577 guidò quell’antica diocesi. Leggendo, comprenderete l’obiettivo dello scritto. Lo studio pone l’attenzione su un periodo che la storia locale, ritengo, abbia tenuto troppo da parte, ma che invece si colloca in una fase di grandi decisioni fondamentali per la Chiesa e conseguentemente sullo sviluppo della nostra città. Chi per studio o per curiosità volesse adoperarsi nel leggere quei volumi, ne trarrebbe una complessa atmosfera, esistente, proprio nella nostra diocesi. Si tratta della nostra storia e pochi sono i documenti che possono descriverne il contesto. D’altronde, nessuno fin’ora ha dichiarato di aver trovato falsità incongruenze o errori, o ancora, interpretazioni sbagliate di quelle notizie. Sappiamo però che la storia di Nardò, esiste in alcune relazioni, depositate anche presso la biblioteca privata Chigi.

 

facciata

Sono brani, dunque, tratti dai due volumi che compongono il “Della vita del venerabile monsignore F. Ambrogio Salvio dell’ordine de’ predicatori. Eletto vescovo di Nardò dal Santo Pontefice Pio Quinto e di altre notizie storiche spettanti a quella Chiesa”. I due volumi sono stati pubblicati dalla Stamperia Arcivescovile in Benevento nel 1716.

Tali brani descrivono e dunque dimostrano come venne elaborato un approccio interessante, ed allo stesso tempo importante, nei metodi, dall’anziano vescovo di Nardò. Ricordo che Michele Ghislieri fu il Santo Padre, dal 1566 -72

QUEL BASTONE DEL SANTO PONTEFICE, REGALATO CON PROFONDO AFFETTO E STIMA, AL NUOVO VESCOVO DI NARDO’

capitolo I del secondo volume pag. 102

“… Onde strano parvergli a prima vista, che se gli raddoppiassero le fatiche, quando il lasciarlo riposare era necessità più presto, che elezione. Contuttociò, e tra perche ubbidientissimo Uomo si fù sempre egli, e tra perche ancora non sentì mai smorzato in sé quel vivo desiderio di lavorare nella vigna del Signore, accettò ubbidiente la carica, non senza il merito d’un gran rassegnamento fatto maggiore, e dalla sua decrepitezza, e dal bisogno, da lui conosciuto di quella Chiesa. E bene a chi piacerà andare avanti nella nostra storia sarà agevole il ravvisare in lui un ottimo Prelato, un zelante Pastore, e un Padre amoroso verso la cara Gregge alla sua cura affidata. Bisognò intanto che San Pio ve l’astringesse con un espresso comando di santa ubbidienza, che altrimenti la sua soda modestia, e profonda umiltà vinto avrebbe ogni altro rispetto, e rimasta sarebbe defraudata del suo ottimo fine l’intenzione santissima del Pontefice. Quale per rimostrargli sempre più la propensione dell’Animo suo, intento a favorirlo, aiutarlo, ed  assistergli in ogni sua occorrenza, lo dispensò primieramente dal pagamento delle Bolle, ordinando, che gli fussero spedite gratis, indi lo provide di denaro per soffrire co minore incomodo quelle spese, che in tali congiunture non possono evitarsi, cendogli pagar mille feudi. Ultimamente con una sovrabbondanza di tenerezza, e d’affetto, vedendolo prender congedo da se per inviarsi al Vescovato, gli donò un suo bastone, il quale a di nostri conservasi nel Convento di S. Domenico in Bagnolo. Essendoche fusse quello tenuto sempre caro dal Salvio, come memoria rimastgli di quell’affetto, con cui il Santo Pontefice lo riguardava…”.

particolari della facciata della chiesa di San Domenico a Nardò
particolari della facciata della chiesa di San Domenico a Nardò

Un altro episodio che riporto l’ho titolato:

GLI ATTRIBUTI CHE ‘DISCIPLINANO’

dal capitolo III del secondo volume pag. 156 (opera citata in testa)

“ … Nella continua occasione di assistere al Coro osservato avea, che alcuni dei suoi Canonici soverchiamente frettolosi, e alquanto distratti, e disattenti recitavano tanto in fretta l’Officio, che tirandosi dietro la voce degli altri tutti, mancavasi molto a quella pausa, e devozione, che ricercasi nel salmeggiare. Chiamatili a se ammonilli il Vescovo più, e più volte. Ultimamente vedendo, che nulla approfittavansene, aspettò che una mattina tutti fussero al Coro i Canonici in atto di aspettarlo per cominciare. Comparve egli, ma vestito, e adornato di tutte le vesti Ponteficali, e assisosi alla sua Sede con una certa aria di maestà, fece un Ragionamento con tal calore, e veemenza, che ne rimasero per qualche tempo storditi. E tanta fu la compunzione, e’l terrore di quei, sovra di cui principalmente scaricorsi quella piena, che per lo avanti ravveduti, ed emendati riuscirono e di consolazione al zelante Pastore , e d’esempio a Compagni. E questo doveroso genio di sempre più mantenere riformato, ed esemplare il suo Clero, lo rendette ancora cauto oltremodo e guardingo nell’ordinare Cherici, e nell’ammetterli allo stato di Ecclesiastici. Ne ciò succedeva, se non quando aveane preso rigorosa ugualmente, che minuta informazione, e dopo averli da per se stesso più, e più volte esaminati. Mostrandosi oltre a ciò renitente molto in dispensare a quel tempo, che da un’ordine all’altro vogliono i Canoni, che si frammezzi: volendo, che col lungo esercizio delle virtù, e col desiderio più ardente, si rendessero maggiormente degni di quel grado, a cui aspiravano. Questi furono i mezzi, co’ quali ottenne, ciocche a prima vista parea poco meno che impossibile, un’intiera riforma di tutta la sua Diocesi. La quale poi andò così in essa prendendo piede, che Monsignor Cesare Bovio immediato di lui successore, benché venisse, come altrove abbiamo scritto, dalla scuola di S. Carlo, ebbe a dire nel primo entrarvi. Io trovo il terreno della mia diocesi molto ben governato senza alcuna erba trista di modo, che non vi è bisogno d’altro, che di ottima semenza”.

S.Domenico 01.10.2007 003

Le domande e le curiosità sono tante e leggendo i volumi diventeranno tantissime.

Perché un Papa (in particolare San Pio V) manda il teologo domenicano (quasi obbligandolo e richiamandolo all’ obbedienza) a 78 anni, ad iniziare una tremenda battaglia per la fede, nella diocesi di Nardò? (leggendo si capirà il motivo del “tremenda”).

Perché ‘quel’ Papa, si fa carico dei pagamenti delle bolle, privilegiando la figura di Ambrogio Salvio e ponendosi quasi a disposizione del domenicano, purchè lui dedicasse attenzione a quella diocesi?

Cosa sapeva il Papa (San Pio V) della diocesi di Nardò, per “richiamare” una gigantesca figura dell’ordine domenicano (molti lo indicano anche come maestro del Ghislieri, quindi, del Papa) come quella di Ambrogio Salvio? (forse aveva concreti dubbi sulla conduzione della diocesi, dopo la presenza del vescovo Giovan Battista, della famiglia Acquaviva D’Aragona?)

Il domenicano avendo carta bianca ela fiducia estrema del Papa mette in atto la zelante strategia che aveva adottato nella sua vita. In Cattedrale, sposta il coro (non soltanto), per far avanzare l’altare (mensa) e porlo a più stretto contatto con i fedeli, gestisce l’urbanistica innalzando cuspidi, recupera monasteri e riconsolida la fede con episodi evidenti di profonda fede e zelo come quello di andare in casa delle famiglie indigenti e portare loro conforto e cibo.

L’equivoca situazione della diocesi di Nardò, non veniva fuori forse da un’altra importante figura prima di lui (Giovan Battista Acquaviva d’ Aragona)? Ma allora perché il narratore racconta di tante situazioni al limite della normale civiltà che Ambrogio Salvio, rivela fino a “piangere” per la situazione in cui trova quella diocesi?

Ambrogio Salvio combatterà contro l’arroganza, il tradimento, la cupidigia, la superficialità dei comportamenti, il malcostume, denuncerà i titoli acquisiti senza la dovuta dottrina per il clero e cercherà di arginare diverse sacche di eresie contro la fede. Ma com’era la situazione della diocesi di Nardò a quel tempo?

Come si vedrà (per chi leggerà i densi due volumi), è evidente un’atmosfera al quanto particolare che ritengo, la storia locale, non abbia, messo a fuoco abbastanza e magari, considerato nel giusto modo. Specialmente quelle particolari relazioni conseguenti al contesto dei rapporti tra la chiesa, i duchi del periodo e il popolo. Auspico una rivalutazione, dell’opera, e in particolare della figura di Ambrogio Salvio.

S.Domenico 01.10.2007 006

13 FACINOROSI TELAMONI DI LECCE VS 13 FANCIULLI BIZANTINI DI NARDO’

Ricordo a questo proposito ciò che ho già riportato in altri scritti e che ritengo di fondamentale importanza. Il domenicano Ambrogio Salvio è vescovo di Nardò dal 1569 al 1577 e che l’ispirazione, quindi, la decisione della facciata di San Domenico come un arco di trionfo domenicano, a tre fornici, è contemporanea alla battaglia di Lepanto 1571 (è uno dei buoni motivi per cui l’opera vada tenuta da conto per il suo valore storico architettonico, nell’ambito, ritengo, di tutto il meridione d’ Italia). Coincidono troppi elementi per non definire quella facciata preziosa in ogni suo particolare, e sarà certamente ‘scrutata’ ancora. Per esempio, è molto probabile e facilmente presumibile, anche con un confronto visivo (particolare che difficilmente sarà riportato su documenti, ricordo che la facciata della chiesa non è mai stata descritta nei dettagli come stiamo contribuendo a fare, con questi miei scritti), che il domenicano cerca di ‘naturalizzare’ moderatamente l’azzardo, ritenuto esageratamente pagano, della facciata leccese di Santa Croce, il cui tremendo primo livello, a quel momento, era già costruito fino alla balustra compresi i telamoni reggitori. Il domenicano, teologo, allora, a Nardò, sottolinea l’equivoco sull’interpretazione della legge della natura, ‘sostenuto’, ad esempio, dalle colonne laterali poste all’ingresso del tempio di Lecce. Invece di bacchi danzanti e fauni barbuti a cavallo di volute fin troppo esplicite, di sirene bicaudate o figure femminili che ‘offrono’ il loro ventre come frutto ricolmo, a Nardò, egli contrappone, ‘criticamente’ la norma. La serie di regole che la disciplina impone per la salvezza dell’anima. E, proprio là, dove a Lecce, insiste un nastro con vitigni, spirali e simboli pagani che prepara alla scenografica balaustra sostenuta da telamoni, invece a Nardò ci sono vari omucoli (M. Manieri-Elia) apparati con i vari messaggi di fede, e che ‘segnano’ un intero livello. Gli dei pagani barbuti, esposti in perverse ammiccanti torsioni, non possono avere posto, all’ingresso del tempio, invece, hanno l’obbligo di ‘reggere’ o sostenere la regola che conduce alla salvezza dell’anima. Ne risulta una semplice, ma sconvolgente teoria critica, estetica, simbologica. Penso che possa essere stato proprio questo, uno dei motivi dell’ispirazione della facciata di San Domenico. Essa nasce dal semplice incontro dell’uomo con Dio nel dies irae (giorno del giudizio), a continuo monito per le sue creature. Di fronte alla sua presenza, infatti, messa da parte l’arroganza e la superbia, risultano i 13 facinorosi telamoni a Lecce, trasformati, a Nardò, in 13 fanciulli nudi (di cui, il motivo di quella simbologia, chiarirò nel link indicato in calce) pronti per il giudizio.

Tesori, dunque, che acquistano preziosità e lucentezza intellettuale, pari alla sensibilità di chi li legge o ne ipotizza interpretazioni, fin’ora, tutte attendibili.

 

Per approfondire l’argomento, in tutti i suoi punti discussi, dal quale l’articolo è tratto, vedere:

http://culturasalentina.wordpress.com/2014/07/08/il-vuoto-e-leccedente/

1614. Restauri nella chiesa di San Domenico a Nardò

Nardò, s. Domenico (ph M. Gaballo)

di Marcello Gaballo

Nel 1614 si ritrovano nel convento dei frati Domenicani, oltre al priore e ai frati, Alessio, Colella e Bernardino Sambiasi, figli di Giulio Cesare e di Lucrezia de Castello, agenti anche in nome del loro cugino Roberto Sambiasi, figlio di Beatrice de Castello, sorella della predetta Lucrezia.

I de Castello hanno posseduto et al presente anche possedono la cappella maggiore della chiesa di detto convento… edificata da loro predecessori con tutte le statue et ornamenti come al presente se ritrova; et perchè essi Rev.di Padri vogliono er commodità loro et per ornamento della detta loro chiesa ampliare il choro, che stà dentro detta cappella, et l’ altare farla sotto l’ arco come già s’è ncominciata a fare, et vogliono finirla con farci due porte alle bande et altri ornamenti che meglio li parerà, per lo che è necessario che li butti a terra il baldacchino da quel loco dove stà. Et anche è necessario che le due statue, una di Santo Pietro et l’ altra di Santo Paulo si levano di quel loco dove stanno et si trasferiscano alli dui lati delle dette due porte, et di più che l’ altre due statue della Visitatione si levano più in alto insieme con li due sepolchri et arme et anche il cornicione, acciò si possa più commodamente allargare et accomodare il choro, conforme al disegno fatto dalli mastri.

I suddetti Sambiasi si contentano come dechiarano contentarsi d’ esser lecito à detti Rev.di Padrid’ accomodare l’ altare nel detto loco come di sopra, di levare in tutto il detto baldacchino, di tranferire dette due statue… con patto che detti Sambiasi debbiano contribuire per la metà della spesa che si farà nella translatione…

particolare della facciata di S. Domenico (ph M. Gaballo)

L’ altra metà della spesa verrà coperta dai frati, che si impegnano a riparare eventuali danni occorsi nei lavori, subito o entro due mesi, senza alcun aggravio per i Sambiasi.

Qualora i danni si verificassero per le statue o fossero irreparabili, i frati si impegnano a pagare il giusto prezzo alli predetti Sambiasi per farne fare altre simili o spenderli in beneficio di detta cappella.

Viene poi pattuito che se si dovranno porre le armi dei Sambiasi e De Castelli sulle porte, le spese conseguenti saranno a carico dei Sambiasi (atti del notaio Santoro Tollemeto del 1614).

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