La chianca

di Armando Polito

 

È il classico componente della pavimentazione dei nostri centri storici (nella foto piazza Salandra a Nardò) ed è la lastra di petra ia (pietra viva1). Dunque a  ragione, anche se inconsapevolmente, diciamo che essi “rivivono” quando le loro strade vengono liberate dall’asfalto con cui menti geniali (per quanto possono esserlo quelle non dotate del minimo senso dell’estetica …) avevano pensato di ricoprirle. Chianca è anche la lastra di pietra leccese, generalmente più grande rispetto alla prima che, perciò, più spesso è chiamata col diminutivo chiancarèddha. La chianca ti leccese ha costituito l’unico materiale di pavimentazione delle terrazze (bisognava avere solo l’accortezza di tenerle pulite e di controllare e rifare ogni cinque anni le connessure tra le lastre dette chiamienti2) fino all’avvento delle guaine e di altri materiali che sovente trasformano le terrazze in piscine  bucate …

Il lettore avrà notato che contrariamente al solito nel titolo non ho aggiunto in parentesi tonde la voce corrispondente in italiano. Non l’ho fatto perché per esigenze semantiche avrei dovuto usare una circollocuzione (lastra di pietra) e poi perché da un punto di vista formale avrei potuto usare plancia (che è dal francese planche, a sua volta dal latino planca=asse, tavola) che, però, nei significati in uso nulla ha a che fare direttamente (ma indirettamente sì, come vedremo …) con la lastra di pietra e con la pavimentazione.

Per il Rohlfs chianca è da un latino volgare *planca<*palanca<greco φαλάγγα. Non so da dove il maestro abbia tratto φαλάγγα che non mi risulta attestato. Sorprendente è pure (ma, come diceva Orazio, quandoque dormitat bonus Homerus=talvolta il buon Omero dormicchia) che gli sia sfuggito il lemma PLANCA nel glossario del Du Cange, lemma che di seguito riproduco (così evito di trascriverlo e posso agevolmente aggiungere, oltre alla traduzione, pure qualche nota).

 

Mi limito a controllare gli autori più antichi, cioè Plinio (I secolo d. C.) e Festo (probabilmente II secolo d. C.). In tutta la Naturalis historia, però, la voce planca non ricorre in nessuna edizione, eccetto che in una, trovata dopo molti sudori, del 1514 (nelle immagini in basso il frontespizio e il dettaglio del testo con la parte che ci interessa sottolineata in rosso), alla quale, evidentemente, si è rifatto  il Du Cange.  Ne riporto, per quanto poco attendibile, la lezione: Nec pontes transeant per raritatem plancarum translucentibus fluviis (Né potrebbero attraversare i ponti attraverso la rarità di tavole sui fiumi luccicanti). Il testo pliniano oggi concordemente accettato, invece è: Nec pontes transeunt per raritatem eorum tralucentibus fluviis (Né attraversano i ponti per la loro rarità sui fiumi luccicanti).

 

Mi va meglio con Festo, De verborum significatione: Plancae dicebantur tabulae planae, ob quam caussam et Planci appellantur qui supra modum pedibus plani sunt (Si chiamavano plance le tavole piane, ragione per cui si chiamano planci coloro che hanno i piedi oltremodo piatti).

Aggiungo, giacché ci sono, la testimonianza, non riportata dal Du Cange, di Rutilio Paolo Emiliano Palladio (IV secolo d. C.), De re rustica, I, 21: Plancae roboreae supponantur stationibus equorum (Tavole di quercia siano distese per le poste dei cavalli).

Quanto fin qui riportato è sufficiente per affermare che chianca è da planca, voce che il Rohlfs si era deduttivamente ricostruito partendo dall’assunto che nel dialetto salentino chia– nasce da un originario pla– (per esempio: planum>chiànu); solo che la voce, come abbiamo visto, risulta attestata nel latino tardo e, dunque, l’asterisco non ha ragion d’essere.

Credo che non sia il caso di attardarsi sullo slittamento semantico che chianca ha subito passando dall’originario significato di asse, tavola di legno a quello di lastra di pietra. Basta notare come molto probabilmente la transizione tra i due significati è già in nuce in quel che s’incontra in atti notarili salentini dell’inizio del XVII secolo, dove  la voce chianca è usata nel senso di esercizio di macelleria.

Chiànca in questo significato è voce d’importazione napoletana. Ecco la definizione che ne dà Ferdinando Galiani in Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal toscano, Porcelli, Napoli, 1789: Originariamente ha significato una panca, o sia tavola di legno spianata. Ora non ha più questo senso, chè restato solo ne’ suoi diminutivi chianchetelle e chiancherelle, ed è passato a dinotare un macello, giacchè in queste botteghe, come in altre di vendita di comestibili, si fa uno sporto in fuori di tavole, e sopra una gran panca si vendono le merci.

Oggi nel dialetto neretino chianca indica solo la lastra di pietra, ma nel significato di banco del macellaio e in quello di pietra sepolcrale è riportato da G. Morosi in Il vocalismo del dialetto leccese, in Archivio glottologico italiano, v. IV, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1878, pag. 118.

Oltre che nel napoletano la voce, col significato di macelleria, è presente anche nel dialetto siciliano (Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, Reale stamperia, Palermo, 1785, pag. 301: Chianca: luogo dove il beccajo vende la carne degli animali quadrupedi per uso di mangiare, beccheria).

Insomma, il passaggio, anche per motivi igienici, dalla tavola di legno alla lastra di pietra, fosse pure marmo, era già nell’aria.

E per tornare, dopo la visita in macelleria, sulla strada (che il macello di pneumatici e gambe provocato a Nardò dal cedimento di alcune chianche dopo il recente restauro sia da imputare a motivi filologici? …) sapete quale nome aveva la sua pavimentazione con le chianche di petra ia? Insalicatura, nome molto frequente già negli atti notarili salentini della metà del XV secolo riferentisi ad appalti per la pavimentazione delle principali strade cittadine. Col nome non ha nulla a che fare né il sale né il salice, ma quello che rischia di creare fra qualche decennio proprio nel Salento un problema che si aggiunge all’inquinamento da amianto: il silicio dei pannelli solari. E pensare che silicio è dal latino scientifico silicium, forma aggettivale sostantivata dal classico silice(m)=pietra dura, da cui l’italiano selce che, com’è piccolo il mondo!, può essere considerato sinonimo della nostra petra ia. Da selce, infine, selciare è il corrispondente italiano del dialettale insalicare [da insilicare (che negli atti salentini si alterna a insalicare)>inselicare (in Gaspero Patriarchi, Vocabolario veneziano e padovano co’ termini e modi corrispondenti toscani, Conzatti, Padova, 1775, pag. 288 alla voce selefare si legge: ammattonare, lastricare, inselicare, selciare) e, infine, probabilmente per influsso gallipolino in cui la e diventa a (sergente>sargente), insalicare]. Se inselicare è voce toscana, insilicare/insalicare (oggi selciare) è variante non esclusivamente salentina, come dimostra il suo uso corrente nel secolo XVIe nel successivo8. Nel XVIII secolo la forma più usata è inselicare, dominante anche nel XIX9; in quest’ultimo secolo s’incontrano meno frequentemente pure inselciare e inseliciare10, nonché insiliciare11. Salicàtus (evidente forma aggettivale da salicàre), salegàre, salecàre e saligàre sono attestati nel latino tardo e medioevale12.

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1 In Michele Saccardo, Nuovo tubo-conduttore di pietra viva, etc., Tipografia del Seminario, Padova, 1869, pag. 9 leggo:  Per la Condotta delle Fontane di Schio occorre un Tubo-Conduttore della capacità interna di diciotto centimetri e dello spessore di sei centimetri e costa: DI PIETRA VIVA  L. cinque, DI PIETRA MORTA L. quindici, DI GHISA l. trenta.

Sorprende che la pietra morta (friabile) sia più quotata di quella viva (dura), anche se credo che proprio per la convenienza economica oltre che per la sua funzionalità lo stesso autore ne aveva raccomandato l’uso in Voti autorevoli in favore del nuovo conduttore di pietra viva in sezioni longitudinali, Tipografia del Seminario, Padova, 1865).

2 Chiamientu è da un latino *clavimentum=chiusura, se consideriamo come termine primitivo clavis=chiave; se invece consideriamo primitivo clavus=chiodo *clavimentum significherebbe alla lettera inchiodatura. In sostanza non cambia nulla poiché clavus e clavis sono parenti; infatti un chiodo cos’è se non una forma primitiva di chiave, come dimostra nei film l’avvenente (altrimenti, chi lo va a vedere?) ladra che viola la serratura addirittura con un piccolo ferro per capelli?

3 Attuale Dendermonde, in Belgio.

4 Wilhelmus Damasi Lindanus (1525-1588).

5 Lo scabino (dal francone *skapins=colui che agisce) nel Medioevo era un giudice di nomina regia o imperiale, scelto tra gli uomini esperti del diritto consuetudinario, il cui giudizio, richiesto dal conte, diventava esecutivo attraverso le sentenze formalmente emesse dal conte stesso.

6 Attuale Trogir, in Croazia.

7 In Spicilegium, seu  thesaurulus Latinae linguae et Italicae di L. G. Scoppa, Pietro Bosello, Venezia, 1558, tomo I, pag. 573 al lemma siliceus/a/um si legge insilicato, ammattonato, inchiancato, fatto de silice; e al lemma investigare (pag 795) si legge: diligentemente cercamo, investigamo come potemo insilicare la nostra via (dove insilicare è nel senso metaforico di munire). In Roma ristaurata et Italia illustrata di Biondo da Forlì tradotte in buona lingua volgare da Lucio Fauno, Domenico Giglio, Venezia, 1558, pag. 56:…tutto insilicare  de le pietre Tiburtine…

8 Antoine Audine, Recherches Italiennes et Françoises, Antoine de Sommaville, Parigi, 1655, pag. 432: insalicare: pauer et planter des saules (insalicare: pavimentare e piantare salici).  È evidente che nel secondo significato alla selce del primo subentra il salice che ha diversa etimologia: da sàlice(m). Proprio l’influsso di quest’ultimo potrebbe essere alla base della variante insalicàre, a meno che non vi si voglia cogliere un influsso gallipolino: inselicare>insalicare come sergente>sargente.

9 In Gaspero Patriarchi, Vocabolario veneziano e padovano co’ termini e modi corrispondenti toscani, Conzatti, Padova, 1775, pag. 288 alla voce selefare si legge: ammattonare, lastricare, inselicare, selciare. Nel Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, Unione tipografico-editrice, Torino, 1865, v. I, pag. 88, al lemma acciottolato si legge: lastrico fatto con ciottoli; intendiamo seliciato per lastrichi fatti di pietre piccolissime maggiori di quelle del mosaico e minori assai di quelle degli acciottolati. Benchè inselicato significhi propriamente un lastrico minuto, si trasporta però anche a significare il grossolano, cioè l’acciottolato.       

10 Entrambe le voci sono registrate nel Dizionario della lingua italiana, Fratelli Vignozzi e nipote, 1838,  Livorno, pag. 1330

11 Giuseppe Antonio Boidi, Corso compiuto di disegno metrico industriale, Tipografia scolastica di Sebastiano Franco e figli, Torino, 1864, pag. 22. 

12 Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, L. Favre, Niort, 1883, tomo VII,  pag. 282: SALICATUS: saburratus, Gallice lesté, ab Ital. salicato, Gall. caillou. Ordo ad benedicendum oleum infirmorum,etc ex MSS. Pontificalibus ann. 600 vel 500, apud  Marten. de antiq. eccl. discipl. pag. 244: In secundo (ordine) duo subsequenter (f. subsequuntur) ceroferarii, qui velut caelestem proferentes splendorem sanctam demonstrant Ecclesiam supra firmam petram stabilitam, sicut archam Noe in diluvio salicatam, etc. (SALICATUS: zavorrato, in francese lesté, dall’italico salicato, selce, francese caillou. Ordine preposto alla benedizione dell’olio degli infermi, etc. , da manoscritti pontificii dell’anno 600 o 500 presso Marten. sulle antiche discipline ecclesiasiche, pag. 244: In secondo (ordine) conseguentemente (forse invece di seguono) i portatori di ceri, che quasi esibendo lo splendore celeste mostrano la santa Chiesa stabilita su solida pietra, come l’arca di Noè zavorrata nel diluvio, etc.). 

Ibidem, pag. 281: lemma SALEGARE: vox Italica, plateas, vias pavimentis munire, Gall. paver. Annales vett. Mutin. apud Murator. tom. XI, col. 66; De anno 1262 evacuata fuit civitas Mutinae de omni letamine, et contratae fuerunt englaratae, et multi porticus salegati. Stat. Bonon. ann. 1250-67, tom. II,  pag. 465: Et quilibet teneatur salegare a muro domus sue usque ad medium strate, sicut capit domus sua; et tom. II, pag. 446: Statuimus et ordinamus quod burgum palee strate sancti Donati usque ad seralium sancti Martini de apoxa debeat salegari expensis vicinorum  (SALEGARE: voce italica, munire di pavimenti piazze, vie, in francese paver.  Vecchi annali di Mutina presso Muratori, tomo XI, colonna 66: Dall’anno 1262 la città di Mutin fu svuotata di ogni spazzatura e le contrade furono ripulite e molti portici selciati. Statuti di Bologna degli anni 1250-67, tomo II, pag. 465: E ognuno sia tenuto a selciare dal muro della sua casa sino al centro della strada per quanto la sua casa è prospiciente; e nel tomo II, pag. 446: Stabiliamo e ordiniamo che il borgo della strada di paglia di san Donato fino al convento di san Martino di Apposa debba essere selciato a spese di chi abita vicino)

Di seguito, al lemma SALECARE: Eadem notione, in Chron. Veron, ad ann. 1242 apud eundem Murator. tom. 8 col. 632: Et eo anno factum fuit forum seu mercatum Veronae, et de quadrellis salecatum, et de lapidibus domini Gulielmi de Zerlis (SALECARE: Con lo stesso significato nella Cronaca Veronese dell’anno 1342 presso lo stesso Muratori, tomo 8, colonna 632: E in quell’anno fu realizzato il foro o mercato di Verona e selciato con i quadrelli e le pietre di don Gugliemo de Zerlis).

Ibidem, pag. 282, lemma SALIGARE: Idem quod salegare. Stat. Bonon. ann. 1250-67, tom. II, pag. 456: Statuimus et ordinamus …quod quiliber debeat saligare suam testatam; et tom. II, pag. 447: Quod via que vadit in porta sancti Proculi saligetur (Lo stesso che salegare. Statuti di Bologna degli anni 1250-67, tomo II, pag. 456: Stabiliamo e ordiniamo … che ognuno debba selciare il suo  confine; e nel tomo II, pag. 447: Che la via che conduce alla porta di san Proculo sia selciata).

E di seguito, al lemma SALIGATA: Idem quod salegata. Vide in hac voce Stat. Bonon. ann. 1250-67, tom. II, pag, 462: Statuimus et ordinamus quod androna sancte Agathae de strata Castilionis debeat salegari ab uno muro usque ad alium et usque ad saligatum strate currentis (SALIGATA: Lo stesso che salegata. Vedi per questa voce gli Statuti di Bologna degli anni 1250-67, tomo II, pag. 462: Stabiliamo e ordiniamo che l’androne di sant’Agata della strada di Castiglione debba essere selciato da un muro fino all’altro e fino al selciato della strada che vi corre).

Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari

Libri/ Rossella Barletta, Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari, Capone Editore

 

Pietra su pietra

di Maurizio Nocera

Perché interessarsi ancora (e sempre) dell’architettura rurale pugliese? Perché attraverso lo studio ed il recupero di questa realtà noi possiamo conoscere le origini, i costumi, le tradizioni di chi ci ha preceduto, di chi ha segnato questo territorio con il lavoro e con la speranza di lasciare testimonianze vive e utili alle generazioni che sarebbero venute. Ma anche per tentare, dopo decenni e decenni di abbandono, di progettare per dette aree un loro riutilizzo attraverso una riqualificazione ambientale, e così poter ritornare a rivivere e ad essere utili per i nuovi orizzonti turistico-culturali. Per fare tutto ciò, però, occorre avviare progetti e studi che identifichino e descrivano dettagliatamente le aree rurali, per le quali occorre poi tracciare le necessarie linee di intervento per la riqualificazione ed il loro recupero funzionale.

È importante quindi avere come obiettivo immediato il recupero dei trulli dell’area della Murgia brindisina, barese e tarantina, il recupero delle “pajare” e delle “caseddhe” del Salento, di quelle del foggiano e della Bat, infine occorre recuperare il vasto patrimonio dei muretti a secco che, per migliaia di chilometri, insistono in tutta la regione. Studiare le aree rurali pugliesi significa narrare la loro secolare storia; significa descrivere le loro caratteristiche costruttive; significa conoscere la differenza tra trullo primordiale e trullo evoluto, tra trullo e “pajara” o “furneddhu”, e tra questi e le “caseddhe”. Ciò è per noi importante per capire l’evoluzione della caratteristica struttura abitativa rurale dei pugliesi.

 

Lo “studio” di Giovanni Santini

Oggi però non iniziamo da zero. Nel passato ci sono stati studiosi che hanno dedicato non poche attenzioni al paesaggio rurale. Si pensi, ad esempio, a Luigi Maggiulli, Sigismondo Castromediano, Filippo Bacile di Castiglione, altri ancora. E non molto tempo fa, alla cultura e alle architetture del paesaggio rurale la Società di Storia Patria per la Puglia dedicò due convegni di importanza nazionale. Il primo, su iniziativa della stessa e in collaborazione col “Centro studi sui territori rurali” di Pavullo nel Frignano (Modena), intitolato “Storia e problemi della Montagna Italiana”, ebbe luogo a Pavullo il 21 e 23 maggio 1971; il secondo invece, organizzato sempre dalla Società di Storia Patria per la Puglia e dalla sua Sezione Dauna, con l’adesione della regione Puglia ed ancora del “Centro studi di Pavullo”, intitolato “Distretti rurali e città minori”, ebbe luogo a Lucera (col coinvolgimento anche dei sindaci e delle amministrazioni comunali di Troia e Monte Sant’Angelo) il 17-19 marzo 1974.

Cito questi due eventi perché in essi alcuni studiosi della materia tennero delle relazioni importanti per il loro carattere metodologici come, ad esempio, furono gli interventi di Giovanni Santini, all’epoca ordinario dell’Università di Bari il quale, nella relazione “Ipotesi di lavoro e ricerche interdisciplinari”, riferendosi al paesaggio “civile” italiano, individuò tre aree di “civiltà” storicamente vissute. La maggiore, che è quella dei grandi centri urbani come sono i capoluoghi di provincia. L’intermedia, che è quella caratterizzata dai centri urbani agglomerati del tipo Gallipoli, Ostuni, Martina Franca, Barletta, Manfredonia, ma anche territori rurali con una rilevanza storico-culturale del tipo Parchi letterari (ad esempio, quello intitolato al meridionalista Tommaso Fiore nell’area altamurana); infine, e siamo al dunque, le aree minori o “minime”, quelle cioè in cui Santini, sulla scia del March Bloch de “I caratteri originari della storia rurale francese” (Torino 1973) e del Fernand Braudel degli “Scritti sulla storia” (Milano 1973), individua come aree delimitate da confini ben precisi come, ad esempio, sono le corti, le pievi, i castelli e quant’altro sta nelle loro più immediate vicinanze. Per noi il concetto di aree “minime” vale per le zone rurali che hanno o hanno avuto un’omogeneità colturale e architettonica.

Lo studio del Santini aveva come obiettivo quello dell’integrazione delle aree “minime” con le intermedie e queste ultime, a loro volta, con i grandi centri urbanizzati. «Solo così – egli scrive nella sua relazione – con un grandioso sforzo collettivo di presa di coscienza del passato, potremo programmare il futuro dei territori rurali italiani nel rispetto delle loro tradizioni e della loro personalità storica, oltreché, naturalmente, delle esigenze del presente […]. In tal modo [… sarà possibile] veramente, una rinascita del mondo rurale, rendendolo protagonista del suo rinnovamento» (cfr. Atti del II Convegno “Distretti rurali e città minori”, SSPP, Bari 1977, p. 210). Lo studioso auspicava allora che, per procedere su questa strada, occorreva avviare una fase conoscitiva e scientifica e solo, dopo di essa, sarebbe stato possibile mettere in atto politiche e proposte fattibili capaci di rinnovare il territorio “minimo” raccordandolo e integrandolo col resto del paesaggio urbano e rurale. Sappiamo che da decenni, per non dire da qualche secolo, ciò non è stato fatto, un po’ per un’assurda visione dell’Italia unitaria e post-unitaria, nella quale doveva crescere economicamente solo il Nord, mentre il Sud doveva solo consumare la ricchezza prodotta; un po’ anche per l’incuria e la debolezza dello stesso personale politico-amministrativo dello stesso Meridione, per il quale era sufficiente vivere solo il presente senza preoccuparsi di quello che sarebbe stato il futuro, soprattutto quello delle generazioni che si sarebbero succedute, cioè i nostri figli.

Il recupero delle aree “minime”

Oggi occorre quanto prima tentare di colmare le lacune del passato cercando, sulla scia delle considerazioni del Santini ma anche su quelle di altri studiosi, di contribuire ad un progetto di recupero delle aree “minime”, con l’obiettivo della loro integrazione e raccordo con le aree urbanizzate e culturalmente più attrezzate della regione. Da subito va avviato il recupero dei muretti a secco e dell’architettura dei trulli, delle “pajare” e delle “caseddhe” con l’obiettivo immediato di intervenire per verificare il loro stato di conservazione, e là dove v’è urgenza di un intervento, metterlo in atto restaurando oppure consolidando le strutture dei manufatti. In questo ampio progetto di rivitalizzazione delle aree “minime” rurali pugliesi occorre coinvolgere tutti coloro che vivono in rapporto con la terra, e il riferimento va ai vecchi e nuovi lavoratori agricoli, ai piccoli e medi contadini, agli extra-comunitari e ai giovani italiani in cerca di lavoro, dando loro ovviamente dignità di retribuzione.

Il trullo

Importante è sapere com’è fatta la struttura del trullo, consistente nel “pinnacolo” (l’ultimo esile concio in verticale che si innalza al centro del tetto); la “carrazzola”, altrimenti detta anche “serraglia” (chianca o lastra di pietra circolare che chiude la copertura conica); le “chiancarelle” (mattoncini piatti che ricoprono il tetto costruito in forma di cono con inclinazione di circa 45 gradi); la “intercapedine” (spazio tra le chiancarelle esterne e la linea di pietre a secco che costituiscono la parete interna del trullo, in dialetto salentino chiamata anche “muraja”); la “cannella” (volta costruita ad anelli circolari con diametro decrescente verso l’alto); il “compluvio” (sistema di immissione della acque piovane nella cisterna); l’ “ingresso” (unica porta che permette l’entrata e l’uscita dal trullo); gli “settaturi” (sedili in pietra a ridosso dell’ingresso); il “soppalco” (utilizzato come deposito o posto letto); la “alcova” (parte della stanza contenente il letto e solitamente adibita a dormitorio); la “cisterna” (può essere interna scavata al di sotto delle fondamenta del trullo oppure scavata esternamente e affiancata ad esso). Quando il trullo è in forma trapezoidale (più rara) gli angoli sporgenti vengono costruiti con i cosiddetti “peducci”, che sono pietre più grosse rispetto alle altre usate per le pareti normali. Non poche volte, in Puglia, si incontrano trulli o “pajare” o “caseddhe” circondate da grandi mura perimetrali (“paritoni”) che delimitavano lo spazio dell’aia o degli animali da cortile.

“Pajare” e “caseddhe”

Il tipo di struttura del trullo vale anche per le “pajare” o “furneddhi”, più presenti nel basso Salento, il cui aspetto è in forma tronco-conica o tronco-piramidale (“tholos”) con pareti a secco spesso non intonacate. Nel libro “Ripari trulliformi in pietra a secco nel Salento” (Progeca, Tricase 2007), Francesco Calò scrive che «Le costruzioni trulliformi utilizzate come veri e propri ripari di campagna, sono particolarmente diffuse a sud, nel basso Salento, lungo le fasce costiere. Sono ripari stagionali costruiti interamente a secco» (p. 15), precisando che «un’evoluzione dei ripari trulliformi sono le “caseddhe” e le “liàme”, costruzioni in pietra a secco e a pianta quadrangolare, sempre rustiche, ma più stabili e più comode sul campo. Le prime, poco diffuse, hanno una copertura risolta a due spioventi di tegole di terracotta» (p. 38).

Calò nei primi capitoli del suo libro fa opportuni riferimenti storici sull’estensione europea del fenomeno dei ripari costruiti con pietre a secco, ed interessante è l’approfondimento che egli fa sulle origini della struttura architettonica rurale. Nel capitolo “Etimologia dei termini”, egli definisce e chiarisce specificamente termini come “pagliaro” o “pagghiara” e “pagghiarune”; “trullo” (sinonimo di “tholos”), o “truddhu” o “chipuru”, o “furnu” e “furneddhu”; “casella” o “caseddha” o “liàma” o “lamia”. Interessante è pure il capitolo “Procedimento costruttivo e struttura”, nel quale descrive come viene costruito un riparo con pietre a secco. Scrive: «i ripari trulliformi in pietra a secco sono generalmente costruzioni con struttura interna monocellulare, cioè dotate di un solo ambiente, e sono costruite in pietra a secco secondo il più volte citato principio delle “mensole aggettanti”, che permette di realizzare una varietà di pseudo-cupole, specialmente le tholos più classiche. Questo sistema per risolvere la copertura, apparentemente complesso, è in realtà molto semplice, poiché deriva dal sistema del triangolo di scarico, così come la cupola e la volta a botte sono derivate dall’arco a tutto sesto. Il contadino o l’esperto costruttore, dopo aver terminato l’approvvigionamento delle pietre, inizia il procedimento costruttivo scegliendo prima il sito. Successivamente, disegna la planimetria del riparo direttamente sul terreno, che può assumere due forme, quella circolare, più primordiale, o quardrangolare, più recente, differenziando, così, la parte inferiore del volume del riparo. La copertura è risolta solitamente a “tholos”, più raramente, a “piramide” o a “barca” rovesciata» (p. 55).

Il maestro costruttore Donato Pinzetta

Occorre quanto prima prendere coscienza dell’importanza delle architetture rurali pugliesi, soprattutto per un loro riutilizzo in funzione produttiva ed anche in quella turistico-culturale. E in primo luogo occorre attrezzarsi di una legislazione regionale tale che impedisca inutili sconvolgimenti dell’assetto territoriale agricolo, evitando episodi già accaduti che hanno visto distruggere o spostare tali architetture dai siti in cui da secoli e pure da millenni stavano, per trasportarle in ville o in luoghi che non hanno nulla a che vedere con la loro storia di pietre. Occorre seguire le indicazioni di chi sulla terra e tra le pietre di questa terra ci vive con amore e passione come, ad esempio, il maestro costruttore di muretti a secco Donato Pinzetta, di Tricase, e il geometra Antonello Palma, di Montesano, i quali, in un’illuminante intervista condotta da Paolo Palomba, pubblicata su «il Paese nuovo» (8 luglio 2009), hanno difeso con competenza le architetture a secco del Salento. Alla domanda posta dal giornalista Palomba [«Geometra Palma, quali strategie tecniche si sente di suggerire all’opinione pubblica, al fine di preservare tali opere architettoniche, viste come espressione importante della civiltà contadina?»], Palma ha risposto così: «è importante e doveroso che soprattutto il tecnico (geometra, ingegnere, architetto) sensibilizzi e stimoli l’opinione pubblica a prevenire qualsiasi alterazione delle costruzioni rurali; spesso, purtroppo, questi reperti del passato vengono modificati impropriamente, con materiali diversi da quelli originari. Più che il tufo o il cemento armato, deve essere garantita la struttura nativa di siffatto patrimonio dell’umanità, nonché espressione architettonico-culturale del Salento. Si tratta di “guardare il vecchio per fare il nuovo”, suggerendo la presenza di codici e regolamenti che tengano conto della memoria storica, in vista dell’emanazione di nuovi ed efficaci piani regolatori territoriali».

L’umanesimo della pietra

Comunque, sul terreno della difesa delle strutture architettoniche rurali, qualcosa è cominciato a muoversi. Nel 2000 fu Nico Blasi, studioso a quel tempo attivo nell’associazione martinese “Umanesimo della Pietra”, che si interessò dell’importanza delle costruzioni trulliforme rilasciando una intervista a «Quotidiano di Lecce» (14 luglio 2000), raccolta da Anita Preti. In essa, Blasi afferma che «Si può fare di tutto con i trulli. L’importante sarebbe conservare il tempo per amarli e rispettarli». E sull’appello del Blasi, non pochi studiosi e molti pugliesi innamorati del nostro paesaggio stanno oggi lavorando per ridare dignità alle antiche architetture rurali. Come di recente ha fatto Rossella Barletta, con la pubblicazione di un suo libro intitolato “Architettura contadina del Salento. Muretti a secco e pagghiari” (Capone Editore, Cavallino 2009, pp. 96, euro 8), che si presenta con due stupende immagini (entrambe scatti dell’archivio della Casa editrice) di copertina (in prima un “pajarone” e in ultima un muretto a secco dalle caratteristiche pietre ad incastro verticale-orizzontale-obliquo).

Il libro di Rossella Barletta

Di immagini bellissime è colmo l’intero libro, che è introdotto dalla Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, Maria Rosaria De Lumè, che scrive: «L’architettura rurale […] è il frutto di una molteplicità di relazioni che hanno strutturato nel tempo un determinato luogo, esito visibile di numerosi fattori culturali […]. C’è un altro modo per definire l’architettura rurale: muretti a secco, “pajare”, “pagghiare”, “furneddhi”, fanno parte di quella che viene indicata ‘architettura vernacolare, con cui si intende quel tipo di costruzioni realizzate in sede locale da popolazioni che lavorano senza servirsi di professionisti, ma facendo ricorso esclusivamente a quanto appreso per tradizione orale e tecnica. È, per questo, un’architettura consolidata che non presenta segni rilevanti di sviluppo nel tempo, resa sicura dall’esperienza che ha contribuito a stratificare le conoscenze. Per questo, proprio perché è collegata all’ambiente, i materiali sono quelli del luogo, pietre su pietre, senza collanti. Muretti a secco, terrazzamenti, costruzioni a forma di capanna che assumono nomi diversi, masserie costituiscono un mare di terre e pietre, e non solo nostro. […]. L’architettura di pietre a secco nei paesi del Mediterraneo ha avuto certamente origini differenziate per quanto riguarda tempo e forse anche per gli usi. Non si esclude infatti che le costruzioni a cono richiamino strutture funerarie presenti in Grecia e nell’isola di Pantelleria. Sappiamo con certezza che l’architettura a secco delle nostre regioni è certamente più tarda di quella della Grecia o dell’Egitto. Ma il filo che lega le capanne che davano riparo ai contadini della Mesopotania già nel III millennio a. C. ai nostri trulli, “pagghiare”, ecc. è sempre il medesimo, un filo di pietra» (p. 5).

Il paesaggio e la pietra

Nel prologo, la Barletta fa riferimento al paesaggio salentino, affermando che a dominarlo è «l’albero d’ulivo così estesamente presente da infoltire autentiche foreste che si perdono a vista d’occhio», l’altro aspetto è dato dalla roccia calcarea, assai diffusa, tanto da far derivare da essa perfino alcuni giuochi che allietavano le nostre passate generazioni; e fa l’esempio del giuoco dei cinque sassolini (in dialetto salentino “tuddhri”, o “patuddhri”, “pituddhri”, paddhri”, e “vota manu”). Bello il riferimento che fa l’autrice alla forma della pietra. A p. 28, scrive: «A volte la pietra grezza si presenta con forme modellate senza alcun intervento dell’uomo, erose dal vento e dalla pungente salsedine portata dai venti di scirocco; nella maggior parte dei casi è stata assemblata dando vita ai “murieddhri”, muretti, dai contadini tenaci e caparbi, quando hanno conquistato un palmo di terra che, ripulito, ha accolto ortaggi, leguminose, filari di vite, piante di capperi oppure alberi d’ulivo, di fico, di carrubo o di mandorlo, organismi vegetali che resistono alla scarsa umidità del terreno, oppure sono servite per delimitare le proprietà terriere o i percorsi di campagna, separare appezzamenti della stessa masseria diversamente coltivati, stabilizzare le scarpate, sostenere i terrazzamenti che hanno interrotto l’acclività del terreno e, talvolta, hanno consentito di praticare le più idonee coltivazioni».

Tutto vero. Chi qui scrive è nato in uno di questi “furneddhi” posto al centro di un’estesa cava di tufo del Salento, delimitata sui suoi alti confini da muretti a secco aventi la funzione di circoscrivere protettivamente l’argine del precipizio. All’interno della cava, tutt’intorno appunto alberi di fico, ficodindia, allori, mirti, filliree, lentischi, corbezzoli, e timo a più non posso tra tufi e pietraglia disseminata un po’ ovunque.

I muretti a secco

La Barletta fa poi un’utile descrizione dei muretti a secco definendoli “pariti” o “parieti” utili a recingere un appezzamento di terreno; chiama “lu quataru” o “quadaru” il varco che, ad un certo punto, si apre per accedere nel campo; oppure chiama “jazzu”, “ncurtaturu” o “curtale” il muretto a secco che recinge un ovile; “paritone” o “limitone” chiama invece il muraglione, che aveva la «funzione esclusivamente difensiva […] composto da grossi massi informi sovrapposti a secco». A questo punto doverosi sono gli opportuni riferimenti che l’autrice fa agli studi di Antonio Costantini, uno dei massimi esperti del paesaggio rurale salentino e delle architetture in pietra a secco, nello specifico “limitoni” e “paretoni”.

Interessante è la tecnica di costruzione dei muretti a secco indicata da Rossella Barletta. Scrive: «Per costruire il muro è preliminare raggiungere il banco di roccia o lo strato di terreno più solido e compatto sul quale si traccia talvolta uno scavo, una specie di fondamenta, in gergo denominato “scarpa”, sulla quale si pongono due file parallele di pietre di grossa pezzatura, facendo combaciare il più possibile il profilo col terreno […]. Sulle prime pietre vengono poggiate le altre, di dimensione inferiore, a mano a mano che il muro sale verso l’alto; si allineano seguendo una guida costituita da due cordicelle annodate a pali mobili, posti all’esterno del muro, che si spostano come cresce il muro. Lo spazio che si crea tra le due file di pietre, in gerco “cassa”, viene colmato con pietrame informe» (p. 40-42). Vengono poi descritte varie dimensioni di muretti a secco e varie esecuzioni di chiusura degli spazi interstiziali come della copertura. Interessante il capitolo “Muretti con nervature litiche”, che tratta dei vari modi di rinforzo dei muretti a secco, facendo un escursus storico sulla loro origine; come interessati sono i riferimenti agli attrezzi (“li fierri”) utili al “patitaru” o “truddhraru” (costruttore) per costruire i muretti: “lu zzeccu”, o “zzoccu” o “zueccu” (piccone); le “puntazze” (chiodi grandi e rustici). Interessante è anche le denominazioni che l’autrice dà delle differenti costruzioni rurali, che qui, riprendendo anche quelle già citate, ritrascrivo: «“pagghiara”, “pajara”, “pajaru”, “tuddhru”, “suppinna”, “furnu”, “furnieddhru”, “càvalaci”, chipùru” (questi ultimi due usati prevalentemente nei centri della Greca), “caseddhra”, “liama”, “ruddo” (nella campagna di Muro Leccese e Santa Cesarea Terme), “umbracchiu”, dal latino “umbraculum”, riparo, riposo (p. 63). Ad ognuna di queste denominazione corrisponde un’area entro cui essa viene usata dai locali come, ad esempio, «“caseddhri” (termine preferito dagli abitanti» della costa ionica.

Le architetture di supporto

Il libro della Barletta si conclude con i capitoli relativi agli architetti delle costruzioni rurali e alle architetture di supporto, quali: l’aia (“aiara”), il pozzo (“puzzu”), il pollaio (“puddhraru”), la pila (“pileddhra”), la cisterna (“matrìa”). L’autrice infine si auspica che venga istituita una «”strada della pietra” che colleghi i luoghi dove prevalgono muretti e casolari in pietra o, ancora meglio, l’istituzione di uno specifico eco-museo che fornisca ai cittadini […] consapevolezza di questo patrimonio paesaggistico-storico-culturale, perché comprendano la tenace ostinazione di chi continua a volere vivere a contatto della pietraia ed a volere custodire la propria autonomia e […] perché prendano atto che i manufatti in pietra […] assumono una funzione di straordinaria attualità» (p. 93).

Alle pp. 80-81 è possibile vedere le differenti immagini (scatti del foto-scrittore Lorenzo Capone) delle tipologie delle “pajare” e di alcune loro architetture di supporto, tra le quali una sola immagine appare animata (la n. 11). Tra i testi allegati, è possibile leggere la poesia “Sono uno di loro” (p. 22) di Ennio Bonea; “Opus incertum” (p. 37-38) di Alfonso Acocella; “Muri a secco” (pp. 45-46) di Riccardo Venturi; e la poesia “Contadine del Capo” (p. 68) di Donato Moro.

( da Paese nuovo del 26/2/2010)

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