Il pavimento della cattedrale di Otranto

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GIORNATA DI STUDI SUL MOSAICO DELLA CATTEDRALE DI OTRANTO

venerdì 30 ottobre, alle ore 19.00

presso la  sede del CRIS a Poggiardo in via A. De Gasperi

Per la prima volta si passeranno in rassegna le interpretazioni finora proposte dell’opera musiva di Pantaleone, affidate alle relazioni di esperti che hanno approfondito, anche con pubblicazioni specifiche, l’ermeneutica dei simboli del mosaico.
 
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CRIS, polo universitario d’eccellenza nel cuore del Salento, a Poggiardo, ha organizzato presso la propria sede in Via De Gasperi, 11 in Poggiardo, venerdì 30 ottobre alle ore 19.00 una giornata di studio sul mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto.
L’importanza dell’evento è segnata dal fatto che per la prima volta si passeranno in rassegna le interpretazioni finora proposte dell’opera musiva di Pantaleone, affidate alle relazioni di esperti che hanno approfondito, anche con pubblicazioni specifiche, l’ermeneutica dei simboli del mosaico.

Introdotti dall’Avv. Vincenzo Scarpello, responsabile eventi culturali CRIS (Centro Ricerche Istruzione e Sviluppo), interverranno il dr. Elvino Politi, direttore del gruppo archeologico di Terra d’Otranto e presidente di Welcome Lecce, che tratterà le prime tradizionali interpretazioni del mosaico, da Don Grazio Gianfreda a Willemsen, l’Avv. Gianni Bellisario, storico ed autore di una famosa pubblicazione “Re Artù nel Mosaico pavimentale di Otranto”, che ha posto un’inedita chiave di lettura di una figura insolita nel contesto del mosaico otrantino, e che tratterà delle evoluzioni interpretative, alla luce dei nuovi approcci multidisciplinari.
Concluderà le relazioni il Prof. Mario De Marco.

L’evento inaugura l’attività culturale del CRIS, che nel corso dell’anno organizzerà altre iniziative volte a valorizzare la tipicità culturale del Salento nel Mediterraneo, promuovendo un’offerta culturale ampia, diversificata e mirante ad una formazione integrale rivolta non soltanto ai suoi soci, ma avente una vocazione di massima apertura alla comunità in cui è inserito.

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I Santi Martiri di Otranto e il 1480 (IV ed ultima parte)

Per merito della guarigione nel 1980 di suor Francesca Levote oggi 11 febbraio 2013 si è tenuto il concistoro per la canonizzazione dei già Beati 800 Martiri di Otranto, che saranno dichiarati Santi il 12 maggio 2013. Benedetto XVI, che a suo tempo ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare i Decreti di nuovi Santi, nominerà dunque Antonio Primaldo e i suoi 800 concittadini uccisi dai turchi durante l’assedio di Otranto del 1480 per aver rifiutato la conversione all’Islam. Ci è sembrato doveroso ricordare quei tristi fatti riproponendo l’ampio studio di Mauro Bortone, riproposto in questi ultimi quattro giorni (NdR).

 

I Martiri di Otranto e il 1480

Per una rilettura delle vicende storiche tra ipotesi, protagonisti e complessità processuali

di Mauro Bortone

 

Cattedrale di Otranto, interno

 

 

L’alibi del nemico turco ed il gioco del sultano

 

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 1453, si era verificato, per via degli Ottomani e del loro sultano, Maometto II, un avvenimento di portata mondiale: la caduta di Costantinopoli, che aveva posto fine ad una storia ultramillenaria, gettando il mondo cristiano in una prostrazione profonda, solcata da paurosi lampi apocalittici. Numerose profezie, che avevano attraversato tutto il Medioevo e che ora tornavano più drammatiche, associavano la caduta della nuova Roma all’avvento dell’Anticristo e alla fine dei tempi[1]. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra, che ormai languiva allo stato endemico, si chiuse precipitosamente dinanzi al nuovo pericolo; con la “pace di Lodi” del 1454 si aprì il periodo del cosiddetto “equilibrio”, dove emergeva la preoccupazione, non infondata, che i Turchi sbarcassero davvero in Italia.

In questo contesto, la cristianità occidentale si accorse dolorosamente che il “troppo presto liquidato ecumenismo politico”[2] aveva lasciato un vuoto: con un Sacro Romano Impero, ridotto ad una larva germanizzata, la stessa auctoritas del papato risultava dimezzata: “il pontefice non poteva che ambire ad un ruolo quasi simbolico di una qualche (diciamo così) presidenza della “lega” dei principi e dei popoli cristiani d’Europa, riunita per battere il pericolo turco. Fu quanto s’impegnarono a fare, con differente energia, pontefici quali Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II, Sisto IV, cercando disperatamente di metter d’accordo le divergenti idee e gli interessi contrastanti della repubblica di San Marco, del re di Napoli, del re d’Ungheria e di altre potenze: perché, intanto, si era capito molto bene che i turchi erano sì un pericolo, ma potevano essere anche uno splendido alibi

Il pavimento della cattedrale di Otranto

di Florio Santini

…Ora che Pantaleone e Dante, pur se italo-greco l’uno e fiorentino l’altro, amassero e possedessero rispettivamente la barbara, in senso vichiano, evidenza rude del segno e del verso, ma anche una sottostante emblematicità teologica o significato metafisico di fondo, nessuno potrà negarlo. Che, poi, l’amore del reale e del trascendente in essi coesistessero, trasformandosi in forza creativa del canto e della figura, fino a renderli capaci di grandi sincresi religiose, per dotti e analfabeti in una, ancora una volta, questo, nessuno potrà negarlo.

[…] E ‘La Divina Commedia’ non è forse, anch’essa, una specie di mosaico-omelia? E il pavimento parlante di Pantaleone non è forse una colorata lezione di Conoscenza, condotta con metodo allegorico sopra un ordito di gesta e personaggi storici? Niente di più dantesco, quindi./

Nel mosaico troviamo la biblica punizione terribile del Male che non si pente, ma anche la figura pietosamente cristiana del buon ladrone. Nel mosaico, come nella Commedia, troviamo un attualissimo ammonimento esemplificato ai potenti del mondo, quelli che costruiscono l’effimera e inutile Torre di Babele, non per caso collocata da Pantaleone al lato opposto dell’Albero primigenio./

Tutto il mosaico idruntino, al pari della ‘Commedia’, si svolge e si svela al servizio del simbolismo mistico. Si pensi ai due elefanti indiani, asiatica allusione […] alla Sapienza Divina.

Pantaleone e Dante sono artisti caleidoscopici: non manca il gusto dell’orribile, del grottesco, del gigantismo, del composto e del frammentario, messi però al servizio dell’ incantesimo cristiano, anziché della magia pagana./»

(da Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, p. 97).

Il pavimento di Otranto, mosaico-sinfonia, corale e plenario, su cui convergono l’Occidente e l’Oriente

di Florio Santini

…Qualcosa m’aveva spinto a ritirarmi ad Otranto, dopo aver vissuto, per molti anni, ai quattro angoli della Terra, quando chiedevano il perché di tale scelta, davo risposte che convincevano gli altri, non me stesso: la gente semplice, la vita non cara, il mare pulito, la quiete tra dotte memorie./ Ora, invece so. La spiegazione l’ho trovata sul pavimento della basilica-cattedrale di Otranto che, come troppi pseudo-informati professori, non conoscevo… Uno specialissimo prete, di nome Pantaleone, aveva ricordato l’epifonema di Terenzio “Penso che niente di umano mi sia estraneo”./ Entrai in chiesa, guardai per terra./ Erano i tempi delle Crociate, dei Cavalieri, delle turbe pellegrine; eppure, in quel mosaico-sinfonia, corale e plenario, convergevano l’Occidente e l’Oriente. Un emblematico disegno, intitolabile ‘Teologia della storia’, sussumeva grandi e piccole cose, bestie e fiori, artigiani e profeti, miti pagani e rivelazione cristiana. In breve, una specie di mistico fumetto sulla fenomenologia del creato. Fu così che […] inventando, a forza e furia di pietruzze e di marmo, la prima enciclopedia per immagini, vera Bibbia dei poveri, mi fece vedere, ripeto “vedere” che dovevo dimenticar subito quanto stava dietro di me, se avessi voluto progredire un po’. Forse, avrei fatto in tempo. E mi riconobbi, con gioia, nell’asino arpista del mosaico: il mosaico pavimentale del non abbastanza noto “duomo di Otranto”, costruito tra il 1080 e 1088 […] Grande era stata […] l’emozione del ritrovamento sul pavimento d’una cattedrale pugliese, quel discorso ideografico che tante volte, in scala ridotta, avevo ammirato nei tappeti da preghiera del Medio Oriente e d’Asia; grandioso, ora, il significato, lì, sul pavimento idruntino, di quei tre alberi della vita […] che attestano la singolare potenza del segno di Pantaleone. Mistico paziente aveva composto sotto quelle tre navate, tessera dietro tessera, dall’ingresso al presbitero, un gran libro che tutti, di ogni fede o civiltà, potessero leggere, presentandosi a noi, oggi, come un Teilhard de Chardin del 1163./ Mi sorpresi a pensare che l’ecumenismo fosse nato ad Otranto e che, non per caso, io vi fossi approdato da popoli lontani e diversi…

(da: Suggestioni e analogie tra il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto e la Divina Commedia, pp. 107-110).

Otranto e l’albero di Pantaleone

da Wikipedia

Dedicato a Don Grazio Gianfreda il volume «Note di storia e di cultura salentina» (2)

Nel volume «Note di Storia e Cultura Salentina» (Argo Editrice), annuario a cura di Fernando Cezzi, ed organo della Società di Storia Patria per la Puglia una miscellanea di Studi dedicati a Mons. Grazio Gianfreda. Il volume è introdotto da un ricordo di mons. Grazio Gianfreda di Maurizio Nocera riprodotto qui nella sua seconda parte.

« (…) il mondo basato sulle grandi visioni sintetiche e interculturali, come quelle raffigurate sul Mosaico, si è frantumato. / La programmazione informatica, da parte sua, più che mettere ordine in tale universo, rappresenta con i suoi archivi computerizzati solo una difesa disperata, mossa dalla consapevolezza che i frantumi sono diventati cocci, pezzi ormai inutili»

« (…) Nel Mosaico c’è l’incontro tra l’integrazione culturale di Alessandro il Grande, la romanizzazione dell’Impero Romano, l’arte e la cultura dell’Impero Arabo, la Rinascenza dell’Impero Bizantino e le culture dell’Europa Occidentale: nella Cappella degli 800 Martiri, invece, c’è il risultato dello scontro tra civiltà. L’incontro produce l’“opus insegne”; lo scontro rovina, distruzione, morte»

 
 
 
da Wikipedia

L’albero di Pantaleone

Maurizio Nocera

Altro libro che mi donò Don Grazio Gianfreda, sempre con dedica, fu la sua bella e agile “Guida di Otranto” (Edizioni del Grifo, Lecce 1993), nella quale riprende l’argomento della chiesa di San Pietro, confermando alcune affermazioni e precisando alcune datazioni.

Scrive: «la Chiesa bizantina di San Pietro risale al sec. IX. È tutta affrescata. Sulla cupola dell’altare è la “Annunciazione”; nella conca sottostante è

La torre del Serpe

di Gianni Ferraris

La torre del Serpe domina Otranto. Quel poco che ne è rimasto è stato ristrutturato per tenerlo in piedi. Perché ha una storia importante. Era un faro ad olio che indicava la punta di Otranto ai naviganti. Segnalava la via.

particolare del pavimento della cattedrale di Otranto

Da quella torre, quando il tempo è limpido, quando lo scirocco non crea foschia, si vedono le alture albanesi. Dice la leggenda che i turchi stavano arrivando a Otranto per prenderne possesso. E che una serpe mandata da Dio, forse dagli dei, si bevve tutto l’olio della riserva. La luce si spense, i turchi persero la via e l’invasione fu rimandata ed attaccarono la vicina Brindisi.   Sarebbero poi tornati e sarebbe stata strage. Gli 800 che non si vollero convertire all’Islam furono trucidati. I loro corpi lasciati esposti perché si capisse dove stava la forza e dove la ragione. Oggi le loro ossa, i loro crani, sono lugubramente esposti nella cattedrale che ha un magico mosaico   per pavimento.

Di Pantaleone, autore dell’opera d’arte, non si conoscono i dati anagrafici ma si ipotizza che fosse un chierico, lui stesso si firma Pantaleonis presbiteri, probabilmente un Monaco Basiliano di origine greca. I basiliani che occuparono per lungo tempo le grotte naturali fra gli scogli del Salento.

“Opera, originale e perfettamente conservata, offre uno spaccato della cultura dell’alto Medioevo abbastanza fuori dagli schemi e ci presenta un enigmatico percorso in un labirinto mentale di cui, spesso, sfugge la vera interpretazione iconologica.

Infatti accanto alle più ovvie scene dell’Antico Testamento (mai del Nuovo) come: la cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden, la storia di Caino e Abele, la costruzione della Torre di Babele, Noè e l’arca, Sansone e Giona; vengono raffigurati anche storie e personaggi della cultura pagana come Diana cacciatrice, Atlante che sorregge il mondo sulle spalle, il Minotauro e Alessandro Magno.

Nella parte centrale della navata si stende un Albero della vita e sulla destra (guardando verso l’altare) dodici medaglioni rappresentano i mesi e lo Zodiaco (un tema sviluppato anche in altre chiese medievali). Nel pavimento altre scene sono ispirate dalla cultura cavalleresca con le storie di Re Artù (Rex Arturus per Pantaleone) e Parsifal.

Non mancano il Paradiso e l’Inferno dove si agitano dannati fra i tormenti e un grosso Satana incoronato è a cavallo di un drago. Molto interessante è una delle poche rappresentazioni del Diavolo nero (Puer niger) ancora con le ali bianche da angelo, ben presto sostituite da quelle da pipistrello dei demoni cinesi.

Al centro della navata ci sono altri medaglioni, tredici dei quali formano un classico Bestiario medievale nel quale si riconoscono: un basilisco, una lonza, un centauro, un liocorno e un’antica iconografia della sirena rappresentata mentre regge tra le braccia due code.

Altre simbologie che numerose affollano il mosaico sono ancora oggetto di studi e di dispute soprattutto sul messaggio teologico di Pantaleone o di chi ha redatto il programma di questa opera musiva così complessa.” (il virgolettato è tratto da wilkypedia)

facciata della cattedrale di Otranto

Incredibile opera d’arte. Quella volta, però, la serpe salvò gli Otrantini. E l’Albania, quando hai la possibilità di vederla, pare di poterla toccare. Mi sono seduto ai piedi della torre del serpe. Ed ho a lungo guardato il mare là sotto. Ed era esplosione di profumi di menta, origano, timo ed altre erbe spontanee. E’ un autunno con temperature primaverili questo.   Poco sotto un gregge al pascolo. Quando cammini su quelle alture ed hai il mare sotto, l’orizzonte è aperto. I confini sono lontani , come impalpabile è l’orizzonte.  Non solo io, il mondo non inizia e non termina con me. Però a volte rinasce la voglia di esserci, di fare, di parlare, di capire.   Qui è tempo di raccolta di olive. Da secoli il Salento vive di olio. Molti frantoi ipogei  sono ancora visitabili. Erano sotterranei, perché la temperatura sotto è costante, come l’umidità. In quegli scantinati ci sono enormi macine e il camminamento del cavallo o dell’asino che le faceva girare. Era un animale vecchio o non idoneo ad altri lavori quello utilizzato nel frantoio. Perché una volta sceso non avrebbe mai più visto la luce del sole. Gli si bendavano gli occhi perché non si rendesse conto di girare tutto attorno venti ora al giorno e non impazzisse.  E gli addetti al frantoio passavano giorni e notti là sotto. Arrivavano dalle campagne per fare la stagione della frantumatura delle olive. Non uscivano per non spendere il poco che guadagnavano. E nel tempo libero si riposavano e vegliavano come potevano. Trasformando quel microcosmo nel loro mondo intero per il tempo necessario e terminare il lavoro. E si costruivano pipe ed altri attrezzi. Così, per passare il tempo. Mentre il cavallo continuava incessante a girare attorno e a far ruotare quella enorme macina di pietra. E le olive venivano triturate e ripremute, per ricavarne l’olio fino all’ultima goccia nel caso del lampante. Più raffinato quello commestibile.

Oggi ci sono reti sotto gli ulivi. Servono per trattenere le olive che cadono. E subito dopo la raccolta vengono portate al frantoio che immediatamente le macina, così non muta l’acidità. Terra rossa come ossido di ferro. Dura da coltivare. Muretti a secco delimitano le proprietà, fatti con i sassi raccolti nei campi. E in molti casi i campi sono colmi di altri sassi. “Perché la campagna rende poco e pochi ormai la coltivano ” Mi dice un signore che produce olio e vino. E’ strano vedere sassi che racchiudono altri sassi. La proprietà delimitata, anche se apparentemente inutile ed improduttiva.  Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rusciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli. E i ballerini usano in molti casi le nacchere. Perché anche gli spagnoli hanno lasciato il segno. Molte pizziche hanno una partenza lenta che accelera sempre più. E i danzatori, ragazzi e ragazze del luogo, uomini e donne non più giovanissimi, tutti non professionisti, si lasciano prendere da questi ritmi e ballano una danza che è la “pizzica d’amore”. Sono vere e proprie coreografie, la base dei passi è simile, ma ogni coppia ci mette molto di suo. E’ corteggiamento con lui che si avvicina e lei che ammicca e si nega, nasconde il suo volto dietro l’immancabile fazzoletto e si avvicina e allontana. E’ di una sensualità incredibile. E’ musica che prende e coinvolge anche chi, come me, non ha dimestichezza alcuna con il ballo. Molti testi arrivano dai canti delle “tabacchine”.   Raccoglievano tabacco. Erano tutte donne. Ed hanno anche condotto lotte epocali, molte ci hanno rimesso la vita.  Spontaneo il parallelo con le mondine. Ma questi non sono canti di lotta, molto spesso sono intrisi di doppi sensi. “Femmine femmine che andate al tabacco, ve ne partite in due e tornate in quattro…” .

centro storico di Otranto

E le donne erano le più colpite dal morso della tarantola. “O Santo Paolo mio della taranta, che pizzica le donne tra le gambe… ” Le tarantate erano sollevate dalla   frenesia del veleno del ragno solo da una musica ossessiva fatta con tamburelli che ritmavano a velocità sempre crescente i loro movimenti. E si contorcevano in terra in preda a convulsioni da musica e al ritmo di quella danza. Ed è altra pizzica, quella delle tarantate.  Ritmi simili a quella d’amore, ma finalità diverse. Ogni anno il giorno di S. Paolo a Galatina c’è il giorno delle tarantate. Perché S. Paolo era il protettore contro tutti gli animali velenosi.  Si trovano nella piccola cappella e per tutto il paese  ci sono tamburellisti ed altri suonatori. Oggi, oltre ai tamburelli e violini, si sono aggiunti organetti e altri strumenti. Si narra di tamburelli conservati dai tempi antichi con macchie sulla pelle. Erano macchie di sangue. Perché le tarantate dovevano essere seguite per ore e la musica doveva aumentare di ritmo sempre. Fino, appunto, a far sanguinare la mano del suonatore.   Quel che colpisce è l’attaccamento a queste tradizioni, una rappresentazione tangibile di “appartenenza” a questi luoghi e alla loro storia. L’emigrazione ha strappato molte persone da queste terre . Ancora prima da qui sono passati saraceni, il regno di Napoli, Piemontesi, spagnoli, normanni e molto altro ancora. Quindi la salentinità è sentita come un bene prezioso da difendere da ogni invasione, anche se contaminata da culture diverse. E la lontananza delle istituzioni è molta. E si sente e si tocca con mano questo distacco. In questo pomeriggio domenicale di caldo sole d’autunno, davanti a quel mare a ai piedi di quella torre,  mi sono lasciato andare a questi pensieri.  E ancora una volta mi sono convinto che occorre rendere più solidi i legami fra queste terre e il  nord meno caldo e meno profumato e con colori meno intensi. Perché solo la trasversalità può contro l’imbarbarimento. Perché abbiamo molto da imparare da queste tradizioni e soprattutto abbiamo legami che ci uniscono. In tempi di federalismo, quando si sente parlare di autonomie in molti qui pensano alla sanità scassata, ai trasporti che non ci sono, alla scuola abbandonata a sé stessa. E viene da pensare che gli italiani ora sono fatti, e qualcuno pone come discrimine l’appartenenza a inesistenti padanie, guardando con altezzosità il resto d’Italia. Mentre altri vogliono tracciare nuovi confini lo sforzo dovrebbe essere quello di eliminare barriere.

Lineamenti diacronici storici e religiosi della Cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

facciata della cattedrale di Nardò

<> Nardò, città del Salento, reca nella sua storia i tratti del sovrapporsi di molteplici civiltà e culture: romana, longobarda, saracena, bizantina, normanna, angioina, aragonese, spagnola.

<> Nardò punto di convergenza e di irraggiamento degli itinerari giubilari diocesani del 2000.

E’ sempre stata un polo di attrazione nell’ ambito del territorio circostante. Quasi sicuramente fornita di un porto (l’ Empurium Nauna cui ha accennato l’ arabo Edrisi), costituiva una delle stazioni più importanti del prolungamento della Via Appia Traiana, costituendo tappa obbligata per quanti si dirigevano da Roma a Gerusalemme, facendo tappa a Leuca.

<> Nel 1055 Nardò fu conquistata dal conte Goffredo il Normanno, che vi costituì un ducato con un ampio feudo e la fortificò.

<> Si vuole che nell’ VIII secolo il governo Vescovile della chiesa neritina di Sancta Maria de Neritono fosse passato a quello dell’ archimandrita dei monaci Basiliani, che durò sino al 1090, quando passò a quello dei Benedettini, per la grande devozione portata verso questi dal conte Goffredo il normanno e per il permesso di Urbano II, che concesse la protezione apostolica (successivamente confermata da Pasquale II nel 1110, da Callisto II nel 1121 e Adriano IV nel 1158). Completata nel 1088, fu consacrata dal Legato Pontificio il 15 novembre dello stesso anno.

Anche se lentamente latinizzatasi, la sede neritina conservò il rito greco accanto a quello latino sino al vescovato di Ambrogio Salvio (1569-77), quando fu soppresso per ordine della sacra Congregazione dei riti sulla riforma dei greci nella diocesi di Nardò.

<> I monaci Benedettini, mantenendo l’ impianto basilicale già presente nell’ XI secolo, fecero eseguire importanti rifacimenti, ricostruendo la navata sinistra, il presbiterio ed il campanile, gravemente danneggiati dal terremoto del 1245. I frati istituirono nel monastero cattedre di letteratura greca e latina, di eloquenza e di matematica.

<> Dopo il terremoto del 1350, che aveva fatto cadere il frontespizio, la chiesa fu restaurata dall’ abate Bartolomeo a spese dei baroni della città. Il tempio fu ingrandito con un prolungamento di circa 19 metri, che permise l’ aggiunta del coro e delle due cappelle laterali.

Dall’ antipapa Clemente VII fu elevata a Cattedrale nel 1387, essendo vescovo Matteo del Castello, ma quando, nel 1401, terminò lo scisma, tornò ad essere semplice abbazia soggetta alla metropolìa otrantina.

<> Da abbaziale divenne episcopale nel 1413, direttamente soggetta alla Santa Sede per volontà del pontefice scismatico Baldassarre Cossa, Giovanni XXIII (1410-1415), che elevò alla dignità di vescovo l’ abate Giovanni de Epiphanis.

Nel 1433 vi predicò San Bernardino da Siena, chiamatovi da mons. Barella.

Importanti rifacimenti furono attuati dopo il terremoto del 1456 essendo vescovo Ludovico De Pennis (1451-84), che riconsacrò la chiesa nel 1470.

<> Successive modifiche furono apportate dai vescovi Salvio, Fornari (1583-96), Landi (1596-1610), Girolamo De Franchis (1617-34), Orazio Fortunato (1678-1707) e, soprattutto, il napoletano Antonio Sanfelice (1708-1736), “per la pietà e memoria del conte Goffredo, il quale aveva edificata la chiesa”. Questi si avvalse dell’ opera di suo fratello Ferdinando, celebre architetto, per importanti ristrutturazioni e modifiche, tuttora visibili, tra cui la facciata del 1725.

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<> Gravi danni erano stati causati dal terremoto del 1743, per il quale caddero dalla facciata le due statue di S. Basilio e S. Benedetto, oltre ad un pilastro che sorreggeva quella dell’ Assunta. Fu danneggiato pure il campanile.

<> Mons. Mautone (1876-1888), visto l’ urgente bisogno di migliorare la chiesa, pensò di demolirla per ricostruirla totalmente. Per fortuna ciò non avvenne e fu mons. Ricciardi (1888-1908) che rifece importanti e vitali restauri che l’ hanno fatta sopravvivere.

particolare del campanile della cattedrale

<> Le parti più antiche che ancora oggi possono vedersi sono la navata maggiore con gli archi, i pilastri fiancheggiati da colonne, le antiche finestre; il presbiterio e il coro con la sua volta ogivale; il campanile con i suoi primi tre piani, il primo dei quali ha una volta ogivale sostenuta da colonnine pensili di puro stile angioino.

<> La Cattedrale fu dichiarata chiesa Regia con decreto del 12 ottobre 1803; monumento nazionale il 20 agosto 1879.

Il 27 maggio 1900, a conclusione dei lavori diretti dall’ ing. Antonio Tafuri, fu restituita al culto con l’ intervento del Card. Gennaro Portanova, arcivescovo di Reggio Calabria, di mons. Salvatore Palmieri, arcivescovo di Brindisi, di mons. Luigi Pugliese, vescovo di Ugento, di mons. Gaetano Muller, vescovo di Gallipoli, di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò.

<> Dopo gli ultimi restauri voluti da mons. Antonio Rosario Mennonna, il 2 giugno 1980 è stata dichiarata ed elevata alla dignità di Basilica Minore dalla Santa Sede.

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