Giornate FAI di Primavera. Nardò e il suo castello

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani

dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente angioina o sveva e magari non con i poderosi torrioni o con le caratteristiche dei castelli presenti in ogni luogo d’Italia.

La prova è data dal qualificato lavoro di Lucio Santoro titolato “Castelli Angioini e Aragonesi nel Regno di Napoli” (Milano, 1982), in cui si riporta l’ elenco dettagliato e documentato dei castelli esistenti al momento dell’ occupazione angioina, suddivisi per “Giustizierato”. Tra i castelli di Terra d’Otranto, oltre a quelli di Ydronti (Otranto), Licii, Galipuli, Brundusii, Meyani (Mesagne), Orie, Hostuni, Tarenti, Massafre, Motuli (Mottola), Ienusie (Ginosa) e Mante (Matera), è incluso il castrum Neritone, cioè il nostro.

In altro documento del 10 dicembre 1463 il re Ferrante d’Aragona nel castello di Nardò riceve l’omaggio dei cittadini di Ceglie, qui convenuti per la conferma della concessione al loro feudatario.

particolari della facciata (ph Vincenzo Gaballo)

 

Forse solo nuovi documenti potranno identificare il sito su cui sorgeva, a meno che pesanti ristrutturazioni o modifiche non lo abbiano eclissato, senza tuttavia poterne escludere la distruzione.

Nel 1482 il re Ferrante aveva preso le difese del suo parente duca di Ferrara contro la Repubblica di Venezia e questa, per vendetta, aveva allestito una flotta da guerra per attaccare la Puglia. Iniziarono con Brindisi, poi con San Vito dei Normanni e Carovigno, e da qui mossero verso Otranto e Gallipoli, che venne assediata nella primavera del 1484 per alcuni mesi. Si diressero quindi verso l’ entroterra sottomettendo numerosi centri salentini, tra cui Copertino, Galatone e Nardò, che, accerchiata in maniera pressante, si arrese nel luglio 1484. In tale gesto la nostra città era stata incoraggiata dal suo signore Anghilberto del Balzo, conte di Ugento, filo-veneziano, al quale era stata venduta nel 1483 “…con suo castello seu fortellezza et con la Portulania, pesi et misure mezo Banco della Giustizia, et cognitione di prime cause civili, criminali et miste et integro stato per prezzo di 11.000 ducati donandoli tutto lo di più che forse detta Città valesse…”.

Raggiunta la pace tra il re di Napoli Alfonso II, figlio di Ferrante, e Venezia, Nardò per la sua resa fu punita con l’abbattimento delle mura e la perdita delle difese militari. La città fu data in vassallaggio a Lecce (secondo quanto scrive Bernardino Braccio in “Notiziario o parte di Istoria di Lecce”:…con spianarne tutte le mura e vi fece morire il sindaco Notare Andrea e sospese alle forche quattro gentiluomini e dopo li fece in quarti. La possessione della quale città anno perduto i leccesi per loro trascuraggine e negligenza…”). Ecco dunque come la città avrebbe potuto perdere il suo castello.

Per effetto della pace di Bagnolo, il 9 settembre 1495 Nardò, con altri centri, venne restituita al re di Napoli Federico d’Aragona, il quale il 12 marzo 1497 tolse la città al figlio di Anghilberto, Raimondo del Balzo, per donarla a Belisario I Acquaviva d’ Aragona. Fu questi dapprima conte, poi marchese, quindi primo duca, per privilegio di Ferdinando il Cattolico del 1516.

Belisario fece costruire l’attuale castello, realizzato dunque dopo la sua presa di possesso di Nardò, e fece realizzare la cinta muraria, in parte ancora visibile.

Inizialmente provvisto di ponte levatoio, cannoniere, balestriere e feritorie disposte sui lati, il castello ha subito diversi rifacimenti e restauri, che hanno mutato le linee architettoniche originarie e l’antica facies, mutandosi in palazzo gentilizio.

particolare della pianta del Bleau-Mortier con il castello, parte della cinta muraria e porta Viridaria

 

A pianta quadrangolare, secondo le più aggiornate tecniche di difesa dell’epoca,  mostra ancora oggi quattro torrioni a mandorla, di cui uno, quello che protende verso Piazza Battisti (più noto come “torre ti lu ‘nnamuratu”) è il più sporgente rispetto al perimetro del castello e alle mura della città, ed un tempo era collegato con porta Viridaria. L’altro, compreso tra Piazza Battisti e Via Roma, è certamente il più antico, e forse il solo originario, come documenta il bellissimo bucranio con l’arme dei duchi Acquaviva ancora visibile nella parte più alta, incastonato nella cortina muraria.

bucranio dei duchi Acquaviva d’Aragona sul torrione meridionale del castello di Nardò

 

Altri stemmi della stessa famiglia, evidentemente posteriori, sono sui due torrioni del prospetto principale, che, come gli altri, sono cilindrici nella parte superiore e a scarpa nel pian terreno. Cornicioni lievemente aggettanti poggiano su piccole mensole, riprese su quasi tutto il perimetro.

altro stemma dei duchi Acquaviva d’Aragona, su uno dei torrioni settentrionali

 

Subito prima del portone, a sinistra, vi era il corpo di guardia, che vigilava l’ingresso alla ridotta piazza d’armi, cioè il cortile interno. Nella parte superiore dimoravano i duchi Acquaviva ed i loro familiari, come è documentato nei secoli XVI-XVII.

Il fossato che lo circondava fu colmato nel secolo scorso ed una parte, quella attaccata alla città, fu trasformata in giardino inglese (attuale Villa Comunale).

Le decorazioni ottocentesche della facciata, con fregi ed archetti molto eleganti, fu aggiunta dai baroni Personè, la cui arme col motto è visibile sul prospetto del balcone, con diverse figurazioni di corazze e trofei che si vedono un po’ dappertutto. I lavori di restyling e le decorazioni furono eseguiti dall’ing. Generoso De Maglie (Carpignano, 1874 – 1951), che aveva prestato la sua opera anche per alcune delle ville gentilizie degli stessi baroni in località Cenate.

Per altre notizie si rimanda a:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/note-storiche-sul-castello-aragonese-di-nardo/

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (6/6)

di Armando Polito

È giunto il momento di trarre le conclusioni: la mensola presa in esame simboleggia senz’ombra di dubbio l’Amicizia rivisitata in chiave moderna (vedi motti tradotti), con una raffigurazione sintetica dovuta a motivi tecnici: si fosse trattato di una cariatide e non di una semplice mensola, sarebbe stata certamente più fedele al modello antico.  Da questo punto fermo si dovrà partire qualora si voglia estendere l’indagine ai restanti componenti di questa serie allegorica. E anzitutto, secondo me, l’identificazione successiva dovrebbe riguardare il primo componente della coppia iniziale. Ad intuito direi che proprio questa disposizione a coppie potrebbe tradire una omogeneità tematica, per cui la prima mensola potrebbe anch’essa riferirsi al tema dell’amicizia ed entrambe celebrare l’accoppiata vite e olmo.

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E se la vite non può essere che la seconda figura, chiaramente femminile, la prima sarà l’olmo, chiaramente maschile; un indizio  potrebbe essere ravvisato in quel pezzo di ramo (che in un primo momento, interpretato come un randello, mi ha fatto pensare, in una lettura antitetica della coppia, all’Inimicizia), posato sul cartiglio, sul quale sembra aderire un tralcio che potrebbe essere, stilizzato, di vite, anche se le foglie mi sembrano più vicine proprio a quelle dell’olmo.

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Cosa non darei se fossi in grado di  trasformare tutti questi condizionali in indicativi! Cosa non darei per identificare le restanti figure, anche perché l’impresa appare disperata senza l’aiuto del motto, dettaglio in assenza del quale, onestamente, non sarei giunto alle conclusioni fin qui formulate e, credo, motivate. Eppure, non è azzardato ritenere che l’ingegnere Generoso De Maglie di Carpignano, che tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX trasformò il castello in residenza civile dei Personè (le foto d’epoca in basso, ritrovate nel mio archivio digitale e delle quali, purtroppo, non sono in grado di indicare la fonte, mostrano i lavori in avanzata fase di realizzazione), certamente tenne presente uno o più dei repertori simbologici ricordati. Se questo è accaduto, le ricerche ulteriori non saranno un giocare a mosca cieca …

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E così sono riuscito a chiudere, come avevo iniziato cinque puntate fa, con una banalità. Facile? Sì, ma non quando la cosa, forse, è ricercata …

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

 

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (5/6)

di Armando Polito

L’iconografia tradizionale si arricchisce di ulteriori riferimenti religiosi cristiani nell’immagine disegnata da Gottofr. Eichler junior facente parte della raccolta pubblicata da Giovanni Giorgio Hertel col titolo Historiae et allegoriae, Ausburg, 1758.

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L’Amicizia ricalca il Ripa (che a sua volta, come abbiamo visto, si era rifatto all’Alciato)  ma l’immagine complessiva conterrebbe secondo la didascalia allusioni alla pacificazione tra i fratelli Giacobbe ed Esaù (Genesi, 33). Io ci vedo pure il cieco ed il paralitico che si aiutano a vicenda (visibili a destra) e, nelle tavola in mano al bambino, le tre Grazie,  dettagli che corrispondono alla penultima ed all’ultima rappresentazione testuale dell’Amicizia nel testo del Ripa e la prima a quella iconografica dell’Alciato dal titolo Mutuum auxilium (Vicendevole aiuto) riprodotta di seguito dalla pag. 16 dell’edizione degli Emblemata, uscita a Parigi per i tipi di Christian Weckel nel 1534.

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Insomma, l’ultima immagine del 1758 sembra riassumere tutti i dettagli delle precedenti rappresentazioni; non manca nemmeno il cuore che aveva fatto la sua comparsa in un repertorio addirittura anteriore a quelli fin qui presi in considerazione: Emblemata di Giovanni Sambuco pubblicato ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantin nel 1564; ne riproduco di seguito  la pag. 16 contenente la scheda Vera amicitia.

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Nonostante questo labirinto di superfetazioni in cui è difficile, anche perché il riferimento alle fonti è piuttosto latitante, distinguere l’autenticodall’inventato1, son riuscito con Holcot ad andare a ritroso nel tempo con certezza fino al XIV secolo e, purtroppo senza riscontri,  al V-VI secolo con Fulgenzio da lui citato.  Per quanto riguarda le raffigurazioni antiche nulla ci è rimasto e per completezza, però, va detto che prima ancora che nel Ripa MORS ET VITA e LONGE ET PROPE sono ricordati anche dal Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, la cui prima edizione uscì a Firenze per i tipi di Torrentino nel 1550 (qui cito dall’edizione Giunti, Firenze, 1568, v. VI, pag. 347): Stravagantemente fu poi l’Amicizia, che dopo loro veniva figurata, percio che questa benche in forma di giovane donna, si vedeva havere di frondi di melagrano, & di Mortella, la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste in dosso, in cui si leggeva Mors et vita; & col petto aperto, si che scorgevisi entro il quore si poteva; in cui si vedeva similmente scritto LONGE ET PROPE; portando un secco Olmo in mano da una fresca, & feconda vite abbracciato.

E una conferma temporalmente più vicina a noi si ha pure in quanto si legge in Il Buonarroti, una serie di “quaderni” con articoli di vari autori pubblicati a Roma a cura di Benvenuto Gasparoni  per i tipi della Tipografia delle scienze matematiche e fisiche. Nel quaderno II del Febbraio 1866 in un articoletto a firma del curatore dal titolo La casa di Carlo Lambardo architetto (pagg. 51-53) si legge: … egli (Carlo Lambardo) si fabbricò (a Roma) alcune casette nel rione di Colonna, presso S. Maria in Via. Delle quali una, dove egli si riparava, è ancora in essere, e nell’architrave del portone, scolpito di lettere cave nel traverstino, si legge il suo nome –CAROLUS LAMBARDUS-. Questa, come che piccolina e con pochi ornamenti, sendovi ogni cosa accomodata con arte, e con giudicio, lasciasi guardare con piacere; ed ha due ordini di stanze sopra il basamento, dove da un lato s’apre il portoncino, che volgesi in arco, contrassegnato col n° 50. Sonovi in ciascuno ordine tre finestre, se non che quelle di mezzo sono finte; e nel quadro delle luci si vedono dipinte di buon fresco due figure, tenute in pregio da chi conosce di pittura. Delle quali quella di sotto è fatta per l’Amicizia, che ha nella mano destra un cuore, e si tiene abbracciata con la sinistra ad un albero, cui s’attortiglia una vite, ed una fettuccia le esce dal petto dove è scritto un motto che dice “Longe et prope”.

Lo stesso curatore ci fa sapere che l’architetto morì nel 1620 e, a scoraggiare l’eventuale tentazione che possa cogliere qualche lettore, magari romano,  di individuare questa casa, in nota 1 (la riporto integralmente perché contiene la denuncia di un fenomeno che continua ai nostri giorni) a pag. 53 ecco l’infausto presago messaggio:  Affrettisi chi volesse vedere questa casa del lambardo ancora in piedi, poiché fra pochi giorni sarà atterrata, a quanto si può fare giudicio dal vederla disabitata e lavorarvi dentro i muratori. O quando ci torremo noi questo vitupero da dosso, di distruggere quelle cose, che fanno il grido e la fama della città nostra? La quale non solo di storiche memorie va onorata e degna sopra molte, ma veramente si può dire che dal lato delle arti, sia la scuola e l’esempio del mondo. Se non che continuandoci in questo mal giuoco, non passeranno molte diecine di anni, che a così famos città, non rimarrà che il lustro del nome. Dove qui non mi posso ritenere di ricordare cosa, che mi ha fatto fremere di sdegno: dico del mal governo e del guato che di questi dì si è fatto del palazzetto Amici, già Strozzi, in Banchi Vecchi, delle più belle architetture di Jacopo Sansovino;  dove è stata appiccicata al primo piano una ribalda loggia che lo difforma, e scarpellato di oltre due dita, per racconciarlo, il bugnato rustico del basamento, che ne ha perduto di maestà e di bellezza tanto, che questo solo basterebbe a far testimonio della nostra ignoranza e della nostra ignavia. Ma non intendiamo con queste parole recar onta a quel nobile Signore  che lo fece ristaurare, e vi ebbe bonissima intenzione; se non ch’egli fu mal servito.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 Non a caso la prima edizione dell’opera del Ripa (1593), di cui si è sopra riprodotto il frontespizio, reca il titolo Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, mentre quello dell’edizione uscita a Roma nel 1603 per i tipi di Lepido Facii è Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità, & di propria inventione, trovate, et dichiarate da Cesare Ripa Perugino, Cavaliere dei Santi Mauritio & Lazaro

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (4/6)

di Armando Polito

Volendo andare a ritroso nel tempo va aggiunto che il Ripa nello scrivere la scheda relativa all’Amicizia si rifece pure a quanto aveva scritto Robert Holcot (XIV secolo) nel suo In librum sapientiae regis Salomonis praelectiones CCXIII (cito dall’edizione del 1586, s. e., s. l., pag. 731):

Pictura amoris sive amicitia MORALITAS XXVI. Narrat Fulgentius in quodam libro de gestis Romanorum: quòd Romani verum amorem sive veram amicitiam hoc modo descripserunt, scilicet: quod imago amoris vel amicitia depicta erat instar iuvenis cuisdam valdè pulchri, induti habitu viridi. Facies eius et caput discooperta erant sive nudata, et in fronte ipsius erat hoc scriptum: HYEMS ET AESTAS. Erat latus eius apertum, ita ut videretur cor, in quo scripta erant haec verba: LONGE ET PROPE. Et in fimbria vestimenti eius erat scriptum: MORS ET VITA. Similiter ista imago habebat pedes nudos, etc. SEQUITUR MYTHOLOGIAE EXPOSITIO. Ista imago quae depicta erat ad similitudinem hominis iuvenis, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & sincera amicitia senescere non debet, & per consequens in necessitate non deficere, sed semper iuvenescere, & aeque stabilis esse in principio & in fine. Ista imago habebat caput, & faciem discoopertam, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & amicus sincerus debet esse perseverans non solùm in vita praesenti, sed etiam in morte, quae per fimbriam designatur. Item vestis viridis indicat amicitiam semper debere esse recentem & suavem, nulla que temporis diuturnitate tepescentem, & instar hederae sempere virescere, etc. per omnia tempora & loca inseparabiliter amico adhaerere, etc.

Il testo presenta la ripetizione, probabilmente per errore nella trascrizione dal manoscritto, di un lungo periodo. Ne fornisco la traduzione fedele anche perché tale errore non comporta nessuna conseguenza ai fini della nostra ricerca: Rappresentazione dell’amore o amicizia MORALITÀ XXVI. Narra Fulgenzio in un libro sui fatti dei Romani che i Romani descrissero il vero amore o la vera amicizia in questo modo, cioè che l’immagine dell’amore o dell’amicizia era rappresentata a guisa di un giovene molto bello, che indossava una veste verde. Il suo volto e il capo erano scoperti o nudi e sulla sua fronte c’era questa scritta: HYEMS ET AESTAS. Il suo fianco era aperto così che si vedeva il cuore sul quale erano scritte queste parole: LONGE ET PROPE. E sull’orlo della sua veste era scritto: MORS ET VITA. Inoltre questa immagine aveva i piedi nudi, etc. SEGUE L’ESPOSIZIONE DELLA MITOLOGIA. Questa immagine che era rappresentata a somiglianza di giovane uomo simboleggiava che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si mostrano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non debbono invecchiare, e di conseguenza non venir meno nel bisogno ma sempre ringiovanire ed essere ugualmente stabile all’inizio e alla fine. Questa immagine aveva la testa e il volto scoperti a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si manifestano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e l’amico sincero devono essere perseveranti non solo nella vita presente ma anche nella morte, che è simboleggiata dall’orlo della veste. Inoltre la veste verde indica che l’amicizia deve essere sempre vigorosa e dolce, non intiepidita dal trascorre del tempo e sempre verdeggiante come l’edera e per ogni tempo e luogo essere unita inseparabilmente all’amico etc.

L’etc. che chiude il passo  di Holcot ci autorizza a supporre che lo scolastico dominicano inglese abbia, più che parafrasato, quasi citato (difficile dire se a memoria o meno) Fulgenzio. L’indicazione estremamente generica in quodam libro de gestis Romanorum e il tema trattato mi hanno fatto immediatamente pensare al Mythologiarum libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (V-VI secolo), ma un controllo ha evidenziato nel libro non solo l’assenza del brano in questione ma anche di qualsiasi trattazione del tema dell’amore o dell’amicizia.

E se, ad ogni modo, Holcot si rifece a Fulgenzio, per quanto riguarda la rappresentazione tutte le tavole successive al Ripa si mossero sulla sua scia. Ecco, per esempio, di seguito quella tratta da Jean Baptiste Boudard, Iconologie, Carmignani, Parma, 1759.

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Va pure detto che il motto HYEMS ET AESTAS, che in tutti gli autori fin qui citati è riferito all’amicizia, è un nesso già presente come simbolo dell’alternarsi delle stagioni della vita (perciò MORS ET VITA ne appare una sorta di integrazione) in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.), De lingua latina, V, 10: … omne corpus, ubi nimius ardor aut humor, aut interit aut, si manet, sterile. Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius ver expectat. Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua ( … ogni corpo quando c’è eccessivo calore o umidità o muore o, se sopravvive, è sterile. Ne sono prova l’estate e l’inverno, poiché nell’una l’aria è calda e la spiga si dissecca, nell’altro la natura non vuole lottare con la pioggia e con il freddo e aspetta piuttosto la primavera, Dunque duplice è la causa del nascere: il fuoco e l’acqua).

Andando ancora più a ritroso nel tempo esso è presente nel libro della Genesi, 8, 22, il cui testo nella vulgata suona così: Cunctis diebus terrae, sementis et messis,  frigus et aestus, aestas et hiems, dies et nox non requiescent (In tutti i giorni della Terra il freddo e il caldo, l’estate e l’inveno, la notte e il giorno non verranno meno). Mi ha sorpreso scoprire che a suo tempo la Chiesa respinse l’interpretazione teologica di Emanuel Swedemborg che in Arcana coelestia (1749-1756; la citazione che segue è tratta dall’edizione uscita a Tubingen nel 1833, v. I, pag. 392) scrive: Et aestas et hiems’: quod significent statum hominis regenerati quoad nova ejus voluntaria quorum vices se habent sicut aestas et hiems, constare potest ab illis quae de frigore et aestu dicta sunt; vices regenerandorum assimilantur frigori et aestui, sed vices regeneratorum aestati et hiemi: quod de regenerando ibi actum, hic autem de regenerato, constat inde quod ibi primo loco ‘frigus’ nominetur et secundo ‘aestus’; hic autem primo loco ‘aestas’ et secundo ‘hiems’; causa est quia homo qui regeneratur, incipit a frigore, hoc est, a nulla fide et charitate, at cum regeneratus est, tunc incipit a charitate (“Et aestas et hiems”: poiché significherebbero lo stato dell’uomo rigenerato finché è possibile che le nuove volontà il cui corso procede come l’estate e l’inverno risultino da ciò che è stato detto sul freddo e sul caldo; le vicende dei rigenerandi sono assimilate al freddo e al caldo, ma le vicende dei rigenerati all’estate e all’inverno: ciò che lì è avvenuto del rigenerando, qui (avviene) del rigenerato; risulta perciò che lì in primo luogo è nominato il freddo e in secondo il caldo, qui in primo luogo l’estate e in secondo l’inverno; la causa è che l’uomo che viene rigenerato comincia dal freddo, cioè da nessuna fede e carità, ma, quando si è rigenerato allora comincia dalla carità).

Mi viene il sospetto che quest’interpretazione non piacque per partito preso, dal momento che questo genio poliedrico (si cimentò con ottimi risultati nelle più svariate discipline: dalla matematica alla chimica, dall’anatomia alla filosofia, dalla musicologia all’omeopatia) fu uno dei precursori dello spiritismo …

 

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 L’atto concreto di cui parla Gregorio (Homiliarium in Evangelia, I, XX) è l’elemosina:  Sed etsi fructum proprium ulmus non habet, portare tamen vitem cum fructu solet, quia et saeculares viri intra sanctam Ecclesiam, quamvis spiritalium virtutum dona non habeant, dum tamen sanctos viros donis spiritalibus plenos sua largitate sustentant, quid aliud quam vitem cum botris portant? (Ma sebbene l’olmo non abbia un proprio frutto suole tuttavia reggere la vite col frutto, perché anche i laici nella santa Chiesa, sebbene non abbiano il dono delle virtù spirituali, mentre sostentano tuttavia con la loro generosità i santi uomini pieni di doni spirituali, che altro sorreggono se non la vite con i grappoli?).

È evidente che Gregorio si è rifatto alla seconda similitudine de Il pastore di Erma.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (3/6)

di Armando Polito

Quello del Ripa, come i repertori di ogni epoca, fu scritto utilizzando fonti che qui tenterò di individuare nello specifico iconografico e testuale.

Non poteva il Ripa non rifarsi al padre dei repertori di simboli, cioè all’Emblemata di Andrea Alciato, pubblicato senza autorizzazione la prima volta ad Augusta nel 1531 per i tipi di Heinrich Steyner, comprendente 104 emblemi; la prima edizione autorizzata uscì a Parigi per i tipi di Christian Wechel nel 1534 e contava 113 emblemi (in basso il frontespizio).

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A pag. 16, in basso riprodotta, c’è la scheda relativa all’amicizia (a fronte la traduzione della parte testuale).

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Il testo dell’Alciato ebbe, lui vivente, una serie sterminata di edizioni. In quella uscita a Lione per i tipi di Guglielmo Rovillio nel 1948, mentre il testo è identico a quello delle edizioni precedenti, cambia leggermente l’immagine dell’olmo e della vite (foto in basso), adottata anche nell’ultima edizione, lui vivente,  uscita a Lione, ancora per i tipi del Rovillio, nel 1550.

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L’opera dell’Alciato continuò ad essere pubblicata dopo la sua morte avvenuta, come ho detto, nel 1550, con aggiunte ed integrazioni di altri irrilevanti ai fini di questa indagine.

Quello dell’olmo e della vite è un topos antico che è presente già in Catullo (I secolo a. C.), dove ricorre come metafora dell’amor coniugale1, mentre Orazio (I secolo a. C.) parla genericamente di arbores2 che traggono giovamento dall’accoppiamento con la vite. E questi stessi autori in altri passi ci danno indicazioni più precise sull’essenza allo scopo utilizzata, oltre l’olmo: il platano3 e il pioppo4. Columella (I secolo d. C.), poi, ci darà la graduatoria di tutti i potenziali mariti della vite togliendo dall’insieme delle essenze citate dagli altri il platano ed aggiungendo il frassino5.

Il Cristianesimo farà sua la metafora pagana nella seconda similitudine che Erma (II secolo) ci presenta nel Pastore, un testo che ebbe una fortuna tale che alcuni Padri della Chiesa lo tennero in considerazione come se facesse parte delle Sacre scritture: Mentre passeggiavo per il campo e osservavo un olmo e una vite e riflettevo  su di essi e sui loro frutti, il pastore mi appare e dice: –  Che cerchi in te stesso intorno all’olmo e alla vite? -. Dico: – Cerco di capire, signore,  perché  sono reciprocamente adatti -. Dice: – Questi due alberi costituiscono un simbolo per i servi di Dio-. Dico: – Vorrei conoscere il simbolo di questi alberi dei quali parli -. – Vedi l’olmo e la vite? -. Dico: – Li vedo, signore -.  Dice: – Questa vite porta il frutto, l’olmo, invece, è un albero senza frutto. Ma questa  vite se non sale sull’olmo  non può produrre  frutti in abbondanza mentre giace per terra e Il frutto che porta se non è sospesa all’olmo, lo porta marcio. Quando dunque la vite si attorciglia all’olmo  produce frutto per merito suo e per merito dell’olmo. Vedi dunque che l’olmo dà molto frutto, non meno della vite, anzi anche di più -. Dico: – Come, signore, di più? -. Dice: – Perché la vite sospesa all’olmo dà un frutto abbondante e bello; , giacendo per terra, invece, scarso  e marcio. Questa similitudine  si addice ai servi di Dio, al povero e al ricco -. Dico: – Fammelo sapere, signore, in che modo -. Dice: -Ascolta. Il ricco ha beni ma questi non valgono nulla davanti al Signore; tutto preso dalla sua ricchezza, rivolge pure al Signore un ringraziamento troppo piccolo  e una preghiera, quella che fa,  piccola e debole, non avente la forza di un uomo. Quando dunque il ricco va in aiuto del povero e gli fornisce il necessario, credendo che colui che si adopererà per il povero  potrà trovare la ricompensa da parte di Dio, che il povero è ricco nel ringraziamento e nella preghiera e la sua preghiera presso Dio ha una grande forza, il ricco dunque aiuta il povero in tutto senza titubanza. Il povero, aiutato dal ricco, intercede per lui presso Dio e lo ringrazia per il dono ricevuto; e l’altro ancora si preoccupa del povero perché non si abbandonato nella sua vita; infatti sa che la preghiera del povero è gradita e ricca per Dio. Entrambi dunque compiono un lavoro: il povero fa la preghiera in cui è ricco, quella che ha preso dal Signore e questa rende al Signore per chi lo aiuta e il ricco ugualmente offre senza titubanza al povero la ricchezza che ha preso dal Signore e quest’azione è grande e  gradita per Dio perché ha inteso bene la sua ricchezza e ha lavorato per il povero utilizzando i doni del Signore e ha compiuto correttamente il servizio al Signore. Presso gli uomini  dunque l’olmo sembra non portare frutto ed essi non sanno né comprendono che, se c’è siccità, l’olmo che ha acqua nutre la vite e la vite avendo incessantemente acquaproduce frutto doppio e per conto suo e per conto dell’olmo. Così anche i poveri intercedendo presso il Signore per i ricchi ricolmano la ricchezza di questi e a loro volta i ricchi provvedendo i poveri del necessario riempiono il loro animo. Diventano dunque entrambi partecipi dell’opera giusta. Chi dunque fa questo non sarà abbandonato da Dio ma sarà iscritto nei libri dei viventi. Beati coloro che posseggono e comprendono  che sono ricchi per opera di Dio.6

Probabilmente al Ripa non sfuggì quanto è contenuto nell’estratto di un’orazione tenuta nel 1587 da un certo Aldorfio pubblicata da Filippo Camerario in Operae horarum subcisivarum, sive meditationes historicae, Hoffmann, Francoforte, 1609,  pagg. 196-197: CAPUT LIII. Commendatio et typus amicitiae et concordiae, ac viceversa detestatio discordiae, excerpta ex oratione Aldorfii habita Anno 1587 postridie Petri et Pauli. Temporis et loci ratio praesens postulare, & me monere videtur, mihique materiam suppeditavit, ut amicitiae typum, utputa ingeniosum, & non vulgarem, veluti in tabula, ante oculos proponendum & explicandum, et hac ratione auditores commonere faciendum censuerim, ut diligenter perpendant, quantam vim & utilitatem vera amicitia contineat: econtra quam innumera mala, ea sublata, in locum eius succedat: ut recte Comicus dixerit: Neque falsum neque suave esse quicquam, ubi amor non admiscetur. Pictura autem apud Romanos amicitiae quam tamque Deam , quae a Graecis φιλία appellatur, gentiles inter sua numina collocavere, licet peculiares aras et templa, huic Deae dedicata fuisse, non reperiam antiquitus, talis fuit. Pingebatur puella iuvenis forma, detecto capite, quae erat tunica rudi induta, in cuius fimbria scriptum erat, MORS ET VITA. In fronte, AESTAS ET HYEMS. Latus habebat apertum vique ad cor, & brachium inclinatum, digito cor ostendens, ibi scriptum erat, LONGE ET PROPE. Huius ingeniosae picturae mysteria ita explicari possunt. Forma iuvenilis indicare videtur amicitiam semper recentem, vigore & alacritate florentem, nullaque temporis diuturnitate tepescentem. Nudum caput, ut omnibus pateat, & amicus, nullo unquam tempore, amicum publice suum fateri erubescat. Rude autem indumentum ostendit, ut amicus nulla ardua, extremamque inopiam pro amico subire non recuset: Vita & mors in vestimento scripta indicat, quod, qui vere diligit, usque ad mortem amat, imo etiam post mortem, ut epigramma quoddam monet “ … tales nos quaerere amicos/quos neque disiungat foedere summa dies”. Aestas et hyems, quia in prosperis & adversis aeque amicitia servanda; latus apertum habet usque ad cor, quia nihil amicum celat, sed cum eo omnia communia habet. Brachium inclinat, & digito cor ostendit, ut opus cordi, & cor verbis respondeat, nihilque fictum fucatumve admisceat. Longe & prope scriptum est, quia vera amicitia nullo tempore aboletur, nec locorum intercapedine disiungitur. Hanc statuam & descriptionem amicitiae ideo libentius introducere, & ante oculos proponere volui, cum ea germana soror Concordiae fingatur, eaeque ut coniunctissimae, & a Deo genitae, ut humanis mentibus utilissimae et integris iucundissimae sunt.

La mia traduzione che segue aiuterà il lettore a cogliere agevolmente la dipendenza del Ripa da Aldorfio o, quanto meno, da uno sviluppo, già diventato canonico, del tema7 : CAPITOLO LIII. Elogio ed immagine dell’amicizia e della concordia e, al contrario, condanna della discordia, estratte da un’orazione di Aldorfo tenuta nell’anno 1587 il giorno dopo quello di Pietro e Paolo. Motivi connessi col tempo e col luogo sembrano richiedere e ammonirmi, e me ne hanno fornito l’argomento, come l’immagine dell’amicizia, per esempio ingegnosa e non volgare come nella tavola, da proporre agli occhi e da spiegare, e per questo motivo credo che si debbano esortare gli uditori affinché diligentemente pensino quanta forza e utilità contenga l’amicizia e al contrario quanti mali, quando lei vien meno, subentrano al suo posto. Così giustamente avrebbe detto il Comico8: Non c’è niente di falso o di soave, dove l’amore non si mescoli. Tale fu poi presso i Romani la pittura dell’amicizia che i pagani collocarono tra i loro dei come una dea, quella che dai Greci è chiamata φιλία, sebbene non trovi che anticamente fossero state dedicati a questa dea particolari altari e templi: era dipinta come una fanciulla  giovane di aspetto, col capo scoperto, che era vestita di una rozza tunica sul cui orlo era scritto MORS ET VITA, in fronte AESTAS ET HYEMS. Aveva il fianco aperto e a forza fino al cuore, il braccio inclinato che mostrava col dito il cuore, dove era scritto LONGE ET PROPE. I misteri di questa ingegnosa pittura possono essere spiegati così. L’aspetto giovanile sembra indicare l’amicizia sempre fresca, fiorente di vigore ed energia, che non diventa tiepida per nessun trascorrere del tempo. La testa nuda affinchè a tutti si mostri e l’amico non arrossisca in nessun tempo mai di chiamare (un altro) pubblicamente amico. Mostra poi una rozza veste affinché l’amico non rifiuti di subire per l’amico qualche difficoltà e l’estrema povertà. Vita et mors sul vestito indica che chi ama veramente ama fino alla morte, anzi anche dopo la morte, come ammonisce un epigramma: “ … dobbiamo cercare amici tali che neppure l’ultimo giorno sciolga dal patto”9. Aestas et hiems perché l’amicizia dev’essere mantenuta egualmente nella prosperità e nell’avversità; ha il fianco aperto fino al cuore poiché nulla nasconde all’amico ma ha tutto in comune con lui. Inclina il braccio e mostra col dito il cuore affinché l’opera del cuore e il cuore corrispondano alle parole e non vi si mescoli nulla di artificioso o di affettato. È scritto longe et prope perché l’amicizia non è cancellata da nessun tempo né viene disgiunta dalla distanza dei luoghi. Piuttosto volentieri perciò volli introdurre questa statua dell’amicizia e proporla alla vista, essendo essa rappresentata come sorella germana della Concordia, ed esse come unitissime e generate da Dio, siccome sono giocondissime per le menti umane e integre.       

(CONTINUA)

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1 Carmina, LXII, 51-58: Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo/numquam se extollit, numquam mitem educat uvam/sed tenerum prono deflectens pondere corpus/iam iam contingit summum radice flagellum,/hanc nulli agricolae nulli coluere iuvenci,/ at si forte eadem est ulmo coniuncta marito/multi illam agricolae multi coluere iuvenci,/sic virgo … (Come la vite che nasce vedova nel nudo campo mai s’innalza, mai produce dolce uva ma piegando il tenero corpo per il peso che abbatte ormai con la radice tocca la punta del tralcio, ma se per caso essa è stata unita al marito olmo molti agricoltori l’hanno curata, molti giovenchi, così la vergine …).

2 Odi, IV, 5, v. 30: Et vitam ad viduas ducit arbores (E porta la vita agli alberi vedovi).

3 Carmina, LXIV, 290): non sine nutanti platano lentaque sorore (non senza l’oscillante platano e la flessibile sorella). Il platano è citato insieme con la vite in un’epigramma di Antipatro (Antologia palatina, IX, 231):  Ἆυον μὲ πλατάνιον ἐφερπύζουσα καλύπτει/ἄμπελος ὀθνείη δ’ἀπφιτέθηλα κόμη,/ἥ πρὶν ἐμοῖς θαλέθουσιν ἐνιτρέψασ’ὀροδάμνοις/βότρυας, ἥ ταύτης ὀυκ ἀπετηλοτέρε./Τοῖον μέντοι ἔπειτα τιθηνείσθω τὶς ἐταίριον,/ ἥ τις ἀμείψασθαι καὶ νέκυον οἷδε μόνη (Una vite procedendo a poco a poco nasconde me platano secco; con la chioma altrui mi son ricoperto di fiori io che prima con i miei rami in fiore avevo nutrito i grappoli, io che non meno di lei ero privo di foglie. A sua volta qualcuno nutra tale amica che da sola seppe ricambiare anche un morto).

4 Odi, II, 2, vv. 9-10: adulta vitium propagine/altat maritas populos (… e col tralcio adulto delle viti marita gli alti pioppi).

5 De agricultura, XVI: Vitem maxime populus alit, deinde ulmus, deinde fraxinus (Soprattutto il pioppo fa crescere la vite, poi l’olmo, poi il frassino).

6 Riporto il testo originale dall’edizione a cura di R. Auger, Weigel, Lipsia, 1856, pagine 55-56:

4 prima in nota

5 seconda in nota

 

7 E lo sarà anche dopo. Uno tra i tanti esempi, Francesco di Sales (XVI-XVII secolo); cito da Opere complete, Borroni e Scotti, Milano, 1845,  v. XII, pag. 53:  Voi sapete che l’amicizia è nemica mortale dell’oblio: onde gli antichi quando la dipingevano, mettevano per emblema sopra i suoi abiti: Aestas et hyems, procul et prope, mors et vita: d’estate e di verno, da vicino e da lontano, in vita e in morte; quasi volendo dire che mai non si dimenticava in alcun tempo o di prosperità o di avversità, né dappresso né da lontano, né in vita, né in morte l’affetto verso l’amico.

Da notare che Francesco ha sostituito longe col sinonimo procul.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (2/6)

di Armando Polito

Quando il soggetto da esaminare è come il nostro non si può prescindere da alcuni repertori antichi fondamentali per conoscere il valore simbolico di un’immagine.

Uno di questi è opera di Cesare Ripa (1555-1645): Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi. La prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

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Alle pagine 10-11 leggo: AMICITIA Donna, vestita di bianco, ma rozzamente, mostri quasi la sinistra spalla, & il petto ignudo, con la destra mano mostri il core, nel quale vi sarà un motto in lettere d’oro così: LONGE, ET PROPE et nello estremo della veste vi sarà scritto MORS, ET VITA, sarà scapigliata, & in capo terrà una ghirlanda di mortella, & di fiori di pomi granati intrecciati insieme; nella fronte vi sarà scritto HIEMS, AESTAS. Sarà scalza , & co’l braccio sinistro terrà un olmo secco, il quale sarà circondato da una vite verde. Il vestimento bianco, & rozzo è la semplice candidezza dell’animo, onde il vero amore si scorge lontano da ogni sorte di fintioni, & di lisci artificiosi. Mostra la spalla sinistra, & il petto ignudo, additando il cuore, col motto Longe, & prope: perche il vero amico, ò presente, ò lontano, che sia dalla persona amata, co ‘l cuore non si separa giamai; &, benche i tempi, & la fortuna si mutino, egli è sempre il medesimo, preparato à vivere, & morire per l’interesse dell’amicitia. & questo significa il motto, che hà nel lembo della veste, & quello della fronte. Ma, se è finta, ad un minimo volgimento di fortuna, vedesi subitamente quasi sottilissima nebbia al Sole dileguare. L’essere scapigliata, & l’havere la ghirlanda di mirto con i fiori di pomi granati, mostra, che il frutto dell’amor concorde, & dell’unione interna sparge fuori l’odor soave degli essempij, & delle honorevoli attioni, & ciò senza vanità di pomposa apparenza, sotto la quale si nasconde bene spesso l’adulatione nemica di questa virtù. Dipingesi parimente scalza, per dimostrare sollecitudine, overo prestezza, & che per lo servigio dell’amico non si devono prezzare gli scommodi. Abbraccia finalmente un Olmo secco circondato da una vite verde, acciò che si conosca, che l’amicitia fatta nelle prosperità, deve durar sempre, & ne i maggiori bisogni deve essere più che mai amicitia, ricordandosi, che non è mai amico tanto inutile, che non sappia trovare strada in qualche modo di pagare gli oblighi dell’Amicitia.

Seguono altre tre rappresentazioni dell’Amicizia, tutte senza motto, che così riassumo: 1) una donna, sempre vestita di bianco, con un cagnolino sotto il braccio sinistro, nella destra un mazzo di fiori e sotto il piede destro una testa di morto; 2) le tre Grazie nude che si abbracciano una con una rosa in mano, l’altra con un dado, l’altra con un mazzo di mirto: 3) un cieco che reca sulle spalle un paralitico.

In questa prima edizione non vi sono figure. Di seguito il lettore potrà seguire l’evoluzione dell’immagine dell’amicizia che correderà il testo, sempre lo stesso, delle edizioni successive fino all’ultima vivente l’autore.

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Riassumendo: i motti che compaiono nella parte iconografica delle varie edizioni del lavoro del Ripa sono LONGE ET PROPE (lontano e vicino) e MORS ET VITA (morte e vita); in quella testuale LONGE, ET PROPE; MORS, ET VITA; HIEMS, AESTAS (inverno, estate). I motti della nostra mensola erano ESTA’/E INVERNO e LA MORTE/E LA VITA. Anche se nelle tavole del Ripa non compare HIEMS, AESTAS e nel nostro dettaglio è assente un  LONTANO E VICINO che sarebbe stato la traduzione di LONGE ET PROPE, non è sufficiente quanto finora messo in luce per affermare che il dettaglio in esame del balcone del nostro castello rappresenta l’amicizia? E poi, l’assenza di un LONTANO E VICINO non è ampiamente giustificato dall’impossibilità di collocarlo a causa della mancanza di spazio che ha costretto l’artista a sintetizzare, con l’ellisse pure del cuore, il canone iconografico indicato (con la destra mano mostri il core, nel quale vi sarà un motto in lettere d’oro così: LONGE, ET PROPE)?

(CONTINUA)

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Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (1/6)

di Armando Polito

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Non è, per fortuna, la segnalazione del degrado di un dettaglio ma la dimostrazione, ove ce ne fosse bisogno, che la lettura non è solo quella che facciamo grazie agli occhi: ne esiste una successiva, quella della mente, ed entrambe sono strettamente correlate: se non ci fosse quella sensoriale, l’altra non potrebbe esistere, ma senza quest’ultima la prima sarebbe un’operazione pressoché inutile, a meno che non si tratti del sottrarci ad una macchina che sta per investirci o ad un concio di tufo che sta per caderci in testa.

Vi pare questa un’affermazione originale e rivoluzionaria? E quest’altra, allora? Non abbandonate  la lettura perché oggi mi sento più in forma del solito a sparare banalità.

Ecco così io stesso mi sorprendo, dopo aver discettato tanto profondamente di lettura, ad affermare che testo nel suo significato più banale è semplicemente uno scritto, da un disegno di legge o un manifesto elettorale ad un trattato filosofico (chissà perché  mi son venuti in mente questi estremi …), da una dichiarazione di guerra ad una lettera d’amore. La parola, però, recupera tutto il suo spessore col significato etimologico [dal latino textu(m), participio passato di tèxere=tessere] per cui testo è tutto ciò che esibisce, più o meno palesemente, un intrico di reciproche dipendenze ed allusioni della cui trama l’arte in particolare e la bellezza e, in ultima analisi, l’intelligenza si giovano.

Tutto ciò che ci circonda, perciò, che sia manufatto dell’uomo (in gioventù l’avrei scritto con l’iniziale maiuscola …)  o creazione della Natura, è un testo alla cui lettura dovremmo sentirci stimolati, con quella umiltà che dovrebbe accompagnarci sempre, specialmente quando tentiamo di percorrere sentieri in cui per nostra formazione culturale non è agevole districarsi.

È ciò che mi accingo a fare col dettaglio nominato nel titolo ripetendo la procedura di ogni comune mortale, cioè leggendolo anzitutto sensorialmente  attraverso un progressivo avvicinamento fotografico (ne approfitto per ricordare che tutte le foto utilizzate allo scopo, meno le ultime due dell’ultima parte che sono, come a suo tempo si vedrà, chiaramente d’epoca, sono mie e risalgono al 2000).

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Il balcone balaustrato è sorretto da otto mensole figurate disposte in coppie. La prima e la seconda coppia da una parte e la seconda e la terza sono equidistanti ma l’intervallo tra la seconda e la terza è leggermente superiore coincidendo con la luce maggiore del portale rispetto a quella delle due finestre. Il dettaglio che qui prendo in considerazione è, a partire da sinistra, la seconda mensola della prima coppia o, è lo stesso, la seconda della serie completa.

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Chi mi legge a questo punto si starà chiedendo come mai ho concentrato la mia attenzione su questa seconda figura e non sulla prima o sulle altre. La risposta è molto semplice: è l’unica che presenta il motto, elemento di primaria importanza nel processo di identificazione. Esso nel nostro caso consta di due parti; la superiore: ESTA’/E INVERNO, l’inferiore: LA MORTE/E LA VITA.

La speranza è che questo testo sia il punto di partenza per comprendere quello più ampio rappresentato dalla figura e quello ancora più ampio (vogliamo chiamarlo contesto?) rappresentato dall’intera decorazione della facciata che cronologicamente si colloca tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo.

Non mi risulta che questa lettura sia stata tentata da altri e, comunque, chiedo scusa in anticipo per qualche svarione che dovesse suscitare la sacrosanta reazione di qualche addetto ai lavori, che fin da ora autorizzo, nel caso, ad usare pubblicamente tutti i titoli più offensivi a sua disposizione.

(CONTINUA)

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Note storiche sul castello aragonese di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente

Occasione unica per il castello di Nardò!

di Marcello Gaballo

Nella giornata di ieri una notizia tra le migliaia di facebook richiamava subito l’attenzione dei neritini. L’amico Massimo Vaglio aveva colto un’occasione irripetibile per la città di Nardò e ne dava subito notizia in questi termini: “L’abitazione di via Roma adiacente al castello è stata posta in vendita, per il comune sarebbe un’ottima occasione per acquistarla e demolirla liberando così il torrione a mandorla, una pregevole rarità architettonica. Con una spesa modesta, certamente recuperabile con qualche economia, si potrebbe fare un piccolo passo verso la riqualificazione del nostro centro storico!!!” (https://www.facebook.com/home.php#!/permalink.php?story_fbid=2844981128233&id=1370527043).

l’abitazione postuma da acquisire e demolire

E non è passata inosservata la giusta osservazione, perché alcuni hanno subito sollecitato di far leva sugli amministratori ad intervenire su un’occasione così ghiotta, che finalmente potrà ridare al castello la facies originaria, come si conviene ad una importante opera difensiva della fine del XV secolo.

Il castello aragonese di Nardò, sul suo lato meridionale, fu deturpato dal bubbone rappresentato da quell’abitazione posticcia, malamente addossata alla cortina muraria, che sembra sia stata lì realizzata agli inizi del secolo scorso, dopo l’acquisto del castello da parte dei baroni Personè.

Qualcuno ritiene assai più recente l’orribile appendice, forse degli anni 50. Speriamo esca fuori qualche foto d’epoca per chiarire l’arcano.

Di fronte a questa possibilità, che ridarebbe lustro e decoro alla nobile costruzione, si è subito dichiarato prontamente disponibile l’Assessore del Comune Giuseppe Fracella, interessandosi a far leva sui colleghi ed amministratori perché il progetto si concretizzi.

Plaudo a questa disponibilità e mi auguro di cuore, con tutti i miei concittadini, che si raggiunga l’obiettivo di ammirare nella sua integrità l’importante ed emblematico monumento neritino.

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