Gli stemmi dell’antico palazzo Rondachi di Otranto

 Presentazione

di Marcello Semeraro e Antonella Candido

 

L’identificazione di stemmi anonimi presenti su edifici, affreschi e manufatti è un esercizio molto importante non solo per l’araldista, ma anche per lo storico dell’arte. Le insegne araldiche, infatti, sono tra pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) e un “contesto” all’opera su cui sono riprodotte. Questo più ampio e proficuo approccio nell’interpretazione dei segni araldici manifesta tutta la sua validità scientifica nel caso degli stemmi scolpiti sui resti dei parapetti di due balconi monumentali conservati all’interno del castello aragonese di Otranto.

Come vedremo, l’analisi storico-araldica delle insegne ha consentito di gettare una nuova luce sulle origini e le vicissitudini edilizie dello storico palazzo idruntino di via Rondachi sul quale un tempo erano collocati i balconi.

Per comodità di esposizione, preferiamo iniziare la disamina partendo dal parapetto quasi integro che fa bella mostra di sé nella sala rettangolare del castello (fig. 1).

Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale
Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale

 

Il manufatto è formato da nove lastre rettangolari in pietra locale, scomposte e allineate su una pedana. Sulle sette lastre centrali si ammirano decorazioni in bassorilievo recanti sette busti maschili e femminili in maestà, ognuno dei quali è racchiuso da un serto di alloro, tipico corollario dell’iconografia celebrativa. Sulle due lastre laterali, decorate a traforo, campeggiano due scudi sagomati con contorni mistilinei, di foggia diversa, databili al XVI secolo. Purtroppo, come spesso avviene, e contrariamente a quanto doveva essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di smalti. Il primo esemplare mostra una colonna con base e capitello, sostenente un putto che impugna con la mano destra una croce latina (fig. 2); il secondo reca nel primo quarto lo stesso stemma, benché stilisticamente diverso, partito con un altro raffigurante un albero nodrito1 su un ristretto di terreno2, movente dalla punta dello scudo (fig. 3).

Fig. 2
Fig. 2. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma
Fig. 3
Fig. 3. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma di alleanza matrimoniale

 

Quest’ultimo esemplare partecipa evidentemente delle caratteristiche dell’arme di alleanza matrimoniale: a destra (sinistra per chi guarda) le insegne del marito, a sinistra (destra per chi guarda) quelle della moglie. Il balcone appare nella sua interezza in una riproduzione fotografica realizzata nel primo decennio del Novecento (1910 ca.) dai fratelli Alinari, dalla quale si evince che esso dominava il prospetto di casa Carrozzini e che gli stemmi erano posizionati ai lati del parapetto (fig. 4).

Fig. 4
Fig. 4 – Balcone di casa Carrozzini, Otranto ca. 1910, stabilimento tipografico dei fratelli Alinari (Archivi Alinari, Firenze)

 

Altre foto d’epoca con altri particolari del suddetto edificio sono contenute fra le illustrazioni del secondo volume del Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli3, pubblicato nel 1912 (fig. 5).

Fig. 5
Fig. 5. Balcone di casa Carrozzini (dal Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli, foto Perazzo).

 

Tuttavia, nessuno dei due stemmi poc’anzi descritti corrisponde all’arme portata dalla famiglia Carrozzini, la quale sia nella versione blasonata dal Montefusco (“un cervo che tira un carro su cui è inginocchiato un uomo nudo con le mani giunte; il tutto sulla pianura erbosa”4), sia in altre varianti lapidee attestate a Soleto, differisce per la presenza di un emblema parlante5 costituito da una carrozza o da una sua parte (la ruota). Ciò significa che la committenza del balcone deve essere ricercata necessariamente altrove. Va premesso che l’identificazione dei titolari si è rivelata un’operazione particolarmente difficile, sia per la scarsità di fonti storiche su questo edificio, sia perché il contenuto blasonico degli stemmi non è facilmente ascrivibile a famiglie note. In casi di questo genere, le ricerche mediante collazione sulle fonti più specificamente araldiche (gli stemmari) possono rivelarsi fruttuose. E così è stato per il primo stemma e per il primo quarto del secondo, mentre si possono formulare solo delle ipotesi a proposito del secondo quarto del partito. Nel celebre Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, lo storico e araldista Amilcare Foscarini descrive un’arme identica, attribuendola ai Rondachi: “una colonna con base e capitello su cui sta un puttino ignudo che impugna colla destra una croce”6. Lo stesso blasone viene riportato nello Stemmario di Terra d’Otranto di Luigiantonio Montefusco7. In entrambi i casi non si hanno indicazioni sulla cromia delle figure e del campo.

I Rondachi furono una nobile famiglia idruntina di origini greche, annoverata fra le più illustri della città dallo storico Luigi Maggiulli8 ed estinta nella seconda metà del Seicento9. Fra il XVI e il XVII secolo la casata possedette vari feudi in Terra d’Otranto, tra i quali vanno ricordati Casamassella, Castiglione d’Otranto, Giurdignano, una quota dei laghi Alimini, Serrano e Tafagnano10. Un Domenico, vissuto nel XVII secolo, fu canonico della cattedrale di Otranto oltre che dotto nelle scienze e nelle lettere11.

Fra le famiglie nobili di Otranto, i Rondachi non furono comunque i soli a vantare un’origine ellenica giacché essa è attestata anche per altre schiatte come i Leondari, i Morisco e i Calofati12. Resta da capire, dopo aver identificato la famiglia di provenienza dello stemma in esame, a quale singolo personaggio detta arma apparteneva. Sfortunatamente non è stato possibile raggiungere questo obiettivo a causa soprattutto della difficoltà di stabilire, sulla base delle fonti a nostra disposizione, dei precisi riferimenti storico-genealogici sui vari membri di Casa Rondachi.

Ancora più problematica risulta essere l’identificazione dello stemma muliebre rappresentato nel secondo quarto dell’arma di alleanza matrimoniale, allusivo, come abbiamo visto, alla consorte di un Rondachi. Ciò dipende da una serie di limiti oggettivi a cui lo studioso va incontro nella lettura dell’arme, legati sia alla composizione araldica in sé, che si presenta acroma e generica nella sua figura principale – il termine “albero” è stato non a caso usato perché non se ne conosce la specie – sia alla lacunosità delle fonti con cui poter fare un raffronto. Va osservato, a tal proposito, che fra tutte le famiglie nobili e notabili idruntine riportate dal Maggiulli e dal Foscarini, solo di alcune di esse si conosce il blasone13.

Fra queste ultime, soltanto i Cerasoli (“d’argento, al ciliegio di verde”14), i Pipini (“d’azzurro, alla quercia al naturale, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro”15) e i Dattili (“d’azzurro, alla palma di dattero d’oro, accostata da due stelle dello stesso”16 ) innalzavano un albero come figura principale, ma nessuno dei tre blasoni, nel suo complesso, sembra corrispondere a quello in argomento. Il quadro risulta ulteriormente complicato dal fatto che, come abbiamo poc’anzi ricordato, non disponiamo di solide fonti storico-genealogiche sui vari esponenti di Casa Rondachi, dalle quali avremmo potuto ricavare dati utili per la conoscenza delle insegne araldiche delle rispettive consorti.

Nel corso delle nostre indagini, tuttavia, siamo riusciti a rintracciare una fonte che si è rivelata di notevole importanza. Si tratta di una lettera del 15 ottobre 1893, scritta dal barone Filippo Bacile di Castiglione e pubblicata nel 1935 dalla rivista Rinascenza Salentina17. Storico nonché studioso di araldica, il Bacile apparteneva ad una nobile famiglia di origini marchigiane che possedette in Terra d’Otranto i feudi di San Nicola in Pettorano e di Castiglione d’Otranto, lo stesso, quest’ultimo, che qualche secolo prima era appartenuto ai Rondachi18.

La lettera, indirizzata a Luigi Maggiulli, descrive un viaggio ad Otranto durante il quale il Bacile poté visionare di persona uno storico palazzo di cui all’epoca era proprietario tale Don Peppino Bienna. In quell’occasione egli vide sulla facciata non uno, ma due parapetti che costituivano “la parte più notevole19 dell’edificio. “Quei parapetti hanno in tre lati corti e su fondi a trafori geometrici che indicano il passaggio dal XV al XVI secolo […] tre armi: una sola con una figura; le altre con due, perchè partite, ripetendo però a destra sempre questa figura; e a sinistra un’altra. La prima, dunque, è una colonna, su piedistallo, sormontata da un puttino tenente nella destra una croce. Nelle armi partite vi è 1°: la descritta; 2°: un albero su breve terrazza direi quasi accorciata20.

Il secondo parapetto, posto “in linea quanto divergente dal primo ma, tripartito e con bassorilievi21, conteneva dunque un terzo scudo che replicava la stessa combinazione d’armi per alleanza coniugale che abbiamo osservato nell’esemplare riprodotto nella figura 3. Ammirato dalle fattezze dell’edificio, il Bacile volle cercarne i proprietari originari e seppe era appartenuto alla famiglia Rondachi “che si era imparentata con la Scupoli, a cui dovrebbe appartenere la 2° partizione delle due armi22.

Si tratta di un documento importante perché oltre a confermare la committenza Rondachi, offre anche un indizio per l’identificazione dello stemma muliebre. Di origini ignote e non annoverata dal Maggiulli fra le più illustri di Otranto, la famiglia Scupoli divenne celebre per aver dato i natali a Lorenzo (*1530 †1610), chierico teatino nonché autore del celebre Combattimento spirituale23, e probabilmente anche a Giovanni Maria Scupola, pittore otrantino contemporaneo dei fratelli Bizamano24. Purtroppo non si conoscono altre attestazioni dell’arma portata da questa famiglia.

Allo stato attuale delle nostre ricerche non possiamo pertanto né confermare né confutare l’ipotesi di attribuzione del quarto muliebre suggerita al Bacile che, tuttavia, va tenuta in considerazione in vista di ulteriori, auspicabili approfondimenti. Nella lettera summenzionata si parla anche di un secondo parapetto presente sulla facciata, che dovette essere di dimensioni minori rispetto al primo. Fino a qualche settimana fa i resti di questo manufatto giacevano isolati e decontestualizzati nella sala triangolare del castello.

Tuttavia, grazie al nostro interessamento, si è provveduto a spostarli nell’adiacente sala rettangolare, dove sono attualmente ammirabili. Essi corrispondono perfettamente a quanto descritto dal barone di Castiglione. Si riconoscono tre lastre rettangolari decorate con pregevoli bassorilievi che riproducono diverse figure, comprese tre colonne che sembrano avere una relazione allusiva con l’arma Rondachi (fig. 6).

Fig. 6
Fig. 6. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare delle lastre del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi

Una quarta lastra, che si presenta in uno stato frammentario, reca scolpito su un fondo a traforo uno blasone partito Rondachi – (Scupoli?) del tutto simile a quello raffigurato sul parapetto maggiore, sebbene la composizione risulti stilisticamente differente (fig. 7).

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Fig. 7. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, frammenti della lastra del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi, con stemma partito Rondachi – (Scupoli?).

 

L’analisi dell’araldista salentino presenta, invece, alcuni aspetti problematici per quanto riguarda il numero originario delle lastre del parapetto più grande. Egli, infatti, descrive “cinque scompartimenti racchiusi in elettissimi pilastrini” recanti “cinque medaglioni con teste che sporgono da serti circolari25, mentre se ne contano due in più nelle foto novecentesche di casa Carrozzini e nel manufatto visibile nella sala rettangolare del castello. Riteniamo che questa divergenza si possa spiegare ipotizzando un errore di conteggio da parte dello studioso. Tale supposizione si basa sul fatto che la sequenza dei sette busti raffigurata su ogni pannello difficilmente troverebbe una spiegazione se non venisse considerata come parte integrante dell’intero corredo decorativo della parte frontale del parapetto maggiore, lo stesso manufatto, peraltro, che qualche anno dopo apparirà nella sua interezza nelle riproduzioni novecentesche del balcone di casa Carrozzini.

E’ probabile che ogni busto racchiuso dalla corona d’alloro sia da intendersi come allusivo ad un personaggio di Casa Rondachi e che, di conseguenza, l’insieme costituito dai bassorilievi figurati e dalle insegne araldiche agnatizie e matrimoniali (che all’epoca erano sicuramente radicate nell’esperienza visiva degli osservanti) sia stato ideato per celebrare la famiglia proprietaria del palazzo nonché per ostentarne il rango. E’ bene precisare, però, che allo stato attuale delle nostre indagini queste considerazioni sono e restano delle mere ipotesi, da prendere con le dovute cautele.

Da un punto vista cronologico e stilistico, entrambi i parapetti presentano fattezze ascrivili al XVI secolo, probabilmente opera raffinatissima di Gabriele Riccardi26. Nel primo decennio del Novecento lo storico palazzo sito in via Rondachi dovette subire dei rimaneggiamenti che andarono a modificare in parte la struttura della facciata, tanto è vero che il prospetto dell’edificio, nel frattempo divenuto casa Carrozzini, era costituito da un solo balcone.

Le vicende che interessarono questa dimora nel lasso di tempo successivo a quello documentato dalle foto presentano, invece, non pochi lati oscuri. Stando a quanto si ricava dall’introduzione alla lettera del Bacile – pubblicata, come abbiamo visto, dalla rivista Rinascenza salentina agli inizi del 1935 – a quella data l’edificio non esisteva più perché fu abbattuto a causa delle sue precarie condizioni27. Si apprende che grazie all’interessamento del Maggiulli e della Soprintendenza ai Monumenti della Puglia e alla munificenza della famiglia Bienna, i pezzi del balcone furono smontati, affidati all’amministrazione comunale e conservati “in apposito luogo28.

Di parere diverso è lo studioso Paolo Ricciardi, secondo il quale casa Carrozzini fu acquistata dall’arcivescovo Cornelio Sebastiano Cuccarollo (1930-1952) e abbattuta dal suo successore Mons. Raffaele Calabria (1952-1960) per far posto ad una palazzina attualmente utilizzata come archivio diocesano (piano terra) e uffici pastorali (primo piano)29.

Comunque sia, delle lastre lapidee dei due parapetti si perse ogni traccia fino agli inizi degli anni ’90, quanto esse furono rinvenute all’interno del materiale di riempimento del fossato del castello aragonese e collocate nelle sale interne della fortezza idruntina. Ulteriori e più puntuali indagini, basate soprattutto su fonti archivistiche, potranno chiarire meglio le fasi e le vicissitudini edilizie a cui andò incontro quella che un tempo era l’antica dimora di una nobile famiglia otrantina della quale oggi non restano che i frammenti degli antichi balconi e un’intitolazione toponomastica a perpetuarne la memoria.

 

* Desidero esprimere il mio più profondo ringraziamento alla dottoressa Patricia Caprino (Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università del Salento), alla quale va il merito di avermi segnalato il caso, suscitando il mio interesse e la mia curiosità. Un ringraziamaneto particolare va anche a Mons. Paolo Ricciardi, noto cultore di storia otrantina, per la sua generosa disponibilità. (Marcello Semeraro)

  1. Si dice di vegetali che nascono o escono da una figura o partizione.
  2. Terreno che è molto ridotto o isolato da entrambi i lati.
  3. Cfr. G. Gigli, Il tallone d’Italia: II (Gallipoli, Otranto e dintorni), Bergamo 1912, pp. 86-87.
  4. Cfr. L. Montefusco, Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce 1997, p. 35.
  5. Le armi o le figura parlanti sono quelle che recano raffigurazioni allusive al nome del titolare.
  6. A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, vol. 1, p. 181.
  7. Cfr. L. Montefusco, op. cit., p. 106.
  8. Cfr. L. Maggiulli, Otranto: ricordi, Lecce 1893, p. 97.
  9. Cfr. A. Foscarini, op. cit., p. 181.
  10. Cfr. ibidem; cfr. inoltre L. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto: la provincia di Lecce, Lecce 1994, ad voces.
  11. A. Corchia, Otranto toponomastica, in Note di storia e cultura salentina (a cura di F. Cezzi), Galatina 1991, p. 133.
  12. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 32, 118, 146. Quello delle famiglie nobili di origine ellenica giunte in Terra d’Otranto e, più in generale, nel Sud Italia per sfuggire alla dominazione ottomana, resta un fenomeno tutto sommato poco esplorato dagli studiosi. L’araldica, da questo punto di vista, potrebbe fornire un interessante terreno di ricerca.
  13. Cfr. L. Maggiulli, op. cit., pp. 93-104; A. Foscarini, op. cit., ad voces.
  14. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 46-47.
  15. Cfr. ivi, pp. 169-170.
  16. Cfr. ivi, p. 59.
  17. Cfr. F. Bacile, Il palazzo dei Rondachi in Otranto, in Rinascenza salentina, 1 (gen-feb 1935), pp. 42-45.
  18. Cfr. A. Foscarini, op. cit. p. 16.
  19. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 43.
  20. Cfr. ivi, p. 44.
  21. Cfr. ibidem.
  22. Cfr. ivi, p. 45.
  23. Cfr. P. Ricciardi, Lorenzo Scupoli e il presbitero Pantaleone. Due maestri idruntini intramontabili e universali, Galatina 2010, pp. 9-10.
  24. Cfr. ivi, p. 307.
  25. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 44.
  26. Cfr. M. Cazzato, V. Cazzato (a cura di), Lecce e il Salento. Vol. 1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco, Roma 2015, pp. 320-321.
  27. Cfr. F. Bacile, op. cit, p. 42.
  28. Cfr. ibidem.
  29. Cfr. P. Ricciardi, Otranto devota, Galatina 2015, p. 255.

 

In tour alle Tavole di San Giuseppe nel Salento sud-orientale, fra tradizione e devozione

Tavola di San Giuseppe 1

di Paolo Rausa

 

Quest’anno, il 19 marzo, a cavallo di una vecchia Tipo con la guida eccezionale del menestrello cantastorie salentino P40, ho avuto la ventura di immergermi  nel profondo e inesplorato cuore religioso di questa parte del Salento, che fa della tradizione spirituale un elemento di valorizzazione di credenze e frutti della terra.

Forse doveva essere veramente così, quando a pochi km di distanza i primi abitanti delle Grotte dei Cervi a Porto Badisco imbandivano le loro mense frugali con le primizie che la terra forniva: il prezioso olio, il vino ristoratore, il frumento vitale.

Dalla preistoria ai Messapi e ai greci, i riti trasmigrano, conservando sino a noi l’intensità spirituale, ravvivata dai monaci basiliani che tante tracce della loro arte hanno lasciato nelle cripte e nelle chiesette rupestri disseminate nel nostro territorio.

Proprio da una chiesetta comincia il nostro giro: la Cappella di Sant’Anna del XIII secolo a Specchia Gallone, frazione di Minervino di Lecce, un ciclo di affreschi con scene dell’Antico e del Nuovo Testamento e un Giudizio Universale. La chiesetta a due ambienti è preceduta da un pronao, un battuto su cui  il sacerdote e i devoti officiano la messa in onore di San Giuseppe. Alle loro spalle una ambientino contiene in piccolo tutti gli elementi vegetali e animali (il pesce, simbolo cristiano, esclusa rigorosamente la carne), che ritroveremo nelle mense allestite in case private, persino in uno studio professionale a Giurdignano, in una scuola materna, in un palazzo baronale,  e in una Fondazione benemerita, Le Costantine,  dove ha sede una eccellente scuola di tessitura, a Casamassella.

Le Tavole di San Giuseppe 3

Ogni luogo ha una storia rurale e religiosa. Con P40 ci interroghiamo sul significato di questa persistenza di riti nella memoria che si riversano nell’onorare un Santo, padre putativo di Cristo. Ci chiediamo come sia possibile conservare questi relitti atavici e semmai come coniugare questi lembi di civiltà con le istanze di un mondo giovanile che inascoltato pressa la società e alla fine, non trovando risposte, fugge via alla ricerca di un lavoro e di una qualche soddisfazione professionale.

Notiamo che quest’anno per la prima volta i Comuni che hanno condiviso il  progetto sulle Tavole di San Giuseppe sono quattro: San Cassiano, Minervino, Uggiano e Giurdignano, comprese le frazioni. Casamassella, una frazione forse di mille anime,  ci impressiona per il coinvolgimento da parte dei genitori e delle maestre dei 48 santi che hanno partecipato alla tavolata, imbandita ad altezza di bambino.

Fatto molto significativo perché alla preparazione delle vivande (servite e mangiate in ordine: lampascioni, rape, ceci, vermiceddhri, vino, pesce, ronghetto, bucatini, pittule, fritti con distribuzione di finocchio e arancia finale) hanno collaborato tutti, compresi i bambini dell’età max di sei anni che frequentano la scuola.

Che cosa sono in fondo queste Tavole, se non il tentativo di distribuire le risorse del territorio a tutti e in particolar modo ai poveri, sulla traccia dei sacrifici agli dei come distribuzione al villaggio delle carni, rito cui sovrintendeva Zeus Xenio, protettore degli ospiti e dei mendicanti?

Da Casamassella a Giurdignano, il paese degli allineamenti, dei menhir e dei dolmen, e anche delle Tavole di San Giuseppe. Ne abbiamo contate fino a 60 nelle case private, negli studi professionali, nei ristoranti, di tre, cinque, sette, nove santi, ecc. secondo un rigoroso rito che parte dalla Sacra Famiglia, 3 componenti, e poi in  numero dispari, a seconda della devozione e della grazia ricevuta, si allarga sino a riempire la sala più grande della casa di primizie della terra e del mare.

Tavola di San Giuseppe 2

In una di queste ci siamo fermati con P40 e abbiamo seguito il rito con un San Giuseppe che arcigno scuoteva la forchetta sul bicchiere e allora tutto si fermava sulla tavola. Si interrompeva l’assaggio che riprendeva con una nenia o una preghiera rivolta ai santi e ai defunti.

Con questo pensiero si chiudeva la tavola, distribuendo il cibo rimasto ai santi invitati, che a loro volta lo distribuiranno ai vicini e ai più poveri del paese, non prima di aver ricordato la funzione di San Giuseppe come psicopompo, che come Ermes ci accompagna nell’ultima dimora.

Dall’antica Grecia al Salento. Appunti per una storia della tessitura

Tessere

di Maria Grazia Anglano

Donna.

E’ nella donna, il silenzioso mistero, del tempo del creare.

Da sempre trova in lei, la sua casa. E la paziente attesa tesse.

La sua unicità irripetibile.

 

All’apertura del passo, rintocca il telaio. Mentre la navetta scorre, nel varco, degli alterni fili dell’ordito. Gesti rituali, di un improbabile danza, scanditi ritmicamente, nel sonoro vuoto della propria stanza.

E’ antica quasi quanto l’uomo quest’arte e nel tempo è diventata più di una semplice necessità, assumendo sempre più caratteristiche identificative di popoli, cultura, stato sociale e non ultima capacità decorativa e creativa.

La tessitura ha superato secoli, tradizioni e miti, basta pensare all’Odissea, dove Penelope nel “tessere” riaffermava la sua capacità di scegliere, una fiduciosa attesa. Oppure ad Aracne, che della sua abilità, ne fa addirittura un’amara sfida agli dei. Condannata per questo, a tessere per sempre, la sua tela dalla bocca.

Dal mito all’arco della nostra storia, la tessitura ha conosciuto alterni momenti, legati strettamente alle vicissitudini, del periodo storico.

Così come anche per la storia dell’arazzo. Inizialmente aveva caratteristiche grezze e prettamente nomadi, serviva di volta, in volta, ora per separare un ambiente, ora per coprire una finestra ecc.

Finché queste grossolane tessiture non iniziarono ad acquisire delle decorazioni più proprie e ad assurgere a un compito più prettamente decorativo. Trovando, per questo, il loro uso, anche e specialmente nelle occasioni più solenni.

Doveroso è ricordare la città francese di “Arras”. Dalla quale prenderanno il nome gli arazzi, e dove appunto i Gobelins, per secoli, ad iniziare dal 1601, hanno prodotto pregiatissimi arazzi, dalle complesse e istoriate decorazioni.
La Galerie des Gobelins, requisita nel corso della prima Guerra Mondiale, venne inaugurata nell’ 1922 e ospitò mostre sino al1939. Chiusa nel 1972, in seguito utilizzata come deposito, ha riaperto i battenti il 12 maggio 2007, dopo ben tredici anni di restauri, con la mostra: Les Gobelins 1607-2007, Trésors dévoilés – Quatre siècles de création.

L’arte del tessere, col suo lento divenire, dilata uno spazio atto anche al pensare, recuperando un tempo del lavoro più a misura d’uomo. Dove la manualità segue ed esegue, da una precedente progettazione, messa appunto su una carta tecnica, detta propriamente -cartone-.

Qui ogni piccolo quadratino sulla carta tecnica, corrisponde a quell’unico fiocco (termine tecnico, che indica un filo lungo pochi centimetri, che si annoda a quelli verticali dell’ordito.) che insieme agli altri costruisce il vello dell’arazzo. E dall’uno (fiocco) diviene il tutto(opera-arazzo, con la sua caratteristica iconografica).

Vi sono vari tipi di telai, da quelli verticali a quelli orizzontali, o da tavolo. Tra i tanti telai, quelli, tuttora, maggiormente in uso, sono quelli a pedali, di origine antichissima. Questo modello ha forma rettangolare ed è in legno d’ulivo.

Con esso la lavorazione è resa più veloce grazie all’apertura del passo, ossia lo spazio creato tra i fili dell’ordito, mediante i pedali, con la successiva introduzione della navetta, o sciuscetta, che porta con se il filo della trama. Vi sono poi due rulli, uno anteriore ed uno posteriore: il primo serve ad avvolgere il lavoro, tessuto, il secondo a reggere i fili dell’ordito, ancora da lavorare. I licci, poi, servono ad allontanare ad uno, ad uno i fili dell’ordito. Il battente, o pettine, ha poi la funzione di pettinare e assestare il tessuto, ossia permette al filo della trama di accostarsi, a quello precedente.

Interessante è focalizzare come quest’arte abbia trovato pervicace espressione, anche nel nostro Salento. Attraverso i più svariati centri, della nostra penisola. Trovando poi in Casamassella, uno dei più importanti epicentri della storia della tessitura salentina.

Casamassella è un paesino di mille abitanti, vicinissimo ad Otranto. Tutto ebbe il suo inizio, nel castello dei Marchesi De Viti De Marco, dove la giovane donna Carolina decide di trasformare l’arte del ricamo, diffusamente conosciuta in tutto il Salento, in un’arte assolutamente esclusiva al fine di poter esportare i prodotti di tale, pregiata produzione.

Sul finire dell’ottocento fonda così a Maglie, la scuola del ricamo di Casamassella. Grazie alle conoscenze, che il celebre economista Antonio De Viti De Marco aveva a Roma ed in tutta Italia, la signora Carolina poté commercializzare i ricami, diffondendo il prestigio della scuola.

 Dopo qualche anno a Maglie arrivava il lino dall’Irlanda, mentre i ricami si vendevano tanto in America, quanto in Russia; un vero mercato mondiale che fu attivo per tutta la durata dell’attività della scuola. La tradizione familiare fu continuata dalle due figlie di Donna Carolina, Lucia e Giulia. Lucia si trasferì in Sud Africa, portando la tradizione salentina nelle comunità Boere, mentre Giulia si specializzò nell’uso dei telai che fece montare nelle sale al pianterreno del castello, e poi in una masseria, detta Villa Carmosina, destinata al proseguimento di queste ricercate lavorazioni.

Negli anni 20 il mercato del tabacco era fiorente, e le donne preferirono spostare le proprie energie nella coltivazione, e nella raccolta del tabacco, obbligando così la scuola a chiudere. La tradizione continuò nel castello e molte donne del paese di Casamassella continuarono a produrre. Anche se questo determinò un cambio di connotazione di mercato, passando da una produzione capace di soddisfare una richiesta di livello internazionale, ad una più prettamente locale.

Successivamente dal lino si incominciò a tessere la bambagia e la lana. Si incominciarono a produrre coperte, tappeti ed arazzi. Per migliorare la produzione furono importate delle pecore che migliorassero la qualità della lana, dal Medio Oriente arrivarono le pecore karakul. Queste pecore dalla lana nera, venivano tosate e filate, insieme alle bianchissime pecore locali, creando geometrie di colori bianco e nero di rara eleganza.

La riforma fondiaria diede una nuova e ulteriore scossa a questa scuola, e così il nuovo progresso fece terminare, per una seconda volta, il sogno della scuola di Casamassella.

Era d’uso ancora sino ad un po’ di decenni fa, a Casamassella trovare donne negli atri delle proprie abitazioni intente a tessere al proprio telaio.

La tessitura ha poi avuto, un rinnovato impulso, in alcuni centri della provincia, come Casarano,  Collepasso e Uggiano La Chiesa.  Nella zona di Maglie e Suranonoti sono i tappeti in lana e cotone grezzo, con una tecnica forse di origine saracena, detta “fiocco leccese”, che evidenzia un aspetto arricciato.

Non ultimo in questo elenco Nardò, dove donne maestre nelle diverse arti, dal telaio al ricamo, svolgevano lavoro su committenza oltre ad insegnare l’arte. Queste maestre, all’occorrenza, attuavano quella rete di solidarietà femminile per le mamme, intrattenute in altri impegni o lavori da assolvere, chiedendo“lu ntartieni” (cioè l’ intrattenimento)per i loro ragazzini, e questo era una buon motivo per tentare, su un piccolo canovaccio, di imparare i più facili rudimenti del ricamo. Come pallini e punto erba.

Importanti a tal proposito sono le coperte imbottite di Nardò e Galatone dette “buttite”. Venivano tutte rifinite e cucite a mano, all’interno si inseriva la bambagia, tra due teli di diverso colore, quasi sempre in raso rosso o verde, e rappresentavano un elemento indispensabile, nel corredo o “dote”della futura sposa.

La produzione dei ricami, e dei tessuti, ha tradizioni antichissime, ed è nata per oggetti di uso quotidiano: asciugamani, lenzuola, tovaglie, sacchi, abbigliamento, ecc. Oggi la tendenza si va spostando verso la realizzazione di tessuti pregiati, arazzi, tappeti, stuoie, cuscini e coperte.

Tutte le tipologie del punto ad ago sono presenti, in una infinita gamma di disegni, spesso ispirati al paesaggio e alla natura. I merletti più conosciuti sono “il chiaccherino”, fatto con la spoletta sulle dita, che forma una sorta di tela di ragno, a disegni concentrici.

tombolo

Ed ancora nelle zone di Lecce, Nardò, Galatina e Ruffano abbiamo “il tombolo”. Con la famosa tecnica, di intrecciare i fili intorno ad aghi puntati su un disegno, sistemato su un grosso cuscino cilindrico, imbottito. E un’arte poco diffusa perché generalmente viene tramandata di madre in figlia, o comunque nel ristretto del proprio ambito familiare.

Ci sono oramai poche realtà o botteghe, che perdurano le caratteristiche dell’artigianalità. Dove le esperte ricamatrici salentine si cimentano nell’arte del ricamo, in tutti i suoi punti, ed anche nella realizzazione di pizzi e merletti, sia ad ago che ad uncinetto. Se si passa alle origini storiche del merletto, si vede che esso è nato con tutta probabilità proprio in Italia, alla fine del 400, e per ragioni funzionali, non meno che estetiche. In quanto andava a sostituire importanti e pesanti decorazioni, galloni, con uguale pregio e maggiore facilità di lavabilità.

Dal seicento sino all’ottocento il merletto ha il suo apice e per la sua preziosità, costituisce uno degli elementi di distinzione del ceto socia­le nobile e alto borghese; viene richiesto da committenze facoltose, destinato ad arricchire gli abiti degli aristocratici, del clero e ad abbellire gli altari nelle cattedrali. La produzione italiana è la più ricercata, apprezzata anche all’estero: il protocollo delle varie Corti Reali euro­pee obbliga i nobili a presentarsi con abiti ornati di pizzi. Tale fu l’importanza economica che ebbe in Italia il merletto che nacquero pesanti sanzione a quanti diffondessero i segreti di tali tecniche, sino ad essere tacciati addirittura come traditori della patria. Successivamente l’avvento della Rivoluzione industriale sovverte abitudini e stili di vita decretando un impoverimento di questo settore. La tessitura subisce così le sue necessarie contaminazioni dovute alla tecnologia, alla comparsa di nuove fibre, e ad una produzione sempre più rapida e accessibile economicamente, a scapito di una imitata quanto approssimativa qualità artigianale. Prova ne sono i merletti industriali.

Ma l’artigianalità perdura nelle pregiate fatture, per quanto ripetibili come soggetto, rimangono comunque sempre uniche.

Infatti, la storia dell’artigianato nelle sue pecularietà e specificità, da sempre porta con sé quel labile e difficile distinguo, tra opera in sé, ed opera come, semplice, buona fattura tecnica. D’altra parte delimitare questo terreno di commistione è reso ancora più difficile, in quanto l’artista stesso usa e si avvale di bravi artigiani per realizzare le proprie opere. Innumerevoli sono infatti gli artisti che nella storia recente, e passata, hanno prodotto importanti cartoni, per la realizzazione di arazzi. Tra i tanti nomi Matisse, Le Corbusier, Picasso.

Molti artisti hanno trovato espressione nelle fibre tessili, dando il via a quella che successivamente sarà chiamata fiber art. Anch’io ho subito la fascinazione di questo mondo e da tempo, faccio ricerca attraverso l’uso di queste tecniche nelle sue varie e possibili declinazioni. Realizzando, oltre ad arazzi in canapa, anche arazzi su carta. Dove il filo è insieme segno, e materia percettibile, capace di ospitare la luce, è il relativo indelineabile, cono di presenza,-ombra-. Il tutto, in una forma di comunicazione, di piani .Di vuoti, e superfici, in una sorta di continuum spazio temporale. Dove la luce allo zenith, ha ormai arso e graffiato ogni cromia, di delineate, quanto arcaiche, geometrie.

Lucugnano, 4 – 7 settembre 2012. I giorni dell’armonia, all’insegna del profumo di una rosa

 

di Rocco Boccadamo

 

Io, c’ero.

Per la qual cosa, da subito, ho registrato, dentro, una sensazione d’inusitata e speciale contentezza e, tuttora, vado cullando il piacere della voluta, ma pur sempre fortunata, presenza.

Ai primi bagliori, vivi ma morbidi e soffusi, del crepuscolo di martedì 4 settembre, a Lucugnano, piccola frazione del Basso Salento, nella carinissima cornice dell’atrio di Palazzo Comi, si vive la serata d’apertura della quattro giorni recante il titolo “I giorni dell’armonia”.

Una lodevole iniziativa, pensata, curata e organizzata, con sapienza e classe, in omaggio alla figura di Girolamo Comi – salentino, nativo di un’altra non lontana minuscola frazione, Casamassella, vissuto a lungo, sino alla fine, giustappunto a Lucugnano – preclaro poeta e letterato del Novecento, viepiù esemplare e ammirevole per la semplicità, genuinità e linearità della propria esistenza, come a dire tanto poco barone blasonato, pur vantandone il titolo, quanto molto, anzi moltissimo, uomo alla pari di tutti, aperto e disponibile con chiunque.

Mi tocca rendere una preventiva confessione che, peraltro, sgorga lieve e liberatrice da un limite, una carenza: prima del 4 settembre 2012, a parte veloci transiti lungo la statale 275, non mi era mai capitato di fermarmi a Lucugnano; inoltre, pur non ignorando il lustro di Comi, prevaleva l’associazione di detta località alle vicende, di tutt’altro genere e spessore, ruotanti intorno a tale Papa Galeazzo (Caiazzu, in gergo dialettale) e alla presenza, almeno nel secolo e nei decenni passati, di un cospicuo numero di fabbriche artigianali di articoli in terracotta e, fra essi, le pignatte o pignate (i cotimari).

Al contrario, stavolta, si tratta di una visita chiaramente e precisamente finalizzata e, già nel parcheggiare l’auto, si fa avanti una sorta di benvenuto ideale, sottoforma o meglio nei panni di una ventina di giovanissimi d’entrambi i sessi, in divisa da bandisti, sparsamente assembrati nello slargo e in procinto di dirigersi verso una meta che è anche la mia: Palazzo Comi, affacciato nella sua composta magnificenza proprio lì davanti e raggiungibile dopo qualche passo, appena il tempo di sfilare a fianco del busto artistico del grande poeta e intellettuale.

Ad accogliere i convenuti in arrivo, il sobrio e insieme piacevole atrio, da cui si offre alla vista l’interno dello stabile, con spicco del primo piano della nobile dimora, adornato da pregevoli balconate e perimetrato da elevati infissi e ampie vetrate. Una chicca: l’intera apertura dell’interno verso l’alto è coperta da una rete a maglie strette, appena percettibile, d’indiscussa utilità pratica, sia di giorno, che di sera e di notte.

Pendente su un lato, un lenzuolo bianco a una piazza per larghezza e a due per lunghezza, con il testo di una poesia dialettale di Giuseppe Greco “ A lla ‘mpete”.

Appena raggiunta la meta, mi si offre la gradevole sorpresa della presenza e del benvenuto della collega e amica Giuliana Coppola, già conosciuta in altre occasioni, scrittrice che leggo sempre con particolare piacere, giacché, a parte le altre doti e qualità, lei è solita mettere l’anima nelle sue righe.

Scopro che, lucugnanese doc,  è la principale organizzatrice dell’iniziativa, con un lavoro e una dedizione che datano da più di un anno. Alla mia domanda sullo svolgimento della sua stagione estiva, m’informa, Giuliana, che, escludendo le doverose cure e attenzioni riservate ai sei nipotini, è sempre rimasta fissa a presidiare, unitamente ad altri volontari, Casa  Comi, al fine di cercare di scoraggiare, esorcizzare e dissolvere l’ombra dell’infausta destinazione di una parte del palazzo e del relativo giardino a esercizio di trattoria.

Indipendentemente dall’avvenuta chiusura dei manicomi, si vede proprio che, di pazzi (ma, qui, si tratta unicamente di pazzi?), ve ne sono tantissimi.

Amore di Giuliana, un’operazione senza  uguali; la speranza, ovviamente,  è che l’ombra del sacrilegio resti fugata e allontanata in via definitiva.

Subito dopo il piacevole impatto con Giuliana, mi viene dato di conoscere di persona lo scrittore, poeta e critico Vito Antonio Conte e il poeta Marcello Buttazzo, da tempo noti e stimati attraverso i loro frequenti interventi su “Il Paese Nuovo”.

Il primo, da par suo, ossia con incisiva padronanza e maestria, presenta la più recente raccolta poetica di Marcello, intitolata “E ancora vieni dal mare”; ho il privilegio di ricevere in dono, dall’autore, una copia del volumetto, oltre che di declamarne un brano.

Dice, Buttazzo, nella dedica riservatami: “La scrittura getta un ponte…”; a casa, mi sono letto d’un fiato tutte le sessantasette composizioni, che mi riprometto di passare ancora e più volte in rassegna. Sono di una bellezza e di un’arte fine davvero uniche.

Nella foga, credo di aver trascurato una doverosa precedenza, nel senso che, a introdurre e intervallare gli afflati dei versi, si sono esibiti i ragazzi in uniforme da bandisti incontrati all’arrivo a Lucugnano, i quali hanno dato vita, con l’aiuto delle scuole e delle amministrazioni locali, a una reale e autentica banda chiamata “Filarmonica del Capo di Leuca”.

Confidenza di Giuliana, l’idea è nata dalle ripetute insistenze di un’anziana del paese, invalida e relegata in casa, la quale, nell’offrire, ogni tanto, una tazzina di caffè, le andava da qualche tempo segnalando di avere un nipotino alle medie che studiava pure musica, sino a imparare a suonare uno strumento. “Mi piacerebbe tanto che il mio piccolo entrasse in una banda di giro” si augurava la donna e, adesso, il suo sogno si è avverato, anzi, con l’occasione, la “Filarmonica”, prima di esibirsi nell’atrio di Palazzo Comi, ha compiuto un giro per tutte le strade del paese, compresa la via della nonna del giovanissimo musicante.

Dopo i poeti, verso l’epilogo della serata, ho potuto gustare anche un’intensa sintesi dell’intellettuale Luigi Mangia, anche lui assiduo collaboratore de “Il Paese Nuovo”.

Sono volati via novanta minuti, lo stesso tempo di una partita di calcio, di coinvolgimento in una lodevole iniziativa di cultura vera, preziosa e senza fronzoli e, in particolare, stasera, di ascolto di versi vellutati.

Con il contorno, diffuso nell’atrio di Casa Comi, di profumi rari che non si dissolvono, come l’essenza della rosa del giardino del poeta, espressamente eternata sotto forma di un’artistica riproduzione in pietra locale.

 

Antonio De Viti De Marco. Una storia degna di memoria

di Tommaso Manzillo

Dovrebbe pazientare il lettore se si insiste con un ulteriore approfondimento su Antonio De Viti De Marco, ma lo spessore culturale, economico e politico dell’uomo impone un altro contributo su una figura storica grandiosa. Per gli addetti ai lavori, per gli amanti della scoperta e della ricerca, cercare di capire meglio il marchese di Casamassella è sempre appagante, pieno di sorprese, e riempie l’animo di grande soddisfazione e orgoglio per aver saputo portare il Salento nel mondo. Si, nel mondo. Perché la sua fama si estese presso i più grandi economisti americani, tedeschi, inglesi, oltre agli italiani Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Luigi Einaudi ed altri.

L’uomo che approntò la nuova scienza delle finanze viene dal Salento ed è Antonio De Viti De Marco. Sarebbe l’ora di iniziare anche a parlare, oltre che di federalismo fiscale, anche di federalismo culturale. Ce lo chiedono i protagonisti più grandi di ogni particolare territorio, che molto spesso rimangono oscurati dalla Storia, lontani dalle aule scolastiche ed univesitarie, dopo aver offerto decisivi contributi nel panorama culturale, storico, politico, economico e sociale. E il Salento, soprattutto Galatina, hanno una lunga schiera

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