Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (seconda parte)

Veduta di Manduria (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato).

 

di Mirko Belfiore

 

In questi insediamenti gli Imperiale seppero lasciare un’impronta del loro operato con risultati artistici oggi ancora apprezzabili e che corrispondono, in parte, a quel “consumo ostentativo” di cui tutta l’area salentina ne fu caratterizzata in molti dei suoi centri più prestigiosi.

Una delle particolarità principali di quest’area sta proprio nel fatto che i profitti di un’agricoltura fortemente commercializzata, basti pensare alla produzione olearia o vinicola, venivano reinvestiti in una “nuova visione feudal-aristocratica della vita” che andò affermandosi a cavallo fra Seicento e Settecento, quando vengono ridisegnate le nuove residenze nelle città e i castelli si ingentiliscono con arredi e decorazioni.

Qui emerge con una certa consistenza una gusto nuovo nell’adibire a palazzo gli antichi manieri fortificati, già usanza in passato, ma che divenne un metodo ancora più in voga presso l’aristocrazia, fra il XVI e il XVII secolo. Le grandi famiglie nobiliari sentono il bisogno di vivere in maniera più consona alla propria condizione e se in principio si accontentano di far restaurare gli antichi manieri, ormai provati da numerosi assalti, terremoti e dall’usura degli anni, ora commissionano restauri sostanziosi che trasformano le strutture in un ibrido fra castello e palazzo.

stemma del casato genovese degli Imperiale

 

Nell’elenco degli aristocratici stilati dal Labrot, fra coloro che nelle varie parti del Regno adottano questa soluzione, compaiono gli stessi Imperiale. Effettivamente gli stessi lasciarono traccia oltre che a Francavilla anche nelle altre dimore usate periodicamente per caccia o villeggiatura (Avetrana, Carovigno, Massafra, Latiano, etc.) seguendo il gusto dell’epoca e traducendo l’immagine lussuosa degli edifici napoletani nelle proprie residenze con interessanti risultati artistici di cui possiamo farci un’idea anche tramite l’analisi degli inventari pervenuteci.

Un progetto concretizzatosi anche alla luce di quei rapporti con Napoli dove i più importanti feudatari avevano residenza stabile e da dove giungeva in periferia un modello che poteva essere replicato. In ambito pittorico, per esempio, la frequentazione diretta delle botteghe napoletane dei grandi artisti poteva tradursi nell’acquisto sia di quadri opera del pittore affermato quanto dei più bravi allievi presenti, con la possibilità di splendere qualcosa in meno.

D’altro canto, e il caso di Domenico Carella e della bottega dei Delli Guanti a Francavilla ha fatto scuola, la strategia di valorizzare gli stessi pittori locali salentini, i quali avevano avuto modo di formarsi a Napoli nelle stesse botteghe, poteva restituire opere d’arte dalla resa più che discreta e al passo con i grandi nomi della scuola napoletana.

Tutto ciò si tradusse in un collezionismo dai risvolti multipli, inteso sia come scelta ponderata e consapevole, finalizzata all’acquisto di opere legate da una tendenza o da un filo coerente quanto alla semplice realizzazione di ricche quadrerie, dove spesso le scelte se non erano casuali, erano dettate da oscillanti motivi di moda, convenienza, gusto e, probabilmente, anche da assembramenti ereditari.

Il più importante di questi elenchi di opere riguardante gli Imperiale è sicuramente quello redatto nel 1735 per conto di Michelle III. La lista ben ci delinea la cospicua collezione d’arte di proprietà del nobiluomo, la quale era costituita da più di 400 pezzi fra opere d’arte di ogni genere e oggettistica di pregevole fattura.

Nella sezione “quadri diversi” molte delle tele rimandano ai grandi nomi della scuola veneta, molto apprezzata, e replicata anche sotto forma di copie dagli originali (come in uso all’epoca) come il Veronese, il Tiziano, il Bassano e il Salviati di cui la Terra d’Otranto come buona parte della costa adriatica fu terra d’approdo per la folta presenza di mercanti veneziani. In aggiunta troviamo i grandi artisti napoletani come il Solimena, il Giordano, il de Matteis, il Pacecco de Rosa o Jusepe de Ribera e una piccolissima sezione dedicata agli esponenti della scuola romagnola come il Guido Reni.

Di questa celebrata collezione sappiamo che il nipote Michele IV Juniore la trasferì in blocco a Napoli presso palazzo Cellamare, sontuosa dimora napoletana sita in via delle Chiae, e di proprietà della nobildonna Costanza Eleonora Giudice, vedova di Giovan Francesco, affittata fin dal 1755 dall’Imperiale per una cospicua somma di ducati. Di questa collezione, alla morte del Principe, sappiamo che venne smembrata e in parte venduta dagli eredi, nella fattispecie dal cugino Vincenzo Imperiale e di cui una piccolissima parte possiamo ancora ritrovarla nel nucleo principale della pinacoteca di palazzo Imperiale a Latiano.

(continua)

 

Per la prima parte:

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (prima parte)

Gli Imperiale e le loro residenze in Terra d’Otranto (prima parte)

Veduta di Francavilla (Carlo Francesco Centonze, 1643, disegno su carta, Napoli, Archivio di Stato)

 

di Mirko Belfiore

 

In Terra d’Otranto l’estensione dei possedimenti feudali durante l’età moderna raramente raggiunse dimensioni paragonabili a quelle godute nelle altre province del regno di Napoli, con una significativa eccezione rappresentata dalla signoria degli Imperiale, principi di Francavilla e marchesi d’Oria e Casalnuovo.

Tramite un’attenta e oculata strategia di compravendite, quest’ultimi seppero realizzare una delle aree di potere fra le più estese del Meridione, secondo alcune stime il quarto per ordine di grandezza. In origine fu David “eroe della battaglia dei tre Imperi”, giovane orfano di Andrea Imperiale, il quale dopo aver liquidato le pendenze con gli altri rami della famiglia a Genova e stipulato con il demanio spagnolo un pactum de retrovendendo, entrò in possesso delle terre di Oria, Francavilla e Casalnuovo insieme ai feudi di Paretalto, San Vito, li Mauri, Motunato e Comunale in aggiunta ai casali di San Giorgio ed Erchie.

Si tratta dunque, ed è qui che troviamo la rarità della vicenda, di un passaggio immediato all’investimento feudale senza le trafile militari dei Grimaldi e dei Doria o burocratiche degli Squarciafico, da parte di un figlio di banchieri che divenuto soldato e proprietario di galee si presenta dinanzi al Vicerè Cardinal Granvelle, esclusivamente per acquistarsi una proprietà. L’atto fu redatto il 18 marzo 1572 e il Re di Spagna Filippo II rinunciò ai diritti su quest’area per una cifra di poco inferiore ai cinquantamila ducati, un deposito di centoventicinquemila ducati per il feudo di Oria e uno di quattromila per la dogana di Puglia concedendo all’Imperiale il titolo di Marchese mentre in compensazione a una vecchia concessione, lo stesso David riconobbe al precedente feudatario il Cardinale Federico Borromeo una somma di dieci mila ducati.

Con questa operazione finanziaria, David garantì per sé e i suoi successori una sicura rendita economica su cui fondare la fortuna della dinastia e un punto di partenza per proseguire nel progetto di allargamento dei confini del feudo. Poco tempo dopo, durante la prima metà del XVIII secolo, il nipote Carlo incrementò i possedimenti familiari tramite l’acquisto del feudo di Latiano (1641), baronia che non rimase a lungo nelle sue mani perché la rivendette al fratello Giovan Battista (1654) e da cui prese vita uno dei rami cadetti.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Michele II, quarto Marchese d’Oria e primo Principe di Francavilla, portò avanti il progetto acquistando la cittadina di Massafra (1661) mentre a Michele III seniore si deve l’acquisizione dei feudi di Avetrana (1666), Maruggio, Sava, Modunato e Uggiano Montefusco (1715) e, qualche anno più tardi, delle terre di Carovigno e Serranova (1736). Agli Imperiale di Latiano, infine, si deve nel 1791 l’acquisto del feudo di Mesagne.

Tutti questi possedimenti riconfluirono nel Demanio alla morte senza eredi di Michele IV juniore (1782) il quale lasciò i suoi averi al cugino di terzo grado Vincenzo il quale da subito dovette affrontare in tribunale il Regio Fisco e quel Bernardo Tanucci, ministro delle finanze, intenzionato a eliminare quanto più possibile quella schiera di baronati locali ancora presenti nel Regno delle Due Sicilie e che secondo la sua visione impedivano pieno controllo territoriale al potere centrale di Napoli sulle province più periferiche come quella della Terra d’Otranto.

(continua)

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (1/7): Ostuni e Carovigno

di Armando Polito

Se l’amicizia reale si nutre anche di vicinanza fisica in omaggio al vecchio detto lontano dagli occhi, lontano dal cuore, quella virtuale, paradossalmente, sganciata in un certo senso dal tempo e dallo spazio, purché basata su comuni interessi e, pur nella diversità di alcune opinioni (da quelle religiose a quelle politiche), nel rispetto (che non significa accettazione) dell’altrui modo, qualunque esso sia (purché non delinquenziale …)  di interpretare la vita, può nutrirsi anche della segnalazione di un semplice link.

Per essere concreto: questa serie di contributi non ci sarebbe stata se l’amico, virtuale, napoletano Aniello Langella, titolare di un interessantissimo sito che invito tutti a visitare (http://www.vesuvioweb.com/it/), non mi avesse fornito, come già successo altre volte, la possibilità di entrare in contatto digitale con il testo da cui io ho solo tratto le immagini relative alla nostra terra  Il testo in questione è L’Italia descritta e illustrata Visione cinematografica 3000 fototipie, Sonzogno, Milano, 1909. Si tratta della seconda edizione; la prima era uscita nel 1908, preceduta nel 1907 da un‘edizione speciale per gli abbonati del secolo. Delle 1000 pagine di cui il volume consta, quelle dalla p. 839 alla p. 854.

Laddove ho potuto, per certezza dell’identificazione e facilità di reperimento del materiale necessario, ho accoppiato ad ogni immagine antica la corrispondente contemporanea.

Ricerche di questo tipo vivono dell’apporto di appassionati e studiosi locali: per questo io, che sono di Nardò, sarò grato a chiunque vorrà integrare questo contributo con foto che attestanti lo stato attuale dei luoghi.

OSTUNI: la concattedrale

 

CAROVIGNO: Il castello

 

 

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Storie di lupi mannari. Dall’antica Grecia al Salento

di Paolo Vincenti

Nel 2006 Annu novu Salve vecchiu ha compiuto vent’anni. Sulla copertina del primo numero, un disegno di Vito Russo ritraeva una befana che volava nel cielo di Salve, illuminato da una bellissima luna piena, che era legata ad un filo da un fanciullo (forse il giovane pittore), il quale, seduto su una terrazza con due comignoli fumanti, voleva come tirar giù dalla luna, con la sua corda di aquilone, i sogni; e allo spettacolo assisteva sorniona una gatta, forse tramutazione di qualche invidiosa megera del paese1 .

Già dal primo numero, l’autore della copertina aveva voluto rappresentare Salve nel suo aspetto più nascosto e suggestivo, quello magico e misterioso dei miti e delle leggende di cui Salve, più di ogni altro paese del Capo di Leuca, è ricchissima.

A distanza di quasi dieci anni da quel primo numero, frutto più della scommessa di un gruppo di giovani amici e “ardimentosi” salvesi che di un calcolato progetto editoriale, nel 1995, Antonio Vantaggio dava alle stampe Salve-miti e leggende popolari (Edizioni Vantaggio), una summa di tutte le leggende popolari (arricchita da qualche racconto partorito dalla fervida fantasia del poeta Carlo Stasi) fino ad allora conosciute su Salve.

Anche in questi vent’anni di vita del periodico, numerosi e tutti pertinenti sono stati i contributi sulle tradizioni orali e sugli aspetti folklorici, magici e leggendari della terra di Salve, da parte dei collaboratori di Annu novu. Ricordiamo, allora, la leggenda della Vergine del SS. Rosario; la leggenda del ritrovamento dell’immagine della Madonna delle Gnizze; quella del Monastero dei Frati Cappuccini e del miracolo del grano; la leggenda della Grotta delle Fate, che si trova in quello che è forse il luogo più emblematico della campagna di Salve, cioè la zona dei Fani, custode di mille storie fantastiche tramandate di padre in figlio, oltre che delle stesse origini di Salve; e, alle mitiche origini di Salve, sono collegati anche la leggendaria Cassandra e Lombardello; leggende di satiri e ninfe ai Fani; di sacare castimate; la leggenda del tempietto di Giano e della venuta di San Pietro a Salve; le leggende sulle Vore di Barbarano; la leggenda del coro della chiesa Matrice e di don Giuseppe Valentini; le infinite storie e storielle fiorite intorno al periodo delle incursioni turche e barbaresche sulle coste salentine; leggende di streghe nei pressi del grande carrubo sulla vecchia strada per Ugento; la leggenda dell’acchiatura e quella del monaco corrotto e della sua maledizione scagliata sul paese; la leggenda della nave di Pirro arenata a Torre Pali; quella dell’Isola della Fanciulla; la prodigiosa operazione di sincretismo religioso operata intorno al culto di Santa Marina di Ruggiano;  la leggenda delle secche dei Cavaddhi e quella dell’organo Olgiati-Mauro2.

Inoltre, ci si è occupati dei monicheddhi, bizzarri spiritelli della casa, dell’orco e della catta scianara, che sono ricordi ancora molto vivi nell’immaginario collettivo dei nostri anziani.3

Questa volta ci occupiamo di un’altra figura mitica, ancestrale, spauracchio di intere generazioni di grandi e piccini, protagonista incontrastato delle notti di luna piena: il lupo mannaro.

“Vengono chiamati Lupi Mannari, nei testi di Stregoneria, quegli uomini e quelle donne che sono stati trasformati o si trasformano in lupi; ovvero quelli che si travestono per fingere tale trasformazione talvolta credono – per un’abominevole forma di follia- d’essersi effettivamente cangiati in lupi, e di tali belve prendono le abitudini e i costumi. L’espressione francese Loupsgarous vuol dire loups dont il faut se garer: lupi dai quali ci si deve guardare.” Così descrive i lupi mannari,

Jacques Collin de Plancy, erudito francese dell’Ottocento, esperto di tradizioni popolari, agiografia, demonologia, occultismo, nella sua monumentale opera Dictionnaire Infernal. In quest’opera, nella sezione dedicata alla licantropia, de Plancy fa una rassegna dei più importanti testi letterari sui lupi mannari, passando in rassegna Pierre Delancre, autore di due opere dettagliatissime sull’argomento: L’incredulitè et ècreànce du sortilège pleinement coinvaicues e Tableau de l’inconstance des mauvais anges et dèmons, del Seicento; Jean Bodin, giureconsulto e demonologo angevino,autore, nel 1591, del celebre trattato Dèmonomanie des sorcies; i Discorsi della licantropia, o della trasmutazione di uomini in lupi, trattato del 1599 di Jacques Rickius;  il romanzoPersilete e Sigismondo, ultima opera di Cervantes; il trattato Lycanthropie, del 1615, diJ. De Nyauld, che chiamava questa malattia “follia lupesca” o “licaonia”; la leggenda di Licaone, descritta da Ovidio nelle Metamorfosi; la leggenda di Bisclavret, il lupo mannaro bretone, descritto, tra gli altri, da Maria di Francia nei suoi Lais del 1160; la Topographia Hibernica di Giraldo di Cambria (1147-1223) sui lupi mannari di Ossory; la leggenda sugli irlandesi San Patrizio e San Natale che avrebbero dato origine alla stirpe dei lupi mannari in Irlanda; Jules Garinet,  autore delle Histoire de la Magie en France, del 1818; e così via 4.

Il termine “licantropia” deriva dal greco lykos, “lupo” e  antropos, “uomo” e fin dalle culture primitive il lupo, che minacciava il gregge, unica fonte di sostentamento in un’economia basata prevalentemente sulla pastorizia, era considerato una creatura malefica dalla quale guardarsi. Risale quindi alle civiltà primitive il mito della trasformazione dell’uomo in lupo. La radice indoeuropea wer ci porta all’inglese werewolf , per “lupo mannaro” e al tedesco werwulf.

Frequentissimi sono i riferimenti alla licantropia da parte degli autori greci e latini. Ne parlano Erodoto, nelle sue Storie5  e Petronio Arbitro che, in una delle parti più divertenti del suo Satyricon, la Cena Trimalchionis, fa parlare Nicerote il quale confessa a Trimalcione di avere assistito alla trasformazione di un militare in lupo mannaro6. Virgilio, nell’Eneide7,parla di uomini trasformati in lupi dalla Maga Circe e nelle Bucoliche8, il pastore Alfasibeo canta della trasformazione di Meri in lupo grazie ad alcune erbe donate da una maga. Anche Pomponio Mela parla di licantropia nel De situ orbis9, e così Properzio che, nelle Elegie, parla della maga Acantide, capace di trasformarsi in lupo mannaro10.

Nella mitologia greca, Licaone (da lukos, “lupo”) era il capostipite dei Pelasgi ed il fondatore, sul Monte Liceo, della prima città, Licosura, e questo personaggio si identificava, per via del suo nome, col lupo. Del mito di Licaone, come uomo-lupo, parla Pausania11, e anche Licofrone12 e Igino13,  che raccontano la leggenda secondo la quale Giove si reca in incognito a far visita a Licaone; questi, incerto della natura umana o divina del suo ospite, decide di sottoporlo ad una prova e gli offre da mangiare le carni di un suo figlio che aveva squartato (chiaro riferimento alla pratica della antropofagia, all’epoca ancora presente nella cultura delle popolazioni primitive). Ma il Padre degli dèi si adira per tanta efferatezza e incendia con le sue folgori la reggia di Licaone e lo trasforma in lupo.Del mito di Licaone, parla anche Ovidio nelle sue Metamorfosi14. Secondo la vastissima bibliografia sull’argomento, a Licaone vengono anche attribuiti, come figli, Enotrio, Peucezio e Iapige ai quali si deve la fondazione del nostro territorio salentino15. Plinio, nelle Storie Naturali16, racconta che il pugile Demeneto, avendo sacrificato a Giove Attico un bimbo e mangiatone le interiora, venne trasformato in lupo e tale restò per nove anni; solo al decimo anno poté ritornare uomo e vinse la gara di pugilato a Olimpia.

Zeus e Licaone in un’incisione del Goltzius

Si voleva, con queste storie fantastiche, riportate anche da Pausania, e da Platone17, dare degli insegnamenti, cioè ammonire gli antropofagi Arcadi a lasciare quei vecchi e cruenti riti: infatti, per espiazione, in Arcadia, ogni anno, bisognava estrarre a sorte un membro della comunità, che veniva immerso nelle acque e ne usciva trasformato in lupo; così doveva vagare per nove anni in aspetto ferino e, solo se si fosse astenuto dall’antropofagia, al compimento del decimo anno, avrebbe recuperato le proprie sembianze umane. Nel bosco sacro dedicato a Giove, sul Monte Liceo, infatti, i primitivi fedeli compivano anche sacrifici umani, in onore della divinità;  Lykaion,  “territorio del lupo” era chiamato questo bosco sacro  che si trovava sul Monte Liceo, ad Atene  e, particolare interessante, proprio da questo bosco, dove Aristotele usava tenere le sue lezioni, deriva il termine “liceo” .

Secondo la mitologia greca, Febo e Artemide, divinità legate al sole e alla luna, erano stati partoriti da Latona trasformata in lupa18.  Anche il dio solare Apollo era venerato con il titolo di Liceo (Lykaios), analogamente allo Zeus Liceo venerato nell’Arcadia.

Il lupo è una figura centrale anche nell’antica Roma: infatti, “figli della lupa” si definivano gli antichi Sabini e proprio da una lupa, secondo la leggenda, erano stati allattati i due divini gemelli, Romolo e Remo, fondatori dell’Urbe.

Nell’antica Roma, a febbraio, si tenevano i  Lupercali, feste dedicate al dio Luperco, che si riteneva fosse il protettore delle greggi dall’assalto dei lupi19.  I Lupercali si tenevano nei pressi della grotta sacra a Luperco, che si trovava ai piedi del Palatino, ed era la grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo. Durante queste feste, i sacerdoti del dio, i  luperci,  nudi, correvano per la città e sferzavano con le loro verghe, rivestite da pelle di montone, le donne fertili che, una volta colpite, sarebbero state fecondate entro l’anno20. Tutte le celebrazioni a Roma si svolgevano in periodi particolari, sempre legati ai ritmi della terra e della vita agricola, per propiziare qualche evento particolare. Quella dei Lupercali era una festa tesa a propiziare la fecondità della terra, ma anche degli animali e degli uomini, alle porte della primavera, quando tutta la natura si risveglia.

Al dio arcaico Luperco venne a sostituirsi poi, nella Roma più evoluta e civilizzata, il dio Fauno21, anch’egli protettore delle greggi ed anch’egli un dio selvaggio ed agreste, creatura dei boschi,  simile al dio Silvano, protettore della foresta (silva). Questa natura selvatica del dio venne conservata anche durante l’età augustea, cioè nel periodo di massimo splendore e fioritura artistica e letteraria di Roma.

Però, in seguito a quel processo di penetrazione della cultura greca nella civiltà romana, noto come ellenizzazione, venne importato in Roma il corrispettivo greco del dio Fauno, cioè Pan, il dio pastorale dell’Arcadia22, dalle piccole corna e dal piede caprino, che spaventa le ninfe e se ne va in giro per il bosco suonando allegramente la sua siringa (strumento che, proprio da questa figura mitologica, verrà chiamato flauto di Pan). Essendo Innus, cioè colui che “penetra”, questo dio è sempre pronto ad accoppiarsi promiscuamente con tutti i frequentatori del bosco, ed essendo Fatuus, cioè colui che “parla”, può anche vaticinare, cioè preannunciare buona o cattiva sorte, proprio come un oracolo, a colui che lo sta ad ascoltare, come dice Virgilio nell’Eneide23.

I Lupercali furono una ricorrenza molto importante  e il culto del dio Fauno- Luperco era molto sentito, soprattutto nel Sud. Tale culto continuò ad esistere anche dopo l’avvento del Cristianesimo sia pure sotto altre mutate forme. Retaggio dei culti pagani, comunque, furono i sacrifici cruenti di molti animali e fra questi, il maiale, che venne sacrificato al cristiano Sant’Antonio Abate. Come afferma Giuseppe Interesse24, Sant’Antonio Abate divenne il corrispettivo cristiano del dio Fauno- Luperco e nel suo culto veniva immolato un maialino, come rito sacrificale. Il porco, infatti, era l’allegoria di Satana che, nel deserto dell’Egitto, aveva tentato l’umile anacoreta cristiano, ed immolare questo maiale significava scacciare Satana ed il peccato. Ma su questo particolare agiografico, che non è  irrilevante ai fini della nostra trattazione, torneremo in seguito.

Per quanto riguarda il nostro tema, la saga dei racconti sui lupi mannari è molto diffusa, nel Medioevo, soprattutto nei paesi nordici: una delle più antiche saghe sui lupi mannari è la islandese Volsung saga 25. In Francia, il tema dei lupi mannari è  presente nei Lais di Maria di Francia, per l’esattezza nel Lai du Bisclavret, lupo mannaro inventato dalla poetessa francese che ricompare in altre opere successive come il Lai de Melion, del 1300, di autore ignoto, il Roman de Renard e il Roman du Renard contrefait , del 1300, sempre nel ciclo bretone; e poi, nel ciclo britannico, nella Narratio de Arturo rege Britanniae et de rege Gorlagon lycanthropo e nella leggenda di Hugues26.

Il tema è anche presente nella tradizione celtica: infatti, proprio il patrono dell’Irlanda, San Patrizio, contende a San Natale Abate, pure molto venerato in quel paese, il primato di aver dato origine alla stirpe dei lupi mannari irlandesi. La leggenda è riferita dal Kongs Skuggsjo, o Specchio dei re, opera norvegese in forma di dialogo del 125027, in cui si racconta che San Patrizio, irritato dagli irlandesi che non volevano convertirsi alla religione cristiana, lanciò loro la maledizione di trasformarsi in lupi mannari, mentre Giraldo di Cambria, nella già citata Topographia Hibernica, attribuisce la stessa tremenda vendetta a San Natalis che trasforma gli abitanti di Ossory in licantropi.

G.Chiari 28 riporta numerosi casi di licantropia, verificatisi nel Cinquecento, in Prussia e in Lituania, in Italia, in Livonia, in Francia, ecc. Il  termine “lupo mannaro” deriva dal latino lupus homenarius, vale a dire “lupo che si comporta come un uomo”.

Ricordiamo che  Lupiae è anche l’antico nome della città di Lecce. Infatti, Luppiòti, (da Luppìu), venivano chiamati in passato gli abitanti di Lecce.

Il medico Galeno (131-200 d.C.) è autore di  un trattato scientifico medievale, Sulla melanconia, in cui, nel III Capitolo, suggerisce dei rimedi terapeutici contro la licantropia, che egli definisce morbo lupino. Così anche Marcello di Sida, medico del III secolo, Oribasio, del IV secolo (Synopseos ad Eustathium filium lib.novem, nel cap.VIII: De lycanthropia quum homines luporum naturam imitantur)Ezio di Amida, del VI secolo (Contractae ex veteribus medicinae tetrabiblos, nel cap.II: De insania lupina aut canina appellata, ex Marcello), Paolo di Egina, del VII secolo (De re medica, nel cap. III: De Licaone, aut lycanthropia), Attuario, del XIII secolo (Medicus, sive De metodo medendi libri sex, nel cap. I: De cerebri dorsique medullae affectibus), i quali tutti cercano di dare una spiegazione psicopatologica del fenomeno licantropico29.

A partire dal Cinquecento, il lupo mannaro viene del tutto identificato come una creatura infernale, un diavolo, se non addirittura lo stesso “Principe dei diavoli”, che assume l’aspetto di un lupo in una delle sue varie manifestazioni. Molte sono le leggende che nascono sui licantropi e, per tutto il Seicento, si manifesta una terribile “caccia alle streghe” nei confronti di questi uomini-lupo, chiamati versipellis da Petronio, nel Satyricon, ossia  uomini che erano ricoperti da folti peli e cambiavano il loro aspetto durante le notti di luna piena.

La figura del Lupo Mannaro entra massicciamente anche nella letteratura mondiale di tutti i tempi, in racconti, romanzi, poesie, fiabe (come non citare, su tutte, l’immortale Cappuccetto Rosso di Perrault), trattati scientifici o pseudo scientifici, atti di processi, ecc.

Nella letteratura italiana,fra tutti, basta citare  Luigi Pirandello e la sua novella Mal di luna. Anche Carlo Levi parla di lupi mannari nel suo romanzo Cristo si è fermato ad Eboli, ambientato proprio in quella regione che, secondo la leggenda, dai lupi prende il nome di Lucania.

Ma perché si diventava licantropi? Vi erano svariati motivi: innanzitutto, per una maledizione, scagliata da Dio, in seguito a comportamenti particolarmente efferati, oppure perché si dormiva a volto scoperto sotto la luna piena; fra le cause, anche la coincidenza della data del concepimento con quella della nascita, cioè se un bambino veniva concepito la notte dell’Annunziata, 25 marzo, e nasceva il giorno di Natale, 25 dicembre, quel bambino sarebbe diventato sicuramente un lupo mannaro, innanzitutto perché le fasi lunari del novilunio e del plenilunio erano considerate portatrici di variazioni negative sull’uomo, e poi perché nascere lo stesso giorno in cui è venuto al mondo Gesù Cristo veniva considerato un atto empio, quasi che si volesse arrecare un’offesa alla divinità: così, anche chi veniva al mondo durante una festività importante, come la Pasqua, il Capodanno o l’Epifania, profanava un tempo sacro; inoltre, si trasformavano in belve le donne adultere30; chi veniva bagnato dall’acqua licantropica, raccolta nelle orme lasciate da un lupo mannaro, oppure  per il morso di un altro licantropo (analogamente a quanto avveniva per i vampiri), oppure ancora perché il prete, durante il rito del battesimo, aveva dimenticato qualche parola, o per aver stretto un patto con il Diavolo che, in cambio dell’anima, consegnava una veste di lupo, indossando la quale si subiva la mostruosa trasformazione.

Numerosi e molto fantasiosi erano anche i rimedi, come colpire in fronte il licantropo con un forcone oppure, se si trattava di una veste stregata, bruciare questa veste, per impedire che  l’uomo-lupo potesse subire altre trasformazioni; per i bambini nati durante la notte di Natale, bisognava incidere ogni anno, per tre anni, il piedino sinistro con un ferro arroventato; accecare il licantropo con una forte luce, che il mostro odia, o ancora, per mettersi in salvo, salire su una rampa di scale, che al licantropo sono vietate31.

Ciò detto, spostiamo la nostra attenzione dal generale al particolare e circoscriviamo il nostro interesse al fenomeno della licantropia a Salve. Diciamo subito, a costo di scoraggiare quei pochi lettori che avessero avuto la pazienza di leggerci fin qui, che i risultati delle nostre indagini sono veramente scarsi. In materia di licantropia a Salve, l’unica fonte in nostro possesso, e quella che ha destato la nostra curiosità, è il Vocabolario dei dialetti salentini di Gerard Rohlfs32, che, nel I Volume, pag. 303, attribuisce a Salve il termine lupu sularu, come sinonimo e/o variante di lupu mannaru, e rinvia al termine puercu sularu, che attribuisce a Carovigno.

Ora, il termine lupu sularu indicherebbe un licantropo che, invece di subire le sue trasformazioni di notte, si trasforma di giorno; ma che collegamenti ci possono  essere tra il lupo e il porco e tra la città di Salve e quella di Carovigno?

Possiamo affermare che, dalle fonti letterarie in nostro possesso, non si può escludere il caso, sebbene rarissimo, di lupi mannari che subiscano la loro trasformazione anche di giorno. A partire dalla cultura greca, il lupo era considerato un simbolo solare. Nell’etimologia di lukos, è presente la radice lik, da cui deriva il nome luce, lux in latino; il lupo è colui che vede al buio e quindi dissipa le tenebre. Successivamente, il lupo venne considerato una creatura d’inferno e conseguentemente identificato con le tenebre, che da sempre sono appannaggio del regno del male. Ma la doppia natura del lupo, solare e ctonia, si conservò nella cultura di tutti i popoli e delle civiltà europee fino all’avvento del Cristianesimo; basti pensare che la tradizione popolare collocava nelle ricorrenze di San Giovanni e di Santa Lucia il momento in cui i licantropi uscivano dai loro nascondigli e andavano in giro a terrorizzare i villaggi e le famiglie.

Infatti, il giorno di Santa Lucia era, prima della riforma del calendario, la data in cui veniva collocato il solstizio d’inverno e nel giorno di San Giovanni era collocato il solstizio d’estate, due momenti di passaggio, fra una stagione e l’altra, e questi momenti di ambiguità erano ben simboleggiati dal lupo mannaro, essere razionale ed irrazionale, contemporaneamente malvagio ( pensiamo alle favole di Esopo, “Superior stabat lupus..”) ed educato (pensiamo alla bellissima leggenda del lupo di Gubbio ammansito da San Francesco).

Il Cristianesimo ha contribuito a dare maggior valore a questa ambivalenza del lupo, a questa sua doppia natura, celeste e terrestre, al tempo stesso benedizione e dannazione per il mitico licantropo. Lo stesso Rohlfs, nel Volume Terzo- Supplemento repertorio italiano-salentino del suo Vocabolario, a pag.990, riporta il termine lìco per “lupo” ma anche per “macchia dei colori dell’arcobaleno sul cielo che annuncia un tempo freddo (dal greco lùkos)”; sempre a pag.990, lica e licàra per “lupa” e a pag.991, licuddi per “lupacchiotto”.

I lupi erano presenti nel territorio di Salve fino all’Ottocento. Aldo Simone dà notizia dell’ultimo lupo presente a Salve, presso la masseria delli Rutti, oggi masseria Cantoro, poi ucciso da un suo amico di Gemini presso la macchia di Rottacapozza33.

Nella leggenda della maledizione del monaco del Convento di Salve  (Salve vuol dire salvati…), fra le varie offese rivolte al paese dal frate cappuccino crapulone e corrotto, c’è anche quella di stare “in società amichevole d’orsi, pantere e lupi”34.

Per quanto riguarda il maiale, -e qui l’associazione con il lupo- ritenuto dai cristiani ricettacolo dello spirito immondo del demonio, anche un maiale mannaro avrebbe, in teoria, potuto subire la sua trasformazione di giorno anziché di notte e diventare quindi sularu invece di lunaru.

L’associazione fra Salve e Carovigno rimane invece del tutto inspiegabile. Secondo il Simone, il Rohlfs fece le sue ricerche sul campo, nel capo di Leuca, dopo la seconda guerra mondiale, quindi negli anni Quaranta. Il Vocabolario dei dialetti salentini è stato pubblicato per la prima volta nel 1956 dall’Accademia Bavarese di Scienze e Lettere di Monaco di Baviera, ma le prime inchieste sul campo, nell’area della Grecìa salentina, sono state condotte nel 1922.  E’ certo che, in quel tempo, le condizioni di vita di un borgo contadino come Salve fossero veramente precarie; la miseria tanta e la scolarizzazione scarsissima. In una comunità rurale, credenze,molto più facilmente suggestionabile da false credenze, è probabile che il Rohlfs si sia imbattuto in tantissime storie e storielle fantastiche spacciate per vere, o addirittura intimamente ritenute tali, dai poveri salvesi di mezzo secolo fa, che egli aveva intervistato durante le sue ricerche. Distrutti dalla fatica nei campi sotto la canicola, i contadini spesso raggiungevano una spossatezza tale che li portava  anche ad avere delle visioni, chiamate mutate, provocate dai fumi e dai vapori che d’estate, soprattutto nelle giornate umide di scrirocco, si alzano dal terreno. Il Rohlfs però aveva anche degli informatori locali che lo accompagnavano nelle sue indagini in loco. Nel Volume Primo del Vocabolario, a pag.10, l’illustre studioso tedesco ringrazia i collaboratori che nelle tre province del Salento (Lecce-Brindisi-Taranto) lo avevano aiutato a raccogliere i materiali dialettali: i comuni più vicini a Salve che compaiono in quest’elenco sono Alessano, per cui ringrazia il Dott.agr.Germano Torsello, e Miggiano, dove ringrazia l’Ins.Aldo Nichil. Purtroppo tutti e due questi intellettuali sono scomparsi. Dalla nostra indagine condotta nei mesi di settembre e ottobre a Salve e nei paesi del circondario, presso molti anziani del luogo, non siamo riusciti ad  avere nessuna notizia in merito a storie di lupi mannari o sulari nella zona.  Forse dobbiamo pensare, molto più prosasticamente, che si sia trattato di una svista, un errore da parte dell’illustre linguista dovuto alla fretta nella compilazione della sua opera, nel senso che egli abbia scambiato il termine lupu solitariu (molto diffuso ancora oggi ad indicare un uomo solitario che se ne va ramingo per le strade del paese) con il termine sularu. Anche questa ipotesi non convince perché, se si fosse trattato semplicemente di un errore, di ricezione o di trasmissione, da parte del Rolhfs, egli non avrebbe argomentato sul lupo mannaro che si trasforma con lo zenith anziché con il nadir. Che si sia trattato di uno sbaglio è invece convinto Gino Meuli che, nella sua opera I Dialetti del Capo di Leuca35, giunta alla terza edizione, traduce il termine sularu con “solitario, misantropo” e ci dice che il termine era utilizzato dai nostri avi semplicemente come uno spauracchio per mettere paura ai bambini e convincerli  a stare buoni.

A pag.994, del Terzo Volume del Vocabolario, Rolhfs aggiunge lupu surdu per “sornione” e poi riporta “lupu lunaru” per licantropo, e lupu sularu sempre per “licantropo” ma anche presente nei comuni di Castrignano dei Greci e Scorrano.

Il campo si restringe: forse, i pochi depositari di qualche aneddoto sullo strano fenomeno, con i quali Rohlfs è venuto in contatto, sono deceduti e non ne hanno lasciato memoria neanche ai loro discendenti. Ma noi non vogliamo rassegnarsi a questa ipotesi e continueremo le nostre ricerche sperando che, nel prossimo futuro, possano dare risultati più soddisfacenti.

(pubblicato in “Annu Novu Salve Vecchiu” n.16, Salve 2006)

 


1 Sul pittore e scultore salvese Vito Russo, tra i fondatori del nostro annuario, insieme ad Antonio Vantaggio ed Americo Pepe, vedi: Francesco Accogli, Vito Russo: uno scultore che onora il Salento,in “Annu novu Salve vecchiu” 2001, pagg.119-128 e Paolo Vincenti, L’arte di Vito Russo, Paese Nostro, febbraio 2006, pag.18.

2 Antonio Vantaggio, Salve-miti e leggende popolari,  Vantaggio Editore,1995.

3 Paolo Vincenti, Tra gatte, orchi e folletti, in Annu novu Salve vecchiu, 2005, pagg.211-219.

 4 Collin de Plancy, Dictionnaire Infernal, in “Storie di lupi mannari,” a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco  Newton Compton, 1994, pagg.1048-1056.

5 Erodoto, Storie, IV Libro, 105.

6 Petronio, Satirycon, Cap.62.

7 Virgilio, Eneide, VII, 15-20.

8 Virgilio, Bucoliche, VIII, 95-99.

9 Pomponio Mela, De situ orbis, II,1.

10 Properzio, Elegie, IV, 5,14.

11 Pausania VIII, 2.

12 Licofrone, 481.

13 Igino, Fabulae, 176.

14 Ovidio, Metamorfosi, I, 163 e ss.

15 Dionigi di Alicarnasso, riportato da F.G.Lo Porto, Civiltà protostoriche in Puglia, in “Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli”, a cura di Michele Paone, vol.I, Galatina 1972, pagg.13-23.

16 Plinio, Naturalis Historia, VIII, 80-83.

17 Pausania, op.cit.,, e Platone, Repubblica, VIII, 15, 565 d.

18 AA.vv. La mitologia classica, Edizioni Studium Roma, 1987, passim.

19 Luperci, quindi, da lupum arceo, erano  coloro che difendevano dal  lupo.

20 AA.vv. La mitologia classica,op.cit., passim.

21 Ricordiamo che proprio a Salve molti studiosi hanno ipotizzato l’esistenza, nell’antichità, di un culto del dio Fauno  e di un tempietto dedicato a questa divinità in zona Fani, che, secondo una etimologia, peraltro molto controversa, deriverebbe il suo nome proprio dal dio Fauno, piuttosto che, come propongono altri, da fanum, cioè “fano, delubro”, ossia tempio pagano.

22 Jacqueline Champeaux, La religione dei romani, Il Mulino, 1998, pagg.31-32.

23 Virgilio, Eneide, VII, 81-106.  Ricordiamo che  il dio Pan e gli  altri mitologici abitatori della foresta popolano, a Salve, molte leggende sorte intorno alla zona dei Fani dove, in passato, numerosi contadini e pastori erano pronti a giurare di avere assistito al passaggio di quel colorato e rumoroso corteo di inquietanti esseri che attraversavano la foresta: oltre al Dio Pan, i satiri, le ninfe, che sono le sorelle greche delle linfe romane, le napee, che si trovano soprattutto nei piccoli boschi, e le naiadi,ossia le ninfe delle acque, che cantano nelle sorgenti (Servio afferma che non c’è sorgente che non sia sacra alle naiadi . Servio, Commento all’Eneide, citato da J.Champeaux, op.cit., pag.33).

24 Giuseppe Interesse, Puglia mitica, Schena editore 1983, pag.12.

25 Volsung saga ok Ragnarssaga Lojbroka, a cura di M.Olsen, 1908, capp.V-VIII.

26 G.Chiari, Il lupo mannaro, in  “Mal di luna”, di G.Lutzenkirchen, G.Chiari, F.Troncarelli, M.P.Saci, L.Albano, Newton Compton 1981, pag.62.

27 G.Chiari, op.cit., pag.63.

28 G.Chiari, op.cit., pag.64.

29 G.Chiari, op.cit. pagg.66-67.

30 Poche sono le figure conosciute di donne che si trasformano in lupi mannari, il che non esclude però che anche il gentil sesso possa subire la fatale trasformazione. Nella mitologia greca, la lupa Mormolice, nutrice di Acheronte, il fiume dell’Oltretomba, era considerata un demone femminile che aveva il potere di rendere zoppi i bambini disobbedienti (Ugo Bianchi, La religione greca, Utet 1975, passim) e numerosi sono, soprattutto nel Seicento, i casi di streghe, dette lupe mannore, che assumevano l’aspetto di lupi.

31 Storie di lupi mannari, op. cit., pagg.13-14.

32 G.Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, 1976.

33 Aldo Simone, Salve, storia e leggende, Milano 1981, pag.182.

34 A.Vantaggio, Salve-miti e leggende popolari, op.cit., pag.47.

35 Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca (Grafiche Panico 2006), pag.277.

Carovigno e il lancio della nzegna

di Raimondo Rodia

I santi protettori di Carovigno sono San Giacomo e San Filippo che, però, vengono ricordati ormai solo religiosamente, mentre viene festeggiata la Madonna del Belvedere.

Elemento centrale della festa è la cosidetta battitura: il lancio in aria della “nzegna” (l’insegna mariana).

La battitura viene fatta ormai da circa sessant’anni dalla famiglia Carlucci che apre la gara tra chi lancia meglio e più in alto le variopinte bandiere.

La Vergine Maria è conosciuta in paese anche come Madonna del Mangia-Mangia, per il grande banchetto che una volta si faceva in piazza a cui partecipava tutta la popolazione. L’usanza era nata dal ritrovamento miracoloso dell’immagine della Madonna del Belvedere grazie ad una mucca che venne ritrovata in fondo ad un burrone inginocchiata nei pressi della grotta dove su di un masso vi era affrescata l’immagine della Madonna.

Da questo episodio nasce anche il lancio della “nzegna” che si riferisce al grido di gioia del mandriano che ritrovò la mucca: l’uomo, infatti, aveva preso un fazzoletto e lo aveva lanciato in aria, come ora si fa con le bandiere di Carovigno nel giorno della “nzegna”.

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