Il Carnevale in 7 stampe antiche

di Armando Polito

– Felice il paese che non ha bisogno di eroi! -, faceva esclamare Bertold Brecht al suo Galileo. Mi permetto di adattare quello che è ormai un aforisma esclamando nel mio piccolo: – Felice quel paese che non ha bisogno di feste e di giornate !-.

Tra quelle dedicate alla famiglia, ai cani randagi, al vino, alla cotoletta, alla parrucca, al lampascione, a … chi più ne ha ne metta, fra poco sarà necessario, a meno di non stravolgere il calendario astronomico dilatando la durata dell’anno oltre i 365 giorni, inglobare la celebrazione di due o tre eventi prima distinti in un unico spazio temporale; insomma, due o tre giornate in un solo giorno.

La cosa più paradossale, almeno per me, è che questo bisogno di celebrazione nasconde una scarsa condivisione, se non una perdita di valori da un lato e, dall’altro, la pericolosissima, esiziale illusione di essersi messo in pace la coscienza. Insomma, sempre secondo me, quanto più celebriamo tanto più la nostra umanità va a rotoli.

Eppure basterebbe dopo la celebrazione ufficiale, istituzionalizzata, alla cui cronologia non puoi sottrarti, prolungare ciascun ricordo, possibilmente più di uno per volta, vivendolo o vivendoli intensamente, oltre il breve spazio di 24 ore. Naturalmente tale privilegio andrebbe riservato ai valori autentici tra i quali inserisco senza dubbio la famiglia, i cani randagi e lasciando da parte (nessuno può immaginare quanto mi costa …) il vino, la cotoletta e simili.

Spero con questa premessa di ridimensionare il legittimo primo commento alla lettura del titolo, condensabile in queste battute: – E questo che vuole, ci viene a parlare in ritardo del Carnevale; è proprio un ritardato! -.

Ritardatario o ritardato che sia, chi vuole mi segua in questa presentazione di stampe tutte custodite nella Biblioteca Nazionale di Francia, che qui riproduco per esigenze tecniche in formato ridotto, ma che l’appassionato può contemplare in alta definizione sfruttando il link che troverà in calce a ciascuna di loro. Appartenevano tutte alla collezione di Michel Hennin (1728-1807).

 

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b6944967g.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84063518.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8412939x.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84136255.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8410615v.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8408830f.r=carnaval

http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b84101421.r=carnaval

Fra chiacchiere e sanguinaccio, I dolci tipici del Carnevale tarantino

chiacchiere carnevale

 

di Angelo Diofano

Carnevale è nel pieno dei festeggiamenti, anche se, in verità, non è che sia rimasta tanta voglia di “pazziare”. Una festa più per i bambini, occasione per sfoggiare un bel costumino nei veglioni loro dedicati oppure nei vicini corsi mascherati di Massafra o Putignano. Con il rimpianto, per i più grandi, rivolto ai grandi appuntamenti che un tempo, ormai lontano, si tenevano nei saloni de “La Sem” (il popolare Gran Caffè di via D’Aquino angolo via Giovinazzi, dove ora malinconicamente agisce una banca), al Circolo Ufficiali o al “Gambero”.

Resistono nella tradizione i dolci tipici di questo periodo. Fra questi non si può non citare il sanguinaccio, nella cui preparazione la pasticceria “Principe”, al Borgo, sfoggiava (e lo fa ancora) il meglio di sé. Che ghiottoneria quella bella crema densa, dolcissima, talvolta impreziosita da canditi, venduta in bicchierini di plastica. Un tempo il cioccolato, ingrediente base del dolce, veniva mescolato a sangue di maiale fresco di macellazione, che conferiva un inconfondibile gusto acidulo e che rendeva particolare la specialità. Ora se ne fa a meno, a causa di provvedimenti in materia di igiene emanati negli anni Novanta. Peccato, infatti non risulta che in passato quell’ingrediente abbia fatto male a qualcuno. E del sanguinaccio tipico, così, è rimasto soltanto il nome.

Un po’ in disuso i confetti ricci, che nelle feste in maschera venivano distribuiti a manciate fra i bambini. Continuano ad andare bene le chiacchiere, in altre regioni dette cenci, straccetti, frappe o frappe. Si tratta di dolci molto friabili, a base di impasto di farina, con i bordi frastagliati. La cottura avviene tradizionalmente mediante frittura; alcuni le preferiscono al forno: saranno più leggere ma non è la stessa cosa. Ah, si dimenticava la spruzzatina con lo zucchero vanigliato, ma senza esagerare onde evitare imbiancature alle “mise”. In ogni caso il danno è lieve: un colpo di mano e tutto si rimette a posto.

C’è, ancora, chi si misura con la preparazione del calzone alla tarantina, nel cui ripieno il gusto del ragù s’incontro con quello dolce della ricotta. Una prelibatezza che, in versione maxi (e anche midi, se vogliamo), basta per un intero pranzo. E poi, fra un ballo e l’altro, per concludere il cenone di martedì grasso, come dice Claudio De Cuia nella poesia “L’ùlteme spijùle de carnevale”: …”p’u dolce, a scelta vostre/ cumbijtte ricce cu bbabbà e amarètte/ e cu nò sia culostre,/ ‘nu bicchierine ràse d’anesètte”,/ miènze cafèje e ‘nguarche bucchenotte/ cu tire ‘nnande ‘nzigne a menzanotte,/ ca ‘a Senza-Nase fra ‘nu pare d’ore/ da o’ Cambanòne me sòne ‘a Foròre”.

L’indomani, Mercoledì delle Ceneri, inizierà la Quaresima, con tutte le sue privazioni. E la carne dovrà essere sostituita dalla verdura, come d’altronde dice un popolare proverbio tarantino “Carnevale mije cu le dogghie, osce maccarrùne e crèje fogghie”.

Salento: a Carnevale, quell’antico omaggio alla promessa sposa

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di Rocco Boccadamo

 

Crisi o non crisi, viviamo canonicamente il tempo di Carnevale, come, maschere e coriandoli a parte, attestano, muti ma accattivanti nelle vetrine dei bar, i vassoi di frappe, chiacchiere e castagnole spruzzate di candido zucchero a velo: nota di colore distintiva del periodo, conforme alla tradizione e, insieme, durevole anche nell’attualità.

E, però, nella mente del comune osservatore di strada che scrive, l’evento del Carnevale trova posto anche e soprattutto alla stregua di scrigno di suggestioni e ricordi passati, che hanno il pregio di mantenere pieno e immutato il sapore di dolcezza, addirittura più gustoso dei richiamati prodotti di pasticceria modaioli.

marittima castello

Sulla via principale del paese natio, Marittima, circa duemila anime, insiste tuttora, sebbene parzialmente rammodernata, una signorile dimora d’epoca, recante, non a caso, sul frontespizio, alla sommità del portone d’accesso nell’aggraziato atrio cortile, uno stemma araldico scolpito su un cubo di pietra leccese.

Nei secoli scorsi, tale edificio – inizialmente, forse, di struttura più ampia e articolata – ha costituito, a lungo, la dimora dei nobili del posto, insigniti del titolo di barone; in particolare, durante il periodo risorgimentale, ha visto nascere e crescere un personaggio, distintosi e assurto a fama non solo per il suo lignaggio, ma anche e soprattutto come patriota irredentista, al seguito di eminenti figure storiche quali Santorre di Santa Rosa, Mazzini, Manin e Cavour.

Procedendo nel tempo e fissando il calendario pressappoco intorno a un’ottantina d’anni addietro, la casa in questione è poi pervenuta, diventandone l’abitazione, a una locale famiglia benestante di proprietari terrieri e gente dabbene, composta anche da una ragazza.

Detta giovane, arrivata la stagione “giusta”, si era fatta “zita” (allora, l’accezione fidanzata non esisteva per niente nel vocabolario del paese), praticamente era stata promessa in sposa a un giovane, pure appartenente a famiglia di possidenti agricoli, residente in un altro piccolo paese, a otto/nove chilometri di distanza.

Non vi erano, ai tempi, automobili, né motocicli, semmai appena qualche bicicletta, sicché – a parte i rispettivi impegni, continui, in casa o nei campi – per la coppia, le occasioni d’incontrarsi erano infrequenti.

Certo, esisteva la possibilità di scambiarsi lettere, c’erano le visite incrociate, con familiari al seguito, per le ricorrenze, come Natale, Pasqua, le feste patronali, i compleanni e gli onomastici e però, dopodiché, basta.

Nella piccola cornice di cui anzi, mi piace ricordare una singolare iniziativa adottata dallo “zito” in discorso, nell’intento di offrire un gesto di devozione, riguardo e gentilezza alla sua “promessa”.

Ogni anno, a Carnevale – in gergo dialettale, Mascarani – il predetto era solito organizzare, preparare e allestire nel suo paese, con l’aiuto di parenti e amici, una carovana, o corteo come si appella oggi, di carri agricoli, calessi e “sciallabbà” trainati da cavalli, nonché di equini sellati e cavalcati liberamente, il tutto agghindato mediante fiori, foglie, rami con appesi i frutti della stagione e altri ornamenti colorati, a fare da pendant agli appositi costumi, acconciati alla buona, dei guidatori e cavalieri, dal volto coperto da rudimentali mascherine realizzate a mano, con carta o cartoncino, e più o meno dipinte.

Ciò fatto, ecco tale carovana muoversi in direzione di Marittima e attraversare lentamente il paese, soprattutto la via principale dove si affacciava la casa della nubenda in pectore, la quale ultima, evidentemente compiaciuta, si poneva al balcone a ricevere l’insolito, se non esclusivo, omaggio da parte del futuro marito.

L’iniziativa arrivava a rivestire, ogni volta, carattere d’eccezionalità collettiva, posto che l’intera popolazione vi assisteva con partecipazione, coinvolgimento e gioia.

Non c’è che dire, piccole manifestazioni semplici e spontanee d’anni lontani, aventi però all’origine, indiscutibilmente, un’innata e genuina nobiltà interiore e, quindi, denotanti un’anima di vitalità tale che, contrariamente a quanto succede per la maggior parte delle cerimonie e dei riti attuali, non si spegne per nulla con lo scorrere del tempo.

All’autore di queste note, all’epoca dei fatti piccolo spettatore con i calzoncini corti, piace, di tanto in tanto, riviverne le immagini.

Del resto, gli sono sempre rimaste presenti le sembianze della coppia e infine, di recente, nello scorgere su un muro del paese le abbreviazioni N.H. davanti al nome e cognome di lui, oltre a sgorgargli dentro un profondo sentimento di buon ricordo, apprezzamento e condivisione, gli si è affacciata l’idea che l’antico giovane, da lassù, nel periodo dei “Mascarani”, non mancherà di seguitare puntualmente a preparare il corteo di carri, cavalli e cavalieri per la sua sposa.

 

Carnevali magliesi di fine Ottocento: tonnellate di confetti sulla fame dei poveri

di Emilio Panarese

Nel periodo di Carnevale, a cominciare dalla seconda decade di gennaio, c’era in Maglie, alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900, la consuetudine di tenere nelle proprie case delle festicciole con musiche, balli mascherati e rinfreschi o, come si diceva allora, dei pubblici festini. Chi voleva dare queste pubbliche feste doveva chiedere la licenza al sindaco che la concedeva a condizione che non si praticassero giochi di qualsiasi sorta, che non si somministrassero vini o liquori e che i balli non si protraessero oltre la mezzanotte. Il prezzo d’ingresso oscillava da 15 a 20 centesimi.
La media borghesia preferiva, invece, le veglie danzanti, nell’angusto teatro P. Cossa all’extramurale di levante del nuovo borgo (poi Via Mazzini) la cui suppellettile l’intraprendente e coraggioso cittadino Giuseppe Romano (Nnonnu) aveva acquistato dal carpentiere magliese Pantaleo Rainò.
A questi veglioni, di cui era attivo animatore Stefano Ricci, i nostri buoni borghesi accorrevano numerosi, attratti dal buffet squisitissimo e dalle ottime musiche. Per allettare i magliesi a comprare la tessera di lire cinque, che dava diritto all’ingresso al teatro per tutta la durata del Carnevale, don Peppe Nonnu, che nel campo delle iniziative, delle ardite imprese non era secondo a nessuno, aveva escogitato di far girare per le vie della città nelle ore pomeridiane un gran carro, rappresentante il Carnevale, che verso sera faceva il suo ingresso trionfale nel teatro, addobbato elegantemente per l’occasione.
I ricchi proprietari, i professionisti, la gente bene insomma poteva invece sfrenarsi nelle otto sale del circolo (dell’Unione), addobbate per l’occasione con finissimo gusto o, meglio, gustare, i più fortunati, le splendide feste in casa del senatore e della contessa Tamborino-Frisari o in quella di Arcangelina Cezzi e Donato Mongiò: tutte le domeniche essi li accoglievano ospitali nell’ampio salone e nei decorati salotti dove tante belle signore e tante graziosissime elegantissime signorine sino all’alba, mai stanche di intrecciare quadriglie e valzer e polke dopo la succulentissima cena di svariati piatti di ostriche, di pasticcetti di carne, di galantina di tacchino, di arrosti saporiti di vitello innaffiati con Tokaj sincero e di stravecchi vini scelti, di liquori, di champagne e di caffè.

Per qualche altro ricco proprietario il carnevale è anche l’occasione propizia per fare sfoggio di beneficenza come quello offerto l’ultimo giorno del febbraio del 1897 dall’avv. Raffaello Garzia nei locali del’Ospedale M. Tamborino, gentilmente concessi dalla Congregazione di Carità, a ben 200 poveri e servito con squisito pensiero da signore e signorine magliesi.

Nelle ultime due domeniche e nei due ultimi giovedì (dei cumpari e di sciuvedìa crasseddu) ma specialmente nell’ultimo giorno, il martedì, i vicoli della periferia e le vie del centro storico erano attraversati da allegre brigate di cittadini in maschera, da carri graziosamente addobbati, ma anche da rustici carretti con fantocci di paglia e goffe maschere imitanti i mestieri e i personaggi più in vista del paese.

Ma ciò che attirava maggiormente il popolino, assolvendo in un certo qual modo ad una funzione ludico-aggregativa e dando quel qualcosa che doveva sbalordire, era la sfilata degli eleganti carri dei ricchi proprietari del luogo, che dalla periferia richiamavano in piazza una folla numerosa anche dai paesi vicini. Per dare un’idea di come venisse festeggiato a Maglie il Carnevale, alla fine dell’800, abbiamo stralciato da “L’avvenire” del 1 marzo 1897 (I,6) la seguente cronaca:
Verso le 17 si aprì il corso col piccolo ma bellissimo ed elegante carro dei sigg. Gennaro Starace e Pietro Miglietta. Era un canestro di vaghissimi fiori da cui essi uscivano pieni di brio, gettando fiori e confetti. Venne di seguito l’enorme carro rappresentante una corbeille del cav. Oronzo Garzia accompagnato dal notar Gennaro De Donno, Nicolino De Donno, Vittorio Sticchi, Paolo Scarzia e Antonio Cezzi, tutti gettando a profusione confetti ed eleganti bomboniere. Il terzo carro fu quello dell’egregio sig. Vincenzo Tamborino. Rappresentava il ‘corno dell’abbondanza’. Era maestoso addirittura, vestito riccamente di stoffa e guarnito di artistici fiori. Dalla bocca del corno, ch’era in avanti, usciva un nembo di fiori e tra questi si agitavano, quali vispe farfallette, alcuni bimbi dalle guance paffute e rubiconde[…]. Erano seduti sul corno e propriamente al concavo di essi, i sigg. Vincenzo e Salvatore Tamborino, il cav. Egidio Lanoce e il notaio Giuseppe Zocco, che gettavano confetti e bomboniere bellissime.[…]. Seguì il carro dell’avv. Raffaello Garzia, di cui facevano parte i sigg. Nicola De Marco, Nicola Scarzia, il dott. Achille Maggiulli e Filippo Lionetto. Anche questo carro, che rappresentava la stella del nord, fece piovere a dirotto confetti e bomboniere, ricevendo in cambio, come gli altri carri, olezzanti mazzolini di fiori.
Mentre la folla acclamava e teneva dietro, s’intese prima da lontano, poi man mano più da presso, intonare la marcia reale. Era la banda del maestro De Pascalis sopra un carro guarnito di fiori, che precedeva quello dell’avv. Paolo Tamborino, simboleggiante un mulino a vento, lavoro bellissimo e di grande effetto. In esso vi erano, oltre il sig. Tamborino, i sigg. Salvatore Palma di Oronzo, Eugenio Palma di Salvatore, il prof. Pasquale de Lorentiis, Ernesto Sticchi, l’ing. Raffaele Palma, Vincenzo e Nicola Lionetto, tutti vestiti di bianco come altrettanti mugnai. Al loro apparire la folla raddoppiò le acclamazioni, tanto più che giunsero quasi inaspettati, gettando come forsennati fiori e confetti. Ultimo e non meno elegantemente addobbato fu il carro del noto industriale Giuseppe Romano, in cui tra le maschere che gettavano a dritta e a manca confetti eranvi parecchi musici che intonavano marce assai allegre.
Bello era il saluto scambievole dei carri, una vera grandinata di confetti: basti dire che in un paio d’ore ne furono gettati parecchie tonnellate. Il corso si chiuse con una splendida fiaccolata e fuochi di bengala fatta su tutti i carri. Non meno imponente riuscì martedì il corso dei fiori […]
In quei giorni neppure le famiglie più povere sapevano rinunciare alla crapula, ai piaceri della tavola, alle debosce. Si mangiava a crepapelle, si beveva sino all’ubriachezza, si ballava, si cantava, tra risate e scene comiche, tra una quadriglia e l’altra, allietati dal suono di un’orchestrina di pifferi, chitarrini e tamburelli. Il popolino specialmente si divertiva a più non posso, perché dopo la baldoria dell’ultimo martedì, con l’arrivo della quaresima, per molti sarebbero tornati i travagli, la fame, la miseria di sempre: “Carniale meu chinu te doje/ ieri maccarruni e osci foje,/ Carniale meu chinu te mbroje,/ osci maccarruni e ccarne, / e ccrai mancu foje.”

E che fame e che miseria! Gli ultimi anni dell’800 e gli inizi del ‘900 furono a Maglie e nel Salento anni di grave crisi economica, di estrema indigenza, di nera miseria, di continua disoccupazione dei contadini; dietro l’apparente stato di floridezza, dietro la facciata del fasto e dell’opulenza ostentata dai grossi proprietari terrieri il pietoso spettacolo di tanti poveri infelici privi pure di un letto e di una minestra, dei cenciosi scalzi, degli accattoni laceri, denutriti, sostanti ore ed ore presso i portoni delle case patrizie.
All’articolista del giornale borghese questo spettacolo indegno e poco decente degli accattoni ripugna; preferisce non farne menzione e terminare la cronaca con un bravo di cuore a tutti coloro che avevano voluto strappare i magliesi alla monotonia di sempre procurando loro qualche ora di svago, preferisce plaudire ai benemeriti che avevano sbalordito dall’alto dei loro carri elegantemente addobbati col lancio di fiori, di bomboniere, di tonnellate di confetti, che con infinita generosità avevano voluto dare al popolo il panem (il pranzo ai poveri) e i circenses (la sfilata dei carri): la farina e la festa!
Il carnevale è finito – commenta il corrispondente magliese della ‘Gazzetta delle Puglie’, Villanegra – prosit a chi vi ha goduto e a chi non vi ha goduto. E quaresima sarebbe stato tutto il Carnevale se i signori del Circolo non fossero riusciti a tenere qualche festa da ballo. (La Gazzetta delle Puglie, A. III, 10 febbraio 1883).
Quaresima tutto il Carnevale! Ma per questa povera gente la quaresima, una quaresima di fame, di fatica, di lotte e di rinunce continue, non sarebbe fatalmente, senza scampo e senza speranza, tutto l’anno, tutti gli anni, tutta la vita?

In «Tempo d’oggi», V(4), 23 febbraio 1978

Per una storia del Carnevale

di Paolo Vincenti

“Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Questa famosissima ballata di Lorenzo De’ Medici, conosciuta come “Il trionfo di Bacco a Arianna”, è uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale o “Carnasciale”, venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati. Il canto di Lorenzo, canto della gioventù lieta e fuggitiva, è un invito alla gioia e alla festa. E quale migliore occasione, per lasciarsi andare alla gioia e alla festa, del Carnevale?

“A Carnevale ogni scherzo vale”: ma non è uno scherzo provare a ricostruire le origini di questa festa antichissima, sospesa tra sacro e profano. La maggior parte degli studiosi ha visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.

I Saturnali  (descritti da Macrobio nella sua opera “Saturnalia”) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili. Per andare ancora più indietro nel tempo, si può arrivare alle feste Dionisiache greche, durante le quali, i devoti, invasati dal dio, cantavano, ballavano selvaggiamente e si univano promiscuamente fra di loro. Queste feste sono diventate poi, a Roma, i Baccanali che, ad un certo punto della storia romana, a causa della loro degenerazione, vennero repressi per legge ( 186 d.C.).

Il Carnevale si può anche collegare alle feste in onore del dio Attis, paredro della Grande dea madre Cibele. Il 25 marzo, che era considerato equinozio di primavera, si faceva risorgere il dio dalla morte e questa resurrezione veniva celebrata, a Roma, con alte grida di gioia e scoppi di vera follia: era infatti la festa della gioia, “Hilaria”, e durante questa festa, la licenza era generale; ognuno poteva dire e fare ciò che più gli piaceva e la gente girava mascherata per le strade, in questo Carnevale “ante litteram”.

Durante il regno di Commodo, una banda di cospiratori pensò di approfittare del Carnevale per uccidere l’Imperatore. I cospiratori, indossata l’uniforme della guardia imperiale, si mischiarono alla chiassosa folla e tentarono di pugnalare l’Imperatore, ma il complotto non riuscì.

ph Wanblee da Wikipedia

Alcuni studiosi fanno derivare questa festa dalle grandi celebrazioni che si tenevano a Roma in onore della dea Iside. Il  “Navigium Isidis, “la Barca di Iside”, coincideva, dopo l’interruzione invernale, con la riapertura della

Il carnevale a Foggia e la zeza di Peschici

di Teresa Maria Rauzino

Fino agli anni Sessanta sul Gargano si rappresentava un’antica “sceneggiata” i cui personaggi venivano interpretati sempre dagli stessi attori. Oggi la tradizione ritorna anche a Foggia

 

LA ZEZA- ZEZA (RITROVATA) DEL CARNEVALE DI PESCHICI

 

Durante il Ventennio fascista, precisamente nel 1931, in occasione della festa del Carnevale, venne  inviata a tutti i Podestà della Capitanata, da parte della Regia Questura di Foggia, una circolare che ribadiva l’assoluto divieto ai cittadini di “comparire mascherati in luoghi pubblici”; si potevano usare maschere soltanto nei teatri e in altri luoghi strettamente privati. Questa ordinanza, nel Gargano nord, non veniva rispettata. I Peschiciani, anche in tempi magri come quelli degli anni Trenta, festeggiavano il Carnevale con grande entusiasmo: gli uomini si travestivano da donna e le donne da uomo ed andavano girando per il paese, fermandosi in tutte le case dove c’erano allegre feste da ballo.

Sui fili, stesi da un lato all’altro degli stretti vicoli del borgo, venivano appesi numerosi pupazzi di paglia. Ogni quartiere preparava il suo “Carnevale”, si usava paglia, carta e abiti, i più malandati che ci fossero in circolazione; la mattina di martedì, ultimo giorno di Carnevale, tutti i fantocci, vestiti di tutto punto, con in braccio l’immancabile bottiglione di vino, venivano appesi ai crocevia, sostenuti da robuste corde. Dopo aver mangiato e bevuto, ci si mascherava e si girava in gruppo per il paese; non mancava chi si improvvisava attore e si esibiva in scenette umoristiche.

Fra le drammatizzazioni,  degna di nota era “l’operazione”, un vero e proprio intervento chirurgico cui veniva sottoposto Carnevale. Si preparava un fantoccio nella cui pancia si metteva di tutto, scarpe vecchie, cipolle, corde, patate, ecc., lo si caricava su di un asino al cui seguito c’era un chirurgo, accompagnato da un corteo di gente mascherata da madre, moglie, figli e parenti di Carnevale. Il dottore tagliava la pancia del pupazzo e ne estraeva stracci, indumenti, verdure: solo alla fine estraeva il gigantesco maccherone che aveva provocato l’indigestione di Carnevale. Durante l’operazione, la gente che si ammassava intorno cantava lo stornello “Il piede del porco”. L’operazione veniva ripetuta in  diverse strade del paese, accompagnata da urla, frastuono e risate degli astanti. All’imbrunire, l’asino con il suo carico e tutto il seguito si dirigevano verso il Castello, dove il fantoccio di Carnevale veniva gettato in mare dalla Rupe antistante. I Carnevali appesi nei vicoli, invece, venivano bruciati. Le alte fiamme illuminavano la notte, segnando l’avvento della Quaresima.

Durante il Carnevale, fino agli anni Sessanta, nella cittadina garganica si usava rappresentare anche la “Zeza Zeza” un vero pezzo di antico teatro

Due libri sul Carnevale in Puglia

Vi segnaliamo due volumi a firma di illustri studiosi per arricchire anche questo Carnevale di “chiacchiere”, tradizioni e usanze.

L’ultima festa.
Storia e metamorfosi del Carnevale
in Puglia

Collana: Il paese di Cuccagna

2008, pp. 192 con ill. in b/n e a colori, € 16.00
ISBN: 978-88-6194-026-0

Il libro

E’ la prima “storia” del Carnevale in Puglia raccontata da un fine letterato, attento agli aspetti antropologici, alle profonde trasformazioni che, soprattutto nel secolo scorso, hanno accompagnato la festa negli angoli più diversi della regione, dalla più nota Putignano agli altri centri “minori”, ma non per questo meno importanti. Dell’ “ultima festa” vengono messi in luce non solo i riti più irriverenti, legati al divertimento, ai piaceri del corpo e alla gastronomia, ma anche l’aspetto sostanziale del rovesciamento del mondo e dello scontro tra società laica e gerarchie ecclesiastiche, che si opposero, spesso con scarsi risultati, allo spirito carnevalesco della società contadina. Il testo si articola in tre parti. Alla prima di carattere storico-antropologico, che ripercorre attraverso il calendario le tradizioni, i balli, i giochi e le maschere caratterizzanti, ne seguono altre due che raccolgono rispettivamente immagini in bianco/nero e a colori e una serie di documenti poco noti o inediti, tratti dalla tradizione “letteraria” così come da quella popolare.

Una nuova collana Il volume apre “Il paese di Cuccagna. Collana di Scritture e Tradizioni culturali”, diretta da Pietro Sisto, che intende proporre una serie di studi e testi di particolare interesse non solo per il Mezzogiorno d’Italia, ma anche per l’intera area del Mediterraneo. I volumi, affidati a docenti universitari, ricercatori e apprezzati studiosi, si occuperanno di temi e questioni di carattere storico-letterario, antropologico e scientifico soprattutto attraverso la riproposizione di testi poco conosciuti o inediti, accompagnati da ampie note introduttive ed esplicative nonché da ricchi apparati iconografici. Il logo e il titolo della collana, oltre a richiamare direttamente immagini, simboli e riti del primo volume, alludono da un lato

Bilancio del carnevale gallipolino 2011

LA NUOVA MASCHERA  DEL CARNEVALE GALLIPOLINO

 

di Gino Schirosi

 

Tra le maschere italiane della commedia dell’arte, accanto alle due note figure di popolani cialtroni e inaffidabili, come il napoletano Pulcinella (scaltro e volubile) e il veneziano Arlecchino (ambiguo servitore di due padroni), hanno pure un loro ruolo Colombina, Balanzone, Pantalone, Stenterello, Gianduia e Brighella, altrettanto famosi per altre categorie di vizi o virtù. Inoltre, a margine di tanti illustri sconosciuti, esistono nella nostra regione Farinella (Putignano), Ze Peppe (Manfredonia), Paulinu (Grecìa salentina) e Titoru, voce volgarizzata da Teodoro (“dono di Dio”), singolare maschera storica della tradizione popolare carnascialesca di Gallipoli. Ognuno di questi tipi o caratteri ha una sua storia particolare con una metafora da raccontare. Il carnevale gallipolino, in particolare, ha ruotato da sempre attorno alla figura del Titoru, sebbene figlio di una storiella del tutto fantasiosa, ancorché paradossale, apparentemente avulsa nell’atmosfera gioiosa di popolo.

La nostra manifestazione, senza peccare di campanilismo, è la più nota nel Salento, quest’anno nella sua 70^ edizione (per avversità climatiche dirottata a sabato 12 e domenica 13 marzo). Come nel 2010 hanno fatto da corona carri allegorico-grotteschi di singolare valore artistico, gruppi mascherati e personaggi di varie caratterizzazioni socio-etno-antropologiche, con figurazioni storiche e attuali, sfarzose e popolane. Coinvolgendo alla pari uomini e donne, adulti e non, è stato un carnevale dignitoso che ha continuato la sua tradizione imponendosi tra tanta concorrenza ogni anno sempre più ferrata nell’ambito della provincia, miseramente falliti i tentativi di consorziare similari avvenimenti dell’hinterland.

A conferma del suo successo il nostro carnevale, ribadendo il suo solito volto col medesimo programma collaudato, è stato ulteriormente rivalutato

Il Carnevale pugliese tra simbologie, eccessi e divieti

La relazione di Teresa Rauzino al Convegno del Centro Studi Martella: Il Carnevale com’era… Antiche tradizioni pugliesi. garganiche e peschiciane

 

di Teresa Maria Rauzino

Qualche anno fa, precisamente nel 2007, il prof. Pietro Sisto  dell’Università di Bari e Taranto mi invitò a pubblicare il mio saggio sulla “Zeza Zeza (perduta) del Carnevale di Peschici”  (pubblicato in anteprima sull’Attacco)  nel suo libro” L’ultima festa”, edito da Progedit. Un bellissimo libro che suscita sempre il mio interesse e che mi preme presentare anche ai nostri lettori.

Quella raccontata da Sisto è la prima “storia” del Carnevale in Puglia indagata negli  aspetti antropologici, nelle profonde trasformazioni che, soprattutto nel secolo scorso, hanno accompagnato la festa in angoli diversi della regione, dalla più nota Putignano fino a Trani, Molfetta, Bitonto, e ai centri “minori” (ma non per questo meno importanti) come Peschici.

Il Carnevale a Putignano partiva dal 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, una festa nata in relazione alla traslazione delle reliquie del santo da un’altra città, per preservarle dall’attacco dei Turchi. E’ il 1394. La popolazione festeggia, si traveste in maschera.

Lo faceva anche il 17 gennaio festa di sant’Antonio Abate, che dava il via ufficiale al carnevale pugliese, che proseguiva, il 2 febbraio, con la festa della Candelora, fino ad arrivare al giovedì grasso e al martedì grasso che chiudevano la festa.

Quattro erano gli animali che rappresentavano la ritualità del carnevale: l’asino, il maiale (porco), il tacchino (vicc) e l’orso. A Putignano era proprio la festa dell’orso che apriva (ed apre ancora oggi) i festeggiamenti. L’orso simboleggiava il risveglio della natura, e il propiziarsi la stagione favorevole perché il 2 febbraio, l’orso prediceva (all’incontrario) il tempo buono se quel giorno il tempo era cattivo, e viceversa.

Dell’ “ultima festa” Sisto mette in luce non solo i riti più irriverenti, legati al divertimento, ai piaceri del corpo e alla gastronomia, ma anche il rovesciamento dei ruoli sociali, e lo scontro tra società laica e gerarchie ecclesiastiche che si opposero strenuamente, ma con scarsi risultati, allo spirito carnevalesco della società contadina.

Intriganti sono le osservazioni che Sisto fa sul modo in cui il Carnevale veniva osteggiato dalle autorità ecclesiastiche. Il Carnevale era un periodo  in cui le licenziosità erano all’ordine del giorno, per cui la Chiesa “ufficiale” sentiva il dovere di intervenire, emanando degli editti che proibivano certi comportamenti “lascivi”. E lo faceva in modo forte, proibendo ai chierici e alle suore di festeggiare il Carnevale.  Ne succedevano di tutti i colori, nei

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