Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri

di Cristina Manzo

Quando tornai al mio paese nel Sud,

dove ogni cosa, ogni attimo del passato

somiglia a quei terribili polsi di morti

che ogni volta rispuntano dalle zolle

e stancano le pale eternamente implacati,

compresi allora perché ti dovevo perdere:

qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,

e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

Quando tornai al mio paese del Sud,

io mi sentivo morire.

(Vittorio Bodini) [1]

 

Santa Maria di Leuca, tramonto a Finibusterrae (foto Cristina Manzo)

 

L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.

Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.

Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.

Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].

Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.

[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.

(1 – continua)

Note

[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.

[2] https://www.scuoladelviaggio.it/alla-ricerca-di-don-chisciotte-it.php

[3] Francesco Melzi D’Eril, Civiltà italiana dell’Ottocento, Mursia, Milano, 1966-1968, p.238,239.

Inchiostri galleggianti nella meccanica dei fluidi: intervista ad Antonio Massari

Gianluca fedele 

di Gianluca Fedele

Dopo aver avuto il privilegio di chiacchierare con Ercole Pignatelli e Tonino Caputo, finalmente ho un appuntamento anche con Antonio Massari, artista inimitabile, che assieme a Ugo Tapparini ed Edoardo De Candia hanno fatto la storia dell’arte di oltre mezzo secolo nel capoluogo salentino. La sua tecnica informale ha rappresentato un’avanguardia stilistica che in pochi hanno realmente colto ma che tuttavia continua a suggestionare. Ancora una volta è Sandro Tramacere l’artefice dell’incontro il quale, con una telefonata, riesce a mettermi subito in contatto col il pittore. Massari mi invita a raggiungerlo già il giorno dopo nella sua abitazione a pochi passi da Porta Rudiae.

Quando citofono una signora mi risponde che il professore non c’è e Aldo Lisi, che arriverà poco dopo con Massari, mi dirà: “ti ha fatto aspettare poco, di solito non arriva prima di un’ora più tardi rispetto all’orario dell’appuntamento!”.

L’attesa non mi è grave perché la casa è un museo fatto di opere d’arte bellissime, mobili antichi e fotografie d’epoca. Sul tavolo una cartolina commemorativa dedicata a Tapparini recentemente scomparso; mi omaggerà più tardi donandomene una.

Finalmente Massari mi raggiunge fumando il suo immancabile Toscano. È un uomo riservato e di poche parole, anche per questo lo ringrazio del tempo che mi ha voluto concedere.

 

Casa di Riposo Aresi di Brignano - Tempera su tela, 200 x 150, 1998
Casa di Riposo Aresi di Brignano – Tempera su tela, 200 x 150, 1998

 

D.:

Ritengo opportuno incominciare questa intervista con un ricordo su tuo padre, dal quale hai certamente raccolto una poderosa eredità artistica e morale. Chi era per te Michele Massari?

R.:

Michele Massari era un grande artista che poteva realizzare tutto ciò che pensava e ogni nuova sfida era da lui intrapresa con grande rigore: ingegneria, meccanica, architettura, scultura. Naturalmente anche pittura ma in realtà non ha dipinto moltissimo. Ricordo che quando mostrai a Pietro Cascella il libro su mio padre egli esclamò: “Ma questo è un pittore Pittore!” ripetendo la definizione e rafforzando il concetto. A me non restò che annuire con immensa soddisfazione.

Durante la dittatura però le sue posizioni politiche gli costarono dei sacrifici legati al fatto che si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista e di conseguenza perdette il posto di insegnante presso l’Istituto d’Arte. Io ero bambino quando fu costretto a vendere la villa che aveva in località Mater Domini e subito dopo siamo andati in affitto al civico nove di via di Vaste dove abitava anche Edoardo De Candia.

 

D.:

Con De Candia eravate quindi amici di giochi?

R.:

Non solo con Edoardo che era appena un anno più piccolo di me, e col quale perciò siamo diventati automaticamente amici, ma anche con tutti gli altri.

Mio padre era amico di Vittorio Pagano, celebre poeta e zio di Ugo Tapparini, così io e Ugo abbiamo stretto amicizia già all’età di dieci anni. Quando ci incontravamo, spesso io portavo con me Edoardo e Ugo ci raggiungeva insieme a Tonino Caputo. È iniziato così il nostro sodalizio, poi con l’età ognuno ha intrapreso rotte differenti: Tonino si trasferì a Roma insieme a Carmelo Bene, io a Milano mentre insegnavo a Bergamo; Edoardo addirittura visse da nomade e arrivò sino a Londra dalla quale ritornò a piedi dopo aver pernottato, nel tragitto, presso le abitazioni di vari amici.

Con Edoardo De Candia presso la Galleria Osanna di Nardò
Con Edoardo De Candia presso la Galleria Osanna di Nardò

 

D.:

Quando eravate insieme, cosa sognavate di fare da grandi?

R.:

Avevamo già scoperto la propensione per l’arte che assecondavamo in maniera differente, chi con gli studi e chi, come Edoardo naturalmente dotato, in maniera autonoma. Ma la nostra ingenua ambizione allora era quella di realizzare i cartoni animati, dai quali eravamo tutti molto attratti. Ricordo che un bel giorno Ugo si prese persino la briga di scrivere al direttore di una rivista per ragazzi al fine di conoscere le tecniche e le difficoltà dei disegni d’animazione e cercare magari di essere assunto in una redazione. Come risposta ricevemmo una frase indimenticabile: “I cartoni sono l’ottava fatica di Ercole”. Fummo così tristemente dissuasi da quei propositi fanciulli e ci dedicammo ad altro.

 

D.:

Ci sono altre persone alle quali sei legato?

R.:

Ce ne sono molte in effetti ma sicuramente una in particolare è la mia adorata sorella Anna Maria, che era un’artista brillante, oserei dire la più dotata tra tutti noi cresciuti in via di Vaste. Ella primeggiava in tutte le declinazioni della creatività, sia che dipingesse oppure che scolpisse.

Inoltre conservo dentro anche tanti ricordi della straordinaria Rina Durante con la quale ho condiviso anni indimenticabili e tanta gente pensava addirittura che fossimo fidanzati.

Costruzione e cattura delle onde
Costruzione e cattura delle onde

 

D.:

Citavi poco fa Carmelo Bene tra i membri del vostro gruppo, dipingeva anche lui?

R.:

Si, anche Carmelo fu nostro compagno di gioventù e, com’è noto, già da ragazzino riscuoteva enorme successo. Quando si trasferì a Roma inizialmente recitava nelle cantine e ad ascoltarlo tra il pubblico spesso c’erano personaggi del calibro di Pasolini, Sandro Penna e il nostro Vittorio Bodini col quale strinse una forte amicizia.

Per tornare alla domanda ti dirò quanto so, e cioè che Carmelo era andato presso la rinomata galleria leccese “Belle Arti” di Caiulo dove aveva speso circa un milione di lire in pennelli, tele, colori e tutto l’occorrente per dipingere. C’è chi sostiene anche che con tutto quell’occorrente avesse prodotto diverse opere. Che cosa rappresentassero i suoi quadri e dove siano ora conservati purtroppo non mi è dato di saperlo ma mi piacerebbe scoprirlo per il solo scopo di allestire una mostra collettiva dei quattro più uno.

 

D.:

Chi guarda distrattamente le tue “Carte assorbenti” probabilmente crede che siano il prodotto di un astrattista ma in realtà c’è molto di più. Come è nata l’idea di realizzarle?

R.:

Io sono un pittore figurativo ma la mia epoca, invece, è stata caratterizzata dall’astrattismo; ragion per cui, come ho avuto modo di scrivere, o ero fuori dalla mia epoca o ero fuori da me stesso.

Ho iniziato a sperimentare le carte assorbenti perché ricordavo una immagine che mi affascinava quando ero piccolo, e cioè le iridescenze della benzina sulle pozzanghere; da lì la necessità di trovare un sistema per catturarle e riprodurle. Dal 1963 ho trascorso trentacinque anni d’avanti alla vasca da bagno piena d’acqua facendo scorrere sulla superficie le “zatterine” galleggianti su cui vi era il colore. Dapprima ho tentato attraverso l’impiego delle tinte a olio verificando che esse galleggiano solo per il quaranta percento, il restante sessanta affonda nell’acqua. Quel poco che resta è inerte. Così sono passato alla tempera che galleggia al cento percento ma comunque inutile al mio scopo poiché le immagini restano quasi totalmente inattive. Infine ho sperimentato gli inchiostri di china che hanno un grande dinamismo: sono nate in questo modo le Carte assorbenti, un filone del quale, in campo artistico, vanto la primogenitura assoluta. Le reazioni che ne scaturivano erano frutto della meccanica dei fluidi, la versione più affascinante degli inchiostri galleggianti. A me non restava che immortalarle per ribadire come anche gli elementi sappiano disegnare.

Purtroppo oggi sarebbe impossibile ripetere le stesse operazioni in quanto la composizione chimica degli inchiostri non è più la stessa.

Le carte di Mozart (schermate prima del contatto con il colore)
Le carte di Mozart (schermate prima del contatto con il colore)

D.:

Oltre che per il colore deduco che ci sia stata una fase di studio persino per quanto ha riguardato i supporti cartacei e ogni altro mezzo adoperato allo scopo, è così?

R.:

Certamente. Ho cominciato con le carte assorbenti per essere sicuro della presa ma quando queste venivano sollevate dall’acqua il più delle volte si laceravano. Sulla carta normale invece la resa era perfetta. In seguito mi sono spinto oltre utilizzando finanche la pellicola Domo Pack.

Durante quel lungo periodo ho prodotto circa cinquanta generi grafici differenti adoperando per esempio sfere di polistirolo espanso per provocare reazioni elettrostatiche nelle particelle di china e realizzare così Le carte elettriche; oppure mi sono servito di ciuffi di capelli per la serie I capelli di Milvia. Con l’ausilio di schermi in carta velina invece ho realizzato I Frattili, Le carte di Mozart, Le traslazioni, ecc..

E poi spago, nastro, borotalco e tante altre materie hanno interagito e reso uniche le mie opere.

Luigi Piccolo Principe - ritratto, pastelli ad olio, 2000
Luigi Piccolo Principe – ritratto, pastelli ad olio, 2000

D.:

Osservando alcune opere della serie Le carte di Mozart, dalla sbalorditiva precisione geometrica, mi sorge spontaneo riflettere su come oggi questo genere di rappresentazioni sia perlopiù frutto di elaborazioni informatizzate. Nell’era dei personal computer l’arte rischia di perdere il contatto con la manualità?

R.:

Per me, che insegnavo Storia dell’Arte, il contatto con la materia è sempre stato fondamentale. Non c’è evoluzione nell’arte senza un approfondito studio dei meccanismi che determinano le trasformazioni. Tutto deve partire da qui, intervenendo fisicamente e in prima persona nell’opera, diventando compartecipante più che autore. Credo perciò che sia inadeguato, specie per un artista, delegare i propri pensieri a una macchina che li simula.

 

Edoardo De Candia (il presentimento della morte) - Ritratto. grafite. 1991
Edoardo De Candia (il presentimento della morte) – Ritratto. grafite. 1991

D.:

È stato utile, per l’artista, emigrare a Milano?

R.:

Nel 1970 da Bergamo mi sono trasferito a Milano e ho fatto ritorno nella mia Lecce solo da pochi mesi, posso dire quindi di aver trascorso nel capoluogo lombardo gran parte della mia esistenza. Lì, ho avuto l’occasione di conoscere grandi personaggi internazionali come il critico d’arte francese Pierre Restany e il direttore della Rivista D’Ars, Oscar Signorini. Grazie alla loro esperienza e all’impareggiabile supporto ho esposto in tutto il mondo: Stati Uniti, California, Giappone, Cina, Emirati Arabi Uniti, Israele, Russia, Europa del Nord, Inghilterra, Europa Centrale e naturalmente in tutta Italia.

 

D.:

Le Gallerie e il mercato dell’arte come hanno accolto la novità delle Carte assorbenti?

R.:

Purtroppo devo ammettere che in pochissimi hanno realmente creduto in quel filone della mia produzione. Eccezione fatta per amici come Giorgio Randone e la famiglia di Anna Maria Castelli che hanno collezionato molte delle mie opere, o per Marcello Ferrari dell’omonima Galleria, per il resto non posso raccontare di particolari successi o di proficue collaborazioni con le pinacoteche. Spesso addirittura mi ha pervaso la sensazione che vi fosse una sorta di preconcetto in questo ambito nei miei confronti perché meridionale.

Foglio immerso pendolarmente
Foglio immerso pendolarmente

D.:

Scorrendo le pagine dell’importante monografia edita da D’Ars nel 2010 mi sono ritrovato di fronte a decine e decine di ritratti e autoritratti, così mi sono chiesto da dove fosse scaturita, d’un tratto, la necessità di quel genere di rappresentazione figurativa che talvolta è anche natura morta.

R.:

Molto semplicemente i ritratti nascono da un bisogno di immortalare la realtà, o anche i ricordi, come istantanee quasi. Infatti credo di aver tentato così di colmare in parte la lacuna dovuta al non essere stato mai troppo avvezzo all’arte della fotografia. Inoltre ci sono opere di quello stesso periodo che ritraggono grandi autori della letteratura, della poesia, della politica come Hemingway, James Joyce, Neruda, Salvador Allende e tanti altri che mi attraevano più per le loro biografie che per la produzione letteraria.

 

D.:

A proposito di letteratura, c’è un libro o meglio, il suo protagonista che in particolare ritorna spesso e in varie forme nelle tue raffigurazioni; mi sto riferendo naturalmente al Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry. Perché è così presente?

R.:

Il Piccolo Principe per me è quello che si definirebbe il libro del cuore. Ne ho amato ogni singola pagina, frasi, illustrazioni e copertina comprese. Il Piccolo Principe è certamente una favola per adulti e tutti dovrebbero leggerlo. L’ho fatto mio e l’ho portato alla conoscenza dei miei alunni anche se talvolta, a causa della loro giovane esuberanza, non nascondevano la noia nel doverlo studiare. Salvo poi contattarmi per ringraziarmi dopo anni come ad esempio una mia ex alunna, ora diventata dottoressa, che incontrandomi mi disse: «Professore, quando lei ci leggeva il Piccolo Principe… ma che rottura di palle! L’ho riletto adesso e… grazie Massari!» Tutto accompagnato da manate sulla schiena.

Hemingway - grafite, inchiostri galleggianti e carte olografiche. Colorato con a tecnica degli schrermi. 1999
Hemingway – grafite, inchiostri galleggianti e carte olografiche. Colorato con a tecnica degli schrermi. 1999

D.:

Ora che ti sei stabilito definitivamente a Lecce quali sono i programmi imminenti? 

R.:

Francamente da quando sono rientrato ho badato poco alla mia produzione artistica però conto di riprendere presto a dipingere. Le idee non mancano. Attualmente sto organizzando una mostra a Nardò (LE) presso la Galleria Osanna dell’Avvocato Riccardo Leuzzi.

I capelli di Milvia - La lettera esse (tutte le lettere devono essere costruite sull'acqua ribaltate)
I capelli di Milvia – La lettera esse (tutte le lettere devono essere costruite sull’acqua ribaltate)

 

Senza titolo
Senza titolo

 

Studio da Donatello (grafite) 1992
Studio da Donatello (grafite) 1992

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

A dieci anni dalla scomparsa di Carmelo Bene

 

NELLA CASA DI NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI

 

di Maurizio Nocera

«Non sono nato per essere nato … L’indecenza della vita mi ha frequentato assidua fin dalla prima infanzia. Malattie d’ogni sorta e degenze, convalescenze continue; ambulatori diagnostici: coronarografie, biopsie, gastroendoscopie, scintigrafie, risonanze magnetiche; astanterie d’ospedali e sale operatorie, broncopolmoniti, paradontologie, odontoprotesi, epatopatie, infarti, accidentacci vertebrali, discopatie, disfunzioni gastrointestinali, anestesie complesse, interventi chirurgici logoranti, disfunzioni oculari, emicranie intollerabili, irriducibili insonnie, complicazioni delle vie urinarie. Non c’è brano di carne che Esculapio non abbia tralasciato».

(Carmelo Bene, Autobiografia di un ritratto, 1995)

Marzo 2012. Il Salento tutto è per Carmelo Bene (Campi Salentina 1 settembre 1937 – Roma 16 marzo 2002). Non solo il Salento però, perché il Maestro viene celebrato anche nel resto d’Italia. L’occasione è dovuta al 10° anniversario della scomparsa. Su di lui quanto non si è detto, quanto non si è scritto. Non pochi intellettuali hanno sentito il bisogno di intervenire per ricordarlo, per omaggiarlo. Non poteva accadere altrimenti e non hanno avuto ragione coloro che si sono lamentati che intorno al suo nome, forse, c’è stato troppo chiasso. Si può forse evitare a qualcuno di dire la sua in fatto di teatro, di letteratura, di poesia, di cinema, di televisione, di altro ancora? Quanto l’umanità non ha sofferto per le tante censure, troppe che, piuttosto che farla crescere, l’hanno condannata ad una perenne peregrinazione e a salti cangureschi?

Una delle iniziative celebrative si è tenuta appunto il 16 marzo a Lecce, nei locali della Tipografia del Commercio, dove il titolare Alberto Buttazzo ha ristampato per l’occasione una cartella contenente una grafica intitolata Gregorio, l’opera teatrale che Carmelo Bene, in un primo momento col titolo Gregorio, cabaret dell’800, e in un secondo tempo col titolo Addio porco, rappresentò a Roma (Ridotto dell’Eliseo) e a Lecce (Teatro Apollo) nel 1961. Di essa, è lo stesso Maestro che ci ha lasciato una testimonianza diretta in Vita di Carmelo Bene, autobiografia scritta assieme a Giancarlo Dotto nel 1998 per la Bompiani, nella quale precisa: «Nella prima parte si facevano a pezzi versacci di libretti d’opera dell’Ottocento. Nella seconda si passava a una specie d’afasia e, quindi, all’ammutolimento generale, ingurgitando cartaccia. Si usava la bocca solo per mangiare, ruttare e deglutire. Quasi sempre si mangiava in scena […] il finale di Addio porco. C’era una tavola apparecchiata, di quelle da osteria. Lui [l’attore Manlio Nevastri, in arte Nistri] faceva da mangiare in scena, in tempo reale, senza dar confidenza (la spesa la faceva il mattino al mercato di San Cosimato) e senza rinunciare al frac e alle ghette, le camicie, mezze maniche sommate. Ci mettevamo così tutti a tavola. Antipasto, primo e secondo. C’era chi mangiava, chi dialogava, chi leggeva un giornale, un altro ruttava./ Succedeva questo. Quelli in platea aspettavano di capire dove andasse a parare. Quale fosse il messaggio» (v. op. cit., II edizione 2006, pp. 125-127). Anche Tonino Caputo ha ricordato in che cosa consistesse lo spettacolo, precisando che finora «nessuno [lo] ha mai nominato nei recenti convegni su Carmelo. Era un delizioso collage di brani poetici tra fine ‘800 ed inizi ‘900, recitati in maniera molto libera e talmente movimentata che alcuni degli attori li proponevano dall’alto di una altalena, il cui dondolio si spingeva sino in testa al pubblico, per poi tornare indietro. Il tutto con i relativi problemi per l’incolumità degli spettatori, ai quali come minimo era assicurato un torcicollo».

Per evitare gli errori del passato, questa volta, gli organizzatori dell’evento di Lecce hanno pensato bene di far intervenire uno dei pochi amici dell’adolescenza del Maestro, fortunatamente ancora in vita: il pittore Tonino Caputo, leccese ma che da decenni vive un po’ nel resto del mondo. Gli altri amici rimasti in vita e che facevano parte della primitiva comitiva, che quasi quotidianamente s’incontrava sulla mansarda dei Bene in via dell’Antoglietta a Lecce, sono Antonio Massari e Ugo Tapparini. Tutti assieme questi amici di Carmelo hanno già scritto una loro testimonianza che figura in un libretto dal titolo Carmelo Bene, i primi passi da gigante (Kurumuny-teatro, Calimera 2004).

È quasi superfluo scrivere della genialità e del talento di questo straordinario figlio del Salento, indubitabilmente un rivoluzionario del teatro, riuscendo a trasformare l’essenza della macchina attoriale, ci preme piuttosto capire qui il suo percorso e, soprattutto quello iniziale attraverso il quale egli si formò. Ed è su questa traccia che si è articolata la memoria di Tonino Caputo, descrivendo un Carmelo Bene inedito per i più, di una sua amicizia durata circa una decina d’anni, in particolare dal 1960 agli inizi degli anni ’70, quando ancora Carmelo Bene non era il Carmelo Bene che noi oggi tutti conosciamo e che, quando nei primi tempi del suo trasferimento a Roma, per vivere decentemente, si dovette appoggiare alla casa del pittore salentino Caputo, il quale ha ricordato: «con Carmelo Bene c’è stato un sodalizio che è durato per alcuni anni. Personaggio geniale, […] ma con una vena di lucida follia e un elevato senso del proprio ego./ L’ho conosciuto a Lecce che aveva circa 16 anni. Mi attraeva quella sua estrema volontà, quel piglio prepotente che metteva nel voler sciogliere, in un corretto italiano, l’accento leccese./ Aveva ricavato un piccolo laboratorio di “posa” dalla lavanderia di famiglia e in quell’antro provava e riprovava al registratore, un piccolo “Geloso”, gli esercizi di dizione. Carmelo è un personaggio che pochi conoscono veramente, lui era un cantante lirico fallito. Noi leccesi nasciamo che vogliamo subito cantare: essere tenori, bassi, baritoni, ma quasi sempre ci scontriamo con la realtà vocale e così uno ci rinuncia. Lui invece non rinunciò e in seguito, anche quando recitava, ha continuato a cantare in prosa. Il suo recitare è il melodramma, che poi in realtà è l’unica forma di teatro vera esistente in Italia dopo la commedia dell’arte. Con il suo genio ha saputo trasferire queste forme artistiche in recitazione. Dopo le frequentazioni giovanili ci perdemmo di vista. In seguito venne a Roma per fare l’Accademia di Arte drammatica. Si trasferì a Genova e Firenze dove fece i primi spettacoli. Nel capoluogo toscano si innamorò di una donna più anziana di lui, l’unica che è riuscita a menare Carmelo e l’unica donna che lui ha amato veramente e con la quale ha avuto un figlio, morto giovanissimo. La sua violenza, anche verbale, si trasformava in bontà assoluta quando vedeva un bambino, un animale. Mentre l’astio verso i preti proveniva dall’aver studiato, in gioventù, presso i “Padri Scolopi”./ Nel 1962 ci ritrovammo a Lecce mentre era in corso un suo spettacolo [Gregorio] e tornammo assieme a Roma. Da quel momento venne a vivere con me aggiungendosi alla schiera dei molti che ospitavo» (per queste notizie più altre v. Caputo/ L’itinerario artistico di un pittore nomade, a cura di Michele Berardo, Canova 2004, Treviso).

Un’altra interessante testimonianza di Caputo l’abbiamo ascoltata quando ci ha detto questo: «vorrei innanzitutto chiarire che per Carmelo Bene, io non ho mai creato nessuna scenografia. Ho fatto invece molte pitture di scena, oltre i murales che decoravano l’intera sala del Beat 72 ed, in particolare, per Nostra Signora dei Turchi, il rosone che a fine spettacolo prendeva corpo sul fondale della scena, grazie ad una luce alogena. A parte, per sei spettacoli, ho disegnato ed inciso una serie di locandine. In ordine cronologico furono: Manon (al teatro Arlecchino, oggi Flaiano), Faust (al teatro dei Satiri), Nostra Signora dei Turchi, Salomè, Amleto (al Beat 72), ed infine Arden of Favershan (al teatro Carmelo Bene) Non di rado quelle locandine, opportunamente messe in vendita, risolvevano in qualche sera particolarmente difficile, la cena della compagnia. Quando gli spettatori variavano dalle 5 alle 10 unità, e non ancora le centinaia del teatro Argentina, tre locandine acquistate da veri appassionati, ci davano la possibilità di riempire lo stomaco, che alla fine di uno spettacolo non era di certo soddisfatto come lo spirito».

Mi piace chiudere questo breve ricordo di Carmelo Bene riportando una poesia di Antonio L. Verri, che gli dedicò pubblicandola nella raccolta Il pane sotto la neve (Lecce 1981): «(A Carmelo Bene)// Otranto ha gustosissimi grumi di neve/ un lungo discorrere della memoria/ vuota silenzio invernale nella mia mano/ bianca di turco spolpato.// È lontano ricordo anche l’aria/ che penetra tutto che tutto riempie/ è ricordo il mare che guarda masse/ corpi d’abbandono, memoria ancora/ – cristalli morbidi mutanti … -/ scrostata pazienza di casucce di storia».

È questo uno straordinario Antonio Verri, interamente versato nell’incanto favolistico di Carmelo Bene.

NdR: Pubblicato nel 2012 su Il Filo di Aracne.

Omaggio a Carmelo Bene, nel decennale della morte

di Paolo Rausa

Attore, regista e scrittore, Carmelo Bene, un uomo che ha trasformato ogni messa in scena possibile, è nato a Campi Salentina in provincia di Lecce il 1° settembre 1937. A dieci anni dalla scomparsa lo ricordiamo con le parole del Marco Giusti, voce fuori campo nella trasmissione televisiva “Bene! Bravo!”: “Un giovanotto magro, nervoso, spiritato, venuto dalle Puglie per inventare a Roma un suo personalissimo teatro. Si chiama Carmelo Bene. Non ha ancora trent’anni. Ha già scritto il romanzo Nostra Signora dei Turchi. Ha diretto come attore, autore e regista, una decina di spettacoli. Dieci spettacoli, dieci polemiche clamorose. È un istrione? Oppure: è un genio? È un mistificatore? Su questi giudizi il pubblico e la critica si interrogano…” Siamo tra il 1965 e il 1966. Nel 1967 Carmelo Bene inizia la sua esperienza da regista cinematografico, arrivando l’anno successivo a vincere il Leone d’Argento al Festival di Venezia con quello che viene considerato il suo capolavoro: Nostra Signora dei Turchi. Nel 1981, con la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di

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