Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento

di Paolo Vincenti

 

Come la vicina Taurisano[1], anche Ruffano vanta una serie di maestri elementari fra Ottocento e Novecento, esponenti di quella classe intellettuale che certo faticava a trarre fuori dall’analfabetismo la popolazione, assillata in quel torno di tempo da problematiche più urgenti come la miseria, la mancanza di lavoro e l’alta mortalità per malattia. In questa sede, non ci soffermeremo sul loro ruolo di insegnanti e sulle problematiche connesse all’esercizio della professione,[2] ma piuttosto sulla loro produzione letteraria, nei due secoli presi in esame.

Il primo maestro di cui ci occupiamo è Alfonso Mellusi (1826-1907), biografato da Aldo de Bernart nel bel saggio Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi-[3].  Originario di Ginosa ma proveniente da Alessano, aveva studiato presso il Seminario di Ugento e poi aveva perfezionato la formazione presso il Convento dei Cappuccini di Ruffano. Divenuto sacerdote, fu il primo maestro di scuola a vita (oggi si direbbe insegnante di ruolo) non solo a Ruffano ma nel Salento. “Sacerdote filosofo”, lo definisce de Bernart, “direttore di un corso per la formazione di maestri elementari”,[4] autore nel 1868 di un Catechismo religioso comparato con la storia sacra[5] che de Bernart pubblica in versione integrale nel succitato volume. Si tratta di un’opera sulla didattica dell’insegnamento della religione cattolica, che diede al maestro Mellusi grande prestigio e notorietà, tanto che nel 1900 il Re Umberto I lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia.

Ma Ruffano negli stessi anni si dimostrava all’avanguardia anche sotto l’aspetto della parità di genere e dell’emancipazione femminile. Occorre ricordare almeno due nomi di maestre donne a cavallo fra Ottocento e Novecento: Marina Marzo e Angiola Guindani.[6]

Altro maestro di cui ci occupiamo è Carmelo Arnisi (1859-1909).  Oltre ad essere ricordato da Ermanno Inguscionella sua opera La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico[7], è stato al centro di una pubblicazione del 2003, a cura della Pro Loco di Ruffano: Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, un pregevole volume con tre saggi, di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, sulla vita e le opere del poeta ruffanese, fino ad allora quasi sconosciuto, nonostante a lui sia a Ruffano intitolata una strada[8].

Nel libro, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano, Cosimo Conallo, nell’Introduzione, sottolineava come fosse ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, intorno al quale non era mai stato fatto uno studio organico. Nel primo saggio, L’Arnisi e il suo tempo, Aldo de Bernart fa uno spaccato della società, della politica, dell’arte scultorea, pittorica ed architettonica del tempo in cui visse l’Arnisi, e parla delle sue fonti di ispirazione, delle sue frequentazioni con i maggiori protagonisti della cultura salentina dell’epoca, fra i quali il grande Cosimo De Giorgi, con cui egli era in corrispondenza, ed anche con gli esponenti della nobiltà locale, come le famiglie ruffanesi Castriota-Scanderbeg, Pizzolante -Leuzzi, Villani- Licci. <<Ispirandosi alla poesia di Luigi Marti […] che aveva cantato la “Verde Apulia”, l’Arnisi cantò la “Verde Ruffano”, in particolare S.Maria della Serra dove soleva recarsi, pellegrino di fede e d’amore…>>.[9] Il secondo saggio, Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, a cura di Ermanno Inguscio, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta, la cui salute fu minata fin dalla giovane età da una persistente forma di tosse convulsa; l’infanzia serena trascorsa a Ruffano, presso la casa di Vigna La Corte prima e Casa Quarta, in Via Pisanelli, dopo, il suo lavoro di maestro elementare, l’amore per la cultura, la collaborazione con alcuni giornali dell’epoca, come “Il Corriere meridionale”, diretto da Nicola Bernardini, e la “Cronaca letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione; gli inverni a Ruffano e le estati trascorse a Leuca, ospite nelle ville delle famiglie Daniele, Castriota, Fuortes. Sempre ben disposto nei confronti degli amici, fra i quali il segretario comunale Donato Marti, era invece tagliente e fortemente sarcastico nei confronti degli usurai, che egli definì “vampiri sociali”, degli operatori di banca, “illustri parassiti”, e degli ipocriti. Morì, nel luglio del 1909, spossato da una forma grave di polmonite, a soli 49 anni. Alla sua morte, il giornalista e scrittore Pietro Marti traccia un elogio funebre sul giornale “La Democrazia”.[10] Nel terzo saggio, Sui versi di Carmelo Arnisi, Luigi Scorrano fa una attenta analisi dell’opera “Versi”, unica inedita dell’Arnisi, e dei manoscritti lasciati dal poeta e non pubblicati. Viene fuori il ritratto di un autore che si può ascrivere al filone della poesia sentimentale dell’Ottocento, influenzato da Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, dei quali trascrive molte poesie. La produzione dell’Arnisi è caratterizzata da toni intimistici, i temi sono gioie familiari, amore deluso, spesso tristezza e ripiegamento su se stesso; è costante, nelle sue liriche, la presenza della morte. Nell’opera non data alle stampe, che il curatore chiama “Versi 2”, per distinguerla da quella a stampa, indicata come “Versi 1”, compaiono altri motivi e fonti di ispirazione, come la natura, l’amor di patria, l’attenzione al sociale, gli scherzi nei confronti degli amici, la filiale devozione per la terra natale, Ruffano. Anche se non vi è una vera e propria connotazione locale nell’opera dell’Arnisi, che voleva evitare la dimensione municipalistica di una caratterizzazione estremamente tipicizzata, emerge comunque la salentinità del poeta e il suo attaccamento al borgo natìo. È stato il maestro Vincenzo Vetruccio il primo a riscoprire Carmelo Arnisi dal momento che, come giustamente rivendica in una sua pubblicazione autoprodotta[11], fu lui che ritrovò il manoscritto dell’Arnisi, Versi, inedito, lo fotocopiò e ne donò una copia al prof. Cosimo Conallo, all’epoca Presidente della Pro Loco, il quale si fece poi promotore della pubblicazione, affidandone l’incarico agli studiosi de Bernart, Inguscio e Scorrano. Nel quadernetto, Vetruccio riporta molte interessanti notizie biografiche e foto sull’Arnisi e sulla Ruffano del tempo in cui visse l’insegnante.

Ed eccoci a Pietro Marti (1863- 1933), il nome più altisonante fra gli intellettuali a cui Ruffano abbia dato i natali.[12]

Dalle svariate fonti in nostro possesso sappiamo che Pietro Marti nasce in una poverissima famiglia ruffanese, ma riesce tuttavia a studiare, tra mille sacrifici, ed a diplomarsi maestro elementare, attività che svolge a Ruffano, nei primi anni. Marti non aveva un carattere facile. Ben presto, i suoi rapporti con l’amministrazione comunale di Ruffano si fecero tesi ed egli, dopo ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, fu mandato ad insegnare a Comacchio. In realtà i motivi del suo esonero furono le arbitrarie assenze dal posto di lavoro. Oltre alle lettere, la sua grande passione è l’arte e l’amore per la sua terra, che lo studioso manifesta in vari modi, nella sua sfaccettata e multiforme attività. Spirito libero, brillante e poliedrico, si dà al giornalismo, fondando e dirigendo molte testate, fra le quali “La Voce del Salento”, “Arte e Storia”, “La Democrazia”, ecc. Il nome di Marti è anche legato alla nascita ed alla diffusione del Futurismo pugliese.  Nel febbraio del 1909, infatti, veniva pubblicato sul prestigioso giornale francese “Le Figarò” il Manifesto del Futurismo, la corrente letteraria fondata da Filippo Tommaso Marinetti. Sulla “Democrazia”, settimanale fondato e diretto da Pietro Marti, il 13 marzo 1909, vale a dire a meno di un mese di distanza dall’apparizione del manifesto Le futurisme sul “Figaro”, veniva pubblicato il “Manifesto politico dei Futuristi”. Ancora, dopo un periodo di parziale oblio del futurismo leccese, nel 1930, a smuovere le acque fu “La Voce del Salento”, nuovo settimanale fondato e diretto da Marti, con un articolo, a firma di Modoni, fortemente critico nei confronti dell’arte futurista. Questo articolo innescò l’effetto contrario rispetto a quello desiderato dal suo autore; vi fu infatti una levata di scudi, da parte degli esponenti del futurismo, in difesa del movimento. Lo stesso Marti, con lo pseudonimo di Ellenio, pur chiamandosi fuori dalla rissa che si era scatenata, esprimeva forti perplessità sulla concezione futurista dell’arte. E tuttavia, da intellettuale aperto e illuminato, pur non in sintonia con le idee dei giovani futuristi, accettava di pubblicare qualsiasi intervento. Si ritrovò così a dare spazio ad un gruppo di giovani artisti leccesi, che si chiamerà “Futurblocco”, capeggiato dall’allora poco più che adolescente Vittorio Bodini, nipote dello stesso Marti, il quale ricorderà sempre il nonno in pagine di grande affetto. Molti i meriti di Marti nell’arte. Da vero talent scout, fece conoscere al grande pubblico i giovani artisti salentini, con l’allestimento di Biennali d’arte a Lecce. Fu Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, e Direttore della Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” fino alla morte. Oltre ad una biografia di Antonio Bortone, in cui Marti dimostra la propria ammirazione per lo scultore ruffanese,[13] scrisse diverse opere di carattere storico, artistico e letterario. Fra queste, una la dedica proprio al filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini. Al martire di Tolosa, Marti si sentiva molto vicino per indole e temperamento e ne sposava idealmente la causa. Il libro è Giulio Cesare Vanini del 1907.[14] Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[15], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo di Vanini, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana se non un Giordano Bruno minore. Da citare anche l’opera Nelle terre di Antonio Galateo, [16]che faceva riferimento al grande autore del De situ Iapigiae, l’erudito del Cinquecento Antonio De Ferraris, di Galatone.

In tutto, si conservano circa 40 opere di Marti presso la Biblioteca provinciale di Lecce, che gli costarono molti anni di paziente ricerca, agevolata sicuramente dal suo incarico di Direttore della Biblioteca provinciale, nella quale egli profuse grandissimo impegno e amore per la nobile cultura di cui si sentiva paladino. Per questo, esaminò un numero impressionante di documenti e svolse ricerche sul campo per tutto il corso della sua carriera. Pietro Marti muore il 18 luglio 1933; a lui a Ruffano, è anche intitolata una via.   

 

Note

[1] Si rinvia a Francesco De Paola, Stefano Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, in Aa. Vv., Humanitas et Civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, “Quaderni de l’Idomeneo”, Galatina, Edipan, 2010, pp.123-184.

[2] Si veda Aldo de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento Borbonico, Tipografia di Matino, 1965.

[3] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990.

[4] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003, p17.

[5] Alfonso Mellusi, Catechismo religioso comparato con la storia sacra, Lecce, Tip. Gaetano Campanella, 1868.

[6] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi cit., p.10.

[7] Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico, Galatina, Congedo,1999, pp.176-179 ed anche Idem, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione Maglie, n. XII, Lecce, Argo, 2000, pp.193-203.

[8] Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003.

[9] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in op.cit., p.19.

[10] Pietro Marti, Lutto nell’arte, in “La Democrazia”, n.27, Lecce, 11 luglio 1909, riportato da Ermanno Inguscio nel suo saggio Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, in Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento cit., p.38, nel quale riporta anche il necrologio dell’Arnisi scritto sul “Corriere Meridionale” dell’8 luglio 1909: Ivi, p.29.

[11] Vincenzo Vetruccio, Carmelo Arnisi (Maestro-poeta/ 1859-1909), s.d..

[12] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234; Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7; Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, 2011, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[13] Pietro Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

[14] Pietro Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907; su quest’opera si sofferma Ermanno Inguscio in Vanini nel pensiero di Pietro Marti, contenuto nel suo libro Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134.

[15] Vittorio Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in “La Voce del Salento”, n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p.1.

[16] Pietro Marti, Nelle terre di Antonio Galateo, Lecce, 1930.

Pietro Marti e la scuola

Marti frontespizio1

Pietro Marti e la scuola

L’alunno, il maestro-professore, il dirigente scolastico

 

 di Ermanno Inguscio

 

A descrivere gli anni della sua infanzia ci viene in soccorso lo stesso Pietro Marti, il quale, nelle sue Memorie, opera incompleta, scrisse i ricordi autobiografici riguardanti il periodo storico compreso tra la sua nascita ed il 1879, anno nel quale ricevette la sua prima nomina a maestro elementare a Ruffano, suo paese natale.

L’opera, dedicata a Gregorio Carruggio, noto scrittore leccese, del quale era buon amico e con cui collaborava anche sulla rivista di quest’ultimo, “Il Salento”, è saltata fuori dal fondo di una biblioteca privata, rimasto nascosto sino al 1992. Il manoscritto steso con la caratteristica sua grafia appare composto di getto, viste le numerose correzioni e s’interrompe a metà di una frase sulla pagine segnata al 29 luglio di una agenda del 1932. Il manoscritto, iniziato nella stesura agli inizi del 1933, registra una interruzione con la frase, nella quale iniziava a descrivere l’incontro con una fanciulla “dalla dolce e pura affettuosità” e trova quasi certamente la sua spiegazione nella improvvisa morte del suo autore, avvenuta a Lecce il 18 aprile 1933. In quelle poche pagine, una quindicina in tutto, Marti descrive la sua infanzia triste e modesta, gli episodi che più colpirono il mondo della sua fanciullezza (l’abbraccio di Giuseppe Pisanelli, l’aurora boreale del 1871, i tristi eventi di miseria del 1873 tra le popolazioni salentine).

E’ una vera confessione che va al di là della esperienza di vita, in cui sembra rivivere il suo romantico immaginario giovanile, e che Marti fa interrogandosi intorno alla dimensione esistenziale dell’uomo nella società e offrendoci l’occasione per considerare  la profondità del suo saldo approdare nel mondo della cultura. Di sé giovanissimo Marti afferma di avere sempre creduto nell’ideale di pace e di giustizia, nell’amore reciproco, sebbene  orfano, povero, sperduto quasi nella solitudine grigia del borgo rurale.

Si smarriva di fronte alle miserie degli umili, considerava la donna vittima della sopraffazione sessuale, trepidava per l’abbandono e la maternità. La sua giovinezza era sbocciata in un’epoca di fanatismo rivoluzionario, ma era convinto  che  l’ideale è legge della vita ed alimento del progresso  e guardava con ripugnanza quanti, bruciando incenso  al Dio Tornaconto, misuravano i propri comportamenti sulla bilancia dell’egoismo.

Sin dalla piena maturità, e prossimo alla fine dei suoi giorni, egli restava turbato di fronte alle forme di cupidigia umana, di pervertimento, di privilegio e di miseria. All’età di tre anni, nel 1866, il piccolo Pietro, per iniziativa della sorella Caterina, venne investito del  “battesimo patriottico”: avvolto in un drappo tricolore e portato dentro una grande sala al pianterreno di palazzo Viva, venne consegnato nelle mani di un reduce garibaldino mutilato, in divisa indossata da Marsala al Volturno, che incitava a seguire Garibaldi per la liberazione del Veneto. Tra gli applausi e come augurio di vittoria, il piccolo Pietro venne mostrato all’assemblea festante tra canti di giubilo.

All’età di cinque anni, nel 1868, Marti venne portato dal padre, una sera,  nel palazzo di Antonio Leuzzi, munifico signore della città natale, ma liberale, che aveva invitato nel salone delle feste amici e personalità del diritto, della politica e dell’arte, per rendere omaggio al grande giurista Giuseppe Pisanelli. Una volta nel salone, dopo l’omaggio del padre al grande personaggio, il piccolo Pietro destò l’interesse del Pisanelli,  che si  mise amabilmente sulle ginocchia il piccolo, scambiando qualche frase con lui e baciandolo, infine, sulla fronte.

Del 1873, anno definito funesto per tutta la regione del Capo di Leuca, Marti rievoca le piogge torrenziali dell’autunno precedente e le grandini dell’estate, ma anche  la triste condizione di cittadine e villaggi, pieni di poveri mendicanti e di malfattori dediti a ruberie e assalti di ogni genere. Nella sua memoria campeggiano il ricordo infantile del pane nero d’orzo, introvabile, e delle erbe del contado, che costituivano l’unica base dell’alimentazione popolare; ma anche le mute privazioni delle sorelle e la cupa rassegnazione dei suoi genitori. Tra gli episodi di violenza  abbastanza inquietante era stato quello dell’assalto all’Ufficio del registro, compiuto da donne travestite da agenti di finanza.

A carestie e calamità si era aggiunta, nell’autunno, la morte del fratello Giuseppe. Aumentato lo stato di bisogno, il fratello Luigi aveva accolto come una vera fortuna la nomina di istitutore nel Convitto Palmieri di Lecce; il fratello Antonio, alunno prodigio del Ginnasio Capece di Maglie, aveva dovuto abbandonare gli studi e accettare anche lui un incarico nell’ insegnamento primario. Illuminante, tra primi ricordi scolastici di Marti, quanto egli scriveva di sé, piccolo scolaro: Spesso mi recavo a scuola senza pane, ma tanta miseria non faceva al mio spirito. Sebbene fanciullo sentivo in me qualcosa che mi faceva guardare con baldanza l’avvenire…, che la dice lunga sulla sua motivazione negli studi e sulla ferma volontà di riscatto personale e sociale. Nel 1874, a undici anni, il Nostro ebbe il modo di trascorrere una giornata trionfale a scuola. Egli, non sempre gratificato come dovuto dall’austero maestro, pur mostrando grande creatività nei testi scritti, viene sottoposto alla stesura di un compito in classe d’italiano (Prodigio di fede  e di costanza), alla presenza del terribile ispettore Calvino. Alla spedita consegna del testo, vergato senza brutta copia, dopo neanche due ore di tempo a disposizione, lo scolaro Marti provocò nell’arcigno ispettore grande meraviglia, per la bontà del prodotto. Questi se ne rallegrò davanti all’intera classe, dispensando lodi al piccolo prodigio e suggellando gl’incoraggiamenti meritati  con un bacio sulla fronte dell’alunno. Marti, per la compiacenza di tanti piccoli amici e il plauso inaspettato dell’Ispettore, riuscì a dimenticare le ingiurie della sorte (l’umiliazione degli abiti rammendati e le scarpe in pessimo stato).

Nel 1879, e per tre anni, ebbe l’incarico di maestro nelle scuole rurali di Ruffano. Una nomina, di gratificante prestigio sociale, all’inizio forse,  e ricevuta soprattutto per benevolenza di un sindaco, il liberale Leuzzi, ma stroncata da un vicesindaco Santaloja, che innescò un grave contenzioso, dopo un licenziamento per assenteismo, e che farà dire a Marti,  con amarezza, che la vita del Maestro di quel tempo fosse spesso un tirocinio di privazioni e di umiliazioni. L’educatore del popolo guadagnava appena tanto da non morire di fame e, soprattutto, il suo stato morale era fatto di servilismo obbligatorio verso tirannelli, spesso analfabeti, che la fiducia del patrio governo elevava alla carica di sindaci e ispettori.

Della sua cittadina di quel tempo, Ruffano, egli amava ricordare ben tre cose: la bellezza fascinatrice del paesaggio, la fraterna intimità di Carmelo Arnisi e la dolcezza pura e affettuosa di una fanciulla. Il clima ostile creatosi in paese  e la conflittualità aperta con l’amministrazione comunale, con esiti fino al Consiglio di Stato, lo costringono ad emigrare con alcuni fratelli nel capoluogo leccese.

Qui fonda un prestigioso ginnasio privato, frequentato da studenti della migliore intellighenzia di Lecce. Ma dopo appena due anni, e prima di fondare i giornali “La Democrazia” e “Il Popolo”, anche il suo ginnasio naufraga sotto i colpi di una dittatura faziosa e violenta. Nel 1893, già direttore de “L’Indipendente”, pubblica a Lecce Origine e fortuna della Coltura salentina, che gli procura notorietà nazionale, e, per “chiari meriti”, ottiene una cattedra per insegnare lettere e storia a Comacchio, nel ferrarese. E’ stato questo il passaggio di Marti da “maestro” a “professore”.

Nel 1895 pubblica a Ferrara il secondo volume de Origine e Fortuna della Coltura salentina, elogiato dallo stesso Carducci in Nuova Antologia.Dopo appena un biennio di esperienza scolastica tra i canali di Comacchio e molti plausi soprattutto in campo giornalistico (come direttore del foglio “Il Lavoro”), Marti, per questioni di salute, farà ritorno in Puglia. Egli sia a Taranto sia a Lecce troverà nel giornalismo e nell’insegnamento i due congeniali canali di realizzazione personale. Nella città ionica si fa apprezzare come operatore culturale (fonda “Il Salotto” e la sezione cittadina della “Dante Alighieri”), a Lecce, oltre che collaboratore di vari giornali, é apprezzato docente in vari tipi di scuola superiore (tecniche, artistiche e classiche).

In tutta la Puglia (Brindisi, Bari, Cerignola, Lecce)  e altrove (Roma) tiene conferenze di vario contenuto  storico-artistico. Accomuna una intensa attività produttiva editoriale a quella dell’insegnamento per un ventennio, sino a registrare anche l’esperienza di dirigente scolastico nella città di Manduria. L’11 ottobre 1921, per iniziativa del sindaco socialista Errico Giovanni, Marti viene designato per istituire a Manduria, in qualità di preside-dirigente, una “Scuola Tecnica privata”, quando a Lecce esercita la sua attività di professore di lettere nell’Istituto Statale d’Arte. Un anno di fruttuose soddisfazioni trascorre con un gruppo di circa 50 alunni iscritti, tra la soddisfazione di amministratori e famiglie. Così almeno sembra, a giudicare da una sua “Relazione” di fine anno, inviata al ministero il 29 luglio 1922.

Nell’autunno dello stesso anno, le mutate condizioni politiche generali e la baldanza della sezione fascista di Manduria rischiano di incrinare gravemente quell’esperienza scolastica, pure giudicata in città particolarmente fruttuosa. I fascisti locali lo accusano di avere percepito indebitamente due stipendi statali, dal novembre 1921 al gennaio 1923, e il clima in città sembra sommergere la buona esperienza del dirigente Marti. Nell’azione di volantinaggio fascista si getta fango sulla sua esperienza, si ipotizza la fine della “Scuola Tecnica Superiore” e il “tradimento” di Marti, come un dirigente scolastico “che se ne vuole andare” e affossare quell’istituto cittadino.  Marti, provocato sul registro della comunicazione a lui congeniale, risponde con suo volantino  a stampa, dal titolo “Per la verità” : nel giungere a Manduria, puntualizza, egli si era naturalmente messo in aspettativa  da professore a Lecce e l’opera diffamatoria della sezione PNF avrebbe portato tutti i responsabili in tribunale, con esiti di rilevanza penale. E nello stesso foglio dichiara: La missione della scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche; ed è triste per ogni paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima fra discepoli e maestri.

Un’autentica dichiarazione di valore ideale sulla funzione educativa dell’istituzione scolastica e della funzione docente, della necessità di una forte sinergia tra famiglia e scuola, dell’idea del servizio che la politica deve fornire nell’interesse generale della popolazione. Quell’istituzione scolastica a Manduria sopravvisse per il 1922-’23 e Marti, a cui era stato offerto un importante incarico scolastico a Taranto, ritirò la sua decisione. Rimase per un altro anno a dirigere la Scuola Tecnica in quella città, per poi rientrare definitivamente a Lecce nel 1924. Nel 1923 aveva fondato, intanto, l’importante rivista “Fede” (poi trasformata, dal 1926, in “La Voce del Salento”), era stato nominato Ispettore ai Monumenti della provincia di Lecce. Per invito dell’Associazione Pugliese, tiene a Roma una conferenza, riportata su tutti i giornali della capitale.

Nell’estate del 1924 prepara l’organizzazione delle Biennali d’Arte, cui partecipano artisti e cultori della Puglia e dell’intera Italia meridionale. Le Biennali saranno ripetute nel 1926 e 1928, con il consenso del Governo, di stampa e  di critica. Ormai la sua passione di “docente” si affina verso percorsi culturali che lo vedranno, tra le tante opere pubblicate, autore de Ruderi e Monumenti della Penisola Salentina (1932), anche Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”, prima di cominciare a scrivere le sue Memorie, preziose, ma rimaste purtroppo incomplete.

Non così la sua figura di docente appassionato in favore della scuola e di ciò che essa d’importante significa per l’intera società di ogni tempo.

Note su Ruffano e sui suoi colli ridenti

 

di Paolo Vincenti

“O del villaggio mio colli ridenti/ sparsi d’ulivi scintillanti al sole/ o d’aria pura libere correnti/ profumate di timo e di viole/ o boschetti dai verdi allacciamenti/ dove l’augelli intessono carole/ come sono dolci i vostri allettamenti/ come sono dolci le vostre parole!”

Con questi versi, tratti dalla lirica “Fra i campi”, Carmelo Arnisi, poeta ruffanese vissuto fra Ottocento e Novecento, si rivolge a  Ruffano e ai suoi “colli ridenti”, cioè quella dolce collinetta su cui sorge questo incantevole borgo centrosalentino.

   Proprio questa sua posizione geografica è rappresentata nello stemma civico della città, che raffigura tre montagne, con una fiamma che esce da quella centrale, su cui campeggia una lettera “R” maiuscola, coronata. La

Libri/ Carmelo Arnisi, un maestro-poeta dell’800

di PaoloVincenti

Nel 2003, è stato pubblicato da Congedo, per la Collana “Biblioteca di Cultura Pugliese, il volume  “Carmelo Arnisi, un maestro-poeta dell’800”, sulla figura di questo intellettuale ruffanese, vissuto a cavallo fra i due secoli Ottocento e Novecento, che, fino ad allora, era poco conosciuto.

Questo libro, a cura di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, è stato pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano e su impulso della Pro Loco e dell’allora suo Presidente, prof.Cosimo Conallo che, nell’Introduzione, sottolineava come fosse giustamente ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, a cui a Ruffano è stata

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