Dal Carnevale alla Pasqua. I riti della Settimana Santa a Gallipoli

di Paolo Vincenti

 

Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.

Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina.  Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione.  Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.

Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].

La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati.  È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.  I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].

Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.

Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.

In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].

Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.

A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.

Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.

La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.

Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].

Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].

Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.

I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].

Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.

La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani.  Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.

 

A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.

Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].

Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te li Vastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.

Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.

Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.

 

Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla.  La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.

Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.

Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].

Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].

Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24].  In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].

Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite.  “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si dicevascapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].

Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”).  Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].

A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].

Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].

Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.

Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].

Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

 

Note

     [1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.

     [2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.

     [3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.

     [4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.

     [5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

     [6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

     [7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.

     [8] Ibidem.

     [9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

     [10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [11] Ibidem.

     [12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

      [15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [16] Ibidem.

     [17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

   [19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [21] Ibidem.

     [22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.

     [23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.

     [24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.

     [25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

     [27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.  Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

     [28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

     [29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

     [30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

     [31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.

     [32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

     [34] Ibidem

     [35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.

 

Il periodo quaresimale della civiltà contadina del Salento (II parte)

Salento fine Ottocento

La Quaremma

(seconda parte)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Al primo tocco della campana di mezzogiorno uomini, donne e bambini erano lesti a  confluire al centro della strada, vicolo o corte dove abitavano, ordinatamente sistemandosi a largo cerchio, come a tracciare un perimetro sacrale. L’officiante della cerimonia, scelto nella persona del residente più anziano, era l’ultimo ad arrivare, scenograficamente sbucando dal punto più lontano e avanzando lentamente, quasi volesse, nel suo passo stanco,  materializzare il senso della mortificazione. Al suo apparire le donne nascondevano le mani sotto il grembiule in segno di compunzione, mentre gli uomini, scopertosi il capo e deposte a terra le coppole, gli si facevano incontro per scortarlo onorevolmente fino al centro del cerchio, da dove, appena giunto, invitava i presenti a segnarsi di croce e ringraziare il Padreterno pi llu tiémpu utu a ssardàre li cunti e scansare lu fuécu (per il tempo avuto a saldare il debito facendo penitenza ed evitare così l’inferno). A un suo triplice schioccare di dita, poi, i ragazzi prescelti a fare la spinnàta (la spennata), e che fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa, partivano a razzo, sveltamente arrampicandosi sobbra lli scale lliatìzze (su delle lunghe scale a pioli) precedentemente disposte in corrispondenza di ogni quarémma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e aver sostato un attimo pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia (per far sì che il cielo avesse il tempo di notarli), sfilavano una delle penne confitte nell’arancia, contemporaneamente staccandone il filo di lana che lasciavano penzoloni nel vuoto. Dal basso intanto li raggiungeva un coro di voci, capeggiate da quella tremula del vecchio:

Passàu nn’àura simàna e cchiù bbicina ddirlàmpa la croce: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci! Ti lu circàmu cu lla facce an terra: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci!

 “E’ passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo, perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra: Cristo, perdona i nostri peccati!”.

A guardarla dall’alto, quella manciata di penitenti che si battevano il petto con i pugni doveva essere più che pittoresca, ma i ragazzi non avevano tempo alla riflessione: dovevano affrontare la discesa, e madri e nonne erano state chiare nel metterli sull’avviso:

Pinsàti a lla  penna… mi raccumànnu… cu nno bbi scappa ti manu… ricurdàtibbe ca sempre s’à ddittu: centu spintùre pi nna penna persa e mmuzzicàte ti la mala sorte pi nna ruculàta ti maràngia!

“Pensate alla penna… mi raccomando… che non vi sfugga di mano… ricordatevi che si è sempre detto: cento (molte) sventure a causa di una penna persa  e morsicature della cattiva sorte per  la rotolata  di una maràngia!”.

Questo associare nei segni nefasti della discesa tanto la perdita della penna quanto la ruzzolata dell’arancia, autorizza a credere che, originariamente, alla mano della quarémma ne venivano appese sette di marànge , ognuna con la sua brava penna infilzata; uso probabilmente soppresso a causa della difficoltà incontrata nel far reggere i sette pesanti frutti, non dimenticando al proposito che i fantocci rimanevano per ben quaranta giorni esposti alle intemperie, per cui bastava un più gagliardo proporsi di vento a mutilarne le orpellature. A ulteriore avallo dell’ipotesi sta il fatto che i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia  da consegnare  insieme alla penna al vecchio, ai cui piedi c’era un paniere nel quale depositare i frutti. Un’operazione alla quale non si dava importanza, concentrando l’attenzione unicamente sulle penne, rette con solennità quasi fossero trofei e che il vecchio, dopo averle accuratamente sistemate a ventaglio, deponeva sobbra’a nnu quatiéddhru o nna liccìsa (su una pietra – tufacea o leccese – squadrata) precedentemente sistemata al centro del cerchio  dal più autorevole dei capifamiglia presenti, affinché servisse come improvvisato piano di ara.

Ormai si era nell’ultima fase del rito espiatorio, ma prima di procedere alla bruciatura delle penne, valevole appunto come simbolica cancellazione delle colpe, si chiedeva al cielo un segno di accettazione, implorando coralmente: “Nfàcciate Ddiu, e ll’uégghiu pi bbrusciàre mànnalu cu nna manu ca sta ffiùra” (“Testimonia  la tua presenza, o Dio, facendo sì che a portarci l’olio per bruciare sia la mano di una creatura in fioritura”). Detto questo, i presenti rompevano il cerchio, disponendosi in due file compatte, e dal fondo, con l’aria liliale di una comunicanda, si faceva avanti una donna visibilmente gravida: “Simente minàu ratìci, e ssontu terra ca ngrossa la spica” (“Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga”), attestava ponendosi alla sinistra dell’officiante, subito aggiungendo con maggiorata enfasi: “Ndegna jò, ma l’ànima nnucénte ca bbi nnucu pote tare uégghiu a lli piéti ti Ddiu” (“Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”). Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sulle penne, tracciando segni di croce e intonando un “Credo” al quale tutti facevano coro, pronti a ricomporre il cerchio non appena il vecchio, accostando un tizzone acceso,dava fuoco alle penne.

Non rimaneva che sbucciare le marànge: un compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre l’officiante a distribuirne gli spicchi, a uno a uno, religiosamente come fossero ostie, e non senza aver prima raccomandato: “Ci bbi rrappa la lengua, pinsàti a llu fele ti Cristu!” (“Se vi si inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!”).

Allo sgradevole odore dell’olio bruciato, per un attimo si sovrapponeva quello amarognolo emanato dalle bucce delle arance, subito fatte oggetto di spartizione – qualche volta di contesa – da parte delle donne: se le dovevano portare a casa, e come teste dell’avvenuto rituale e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, ormai finita la quarantena, le quarémme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e, in un crescendo di selvaggia euforia, buttare abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di maràngia  unitamente a manciate di sale.

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Anche se c’era ancora da scontare il “pane e acqua” del venerdì santo e piangere il Cristo morto correndo di chiesa in chiesa dietro la statua dell’Addolorata al lugubre suono ti la fròttula (del crotalo), già si respirava aria pasquale: issati al posto delle quarémme  folti rami d’ulivo benedetto tenuti appositamente in serbo fin dalla domenica delle Palme, e nell’euforica attesa di potere ammirare a sera li santi sipùrchi  (i sacri sepolcri, cioè le reposizioni del Santissimo Sacramento), i cui caratteristici piatti di ranucìgghiu (germogli di grano) trasformavano gli altari in altrettanto campi primaverili, tutti rientravano nelle loro case, pronti a prendere d’assalto la mminisciàta ti pizzariéddhri ndurcinàti (scodellata di maccheroncini addolciti), tanto più calamitanti in quanto alla loro insolita proposizione infrasettimanale assommavano un’altrettanto insolita manipolazione gastronomica.

* La gallina nera, essendo usata dalle fattucchiere nell’orditura dei loro malefici, veniva guardata dal popolo con sospetto: sentirla cantare da gallo (verso emesso spontaneamente di tanto in tanto) era annuncio di morte. Anche le sue penne rientravano nell’alone della negatività: trovarsele sul proprio cammino o, peggio ancora, sulla soglia di casa, era simbolo dell’avventarsi di una disgrazia, per cui, a neutralizzazione, occorreva raccoglierle e bruciarle in un determinato modo.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi  nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252-258)

 

La prima parte si trova qui:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/24/il-periodo-quaresimale-della-civilta-contadina-alla-fine-dellottocento/

 

Il periodo quaresimale nella civiltà contadina del Salento

Ripercorriamo il periodo quaresimale della civiltà contadina alla fine dell’Ottocento, attraverso il simbolico fantoccio salentino che Giulietta  ci ripropone antropologicamente nel libro “Tre Santi e una Campagna”.

 

Salento fine Ottocento

La Quaremma (prima parte)     

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Anche alle prime luci del mercoledì delle Ceneri c’era da assistere a uno spettacolo: quello delle quaremme, che i capifamiglia avevano nottetempo issato sui comignoli e che  ora l’incedere dell’alba via via rivelava nel loro orrido quanto caratteristico aspetto: fantocci a grandezza d’uomo, rozzamente approntati con legno, paglia e stracci, riproducenti vecchie megere tetramente vestite con logori indumenti neri, o comunque molto scuri. Sulla fronte, circoscritta da un fazzolettone annodato alla campagnola, una ciocca di lana bianca a simulare capelli, e all’estremità delle braccia – mantenute in posa orizzontale da un manico di scopa – due pale di ficodindia che, a mo’ di mani, reggevano l’una un fuso con alcuni fili di lana  e l’altra  una maràngia (arancia amara) con infilzate sette penne, strappate alla coda di una gallina nera. Tra fuso e arancia, sette fili di lana che, a meglio esprimere la filatura del tempo penitenziale, venivano separatamente annodati alle sette penne, rappresentanti appunto le sette settimane quaresimali.

Rizzare la quarémma sul proprio comignolo o – se questo risultava internato e perciò non visibile dalla strada – sul cornicione della terrazza era testimonianza di religiosità, anzi un porsi nel novero dei cristiani più osservanti, di quelli (quasi tutti), per intenderci, la cui compiacente affermazione “Nui sciàmu all’antica” (“Noi andiamo all’antica”) denunciava fedeltà ai rigorismi medievali.

Il tempo dei pubblici peccatori lasciati in quarantena dietro la porta della chiesa era ormai lontano, ma sia pure in spigolature aneddotiche ne sopravanzava memoria, rinverginando scrupoli – individuali e collettivi – allorché, in vista del rinnovamento pasquale, si entrava nell’apposito clima della contrizione. Una sorta di ricapitolazione delle proprie manchevolezze, peraltro incentivata dai sermoni dei quaresimalisti appositamente fatti inìre ti fore paése (fatti venire da fuori), i quali, calcando sulla necessità dell’espiazione, non di rado arrivavano a

Il Salento dei Malladrone, Pappamusci, Patipaticchia, Battilocchio e delle Caremme

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Siamo quello che siamo stati.

Quello che ogni giorno proviamo e sentiamo dentro di noi, l’abbiamo già vissuto mille volte. Da bambini. Da adolescenti. Da ragazzi. Da piccoli uomini o piccole donne. Poi, siamo entrati nel pieno della vita.

Quello che siamo stati è il nostro futuro. Sempre. Anche quando il futuro ci sembra lontano e irraggiungibile. O ha tutta l’aria di essere passato.

Siamo la nostra memoria. Fatta di giorni o di semplici momenti che ci hanno fatalmente segnato. Giorni e momenti indimenticabili. Impossibili da raccontare se non a se stessi, nell’intimo del proprio ricordo, della propria emozione, che calda rivive nei sensi e nell’anima.

Non è soltanto nostalgia né un rifugio né una fuga dal tempo. È il sogno concreto della nostra condizione di esseri intelligenti e sempre un po’ romantici, della nostra piccola personale epopea. E non importa davvero come essa sia stata. Perché sappiamo assai bene – ognuno a suo modo, e nonostante tutto – che è stata bella e completa. Perché sappiamo che in quel tempo reale e ideale siamo cresciuti giorno dopo giorno, assaporando i misteri e la bellezza della vita, cominciando a conoscere, a scoprire, a soffrire, ad amare, a sperare, a combattere, a vincere, e qualche volta a perdere, senza che nessuna ferita ci sia mai apparsa irrimarginabile. La vita ci voleva forti e sereni.

Più tardi, quando saremmo diventati ‘grandi’, il nostro tempo primordiale avrebbe assunto le dimensioni del sogno. Così, quando ci capita di guardare indietro, spesso ci sembra di rivederci come se fossimo ‘altri’, come se la nostra infanzia e adolescenza fossero irreali, raccontati o dipinti dalla nostra o dall’altrui immaginazione.

Ecco allora che in nostro soccorso, per non disorientarci più di quanto dovremmo, viene la visione custodita con cura di quel tempo non lontano e tuttavia remotissimo. Una visione che assume i contorni del racconto, della poesia, della leggenda.

 

Siamo stati anche noi parti attive delle leggende salentine. Di certo, da bambini, abbiamo vissuto in un’aura fantastica, talora fors’anche spaventevole ma che oggi ci appare semplicemente magica. Di volta in volta, a seconda delle occasioni, i nostri genitori e i nostri nonni o i compagni più saputi e più grandi ci facevano ‘toccare con mano’ i personaggi e i luoghi concreti dove i racconti favolosi della nostra terra avevano avuto origine, e noi stessi li abbiamo poi tramandati ai nostri figli e nipoti. Com’è nell’ordine delle cose del mondo.

Il Malladrone di Gallipoli
Il Malladrone di Gallipoli

Il Malladrone di Gallipoli, per esempio. Figura spregevole, degna del più assoluto disprezzo. L’incarnazione del male, della cattiveria, dell’empietà. Occhi iniettati di sangue, riso beffardo, sguardo sprezzante, e denti rabbiosi, in una verosimiglianza terribilmente sbalorditiva. Oggetto e soggetto di leggende raccapriccianti, come quella che lo vogliono pronto a scendere dalla croce e vagare nottetempo nei vicoli della Città Vecchia, per il semplice e perfido piacere di spaventare a morte i nottambuli solitari. O l’altra, ancora più nota, che parla delle sue vesti sempre lacerate e cenciose: ogni qualvolta vengono restaurate o rifatte ex novo, il giorno dopo ridiventano squarciate e disfatte: i gallipolini dicono che è egli stesso a strapparle e dilaniarle coi suoi denti mostruosi.

Il famigerato Misma (nome del Malladrone) non si pentì mai dei suoi orrendi misfatti, nonostante sul Calvario fosse stato accanto a Gesù Cristo, il quale nella sua somma misericordia lo perdonò d’ogni colpa. Non lo perdonò mai il popolo. Tant’è che la statua lignea in un’ala della chiesa di san Francesco d’Assisi che lo rappresenta con un ghigno feroce in tutta la sua scelleratezza – opera del XVII secolo del frate Vespasiano Genuino – è continuamente visitata a simbolo e a ludibrio perpetuo della malvagità umana.

Nell’estate del 1895 fu ‘ammirata’, fra i tanti, anche da Gabriele D’Annunzio. I gallipolini, e non solo, continuano a portare i propri figli al cospetto di un simile crudele personaggio per suscitaresentimenti frammisti di esecrazione e pietà, o di vergogna e apprensione, come testimoniano questi versi, tratti dalla tradizione popolare: «Pùh, ci sì bruttu, cu te càscia ‘utta! / Ci te vitia de notte, largu sia / cu sta facce rrignata e cusì brutta / sarà ca me cacava pe la via!».

Anche a Galatina, nella chiesa dell’Addolorata, c’era un’analoga statua (in cartapesta) che suscitava ribrezzo e timore: era quella di Patipaticchia, lo spietato flagellatore di Cristo, che veniva esposta al furore dei fedel nel periodo della Settimana Santa dedicato alla visitazione dei Sepolcri: chiunque vi si avvicinasse – uomini, donne, vecchi o bambini – si scagliava contro questa trista figura, e si ‘vendicava’ (in una sorta di inconscio esorcismo e affrancamento espiatorio dei propri peccati), conficcandovi spilli e chiodi, o graffiandone il corpo in un frastuono di urla e imprecazioni.

 

Tra la fine del Carnevale e la Pasqua intercorrono, com’è noto, i quaranta giorni della Quaresima. È altresì noto che in questo periodo, e già dal mercoledì delle Ceneri, in molti paesi del Salento dove la tradizione è ancora radicata – si pensi al territorio intorno a Gallipoli, ai comini del Capo di Leuca o alla Grecìa Salentina –, appare appesa ai crocicchi delle strade la tipica Quaremma o Caremma, un fantoccio raffigurante una vecchia brutta e sdentata, vestita di abiti scuri, che in una mano tiene il fuso e la conocchia, e nell’altra un’arancia amara, simbolo di afflizione e pentimento, con sette penne di cappone o gallina conficcate, che vengono poi sfilate una alla volta per ogni settimana di Quaresima, fino all’ultima, levata a mezzodì della domenica di Pasqua, ora in cui la Quaremma verrà definitivamente bruciata, in un rito salvifico da colpe e peccati.

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Probabilmente ispirata alle famose Parche della mitologia greca, e precisamente a Cloto, che filava il destino degli uomini, la nostra Quaremma serviva soprattutto a monito del periodo di lutto, penitenza e sacrificio che tutti i cristiani dovevano osservare tra le Ceneri e la Pasqua, richiamandoli non soltanto ad una severa osservanza morale, con le varie liturgie religiose e la recita del Rosario, ma anche ad un comportamento di igiene alimentare, che prevedeva fra l’altro il mangiare di magro e, in alcuni giorni, l’obbligo dell’astinenza e del digiuno.

Ancora oggi, le maggiori solennità della Quaresima si svolgono il Giovedì e il Venerdì Santo: dapprima con la visita ai Sepolcri, in un’atmosfera di commossa partecipazione e di silenzio assoluto (anche le campane vengono legate per non fare il minimo rumore, e l’unico suono udibile è quello stridulo del tipico attrezzo in legno detto tròzzula o tròccula); poi con la mesta e affollatissima processione dei Misteri, che assume il valore di una spettacolare sacra rappresentazione, particolarmente in alcune città come Taranto, Gallipoli, Grottaglie o Francavilla Fontana (qui con la famosa processione de li Pappamusci, di derivazione spagnola).

 

Da Pasqua a Pasquetta ovvero dal divino al terreno. Se per un verso l’uomo sente di dover rispettare e onorare le leggi etiche e religiose, egli ha altresì il bisogno naturale di esprimere la propria gioia di vivere. E una delle occasioni più festose dell’anno è certamente quella del Lunedì dell’Angelo o in Albis, che prende nome dall’incontro che le pie donne giunte al Santo Sepolcro ebbero con un Angelo ”in albis vestibus” (con bianche vesti), che le avvertì che Cristo era risorto.

In questo giorno, in molti paesi si festeggia appunto la “Pasquetta”, con la tradizionale gita fuori porta, che esalta il piacere della convivialità. La maggior parte dei salentini ama riversarsi sulle marine: Gallipoli, Porto Cesareo, Torre dell’Orso, Otranto, Santa Maria di Leuca, Castro… Quest’ultima meta, in particolare, offre anche la possibilità di una visita alla famosa Grotta Zinzulusa, il cui nome sembra derivare da una suggestiva leggenda.

Si narra infatti che un certo Battilocchio, barone di Castro, uomo di estrema crudeltà, essendo assai geloso della bella moglie Rosaura, un giorno la uccise, costringendo peraltro la loro giovane figlia Margherita a vivere di stenti e a vestire di stracci. La buona fata Amelinda, scoperto l’intrigo e mossa a pietà, liberò la giovane da quella schiavitù e la diede in sposa al principe Bellomo, dopo aver gettato le vesti lacerate che fino a quel momento l’avevano a malapena ricoperta. Portati via da un vento particolarmente impetuoso, gli stracci o zìnzuli, nel dialetto salentino, andarono a pietrificarsi sulle pareti di una grotta, che da allora venne appunto chiamata Zinzulusa.

E lo snaturato barone Battilocchio? Il meno che gli poteva capitare fu di sprofondare nei meandri più lugubri della stessa grotta, facendo scaturire il laghetto Cocito, che alcuni dicono sia l’anticamera dell’Inferno.

Certo, viene da pensare che se anche al mondo d’oggi ci fossero le buone fate come Amelinda certe prepotenze e ingiustizie, forse, non ci sarebbero più…

Alla prossima.

 

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Da Sabato Santo a Pasquetta. La gran settimana a Maglie e nel Salento

di Emilio Panarese 

Sabato santo

Alcuni anni fa la cerimonia della Resurrezione, che oggi si celebra a mezzanotte, si anticipava al mezzogiorno del sabato.

Si disfa il Sepolcro e, se i fiori sono ancora freschi, si adoperano per ornare l’altare maggiore. Chi ha portato il piatto di grano tallito, va in chiesa a riprenderselo: lo seppellirà tra la terra dell’orto o del campo o lo brucerà in casa, perché altrimenti, se profanato, gli sarà negato un buon raccolto. Ma oggi nessuno più è succube di questa superstizione.

Al resurrexit era una gran festa: si sonavano a distesa le campane (se scapulâne: dal lat. excapulare,”si liberavano dal cappio”), si sparavano i fucili in aria o contro la caremma[1]); in chiesa, in casa, per le strade si batteva con gran rumore sulle panche, alle porte, ai portoni, contro le spalliere dei letti e venivano ridotte in più cocci le vecchie stoviglie di casa.

Il fracasso era veramente infernale: tutti si picchiavano a vicenda con forza, de santa raggione, così che, a furia di pacche, molti si snervavano, col vantaggio però di essersi scrollati di dosso, con quei colpi …lustrali, anche i più grossi peccati:

Lu sàbbatu de Pasca a mmenzitìe,

ca te lu campanaru scapulâne

tutte quattru mpacciute le campane,

ci cchiù se scia mbrazzannu a mmenzu vie

e a botta de papagne se sciummâne.

(Nicola G. De Donno)

 

Anche gli apprendisti (discìpuli) le prendevano dal maestro di bottega e le discìpule dalla sarta o dalla maestra ricamatrice e così forte da piangere veramente (cu ttuttu lu core) come nei seguenti quattro endecasillabi a rima baciata:

Sàbbatu santu, currennu currennu

ca le carúse vannu chiangennu,

vannu chiangennu cu ttuttu lu core,

sàbbatu santu cuddure cu ll’ove.

Era ritenuto fortunato chi nasceva o era battezzato in questo giorno, tanto che se era maschio o figlio di povera gente, una volta adulto, veniva incamminato al sacerdozio a spese del Capitolo, perché essere sacerdote in un paese rurale come Maglie significava un tempo godere di franchigie fiscali, del beneficio ecclesiastico, di immunità e sicura promozione sociale.

Anche il sabato santo c’era la processione: durante l’ultima guerra alcune truppe polacche dislocate a Maglie solevano festeggiare la festa di Cristo risorto, portando per le vie del paese su un carro di guerra, seguito da molti fedeli, la statua del Redentore.

Ma il giorno di sabato santo è soprattutto il giorno della cuddura, una delle poche tradizioni magliesi ancora in uso.

La cuddura[2] (dal greco kollùra) è un grosso tarallo o dolce di pasta frolla, intrecciato o no, cotto nel forno, con una o più uova sode in numero dispari[3] nel mezzo o tutt’intorno, che una volta si consumava solo il lunedì o il giovedì in Albis.

 

Anche l’origine di questa tradizione forse è pagana e continuerebbe l’usanza che avevano le cestefore di portare oggetti mitici dinanzi alle statue di Cerere e di Proserpina nelle processioni di febbraio, luglio e novembre, come pagano era l’uso di mangiare, il 17 marzo, nella sagra di Libero Bacco (Liberalia) l’uovo sodo, immagine del mondo, inizio di tutte le cose.

Agnello pasquale di pasta dolce – Santa Cesarea Terme: sagra della cuddura (coll. priv. Nunzio Pacella)

 

Le cuddure hanno forme e nomi vari; appena uscite dal forno, si nascondono in casa per la scampagnata del lunedì. Se ne fanno rotonde, intrecciate, a forma di delta, di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di angelo, di margherita, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, oppure a forma di tromba, con due protuberanze laterali e l’uovo nel mezzo, come quelle, magistralmente lavorate, che si sono esposte nella Mostra della cuddura a S. Cesarea Terme[4].

Molto diffusi a Maglie la pupa e il campanaru.

cuddura con pasta dolce

 

La pupa è una cuddura a forma di bambolina con le treccine di pasta, con due chicchi di caffé e due acini di pepe al posto degli occhi, grani di riso e senape al posto della bocca e del naso. Ha le braccia incrociate nell’atto di portare un uovo sodo che fa capolino dalla pancia; mentre il campanaru ha forma cilindrica e due uova alla base.

Non manca chi ancora si diverte ad ornare agnelli, galletti e colombe con nastrini colorati o con ritagli di panno rosso tagliuzzato (viddusi, “vellosi”) al posto di creste o di ali.

In quanto alla qualità, vi sono quelle di tipo rustico e quelle di tipo dolce. La prima, secondo un’antica tradizione magliese, si fa in questo modo: si prende della farina di grano, si scalda un po’ d’acqua e vi si scioglie un po’ di lievito di birra, si aggiunge un pizzico di sale e si lascia lievitare per circa un’ora. Dopo che la pasta è ben lievitata, si passa all’impasto e, dopo aver dato la forma voluta, dentro si mette un uovo sodo con tutta la scorza. All’ impasto alcuni aggiungono olio e cipolla tritata.

Cuddure magliesi

 

La cuddura di tipo dolce, di pasta frolla, si ottiene invece mescolando farina di grano, strutto, uova, lievito e zucchero. Si lavora bene la pasta, a cui si possono aggiungere pezzi di noce, si dà la forma desiderata e si mette nel forno sino a completa cottura.

Un secolo fa le giovanette solevano donarle ai fidanzati nel giorno di Pasqua.

Se ne vannu prima le cuddure ca lli panetti si diceva una volta per significare che a volte muoiono prima i giovani che i vecchi.

 

Pasqua

Per evitare le più gravi sventure è obbligo per tutti ascoltare la messa e divieto assoluto di recarsi al lavoro: bisogna ad ogni costo intervenire alla benedizione e vestire gli abiti più belli; persino le umili fornaie, per le quali tutti i giorni sono uguali, s’agghindano.

De la strina se mmuta la ricina,

de la Bbifania se mmuta la signurìa.

de Pasca e de Natale se mmútane le furnare.

 

Anche qualche albero, spoglio per tutto l’inverno, ora che è venuta la Pasqua, se mmuta, indossa un nuovo vestito di foglie:

A fica nu ffila e nnu ttesse,

ma te Pasca vistuta se nn’esse.

Tutti, nessuno escluso, in chiesa quel giorno, anche le bestie, se è possibile: Porci a mmissa la mmane de Pasca!, proverbio che si usa anche per indicare un fatto straordinario, inconsueto.

Assai gradita è ai contadini la Pasqua d’aprile (Pasqua alta) [5], specialmente quella rugiadosa o piovosa che fa sperare in un buon raccolto; come nei seguenti ditteri distillati dalla secolare clessidra del tempo:

Natale ssuttu e Ppasca muttulusa.

se oi cu bbegna l’annata graziusa;

Natale lucente e Ppasca scurente,

se oi cu bbegna bbona la simente;

o come in questi altri con qualche piccola variante:

Ci oi cu bbiti l’annata cranosa,

Natale ssuttu e Ppasca muttulosa;

ci oi cu bbegna na bbona ‘nnata,

Natale ssuttu e Ppasca mmuddata.

Se invece essa cade di marzo (Pasqua bassa), quando i terribili danni delle gelate e delle grandinate fanno temere per il raccolto futuro e quando la terra ha pochi frutti da offrire, porta carestia, fame e morte:

Pasca marzotica, o murtalità o famòtica.

 

A mezzogiorno tutti a tavola per gustare l’agnello di pasta di mandorla. Tanto Natale tanto Pasqua, i due giorni più solenni dell’anno, vanno goduti nell’intimità familiare:

De Natale e dde Pasca cu lli toi,

de Carniale cu cci oi.

Bisogna godersela questa festa eccezionale, perché il giorno dopo si tornerà al travaglio usato; i giorni lieti sono fugaci e assai rari e non sempre ci si può godere né astenere dalla dura fatica:

Ca nu ssempre è Ppasca.

 

Finita a llu Riu

Le feste pasquali si concludono, in tutto il Salento, con una scampagnata, una colazione all’aperto, il lunedì o il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ai confini del paese o poco fuori, detta finita (dal lat. fines, “confine”), com’erano chiamate le grosse pietre informi che segnavano il confine tra due feudi o tra due estese proprietà.

Una finita

 

Qualche decennio fa i magliesi erano soliti il lunedì di Pasqua fare la finita (talvolta oggi si preferisce darsi appuntamento in qualche ristorante della costa) in alcune campagne o a mezzo miglio da Maglie, sulla via per Gallipoli, in un boschetto posto in una lieve salita, detto lu Riu (Riu, Rio, Ria, Vria, Uria, lo Ria, Loria in loco detto lo Monterone o lo Montarroni, in antichi documenti) [6].

Agli inizi del secolo scorso invece la mangiata o finita o paneiri si faceva, non il lunedì ma il giovedì dopo Pasqua, in un luogo poco distante da lu Riu, sempre in località Muntarrune e precisamente a llu Frabbàlli (dal nome di una cappelletta rurale o grancia di S. Giuseppe, vulgo detto lo Balli de jure patronatus del Rev.do Capitolo di Maglie). L’agiotoponimo Frabballi è poi passato a significare, nel dialetto magliese, ” luogo segreto, nascosto”: “A ddu a teni scusa, ssutta lu Frabballi?”.

 

note al testo 

[1]La caremma o quaresima, dal lat. quadragesima dies, spazio di quaranta giorni dal mercoledì delle ceneri alla Pasqua, immagine della Moira, della parca Cloto, che fila il destino degli uomini, simbolo della penitenza quaresimale, della mestizia, della mortificazione dei sensi, del digiuno, del duro lavoro, viene bruciata in questi ultimi anni su una fascina di sterpi al Largo Madonna delle Grazie. È un fantoccio riempito di paglia coperto da una maglia scura o da un panno nero e da un fazzoletto che fa vedere solo la faccia. Ha in mano il fuso e la conocchia ed è intenta a filare la lana. Sotto i piedi le si mette un’arancia con sette penne infilzate a raggiera quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana se ne toglie una. Il giorno di Pasqua, quando le campane suonano a distesa, “annunziando Cristo tornante ai suoi cieli”, la caremma detta pure zzita caremma, viene bruciata o sparata col fucile. Questo fantoccio, che viene sparato o arso al rogo, non vuole essere altro che l’esorcizzazione, in luogo pubblico, dal male, la ritualizzazione della liberazione di tutto ciò che è simbolo di sterilità della terra, di privazione, sofferenza, carestia, miseria, fame.

Me pari propriu na caremma si dice a donna magra e brutta o fin troppo avvolta nei panni (Emilio Panarese, Folclore Salentino. La Caremma, in “Tempo d’Oggi”,II,6).

[2]In alcune zone intorno a Lecce, ma anche nel brindisino e nel tarantino la cuddura è chiamata puddica dal deverbale puddicare che è il lavorare la pasta coi pugni, premendo col pollice (pollex); mentre nel barese, ma anche in alcuni centri del brindisino e del tarantino, è detta scarcedda, avendo questo pane dolce con l’uovo nel centro la forma di una borsa per denaro (cfr. it. scarsella e fr. escarselle).

[3]In numero dispari, 5 o 7 o 9 o 11 o 17 o 21, perché i numeri in caffo hanno virtù propiziatoria e procurano prosperità e fortuna, essendo graditi agli dei: numero deus impari gaudet.

[4]L’Azienda di soggiorno cura e turismo di S. Cesarea Terme, che nel 1978 aveva patrocinato la Sagra della cuddura, organizzò nel 1987, nella decima edizione della sagra, nel ristorante Lu marinaru, la Mostra della cuddura, a cui parteciparono i più noti panificatori salentini di Maglie, Lecce, Vignacastrisi, Poggiardo, Vitigliano, ecc.

[5]La Pasqua è una festa mobile e cade nella prima domenica dopo il plenilunio equinoziale di primavera; non può cadere mai prima del 22 marzo (Pasqua bassa) né dopo il 25 aprile (Pasqua alta).

[6]Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel). L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina ruscìara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto meno è da accostare al toponimo surbense Aurìo, che R. Buya, attraverso una serie di strampalate congetture, fa derivare nientemeno, spostando l’accento, dal lat. haurio, “assorbo”, “ingoio”. Ignotum per ignotum!

 

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.371-375 –  
 
Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

Il periodo quaresimale della civiltà contadina del Salento (II parte)

Salento fine Ottocento

La Quaremma

(seconda parte)

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Al primo tocco della campana di mezzogiorno uomini, donne e bambini erano lesti a  confluire al centro della strada, vicolo o corte dove abitavano, ordinatamente sistemandosi a largo cerchio, come a tracciare un perimetro sacrale. L’officiante della cerimonia, scelto nella persona del residente più anziano, era l’ultimo ad arrivare, scenograficamente sbucando dal punto più lontano e avanzando lentamente, quasi volesse, nel suo passo stanco,  materializzare il senso della mortificazione. Al suo apparire le donne nascondevano le mani sotto il grembiule in segno di compunzione, mentre gli uomini, scopertosi il capo e deposte a terra le coppole, gli si facevano incontro per scortarlo onorevolmente fino al centro del cerchio, da dove, appena giunto, invitava i presenti a segnarsi di croce e ringraziare il Padreterno pi llu tiémpu utu a ssardàre li cunti e scansare lu fuécu (per il tempo avuto a saldare il debito facendo penitenza ed evitare così l’inferno). A un suo triplice schioccare di dita, poi, i ragazzi prescelti a fare la spinnàta (la spennata), e che fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa, partivano a razzo, sveltamente arrampicandosi sobbra lli scale lliatìzze (su delle lunghe scale a pioli) precedentemente disposte in corrispondenza di ogni quarémma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e aver sostato un attimo pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia (per far sì che il cielo avesse il tempo di notarli), sfilavano una delle penne confitte nell’arancia, contemporaneamente staccandone il filo di lana che lasciavano penzoloni nel vuoto. Dal basso intanto li raggiungeva un coro di voci, capeggiate da quella tremula del vecchio:

Passàu nn’àura simàna e cchiù bbicina ddirlàmpa la croce: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci! Ti lu circàmu cu lla facce an terra: Cristu, pirdòna a lli piccati nuésci!

 “E’ passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo, perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra: Cristo, perdona i nostri peccati!”.

A guardarla dall’alto, quella manciata di penitenti che si battevano il petto con i pugni doveva essere più che pittoresca, ma i ragazzi non avevano tempo alla riflessione: dovevano affrontare la discesa, e madri e nonne erano state chiare nel metterli sull’avviso:

Pinsàti a lla  penna… mi raccumànnu… cu nno bbi scappa ti manu… ricurdàtibbe ca sempre s’à ddittu: centu spintùre pi nna penna persa e mmuzzicàte ti la mala sorte pi nna ruculàta ti maràngia!

“Pensate alla penna… mi raccomando… che non vi sfugga di mano… ricordatevi che si è sempre detto: cento (molte) sventure a causa di una penna persa  e morsicature della cattiva sorte per  la rotolata  di una maràngia!”.

Questo associare nei segni nefasti della discesa tanto la perdita della penna quanto la ruzzolata dell’arancia, autorizza a credere che, originariamente, alla mano della quarémma ne venivano appese sette di marànge , ognuna con la sua brava penna infilzata; uso probabilmente soppresso a causa della difficoltà incontrata nel far reggere i sette pesanti frutti, non dimenticando al proposito che i fantocci rimanevano per ben quaranta giorni esposti alle intemperie, per cui bastava un più gagliardo proporsi di vento a mutilarne le orpellature. A ulteriore avallo dell’ipotesi sta il fatto che i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia  da consegnare  insieme alla penna al vecchio, ai cui piedi c’era un paniere nel quale depositare i frutti. Un’operazione alla quale non si dava importanza, concentrando l’attenzione unicamente sulle penne, rette con solennità quasi fossero trofei e che il vecchio, dopo averle accuratamente sistemate a ventaglio, deponeva sobbra’a nnu quatiéddhru o nna liccìsa (su una pietra – tufacea o leccese – squadrata) precedentemente sistemata al centro del cerchio  dal più autorevole dei capifamiglia presenti, affinché servisse come improvvisato piano di ara.

Ormai si era nell’ultima fase del rito espiatorio, ma prima di procedere alla bruciatura delle penne, valevole appunto come simbolica cancellazione delle colpe, si chiedeva al cielo un segno di accettazione, implorando coralmente: “Nfàcciate Ddiu, e ll’uégghiu pi bbrusciàre mànnalu cu nna manu ca sta ffiùra” (“Testimonia  la tua presenza, o Dio, facendo sì che a portarci l’olio per bruciare sia la mano di una creatura in fioritura”). Detto questo, i presenti rompevano il cerchio, disponendosi in due file compatte, e dal fondo, con l’aria liliale di una comunicanda, si faceva avanti una donna visibilmente gravida: “Simente minàu ratìci, e ssontu terra ca ngrossa la spica” (“Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga”), attestava ponendosi alla sinistra dell’officiante, subito aggiungendo con maggiorata enfasi: “Ndegna jò, ma l’ànima nnucénte ca bbi nnucu pote tare uégghiu a lli piéti ti Ddiu” (“Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”). Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sulle penne, tracciando segni di croce e intonando un “Credo” al quale tutti facevano coro, pronti a ricomporre il cerchio non appena il vecchio, accostando un tizzone acceso,dava fuoco alle penne.

Non rimaneva che sbucciare le marànge: un compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre l’officiante a distribuirne gli spicchi, a uno a uno, religiosamente come fossero ostie, e non senza aver prima raccomandato: “Ci bbi rrappa la lengua, pinsàti a llu fele ti Cristu!” (“Se vi si inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!”).

Allo sgradevole odore dell’olio bruciato, per un attimo si sovrapponeva quello amarognolo emanato dalle bucce delle arance, subito fatte oggetto di spartizione – qualche volta di contesa – da parte delle donne: se le dovevano portare a casa, e come teste dell’avvenuto rituale e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, ormai finita la quarantena, le quarémme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e, in un crescendo di selvaggia euforia, buttare abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di maràngia  unitamente a manciate di sale.

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Anche se c’era ancora da scontare il “pane e acqua” del venerdì santo e piangere il Cristo morto correndo di chiesa in chiesa dietro la statua dell’Addolorata al lugubre suono ti la fròttula (del crotalo), già si respirava aria pasquale: issati al posto delle quarémme  folti rami d’ulivo benedetto tenuti appositamente in serbo fin dalla domenica delle Palme, e nell’euforica attesa di potere ammirare a sera li santi sipùrchi  (i sacri sepolcri, cioè le reposizioni del Santissimo Sacramento), i cui caratteristici piatti di ranucìgghiu (germogli di grano) trasformavano gli altari in altrettanto campi primaverili, tutti rientravano nelle loro case, pronti a prendere d’assalto la mminisciàta ti pizzariéddhri ndurcinàti (scodellata di maccheroncini addolciti), tanto più calamitanti in quanto alla loro insolita proposizione infrasettimanale assommavano un’altrettanto insolita manipolazione gastronomica.

* La gallina nera, essendo usata dalle fattucchiere nell’orditura dei loro malefici, veniva guardata dal popolo con sospetto: sentirla cantare da gallo (verso emesso spontaneamente di tanto in tanto) era annuncio di morte. Anche le sue penne rientravano nell’alone della negatività: trovarsele sul proprio cammino o, peggio ancora, sulla soglia di casa, era simbolo dell’avventarsi di una disgrazia, per cui, a neutralizzazione, occorreva raccoglierle e bruciarle in un determinato modo.

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Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi  nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994 (pagg. 252-258)

 

La prima parte si trova qui:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/24/il-periodo-quaresimale-della-civilta-contadina-alla-fine-dellottocento/

 

Il periodo quaresimale nella civiltà contadina del Salento

Ripercorriamo il periodo quaresimale della civiltà contadina alla fine dell’Ottocento, attraverso il simbolico fantoccio salentino che Giulietta  ci ripropone antropologicamente nel libro “Tre Santi e una Campagna”.

 

Salento fine Ottocento

La Quaremma (prima parte)     

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Anche alle prime luci del mercoledì delle Ceneri c’era da assistere a uno spettacolo: quello delle quaremme, che i capifamiglia avevano nottetempo issato sui comignoli e che  ora l’incedere dell’alba via via rivelava nel loro orrido quanto caratteristico aspetto: fantocci a grandezza d’uomo, rozzamente approntati con legno, paglia e stracci, riproducenti vecchie megere tetramente vestite con logori indumenti neri, o comunque molto scuri. Sulla fronte, circoscritta da un fazzolettone annodato alla campagnola, una ciocca di lana bianca a simulare capelli, e all’estremità delle braccia – mantenute in posa orizzontale da un manico di scopa – due pale di ficodindia che, a mo’ di mani, reggevano l’una un fuso con alcuni fili di lana  e l’altra  una maràngia (arancia amara) con infilzate sette penne, strappate alla coda di una gallina nera. Tra fuso e arancia, sette fili di lana che, a meglio esprimere la filatura del tempo penitenziale, venivano separatamente annodati alle sette penne, rappresentanti appunto le sette settimane quaresimali.

Rizzare la quarémma sul proprio comignolo o – se questo risultava internato e perciò non visibile dalla strada – sul cornicione della terrazza era testimonianza di religiosità, anzi un porsi nel novero dei cristiani più osservanti, di quelli (quasi tutti), per intenderci, la cui compiacente affermazione “Nui sciàmu all’antica” (“Noi andiamo all’antica”) denunciava fedeltà ai rigorismi medievali.

Il tempo dei pubblici peccatori lasciati in quarantena dietro la porta della chiesa era ormai lontano, ma sia pure in spigolature aneddotiche ne sopravanzava memoria, rinverginando scrupoli – individuali e collettivi – allorché, in vista del rinnovamento pasquale, si entrava nell’apposito clima della contrizione. Una sorta di ricapitolazione delle proprie manchevolezze, peraltro incentivata dai sermoni dei quaresimalisti appositamente fatti inìre ti fore paése (fatti venire da fuori), i quali, calcando sulla necessità dell’espiazione, non di rado arrivavano a

Quaresima e caremme salentine

di Emilio Panarese

La «caremma» o «quaremma» (dal lat. «quadragesima (dies)», fr. caréme, sp. cuaresma, prov. caresma) corrisponde all’italiano «Quaresima»: spazio di quaranta giorni, dal Mercoledì delle Ceneri alla Pasqua, periodo dedicato all’astinenza e al digiuno, in memoria dei quaranta giorni di digiuno osservati da Gesù (Mt. IV, 2) prima di iniziare il suo ministero.

Rappresenta la mortificazione dei sensi, la mestizia, il lavoro, il pentimento che vengono dietro al peccato dopo la baldoria del Carnevale.

Ricorda la Moira, la Parca che filava il destino degli uomini. Nel leccese, sino a poco tempo fa, sulle terrazze o sui balconi delle case, rappresentava la «caremma» un fantoccio di panno vestito di nero, che filava la conocchia. Sotto i piedi aveva un’arancia con tante penne disposte in raggio quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana si toglieva una penna. Poi il giorno di Pasqua, quando le campane sonavano a distesa annunziando la gloria di Cristo, la «caremma» detta pure «zzita caremma» veniva sparata col fucile o con un mortaretto.
Secondo S. La Sorsa questa tradizione salentina trova origine nei romani «oscilla», ricordati da Virgilio (Georg., l. 2, vv. 389-390), secondo il quale, in ricorrenza delle feste Liberalia, in onore di Libero o Bacco, i pagani usavano appendere agli alberi certe figurine o ‘immaginette’ di cera, le quali, dondolando al vento, propiziavano il dio ed arrecavano prosperità alle vigne.
«Me pari propriu nna caremma» si dice a donna magra o brutta e fin troppo avvolta nei panni.

Ecco come ci dipinge la «Caremma» Francescantonio D’Amelio, il più famoso dei poeti leccesi in vernacolo, in «Lu carnìali de lu 1829, ci se llicenzia de Lecce »: « … la quaremma già sta trase./ Idda stae sutta alla porta,/ nde sta bisciu già le spie; / e le cose ci sta porta/ tutte su’ cuntrarie a mmie.// Porta prèdeche a nna manu,/ e all’autra li celizzi; / e camina chianu chianul sia ca nc’ede scufulizzi.// Ae deòta, e nnu te uarda,/ tene pura la cuscenzia;// ddemazzuta è comu sarda/ pe lla trroppu penetenzia.//
La sta sècuta lu trenu/ de le proprie mercanzìe: // fàe ngrappate cu llu rienu,/ fiche, passule e bulìe;// migghiu, tòleca e pasùli,/ capetune mmarenatu,/ sarde, alici, pampasciùli,/ baccalà e stoccu seccatu.// Ah! li tiempi su’ rreati/cu mme mintu ntorna a bbiaggiu: / stàtiu bbuèni, se campati/ l’annu entùru tornaràggiu.//»
Ne diamo qui la traduzione, soprattutto per ricordare i «cibi quaresimali» dei nostro avi…
« … già è vicina la quaresima. Anzi è già sotto l’arco della porta, vedo già che piglia le mosse; / e le cose che sta portando son tutte contrarie, poco gradite a me.// Porta predicozzi in una mano, e nell’altra i celizi della penitenza;/ e cammina piano piano/ come se ci fossero «scivolizzi» (bucce o cose umide che fanno scivolare)./ / Cammina devota, e non ti degna neppure di uno sguardo,/ ha la coscienza pura;/ ed è magra come una sarda per l’eccessiva penitenza. // Le vien dietro il carro delle proprie mercanzìe:/ fave secche «ngrappate» con l’origano (alle quali, cioè, coi denti è stato tolto l’occhio superiore per impedirne il germoglio),/ fichi secchi, uva passita e ulive;// miglio (che nel leccese, nel secolo scorso, si mangiava bollito e condito con ricotta e olio, dopo. che era stato leggermente pestato ed infornato), «tòleca» (robiglia o cicerchia, lat. cicercula, legume selvatico rampicante, da non confondere con la veccia, coltivato come foraggio), fagioli, capitone marinato,/ sarde. alici, «pampasciùli» (bulbi, lat. hyacinthus comosus, che si mangiano bolliti con olio e aceto o in agrodolce solo nella Puglia),/ baccalà e stoccafisso.//
Povero me! I tristi tempi della penitenza sono già arrivati/ devo mettermi di nuovo in viaggio: / statemi bene in salute, se vivrete / l’anno venturo, a carnevale, tornerò (a tenervi allegri).//»

 

In «Tempo d’oggi», II (6), 1975. Per gentile concessione dell’Autore e del figlio Roberto Panarese

Il Carnevale e la Quaresima nella tradizione popolare

Carniale e Caremma, il Carnevale e la Quaresima nella tradizione popolare salentina

 

di Marcello Gaballo

 

Il 17 gennaio, giorno delle fòcare, comincia ufficialmente il Carnevale e molti salentini già pensano a come allietarlo, programmando come divertirsi nei “sabato sera”.

Questo lieto periodo dell’anno si concluderà il martedì antecedente le S. Ceneri, lasciando il posto alle settimane quaresimali.

L’inesauribile fantasia del nostro popolo, un tempo libera dai continui condizionamenti del mass media, identificò questo periodo con due personaggi, l’uno di sesso maschile, Carniale, l’altro femminile, Caremma, sua moglie.

Difatti presso il popolo salentino Caremma si identificava con la Quaresima ed “entrava in scena” subito dopo la morte del coniuge, immaginato come un baldo giovine aduso ad ogni stravaganza. Forte di un’antichissima licenza concessagli dai romani (semel in anno licet insanire– una volta l’anno è consentito uscir fuori di testa) a Carniale era consentito tutto o quasi, a partire dal 17 gennaio di ogni anno, tanto che ancora oggi il termine viene attribuito ad ogni burlone e a chiunque si caratterizzi per la scarsa o nulla credibilità.

L’infelice moglie, le cui limitatissime esternazioni si limitavano al periodo  della Quaresima della religione cristiana, ovvero quel ciclo di quaranta giorni dedicato al digiuno e alla penitenza, poteva esibirsi ed esser notata a partire dal mercoledì delle Ceneri e fino alla domenica delle Palme.

Rispecchiava per certi aspetti quella che era la condizione femminile di decenni fa, alle cui rappresentanti era consentito uscire fuori da casa solo per le spese nel negozietto più vicino, in occasione delle sagre, per andare in chiesa e pochi altri seri motivi (visite di cortesia, funerali, ecc., purchè in compagnia del marito o di altri stretti congiunti, meglio se di sesso femminile). Non era così per il “maschio (màsculu)” di casa, che poteva trattenersi fuori dalla sua abitazione, oltre che per lavorare, per tutto il tempo che gli pareva utile e necessario.

Normalissimo quindi che esso fosse beone e buongustaio, proprio come veniva visto il nostro Carniale, straordinariamente ghiotto di salsiccia e particolarmente attratto dal buon vino, il cui tasso alcoolemico giustificava qualunque colpo di testa e perfino le risapute e mai svelate violenze domestiche.

Caremma veniva raffigurata con le sembianze di una vecchia per niente bella, vestita di nero.

Come accadde fino a qualche decennio addietro, la ricordo ancora nella sua spettrale fisionomia, appesa ad un filo che era teso tra due balconi di vico Moresco a Nardò, nei pressi della cattedrale.

Era stata realizzata sulla sagoma di un pupazzo di paglia, che indossava dismessi e consunti abiti femminili, rigorosamente neri, con capelli ricavati da un pugno di lana di scarto, resa bianca da repentina immersione in candeggina (miticìna di rrobbe).

Il capo era coperto da un fazzoletto nero e i piedi si vedevano racchiusi in due rozze scarpacce. Nella mano destra stringeva una cunocchia, nella sinistra lu fusu, antichi strumenti necessari per la lavorazione domestica della lana, probabile reminiscenza delle Parche latine.

Ricordo bene anche l’arancia fissata sulla conocchia, forse per ricordare la frugalità del cibo da consumarsi nel periodo quaresimale, e sul frutto le cinque penne di gallina, infilzate a ventaglio, per ricordare le cinque settimane quaresimali, e che venivano progressivamente sfilate ogni lunedì. Sull’asta centrale del fuso venivano invece infilati cinque taralli, anche questi eliminati con lo stesso ritmo.

Un fantoccio che era impossibile non scorgere, sempre che si passasse da quella angusta stradina per la quale si giunge in cattedrale. Quelli dotati di buona memoria al suo cospetto sciorinavano la filastrocca trasmessa dalla propria nonna:

Caremma musi-torta

si mangiò na ricotta

e a me non mi ndi tese,

brutta fèmmina ca fuese

(Caremma col labbro storto mangò una ricottina, e a me non ne dette. Che cattiva donna che fu!).

Un coacervo di simboli pagani e religiosi, a costo zero, che stuzzicava la semplice anima di un popolo oramai evoluto, che ha ritenuto utile liberarsi di orpelli cultuali e culturali come questo, per ricercare stimoli e simboli al passo con i tempi.

La Caremma salentina

foto Mino Presicce (tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione)

 

di Paolo Vincenti

La Caremma è un personaggio della tradizione popolare che ci porta ad un passato, neanche remoto, fatto di usi e costumi, odori e colori che rischiano di scomparire. Essa stava per uscire definitivamente dall’immaginario collettivo, ma, da qualche anno, riappare sui balconi di alcune case durante il periodo della Quaresima. La Caremma è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta la Quaresima, il periodo cioè dell’astinenza e del digiuno canonico. E’ raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina.

foto Mino Presicce (tutti i diritti riservati – vietata la riproduzione)

Questo  strumento rappresentava, nella società contadina di qualche anno fa, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana,

Santa Barbara su llu campu

di Gianni Ferraris

Santa Barbara su llu campu

ci nu time né troni né lampi,

stae unita cu lu Spiritu Santu.


Spiritu Santu nu durmire

ca sta bisciu tre vascelli vanire:

uno t’acqua, l’addu te ientu,

l’addu cu luntana Gesù Cristu lu maletiempu.


(Santa Barbara* sul campo** che non temi né tuoni né lampi, stai unita con lo Spirito santo. Spirito santo non dormire che ho visto tre vascelli venire, uno d’acqua, uno di vento, l’altro con Gesù Cristo che allontana il maltempo)

Questa è la preghiera, o la formula magica, che spezza le trombe marine. Se la tramandano i pescatori di padre in figlio. Per essere efficace deve essere insegnata la notte di Natale e recitata solo in caso di forte maltempo e, appunto, di trombe marine. Ha la facoltà di romperle prima che raggiungano la costa e, quindi, la città. Narrano di un vecchio che la recitava dal molo, con i capelli scompigliati  dal vento .

Città di pescatori dove solo la superstizione o la fede estrema possono contro le mareggiate improvvise che arrivano quando le barche sono in mare   minacciate e la paura di non veder tornare i pescatori è grande.

E le donne restano in casa a pregare, oppure si avvicinano al mare e gettano pezzetti di pane. Non un pane qualunque però.

Il giorno di Sant’Antonio le famiglie che hanno avuto benefici durante l’anno trascorso  fanno dei pani, li portano in chiesa perchè siano benedetti, e ne distribuiscono ai vicini, ai parenti e agli amici. Un po’ lo si mangia, ma una parte viene gelosamente custodita e verrà utilizzata quando arriva qualche mareggiata e le barche non si vedono ancora all’orizzonte. Solo allora le donne prendono il prezioso pane, vanno in riva al mare e ne gettano briciole. E’ un richiamo per i loro uomini perché rientrino, ed un modo per placare la forza della natura. Gettando tra i flutti il pane benedetto, come a voler benedire il mare, divengono sacerdotesse loro malgrado .

Il mio amico Fabio è comandante di nave, ha conosciuto tutti i mari del globo. Un giorno, davanti a una stupenda pasta con le cozze, si parlava della paura che il mare spesso suscita. Lui è riuscito a riassumere con un concetto  efficace il rapporto che bisogna avere con l’acqua: “non deve mai essere temuto, deve solo essere rispettato”.
Lui lo fa con tutti gli strumenti che la tecnologia e l’esperienza di anni di navigazione gli hanno insegnato. Le donne Gallipoline lo facevano con riti propiziatori come il pane benedetto. Dove il mare è fonte di vita, dove le radici e la vita stessa degli abitanti dipendono da lui, non può esistere sentimento diverso da  rispetto ed amore. In altri luoghi un maledetto temporale estivo può spazzar via il raccolto di un anno. Qui minaccia la vita delle persone che di mare vivono.
Sacro e profano a volte si mischiano.

Il venerdì santo due sono le  processioni. Una inizia alle 18 per terminare alle 3 di mattino, accompagnata dalla banda e dalle confraternite. L’altra inizia alle 3 per terminare solo verso mezzogiorno. Processioni meste come la morte del Cristo richiede. Però esiste sempre la resurrezione. Solo allora la festa ha inizio. La mattina della domenica di Pasqua, dopo la solenne messa, viene bruciata la “Caremma”, il fantoccio di una vecchia appeso a vari angoli di strada. E’ una figura di fatta di pezze che viene issata 7 domeniche prima di Pasqua,  ha un’arancia dove vengono conficcate 7 piume di gabbiano, ogni domenica una viene tolta, quando rimane senza piume la Pasqua è arrivata e la vecchia viene bruciata.

La Caremma ( forse dal francese “careme”, quaresima) è una figura comune a tutto il Salento,e incarna  la miseria, la quaresima, appunto, che viene sacrificata per auspicare buona sorte. Per quanto riguarda Gallipoli la leggenda vuole che la Caremma fosse la mamma del Titoru (Teodoro). Tornato dalla guerra affamato il giorno di carnevale, il Titoru inghiottì una quantità talmente grande di polpette da rimanerne soffocato. Ogni carnevale si raffigura il suo funerale. La Caremma iniziò a inviare maledizioni a tutti i Gallipolini i quali, la domenica di Pasqua esasperati (o forse impauriti) la appesero e la bruciarono.

La Quaresima è finita. Cristo risorge e si festeggia. La vecchia con le sue maledizioni e i patimenti deve essere distrutta. E’ una sorta di resurrezione della speranza.

 

* Santa Barbara è la protettrice della marina militare.
**il campo è un isolotto di fronte a Gallipoli. Antico lazzaretto.

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