Certi cardi! (2/2)

di Armando Polito

Virgilio (I secolo a. C.): Invece della delicata viola e del purpureo narciso nascono il cardo e il paliuro dalle acuminate spine1.

Plinio (I secolo d. C.): Infatti annovererei il loglio, i triboli, i cardi, le lappole, nonché i rovi tra le malattie delle messi piuttosto che tra i flagelli della stessa terra2. Il cardo ha le foglie e il gambo con lanugine spinosa. Ugualmente l’acorna, il leucacanto, il calceo, il cnico, il poliacanto, l’onopisso, l’elsine e lo scolimo. Il cameleone non ha spine nelle foglie. C’è anche la differenza che alcuni di loro hanno molti gambi e rami , come il cardo. Il cnico ha un solo gambo senza rami. Certi sono spinosi solo all’apice, come l’eringio. Alcuni fioriscono in estate, come il tetralice e l’elsine. Anche lo scolimo fiorisce tardi e a lungo. L’acorna si distingue solo per il colore rossiccio e per il succo più grasso.  Tale sarebbe pure l’atrattile se non fosse più bianco e non emettesse un succo color del sangue. Perciò da alcuni è chiamato fono, ha un odore pesante e il seme matura tardi, non prima dell’autunno, sebbene ciò si possa dire di tutte le piante spinose. Tutte queste piante possono nascere dal seme e dalla radice. Lo scolimo del genere dei cardi differisce da loro perché la sua radice si mangia cotta. Fenomeno meraviglioso è che senza pausa per tutta l’estate uno in un genere fiorisce, un altro concepisce, un altro ancora si apre e lascia andare i semi. Gli aculei, seccando la foglia, smettono di pungere. L’elsine si vede di rado e non dappertutto: è fogliosa fin dalla radice, dal cui centro esce fuori come una mela coperta dalla sua fronda. La cima contiene una lacrima di dolcissimo sapore, chiamata resina acantice3.

Fin qui tutte le piante ricordate sono chiaramente selvatiche. Il pezzo che sta per seguire, invece, si riferisce ad una varietà coltivata, identificabile, se non con il nostro carciofo (Cynara cardunculus scolymus L.), almeno con il Cynara cardunculus L. (nella foto).

immagine tratta da http://www.actaplantarum.org/acta/galleria1.php?id=1319
immagine tratta da http://www.actaplantarum.org/acta/galleria1.php?id=1319

Sembrerebbe che si sia parlato di tutto ciò che è in pregio, se non restasse una cosa di grande guadagno, da dire non senza vergogna. Certo è che presso Cartagine la grande e soprattutto a Cordova i cardi da piccole aree rendono seimila sesterzi l‘anno, poiché adattiamo alla gola pure i portenti della terra, pure quelli che gli animali consapevolmente evitano. I cardi si coltivano in due modi: per pianta in autunno e per seme prima del 7 marzo e le piante che ne nascono si trapiantano prima del 13 novembre o in luoghi freddi quando comincia a spirare lo scirocco. Si concimano, se piace agli dei, e crescono meglio; si condiscono con aceto e miele con aggiunta di radice di lasere e di cumino affinché non ci sia giorno in cui manchi il cardo4.

La cota è llonga da scardàre (la coda è lunga da squamare), mi vien da dire adattando il proverbio neretino la cota è llonga da scurciàre (la coda è lunga da scuiare), ma siamo quasi alla fine e, contravvenendo al proverbio, a quello originale e al suo adattamento, non ci metterò molto a concludere.

Appare quasi spontaneo pensare che scardàre sia composto da s– (dal latino ex con valore privativo)+cardo, se si pensa alla squama assimilabile nella forma alle spine del cardo o, ancor più, alle brattee del carciofo. Questa etimologia ha la voce italiana (che significa liberare la castagna dal riccio o cardo) ma non la dialettale, che è solo omofona, derivando dal latino tardo scarda(m), voce di origine germanica, che in italiano ha dato scarda e i suoi derivati scardina, scardola, scardova, tutte voci designanti un pesce caratterizzato dalle squame molto dure.

Da cardo in italiano oltre al ricordato scardare derivano:

carda o scardasso, la macchina per pulire la lana; in origine l’operazione era fatta con il cardo dei lanaioli o degli scardassatori (Dipsacus fullonum L.); da scardasso è derivato scardassare.

cardellino, diminutivo di cardello (in dialetto neretino cardillu), da un latino *cardellu(m), deformazione del classico carduelis, forma aggettivale da carduus; l’uccello è particolarmente ghiotto dei semi di questa pianta.

immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/File:Gold_Finch.jpg
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carlina (Carlina vulgaris L.), alterazione di cardina, diminutivo di cardo, per accostamento al nome Carlo perché secondo una leggenda un angelo indicò a Carlo Magno la pianta come rimedio contro la peste.

immagine tratta da http://www.actaplantarum.org/acta/galleria1.php?id=2399
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garzare, nell’industria tessile, operazione di apparecchiatura eseguita con la garzatrice e consistente nel sollevare una peluria superficiale sui tessuti mediante trattamento per via umida (con garzi vegetali sul tessuto inumidito), o per via secca (con garzi metallici); la voce è da un latino *cardiare, da carduus.

immagine tratta da http://www.culturaitalia.it/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aculturaitalia.it%3Amuseiditalia-work_6964
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garzo e garza, da garzare.

Probabilmente diminutivo di carza (garza) incrociato con cazzettu (dimutivo di calza) è il neretino carzittella (lucignolo della lampada a petrolio, lu lume) mentre nulla a che fare col il cardo ha carza (branchia) generalmente usato al plurale: li carze), deformazione di gargia, che è forse dal latino medioevale gargalia=parte della  gola e del polmone.

Nulla a che fare con la pianta ha il cardo, voce specialistica che negli accampamenti militari romani era la via principale che andava da nord a sud (decumano era quella che andava da est ad ovest); cardo è il nominativo del latino cardo/càrdinis, da cui l’italiano cardine.

Strettamente connesso, invece, con la pianta è il cardo emblema della Scozia (legato alla leggenda secondo la quale un assalto vichingo venne respinto grazie all’allarme lanciato da una sentinella che aveva sentito il grido di dolore sfuggito ad un invasore che a piedi nudi era incappato in un cardo) e arma in araldica.

Di seguito le insegne dell’Ordine del cardo istituito nel 1687 sotto la protezione di S. Andrea, un collare composto da foglie di cardo e fiori di ruta, un medaglione con l’immagine del santo e il motto in latino NEMO IMPUNE LACESSIT (Nessuno mi sfida impunemente).

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Insignia_of_Knight_of_the_Thistle.png
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Insignia_of_Knight_of_the_Thistle.png

 

Nello stemma d’Inghilterra e di Scozia si aggiungerà in alto IN DEFENS, abbreviazione di IN (MY) DEFENS (GOD ME DEFEND)=In (mia) difesa (Dio mi difende).

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Royal_Coat_of_Arms_of_the_United_Kingdom_(Scotland).svg
http://it.wikipedia.org/wiki/File:Royal_Coat_of_Arms_of_the_United_Kingdom_(Scotland).svg

Nel rispetto della par condicio chiudo con una nota esclusivamente religiosa ricordando il cardo mariano (Silybum5 Marianum L.).

immagine tratta da http://www.actaplantarum.org/acta/galleria1.php?id=1339
immagine tratta da http://www.actaplantarum.org/acta/galleria1.php?id=1339

 

Nella simbologia cristiana le macchie bianche che ne caratterizzano le foglie erano viste come le gocce di latte cadute dal seno della Madonna mentre in fuga per sottrarre il Figlio alla persecuzione di Erode tentava di nasconderlo sotto una di queste piante.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/29/certi-cardi/

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1 Ecloghe, V, 30: Pro molli viola, pro purpurea narcisso/carduus et spinis surgit paliurus acutis. Virgilio ha semplicemente cantato il dolore che la terra manifesta per la morte del pastore Dafni producendo non fiori leggiadri ma piante spinose. Non mi meraviglierei se Dafni (e non Dafne come si legge in http://it.wikipedia.org/wiki/Carduus) subisse un destino simile a quello di Cinara e qualcuno s’inventasse che un bel pastore chiamato Dafni ma soprannominato Cardo fu alla sua morte mutato nel cardo.

2 Naturalis historia, XVIII, 44: Nam lolium et tribulos et carduos lappasque, non magis quam rubos, inter frugum morbos potius quam inter ipsius terrae pestes numeraverim.

3 Naturalis historia, XXI, 56: Carduus et folia et caules spinosae lanuginis habet. Item acorna, leucacanthos, chalceos, cnicos, polyacanthos, onopyxos, helxine, scolymos. Chamaleon in foliis non habet aculeos. Est et illa differentia, quod quaedam in iis multicaulia ramosaque sunt, ut carduus. Uno autem caule, nec ramosum, cnicos. Quaedam cacumine tantum spinosa sunt, ut eryngium. Quaedam aestate florent, ut tetralix et helxine. Scolymus quoque floret sero et diu. Acorna colore tantum rufo distinguitur et pinguiore succo, Idem erat atractylis quoque, nisi candidior esset, et nisi sanguineum succum funderet. Qua de causa phonos vocatur a quibusdam, odore etiam gravis, sero maturescente semine, nec ante autumnum: quamquam id de omnibus spinosis dici potest. Verum omnia haec et semine et radice nasci possunt. Scolymus carduorum generis ab iis distat quod radix eius vescendo est decocta. Mirum, quod sine intervallo tota aestate aliud floret in eo genere, aliud concipit, aliud parturit. Aculei arescente folio desinunt pungere. Helxine rara visu est, neque in omnibus terris: est a radice foliosa, ex qua media veluti malum extuberat, contectum sua fronde. Huius vertex summus lacrymam continet iucundi saporis, acanthicen mastichen appellatam.

4 Naturalis historia, XIX, 43: Poterant videri dicta quae in pretio sunt, nisi restaret res maximi quaestus, non sine pudore dicenda. Certum est quippe carduos apud Carthaginem magnam Cordubamque praecipue ςςςsestertium sena millia e parvis reddere areis: quoniam portenta quoque terrarum in ganeam vertimus, etiam ea quae refugiunt quadrupedes consciae. Crduos ergo duobus modis serunt: autumno planta et semine ante nonas Martias; plantaeque ex eo disponunt ante idus Novembris, aut in locis frigidis circa Favonium. Stercorantur etiam, si diis placet, laetiusque proveniunt condiunturque aceto melle diluto, addita laseris radice et cumini, ne quis dies sine carduo sit.

5 Dal greco σίλυβον (leggi sìliubon); ecco come lo descrive Dioscoride (I secolo), De materia medica, IV, 159: Σίλυβον ἄκανθά ἐστι, πλατεῖα φύλλα ἔχουσα, χαμαιλέοντι ὅμοια τῷ λευκῷ· ἥτις ἀρτιφυὴς ἐσθίεται ἑφθὴ σύν ἐλαίῳ καὶ ἁλσί· τῆς δὲ ῥίζης ὁ ὀπὸς ὅσον ὁλκή ποθεὶς σὺν μελικράτῳ, ἐμέτους κινεῑ (Il silibo è una spina che ha le foglie larghe, simile al camaleone bianco; esso nato da poco viene mangiato bollito con olio e sale. Il succo della radice nella quantità di una dracma bevuto con latte e miele stimola il vomito).

 

 

 

 

 

Certi cardi! (1/2)

di Armando Polito

L’ambiguità, credo sana, che aleggerà per tutto il post si manifesta già nel titolo che, se considerato scritto in dialetto neretino, equivarrebbe alla locuzione certi cazzi!

Cardu, infatti, è uno di quelle tante voci usate con funzione ipocritamente eufemistica in sostituzione di cazzu, come, per esempio, è successo in italiano con il povero cavolo e con càcchio, il cui significato di partenza è quello di germoglio. Nei tre esempi citati il giochetto metaforico è stato realizzato prevalentemente sfruttando il supporto fonetico della prima sillaba in comune con la parola da purificare, anche se in tutti e tre è dato di cogliere un certo riferimento semantico (a mio avviso più evidente, sotto il punto di vista anatomico, in cacchio).

Se l’ambiguità, purtroppo, resterà nel resto del post, intendo subito eliminare quella del titolo dicendo che i cardi di cui intendo parlare sono solo i vegetali, anche perché, se continuassi a parlare di quelli metaforici, il numero dei lettori diminuirebbe drasticamente e io non intendo rinunziare all’ospitalità di questo sito per cercare asilo in altri di racconti erotici …

La parola cardo (che in italiano è il nome comune del genere Carduus annoverante numerose specie) deriva dal latino medioevale cardu(m)1, che è dal classico carduus, a sua volta connesso col greco κάρδος (leggi cardos). Per entrare subito nella boscaglia dell’ambiguità, di antica origine,  di cui parlavo ci faremo guidare dagli autori greci e latini. Nel testo originale riportato in nota e nella mia traduzione ho sottolineato tutte le parole coinvolte nello studio dell’argomento.

Ateneo di Naucrati (II-III secolo d. C.): “Κινάρα (leggi chinàra). Sofocle la chiama così ne I Colchidesi, invece κύναρος (leggi chiùnaros) nel Fenice: la spina κύναρος riempie tutto il campo. Ecateo di Mileto nella Descrizione dell’Asia, se veramente il libro è suo, poiché Callimaco lo attribuisce a Nesiota, chiunque sia colui che lo abbia scritto, dice così: intorno al mare chiamato d’Ircania ci sono monti elevati  e densi boschi e su questi monti c’è la spina κυνάρα. E poi: tra i Parti i Corasmiii abitano la terra che si erge ad oriente ed occupano pianure e monti. Su questi monti ci sono piante selvatiche, la spina κυνάρα, il salice, la tamerice. E dicono che intorno al fiume Indo nasce la κυνάρα. E Scilace o Polemone scrive: c’è una terra umida di sorgenti e di canali, sui monti nasce la κυνάρα e altra erba; e in questi luoghi  poi: perciò un monte si distende da una parte e dall’altra del fiume Indo, alto e ricoperto di una foresta selvatica e della spina κυνάρα. Il grammatico Didimo, spiegando la spina κύναρος di Sofocle, dice: forse si riferisce al κυνόσβατος (leggi chiunòsbatos) poiché la pianta è piena di spine e selvatica. E infatti la Pizia la chiamò cane di legno e Locro dopo aver appreso dall’oracolo che avrebbe fondato una città là dove fosse stato punto da un cane di legno, graffiato da un κυνόσβατος, fondò la citta. Infatti, come dice Teofrasto, il κυνόσβατος è una cosa di mezzo tra arbusto e albero ed ha un frutto rosso pressoché uguale alla rosa ed ha la foglia spinosa. Fania nel quinto libro sulle piante nomina un κάκτοs Σικελική (leggi cactos sikelikè=cardo siciliano), come pure Teofrasto nel libro sesto sulle piante: quello chiamato κάκτοs cresce solo attorno alla Sicilia, non c’è in Grecia. Subito sviluppa dalla radice fusti striscianti, la foglia è piatta e spinosa e i fusti sono chiamati κάκτοι (leggi càctoi; plurale di κάκτοs). Essi sono commestibili dopo essere stati scorticati e un po’ amarognoli e li conservano in acqua salata. Producono un altro stelo eretto che chiamano πτέρνιξ (leggi ptèrnix), anche questo commestibile. Il pericarpo, tolte le parti lanuginose, è somigliante al cervello della palma, commestibile anche questo; lo chiamano ἀσκάληρον (leggi ascàleron). Chi, non convinto da questo, avrebbe il coraggio di dire che il κάκτοs non è la stessa pianta che i Romani, che non sono lontani dalla Sicilia,  chiamano κάρδος e che dai Greci è chiamata palesemente κυνάρα? Infatti con un cambiamento di due lettere κάρδος e κάκτοs sarebbero la stessa cosa. Sapientemente ce lo insegna anche Epicarmo che annovera tra le verdure commestibili anche il κάκτοs così:  il papavero, i finocchi,  i pungenti  κάκτοι. È possibile nutrirsi di altre verdure; poi continuando: se qualcuno le mette in tavola dopo aver diligentemente pulito la lattuga, l’alga marina, il cocomero asinino, il lentisco, il ravanello, il κάκτοs goda soddisfatto di se stesso. E di nuovo: se si vede qualcuno portare dal campo finocchi e κάκτοι, lavanda, romice, otostillo, scolimo2, atrattilo3, felce maschio,  κάκτοs, parietaria4. E Filita di Cos: canterebbe per aver evitato la puntura di uno spinoso κάκτοs una cerbiatta che sta per morire. Ma anche κινάρα (leggi chinàra) lo chiamò come noi Sopatro di Pafo nato ai tempi di Alessandro figlio di Filippo e vissuto fino a quelli del secondo re d’Egitto, come mostra in una sua opera. Tolomeo Evergete, re d’Egitto, uno dei discepoli del grammatico Aristarco, nel secondo libro delle sue memorie scrive così: presso Berenice di Libia c’è il fiume Letone nel quale nascono il pesce branzino, l’orata, un gran numero di anguille e quelle chiamate regali, le quali sono il 50% più grandi di quelle provenienti dalla Macedonia e dal lago  di Cope; tutto il suo alveo è pieno di vari pesci. Poiché la κινάρα in questi luoghi cresce rapidamente pure tutti i soldati che ci accompagnavano dopo averla raccolta la utilizzarono come cibo e ce la portarono dopo averle strappato le spine. Io conosco pure un’isola chiamata Κίναρος (leggi Chinaros), ricordata da Semo”5.

La conclusione che si trae dalla lettura è che per Ateneo, come da lui espressamente dichiarato, κάρδος, κάκτοs e κυνάρα sono sinonimi. Ne prendo atto, ma non posso certo, sul piano fonetico, condividere l’affermazione, filologicamente ridicola che, siccome basta cambiare due lettere per passare da κάρδος a κάκτοs, questa è la prova che le due parole hanno lo stesso significato, anzi designano, insieme con κυνάρα e κινάρα, la stessa pianta. Non mi convince neppure l’ipotesi citata di Didimo circa l’identificazione della spina κύναρος di Sofocle con il κυνόσβατος6 che, in base alla descrizione, pure essa riportata, di Teofrasto, mi sembra corrispondere più alla rosa canina (nella foto) che a qualche specie di cardo o di carciofo selvatico.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Rosa_canina_02_(Parco_dei_Nebrodi).JPG.JPG
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Rosa_canina_02_(Parco_dei_Nebrodi).JPG.JPG

Prima di passare agli autori latini mi soffermo un po’ per ricordare, a proposito di κάκτοs, che pittore del cactus è la locuzione convenzionalmente usata per indicare un anonimo ceramografo attico del VI secolo a. C., autore della decorazione di alcuni vasi a vernice nera in cui appaiono tra palmette steli muniti di foglie con aculei in cima.  Madre di tale denominazione (the cactus painter) fu l’archeologa Caroline  Henriette Emilie Haspels (1894-1980) in Attic Black Figured-Lekythoi , E. De Boccard, Parigi, 1936 . La denominazione è rimasta costantemente immutata nel tempo anche nel testo integrativo, molto recente, di Thomas Mannack Haspels Addenda : additional references to C.H.E. Haspels Attic black-figured Lekythoi, Oxford University the Press for the British Academy, 2006. Quanto sto per dire è emblematico del fenomeno di cui ho parlato nel recente post Attenti alla rete!, costituito da certe affermazioni frettolose che diventano pericolosissime per la rapidità con cui i nuovi mezzi di comunicazione, rete in primis, le diffondono. Questa volta l’incidente riguarda addirittura l’Enciclopedia Treccani che nel suo sito alla voce relativa (http://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/pittore-del-cactus/) riporta quanto segue: Ceramografo attico, al quale fu dato questo nome dalla Haspels, che interpretò come rami o “pale” di cactus gli steli muniti di foglie, con aculei in cima, che compaiono tra le palmette della decorazione dei vasi dipinti a figure nere attribuitigli. Ma la forma di questi steli ricorda molto più le infiorescenze dei cardi, comunissimi in Grecia, che le foglie di un cactus (a parte il fatto che tali piante, importate dall’America, erano ignote all’antichità).

La voce risulta curata da S. Stucchi e non è altro che la riproduzione della scheda presente in EAA, II, 1959, pag. 248 (nelle foto che seguono la scheda e il dettaglio del vaso).

c1

 

c2

 

S. Stucchi, prima di contestare con affermazioni apparentemente incontrovertibili la creazione onomastica della Haspels, non si è lasciato minimamente sfiorare la mente dall’idea che era molto difficile che un’archeologa (di quei tempi, e non intendo dire solo che era nata ventotto anni prima di lui …) non fosse al corrente dell’origine americana del cactus e che fosse impossibile che essa non conoscesse il greco e il latino. Sorprende pure che non abbia pensato che la parola cactus ad indicare il genere appartiene, com’è norma, al latino scientifico, dunque una formazione moderna modellata su una parola antica, nel nostro caso cactus, a sua volta dal greco κάκτοs in cui, come abbiamo visto, la parola designa una pianta spinosa di problematica identificazione. Addirittura in Plinio la voce compare nella forma cactos che è l’esatta trascrizione della voce greca: Il cactus inoltre nasce solo in Sicilia ed è di una specie particolare: i suoi gambi vanno per terra, emessi dalla radice, con la foglia larga e spinosa. I gambi si chiamano cacti, si mangiano volentieri anche quando sono invecchiati. Hanno un solo gambo diritto che si chiama pternica, che ha la stessa gradevolezza, ma non invecchia. Il suo seme è con quella lanugine che si chiama pappo; tolto questo e la corteccia si trova una parte tenera simile al cervello della palma, chiamata ascalia7.

Come si fa a non capire che il cactus della Haspels è proprio quello pliniano e che, dunque, la voce è usata nel significato che esso assume in latino e prima ancora in greco? Si fa, si fa questo ed altro quando, pur essendo Sandro (almeno così credo debba sciogliersi la S. che compare nella firma in calce) Stucchi,  si presume di poter cogliere gli altri in fallo trascurando o ignorando, volutamente o no, le fonti. E, a proposito di fallo, non posso non concludere questa parte con una battuta: per contestare il pittore del cactus S. Stucchi ha finito per rimediare la figura del contestatore del ca…ctus.

Sarebbe come se uno studioso del XXV secolo , parlando di un edificio risalente a tre secoli prima, si esprimesse così: la fabbrica presenta un architrave in cemento armato; sarebbe obbligato a farlo solo se ai suoi tempi accanto agli architravi virtuali (tra quattrocento anni si sarà pure trovato il modo se non di vincere almeno di modulare la forza di gravità …) e a quelli in cemento armato si fosse conservata memoria della tecnica di costruzione e, dunque, di una sua possibile realizzazione, di un architrave in muratura.

Purtroppo anche Sandro Stucchi è morto (nel 1991); così né la Haspel può ringraziarmi di averla difesa né lo Stucchi difendersi ed eventualmente contrattaccare. Perciò, se qualcuno può o vuole intervenire sull’argomento, lo faccia tempestivamente, prima che mi trovi nella loro stessa condizione…

Pochi minuti fa ho appreso che il leccese Massimo Bray è stato nominato nel fresco fresco governo Letta ministro per i Beni culturali. Sono un ingenuo a sperare che egli, da leccese, ma soprattutto come ex direttore editoriale della Treccani, se avrà il tempo di leggere questo post e di far fare i dovuti controlli, nel caso in cui quanto ho scritto non fosse campato in aria, ci metta una pezza?

Mi auguro che la mia speranza non sia fantascientifica e, nell’attesa, ritorno al passato con gli autori latini.

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/30/certi-cardi-22/

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1 Oltre alla specie vegetale indicava pure uno strumento di tortura, in pratica un pettine con i denti di ferro acuminati, più o meno simile a quello che poi sarebbe stato usato per cardare la lana (in origine, come si dirà, questa operazione era fatta dai lanaioli utilizzando proprio le inflorescenze seccate di un tipo di cardo).

2 Tutti i codici recano σκόλιον (leggi scolion) che però è il nome di un canto conviviale. Mi sembra perciò più che giustificato emendare σκόλιον con σκόλυμον (leggi scòliumon), accusativo di σκόλυμος (leggi scoliumos), da cui è derivato il pliniano scòlymos che, regolarizzato in scòlymus, è stato utilizzato come componente del nome scientifico del carciofo (Cynara cardunculus scolymus L.) e di parecchie specie di cardi selvatici (nelle foto lo Scolymus hispanicus L. e lo Scolymus grandiflorus Desf.).

immagini tratte da http://www.actaplantarum.org/
immagini tratte da http://www.actaplantarum.org/

 

3 Rendo così ἀτράκτυλον, voce assente nei vocabolari del greco antico ma che considero variante della registrata  ἀτρακτυλ(λ)ίς/ἀτρακτυλ(λ)ίδος (da ἄτρακτος=freccia), tradotta con cardo spinoso.

4 L’originale ὀνόπορδον (leggi onòpordon, formato da ὄνος=asino+la radice di πέρδομαι=fare peti), tradotto alla lettera significa scorreggia d’asino.

5 I deipnosofisti, II, 82-84: Κινάρα. ταύτην Σοφοκλῆς ἐν Κολχίσι κυνάραν καλεῖ, ἐν δὲ Φοίνικι· ‘κύναρος ἄκανθα πάντα πληθύει γύην’. Ἑκαταῖος δ᾽ ὁ Μιλήσιος ἐν Ἀσίας περιηγήσει, εἰ γνήσιον τοῦ συγγραφέως τὸ βιβλίον Καλλίμαχος γὰρ Νησιώτου αὐτὸ ἀναγράφει, ὅστις οὖν ἐστιν ὁ ποιήσας, λέγει οὕτως· ‘περὶ τὴν Ὑρκανίην θάλασσαν καλεομένην οὔρεα ὑψηλὰ καὶ δασέα ὕλῃσιν, ἐπὶ δὲ τοῖσιν οὔρεσιν ἄκανθα κυνάρα’. Καὶ ἑξῆς’· ‘Πάρθων πρὸς ἥλιον ἀνίσχοντα Χοράσμιοι οἰκοῦσι γῆν, ἔχοντες καὶ πεδία καὶ οὔρεα, ἐν δὲ τοῖσιν οὔρεσι δένδρεα ἔνι ἄγρια, ἄκανθα κυνάρα, ἰτέα, μυρίκη’. Καὶ περὶ τὸν Ἰνδὸν δέ φησι ποταμὸν γίνεσθαι τὴν κυνάραν. Καὶ Σκύλαξ δὲ ἢ Πολέμων γράφει· ‘εἶναι δὲ τὴν γῆν ὑδρηλὴν κρήνῃσι καὶ ὀχετοῖσιν, ἐν δὲ τοῖς οὔρεσι πέφυκε κυνάρα καὶ βοτάνη ἄλλη’. Καὶ ἐν τοῖς ἑξῆς ἐντεῦθεν δὲ ὄρος παρέτεινε τοῦ ποταμοῦ τοῦ Ἰνδοῦ καὶ ἔνθεν καὶ ἔνθεν ὑψηλόν τε καὶ δασὺ ἀγρίῃ ὕλῃ καὶ ἀκάνθῃ κυνάρᾳ’. Δίδυμος δ᾽ ὁ γραμματικὸς ἐξηγούμενος παρὰ τῷ Σοφοκλεῖ τὸ κύναρος ἄκανθα· ‘μήποτε, φησί, τὴν κυνόσβατον λέγει διὰ τὸ ἀκανθῶδες καὶ τραχὺ εἶναι τὸ φυτόν. Καὶ γάρ ἡ Πυθία ξυλίνην κύνα αὐτὸ εἶπεν, καὶ ὁ Λοκρὸς χρησμὸν λαβὼν ἐκεῖ πόλιν οἰκίζειν ὅπου ἂν ὑπὸ ξυλίνης κυνὸς δηχθῇ, καταμυχθεὶς τὴν κνήμην ὑπὸ κυνοσβάτου ἔκτισε τὴν πόλιν’ ‘ ἐστὶ δὲ ὁ κυνόσβατος μεταξὺ θάμνου καὶ δένδρου,’ ὥς φησι Θεόφραστος, ‘καὶ τὸν καρπὸν ἔχει ἐρυθρόν, παραπλήσιον τῇ ῥοιᾷ, ἔχει δὲ καὶ τὸ φύλλον ἀγνῶδες’. Φαινίας δ᾽ ἐν ε᾽ περὶ φυτῶν κάκτον Σικελικήν τινα καλεῖ, ἀκανθῶδες φυτόν, ὡς καὶ Θεόφραστος ἐν ἕκτῳ περὶ φυτῶν· ‘ἡ δὲ κάκτος καλουμένη περὶ Σικελίαν μόνον, ἐν τῇ Ἑλλάδι δ᾽ οὐκ ἔστι. Ἀφίησι δ᾽ εὐθὺς ἀπὸ τῆς ῥίζης καυλοὺς ἐπιγείους, τὸ δὲ φύλλον ἔχει πλατὺ καὶ ἀκανθῶδες, καυλοὺς δὲ τοὺς καλουμένους κάκτους. Ἐδώδιμοι δ᾽ εἰσὶ περιλεπόμενοι καὶ μικρὸν ὑπόπικροι, καὶ ἀποθησαυρίζουσιν αὐτοὺς ἐν ἅλμῃ. Ἕτερον δὲ καυλὸν ὀρθὸν ἀφίησιν, ὃν καλοῦσι πτέρνικα, καὶ τοῦτον ἐδώδιμον. Τὸ δὲ περικάρπιον ἀφαιρεθέντων τῶν παππωδῶν ἐμφερὲς τῷ τοῦ φοίνικος ἐγκεφάλῳ, ἐδώδιμον καὶ τοῦτο, καλοῦσι δ᾽ αὐτὸ ἀσκάληρον’. Τίς δὲ τούτοις οὐχὶ πειθόμενος θαρρῶν ἂν εἴποι τὴν κάκτον εἶναι ταύτην τὴν ὑπὸ Ῥωμαίων μὲν καλουμένην κάρδον, οὐ μακράν, ὄντων τῆς Σικελίας, περιφανῶς δ᾽ ὑπὸ τῶν Ἑλλήνων κινάραν ὀνομαζομένην. Ἀλλαγῇ γὰρ δύο γραμμάτων κάρδος καὶ κάκτος ταὐτὸν ἂν εἴη. Σαφῶς δ᾽ ἡμᾶς διδάσκει καὶ Ἐπίχαρμος μετὰ τῶν ἐδωδίμων λαχάνων καὶ τὴν κάκτον καταλέγων οὕτως· ‘μήκων, μάραθα τραχέες τε κάκτοι. Τοῖς ἄλλοις μὲν φαγεῖν ἐντὶ λαχάνοις’, εἶτα προιών· ‘αἲ κά τις ἐκτρίψας καλῶς παρατιθῇ νιν, ἁδὺς ἐστ᾽ αὐτὸς δ᾽ ἐφ᾽ αὑτοῦ χαιρέτω, θρίδακας, ἐλάταν, σχῖνον, ῥαφανίδας, κάκτους’. Καὶ πάλιν· ‘ὁ δέ τις ἀγρόθεν ἔοικε μάραθα καὶ κάκτους φέρειν, ἴφυον, λάπαθον, ὀτόστυλλον, σκόλιον, σερίδα, ἀτράκτυλον, πτέριν, κάκτον, ὀνόπορδον’. Καὶ Φιλίτας ὁ Κῷος· ‘γηρύσαιτο δὲ νεβρὸς ἀπὸ ψυχὴν ὀλέσασα, ὀξείης κάκτου τύμμα φυλαξαμένη’.Ἀλλὰ μὴν καὶ κινάραν ὠνόμασε παραπλησίως ἡμῖν Σώπατρος ὁ Πάφιος γεγονὼς τοῖς χρόνοις κατ᾽ Ἀλέξανδρον τὸν Φιλίππου, ἐπιβιοὺς δὲ καὶ ἕως τοῦ δευτέρου τῆς Αἰγύπτου βασιλέως, ὡς αὐτὸς ἐμφανίζει ἔν τινι τῶν συγγραμμάτων αὑτοῦ. Πτολεμαῖος δ᾽ ὁ Εὐεργέτης βασιλεὺς Αἰγύπτου, εἷς ὢν τῶν Ἀριστάρχου τοῦ γραμματικοῦ μαθητῶν, ἐν δευτέρῳ ὑπομνημάτων γράφει οὕτως· ‘ περὶ Βερενίκην τῆς Λιβύης Λήθων ποτάμιον, ἐν ᾧ γίνεται ἰχθὺς λάβραξ καὶ χρύσοφρυς καὶ ἐγχέλεων πλῆθος καὶ τῶν καλουμένων βασιλικῶν, αἳ τῶν τε ἐκ Μακεδονίας καὶ τῆς Κωπαίδος λίμνης τὸ μέγεθός εἰσιν ἡμιόλιαι, πᾶν τε τὸ ῥεῖθρον αὐτοῦ ἰχθύων ποικίλων ἐστὶ πλῆρες. Πολλῆς δ᾽ ἐν τοῖς τόποις κινάρας φυομένης οἵ τε συνακολουθοῦντες ἡμῖν στρατιῶται πάντες δρεπόμενοι σίτῳ ἐχρῶντο καὶ ἡμῖν προσέφερον, ψιλοῦντες τῶν ἀκανθῶν’. Οἶδα δὲ καὶ Κίναρον καλουμένην νῆσον, ἧς μνημονεύει Σῆμος.

6 Composto da κυνός [leggi chiunòs, genitivo di κύων (leggi chiùon)=cane)+βάτος (leggi batos)=rovo]; alla lettera, dunque, rovo di cane, con riferimento alla forma delle spine che ricordano i denti dell’animale. Non è da escludersi, al di là dell’identificazione reciproca tra κυνόσβατος e κυνάρα/κινάρα che pure nell’etimo di quest’ultima coppia abbia un ruolo il cane. In rete e non solo è ricorrente il riferimento ad una Cinara dai capelli color cenere  amata da Giove e da lui, non corrisposto, tramutata in carciofo. Nel recente post Attenti alla rete! (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/27/attenti-alla-rete/ ) credo di aver tracciato una convincente ricostruzione di quest’invenzione.

7 Naturalis historia, XXI, 57: Et cactos quoque in Sicilia tantum nascitur, suae proprietatis et ipse: in terra serpunt caules, a radice emissi, lato folio et spinoso. Caules vocant cactos, nec fastidiunt in cibis, inveteratos quoque. Unum caulem rectum habent, quem vocant pternica, eiusdem suavitatis, sed vetustatis impatientem. Semen ei lanuginis, quam pappon vocant: quo detracto et cortice, teneritas similis cerebro palmae est; vocant ascalian.

 

Il cardo è ottimo, anche come biocombustibile

 

di Silvia Mattoni

È ancora a livello sperimentale, ma potrebbe diventare un’importante fonte di ricchezza energetica ed economica per l’Italia meridionale. Produrre elettricità, calore e biocarburanti dalla pianta di cardo è l’obiettivo di una ricerca condotta dall’Unità operativa dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Isafom) del Cnr di Catania, diretta da Salvatore Antonino Raccuia.

“Il cardo (Cynara cardunculus L.) è una pianta originaria del bacino del Mediterraneo, della cui coltivazione come ortaggio si hanno notizie già al tempo dei romani”, spiega Raccuia. “Dagli anni ’90 questa specie è stata rivalutata come coltura da destinare alla produzione di biomassa per energia, così come il cardo selvatico, suo progenitore ampiamente diffuso”.

L’impiego del cardo si adatta particolarmente alle peculiari caratteristiche dell’ambiente mediterraneo, contraddistinto da apporti idrici limitati e distribuiti irregolarmente durante l’arco dell’anno. “Questa specie, infatti, grazie al ciclo di crescita che va dall’autunno alla primavera, periodo in cui si registrano maggiori eventi piovosi”, precisa Raccuia, “è in grado di intercettare gli apporti idrici naturalmente disponibili, ottenendo così buone rese in biomassa e acheni (frutto semplice e secco). L’elevato contenuto di zuccheri presente nelle radici, prevalentemente inulina, offre grandi possibilità d’impiego nel settore energetico”.

Le ricerche condotte hanno evidenziato che, della biomassa totale prodotta a fine ciclo, le radici costituiscono ben il 40-50%, percentuale che diminuisce progressivamente con l’età degli impianti. La rimanente parte è rappresentata in media per il 30% dalle foglie, per il 25% dai fusti e per il 45% dai capolini, il 15% dei quali è granella.

I dati sulla resa di impianti poliennali a ciclo lungo (10-12 anni) in ambiente mediterraneo hanno mostrato rese medie in biomassa secca tra 14 e 15 tonnellate/ettaro per anno. “Anche se quelle più elevate”, sottolinea Raccuia, “si hanno tra il secondo e il quinto anno, 20-25 t/ha per anno, per abbassarsi successivamente a 8 e 9 t/ha per anno. Rese medie maggiori si possono invece ottenere con cicli di coltivazione più brevi (3 anni)”.

L’interesse verso questa coltura è legato non solo alla sua spiccata adattabilità all’ambiente mediterraneo, ma anche alle diverse modalità di

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