Architettura della pietà popolare. I Calvari nel Salento

 

di Marcello Gaballo

Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, presentazione di Francesca Talò, Manduria, Barbieri Selvaggi, 2011 (271 pp., 26 cm).

 

Seppur datato al 2011, edito da Barbieri Selvaggi di Manduria, il volume di Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, resta fondamentale per la conoscenza e lo studio di queste caratteristiche costruzioni presenti nel Salento, realizzate tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, a torto poco considerate e ingiustamente relegate tra i cosiddetti beni culturali “minori”.

Rimandano al nome del monte su cui Cristo fu crocifisso e comprendono scene della Passione con vari personaggi e simboli ad essa collegati e quasi in tutti, al centro, domina la Crocifissione.

Sono tanti i centri che ancora possono disporne, anche se molti trascurati e in deplorevoli condizioni, venendo meno i committenti e la  memoria delle radici culturali che favorìrono la loro realizzazione con pietra locale da taglio in punti strategici delle cittadine, collocati scenograficamente a lato delle chiese principali o conventi oppure davanti ai cimiteri di un tempo.

“Graziosi santuari urbani, una volta occasione di aggregazione devozionale dell’umile popolo di Dio”. Così li riassume Francesca Talò, che presenta il bel volume, riccamente illustrato con foto a colori, che illustra gli 83 Calvari superstiti censiti dall’Autore nelle tre province di Brindisi (13), Lecce (ben 61) e Taranto (9). Di ognuno di questi viene presentata una scheda descrittiva, con adeguato corredo fotografico, che illustra la tipologia e varietà architettoniche (a tempietto, edicola, portico, esedra, etc.) e le diverse tecniche adoperate da artisti quasi sempre locali, siano essi pittori o scultori.

Sempre la Talò, nella sua ampia e condivisibile premessa del volume, precisa come “Non a caso, nei calvari, pur nella peculiarità propria della loro appartenenza geografica, si rinviene la testimonianza dei tanti segni della trascorsa religiosità popolare, leggibile (nelle tre direzioni di storia-arte-fede) unitamente anche ai rapporti con l’impianto urbanistico, quale contenitore di tali edifici, e tenendo in conto anche le diverse teorie stilistiche di cui si adornavano, perché capaci di raccontare dei fasti o della elementarità economica di quanti si sono fatti committenti di simili beni  del patrimonio sacro cittadino… monumenti che attengono la sfera del vissuto devozionale collettivo, trovano fondamentalmente la loro ragione di essere nel devoto desiderio di rivivere in loco, in maniera concretamente visibile e sperimentabile, le suggestioni della Terra Santa”.

Tra le diverse tipologie di calvari salentini torna molto utile l’approfondimento sul Calvario di Ortelle studiato da Angelo Micello, affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, “un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei Calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel Calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873)”. Realizzò anche quelli di Specchia Preti e Morciano di Leuca (vedi Il Calvario di Ortelle – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Sul Calvario di Spongano ne ha scritto invece Giuseppe Corvaglia (Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Purtroppo, come rileva Bruno Perretti, autore di questo utile ed originale censimento, non sempre si ritrovano le firme degli artisti certificati, come sono, oltre a Buttazzo, quelli di Alessandro Bortone (1848-1939) a Diso, Vignacastrisi e Vitigliano; Ciro Cimino a Racale; Agesilao Flora (1863-1952) a Latiano; Giuseppe Villani a Galatina; Ciro Fanigliulo (1881-1969) a Grottaglie e Monteiasi; Giuseppe Renato Greco a Manduria; Giuseppe Vaccaro a Lizzano; Leonardo Perrone a Squinzano; Luigi Giuseppe Martena a Trepuzzi; Nicola Pepe a Tiggiano; Giovanni Moscara a Soleto; don Oreste Paladini a Taurisano; Sebastiano Greco a Seclì.

Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina

 

Calvario di Spongano (lato nord) (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Spongano (lato nord)
(ph Giuseppe Corvaglia)

di Giuseppe Corvaglia

 

Il Calvario è un monumento presente, se non in tutti, nella gran parte dei paesi del Salento.

Il modello più comune è quello a semicupola o a edicola absidata, all’interno della quale ci sono degli affreschi che raffigurano i momenti principali della passione di Gesù, come la crocifissione, la deposizione, ma anche la preghiera nell’orto degli ulivi, la flagellazione alla colonna  o il cammino verso il Golgota.

In alcuni, come a Diso e Vignacastrisi, nella parte bassa viene raffigurato anche Gesù morto, deposto nel sepolcro; a Montesano e in altri posti viene riportata  la deposizione dalla croce. Ai lati vengono spesso raffigurati il buon ladrone e il mal ladrone.

Di forma ad edicola absidata ne troviamo molti nel circondario (Botrugno, Castiglione, Diso, Vignacastrisi, Vitigliano, Montesano, Ruffano, Montesardo, Miggiano, Tiggiano e Tricase).

Ci sono poi Calvari a edicola poligonale (come quello di Andrano), a emiciclo o a esedra curva   (come quello di Parabita) o ad esedra poligonale (come quello di Depressa), a recinto (come quello di Maglie) o, ancora, a portico, detto anche monoptero (come quello di Ortelle) o, infine, a tempietto, come quello di Spongano.

Calvario di Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
Calvario di Montesano
(ph Giuseppe Corvaglia)

Il monumento non è stato concepito in origine per pregare solo nella Settimana Santa, ma voleva essere un monito per tutti i giorni, finalizzato al culto pubblico per il beneficio spirituale di tutta la comunità cittadina locale.

Ricordo ancora la giaculatoria da recitare quando si passava davanti: «Gesù Crocefisso, liberatemi dalle fiamme dell’inferno e dal morire dalla morte improvvisa».

 

La Cappella di Santa Marina

A Spongano siamo abituati a definire la zona che da piazza della Repubblica porta alla stazione, come a susu Calvariu oppure a su Santa Marina; il primo riferimento è intuitivo, ma il secondo resta solo come toponimo, perché della chiesetta di Santa Marina non c’è più traccia.

Nella zona vicino al tempietto del Calvario, a Spongano, esisteva in passato un’antica cappelletta, dedicata a Santa Marina. Di questa cappelletta l’ultima vestigia è un quadro della Santa, conservato presso la nostra Chiesa Parrocchiale.

Santa Marina

La cappella, esistente già nel ‘700, fu demolita, essendo diventata fatiscente, e agli inizi del XX secolo fu costruita l’attuale cappella dedicata al Sacro Cuore di Gesù, inaugurata nel 1911.

interno della cappella (ph Antonio Chiarello)
interno della cappella (ph Antonio Chiarello)

In prossimità di questa cappella si teneva ogni anno, a luglio, una fiera con vendita  del bestiame e la celebre cuccagna, in cui si cimentavano i giovani più agili del paese, sopravvissuta fino agli anni ’50.

 

Il Calvario

Il Calvario di Spongano si distingue da tutti gli altri Calvari salentini. L’iconografia di questa opera, particolare nel suo genere, non si affida ad immagini dipinte, ma alle formelle del timpano e viene scandita dalle epigrafi lapidee nucleo del monumento.

Il monumento, che celebra la Passione di Gesù Cristo, venne costruito nel 1871, probabilmente sulla spinta delle predicazioni dei Padri Passionisti, grazie ai fondi raccolti dalla popolazione e a un contributo della Civica Amministrazione che consentì il compimento dell’opera.

Calvario a Montesano (ph Giuseppe Corvaglia)
ph Antonio Chiarello

Redasse il progetto Filippo Bacile di Castiglione che elaborò un Calvario originale.

Il valente architetto, incline alla moda dell’eclettismo, scelse un’architettura classicheggiante che rievocasse il periodo storico contemporaneo a Gesù e la simbologia della passione e morte del Redentore.

Il monumento è dato da un tempietto circolare aperto e formato da colonne, disposte in cerchio, sormontate da un timpano, sovrastato da una cupola, con lesene dove sono scolpiti simboli rievocanti episodi della Passione,.

Al centro sono posti cinque parallelepipedi sormontati da croci che, da qualunque parte le si guardi sembrano tre. Sulle facce di questi parallelepipedi ci sono delle epigrafi che raccontano la vicenda di Gesù, la cui evocazione viene completata dagli oggetti scolpiti sulle lesene del timpano. Il maestro scalpellino esecutore del lavoro fu Giuseppe Pisanelli.

 

Epigrafi

Le Epigrafi sono il nucleo del monumento.

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

La lapide principale è quella dedicatoria che dice: TRIUMPHALI CRUCIS VEXILLO IN CALVARIA PRIMUM EXPLICATO  SPONGANENSIUM PIETAS COLLATICIA STIPE AN. MDCCCLXXI P ( posuit) cioè “la Pietà degli Sponganesi, che raccolsero i necessari fondi per la costruzione, dedicò quest’opera nell’anno 1871 a quel trionfale vessillo che è la Croce mostrata al mondo come tale per la prima volta sul monte Calvario”.

In alto, nella parte interna, a livello del timpano, è dipinta la scritta REGNARE NESCIENS NISI IN CRUCEM REX NOSTER vale a dire “il nostro Sovrano sa regnare solo nel segno della Croce”.

Sulle restanti facce dei parallelepipedi ci sono iscrizioni che si riferiscono allo svolgersi della passione, riprendendo i cinque misteri dolorosi del Rosario.

Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)
Cupola interna e croci (ph Antonio Chiarello)

La prima epigrafe, Orans sanguinem in sudorem emittit, fa riferimento alla preghiera che Gesù recita nell’orto degli ulivi quando, mentre sta  pregando, dalla fronte geme insieme sangue e sudore.

La successiva (OBOEDIT) evidenzia come il Figlio dell’uomo abbia obbedito anche di fronte alle immani sofferenze che sapeva di dover sopportare.

La seconda iscrizione (Flagellis caeditur ad columnam) fa riferimento alla flagellazione patita da Gesù per ordine di Ponzio Pilato.

La terza parla di come sia stato incoronato con una corona di spine (Spinea redimitur corona) per dileggio.

La successiva lapide mostra ancora una sola parola, DILEXIT, che vuol dire amò, perché solo chi ama fino in fondo può sottoporsi a così dura prova.

La successiva (Crucem bajulat in Calvariam) fa riferimento alla Via Crucis quando il Redentore porta sul Monte Calvario lo strumento del suo supplizio.

L’ultima (Affixus Cruci moritur) racconta l’epilogo della vicenda che vede Gesù, crocefisso, morire sul Golgota.

 

Le formelle del timpano iconografia della Passione di Cristo

Il Calvario di Spongano, come abbiamo detto, è diverso dagli altri Calvari salentini, perché non affida il racconto della Passione ad immagini dipinte, ma a epigrafi e bassorilievi, scolpiti in pietra, nelle lesene del timpano, raffigurando oggetti rievocanti episodi della Passione, come nelle croci processionali usate nei riti del Venerdì Santo.

Croce passione Spongano
ph Giuseppe Corvaglia

 

In queste formelle si possono vedere il vaso di unguenti, usato dalla Maddalena in casa di Simone per profumare anzitempo il corpo e i capelli di Gesù, la brocca e la bacinella con cui Pilato si lava le mani e le insegne del potere romano, la corona di spine, i flagelli, il pugno di ferro e la colonna dei supplizi, ma anche le lanterne e i fasci portati dai soldati andati ad arrestare Gesù nel Getsemani, e ancora la tunica tirata a sorte dai gaglioffi sotto la croce, i dadi, la lancia e la canna con la spugna, usate per dissetare e trafiggere il Crocifisso, il calice amaro della passione, il compenso e il cappio del traditore, il sudario della sepoltura e così via.

ph M. Preite
ph M. Preite

Oggi

Da tempo il Calvario compare sulle guide turistiche del paese, viene illuminato di notte e posto in bell’evidenza, ma cominciava  a mostrare le crepe del tempo che si allargavano viepiù fino a metterne in pericolo la sua stabilità e la sua conservazione.

Le formelle del timpano, su cui sono scolpiti i simboli della Passione, cominciavano a deteriorarsi, alcune per l’erosione della pietra, altre per crepe nella pietra stessa.

Un albero, che casualmente si chiama Albero di Giuda (Cercis siliquastrum), aveva esteso le sue radici fin sotto i gradini del tempietto, sollevandone  alcuni, e forse proprio questa spinta dal basso può essere stata la responsabile delle crepe.

Le stesse radici spingevano la balaustrata del lato sud verso l’esterno rendendola instabile. Dal lato est (lato verso la piazza) un possente pino sconvolgeva la balaustra e forse spingeva anche lui dal basso il tempietto e anche da nord l’inoffensivo e bellissimo skynus (o finto pepe) spingeva pericolosamente la balaustra e il tempietto, perché la roccia sotto di lui ne impediva la naturale propagazione delle radici .

ph Giuseppe Corvaglia
ph Giuseppe Corvaglia

Spongano, paese pieno di devozione e generoso, non meritava la perdita di questa importante memoria dei nostri padri, particolarmente originale e significativa.

Tuttavia non ci sono state iniziative e l’Amministrazione Comunale, non essendo proprietaria del bene, ha solo potuto tagliare e rimuovere  il maestoso pino, responsabile in gran parte della instabilità della balaustra.

Non si è neppure costituito un comitato che, come hanno fatto i nostri padri nel 1870 con la raccolta di fondi per costruirlo, potesse dar vita a una iniziativa per salvarlo.

E’ vero che quando si tratta di intervenire su un bene culturale è necessaria perizia e grande competenza, non ci si può improvvisare, e bisogna dare atto che i cittadini di Spongano, in particolare quelli di S. Marina, come si chiama la zona circostante, si sono spesi per ridare dignità al luogo come hanno potuto.

Oggi il recupero di Calvario è una realtà grazie a un progetto di don Vito Catamo, emerito parroco di Spongano, progetto auspicato anche dal compianto sindaco Luigi Zacheo e coordinato dall’attuale parroco don Donato Ruggeri i quali, d’intesa con la Soprintendenza ai beni artistici e culturali e l’Ufficio diocesano dei beni culturali, hanno contribuito a realizzare un progetto che ristabilisce la stabilità e l’integrità di un monumento tanto delicato.

Calvario oggi Preite
ph Antonio Chiarello

A compiere i lavori è stata l’impresa GEM di Marco Preite, non nuova a questo tipo di opere, avendo già ristrutturato una casa del ‘700 in via S. Leonardo e il pregiato frantoio ipogeo di Palazzo Bacile.

Così oggi il Calvario di Spongano, liberato delle insidie delle piante, ormai troppo ingombranti, e riadornato del muro perimetrale, ricostituito con il recupero della balaustra, si può ammirare nella sua nuda bellezza senza sospirare per la sua precarietà.

Ci sarà da lavorare per restaurare il tempietto e valorizzare sempre più il pregevole sito. Per quello ci auguriamo che la devozione e la generosità degli Sponganesi di oggi sappia emulare quella SPONGANENSIUM PIETAS dei loro avi, così che un domani si possa restituire il Calvario all’antica bellezza.

 

 

Bibliografia:

  1. G. Corvaglia, Il Calvario di Spongano sito in contrada S. Marina- Note di storia locale, 2003 Erreci Edizioni Maglie – Comune di Spongano
  2. http://www.comunemontesanosalentino.it/fenomeno-calvari-nel-salento

Il Calvario di Ortelle

di Angelo Micello

 

Commissionato da una nobile famiglia ortellese, come per tutte queste architetture religiose aperte ed esterne, il calvario di Ortelle si pone in posizione fortemente scenica rispetto al contesto urbano formando la perfetta la quinta finale di corso Vittorio Emanuele II in direzione sud.

Nato negli ultimi decenni dell’ottocento come buona parte dei calvari dell’area Jonico-salentina, è caratterizzato da una struttura a portico in pietra leccese (ad eccezione del prospetto posteriore) che dispone di un proprio spazio urbano formato da una grande villetta appositamente dedicata. Se in altri ambiti la struttura  devozionale è ubicata su piccoli larghi o appoggiata ad altri fabbricati civili, qui ad Ortelle alla struttura è dedicato un proprio spazio e concorre alla definizione delle visuali prospettiche urbane nell’ambito di maggiore prestigio del paese.

Per un approfondimento sui calvari pugliesi segnalo uno studio organico di Bruno Perretti e alcune considerazioni su queste architetture minori di Francesca Talò.

Fu affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873). Formatosi presso il concittadino Francesco Saverio Russo, dopo una pausa di studio e di prime esperienze a Napoli, nel 1849 fece ritorno a Diso ed ebbe tra i suoi disceppoli Paolo Emilio Stasi di Spongano, Giuseppe Mangionello e Nino Palma di Maglie, Vincenzo Valente di Specchia, Roberto Palamà di Sogliano, Alessandro Bortone di Diso, Emilio Iannuzzi ed altri.

Per la sua capacità tecnica nei dipinti murali ben presto gli vennero commissionati molte opere all’aperto, soprattutto calvari; tra quelli finora certi: Ortelle, Specchia Preti, Montesano Salentino e Morciano di Leuca tutti eseguiti con la tecnica del mezzo fresco che gli permetteva di ridurre di molto i tempi di esecuzione delle opere.

A Ortelle, come negli altri calvari, illustrò le immagini della Passione di Gesù Cristo, raffigurandovi i cinque Misteri Dolorosi del Rosario secondo lo schema delle Litanie Lauretane. Tre delle cinque scene sono collocate sull’abside centrale. Al centro la Crocifissione con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena.

Alla sinistra la Flagellazione

Alla destra una stazione dell’Andata al Calvario, con la Maddalena

Nei due bracci laterali altre due stazioni della Passione, come la Coronazione di spine

e l’ultimo quadro la Preghiera nell’orto degli ulivi:

L’edificio, pregevolissimo negli equilibrati prospetti in pietra leccese, è arricchito da cancelli in ferro e ghisa e da ringhiere di pietra di pianta quadrata.

Le foto del post ed altre di dettaglio, in maggiore risoluzione, le scaricate QUI

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (II parte)

di  Francesca Talò

Calvario a Ortelle (ph Stefano Cortese)

Figli dell’atavica miseria e della devota ignoranza delle popolazioni del Sud (quasi in toto acculturate dalla Chiesa e solo su base orale e attraverso l’iconografia sacra), i calvari cittadini esprimevano il senso della vicinanza e della sentita compartecipazione spirituale alle sofferenze del Dio-uomo. Le missioni popolari, poi, e le prediche dei padri quaresimalisti, facevano il resto.

Nella varietà delle diverse culture di appartenenza, i calvari del Grande Salento si rinvengono realizzati nelle vesti di un’architettura eclettica, sia pure minore, povera, essenziale. Le forme planimetriche, che si trovano replicate su siti diversi (certamente per l’utilizzo delle medesime maestranze), sono tradotte nelle tipologie a edicola, a emiciclo o esedra, a portico, a recinto o a monoptero, mentre i registri stilistici di maggiore riferimento si ispirano alla scuola classica e neoclassica, quella neogotica, del liberty e non di rado sono presenti esempi feriti al razionalismo, ma sempre con esiti estranei o lontani da quel che si definisce opera d’arte.

La mancanza di materiali nobili e l’impiego generalizzato e non trattato della pietra locale, proveniente dalle cave vicine, hanno consegnato manufatti poco resistenti all’aggressione degli agenti atmosferici e all’azione corrosiva del tempo. Rimane, comunque, la convinzione di quanto grandi fossero la volontà e il sacrificio dei devoti, nel realizzare al meglio un’esperienza di fede e di accostamento al sacro. Tanto, lo si evince dalla cura e dalla preoccupazione dei committenti, i quali tentavano di impiegare il meglio delle maestranze in materia, come attestato soprattutto dalle prestazioni degli scalpellini, autori del decorativismo delle scarne strutture di base, sempre poi abbellite da multiformi colonne, paraste fregiate, intagli, girali e festoni carichi di foglie e fiori, terminanti con eleganti bandelle, cartigli con iscrizioni commemorative, cuspidi e pennacchi, nicchie, mensole ed altri elementi aggettanti, vasi replicanti forme classiche, acroteri ed altri elementi di chiaro prestito barocco. I risultati certamente evocavano una cultura dell’estetica, ma di stampo tipicamente popolare, così che quasi mai si arrivava all’idea di monumento, intesa nell’accezione propria del termine.

Infatti, a guardarli, è evidente che trattasi per lo più di architetture povere, a volte elementari, oggi strutturalmente malate e composte di ornamenti scultorei o pittorici in stato di forte degrado o malamente recuperati con logiche distorte di intervento. Sovente, la loro sopravvivenza è debitrice alla sola e devota generosità di privati, stante quella perniciosa assenza di una mirata politica di recupero da parte delle pubbliche amministrazioni, sempre miopi nei confronti della salvaguardia dei beni culturali minori.

Tuttavia, questi minuscoli tempi dello spirito, pur nella loro condizione minimale e lontani, com’erano, dai fasti degli ambienti liturgici, sempre hanno svolto il ruolo di fissare in concreto nell’immaginario dell’anima della pietà popolare – proprio attraverso la somma di semplici e artigianali elementi scultorei e figurativi – le scene più emblematiche della Passio Christi, così come narrata dai Vangeli. E, ancora, scorrendo le schede iconografiche di questa pubblicazione, non passa inosservata la persistenza di una produzione figurativa catechizzante (si tratti di affreschi, di tele, di bassorilievi, di statue lignee, in pietra, terracotta, di cartapesta o a impasto di cemento e gesso romano), che però sembra attingere la fisiognomica dei personaggi direttamente dai tanti volti rudi e sofferenti della terra di Puglia: i Cristi ripetono le sembianze contadine, le Madonne mutuano le espressioni di quel dolore ancestrale di tante madri del Sud, che hanno vissuto esperienze luttuose, mentrela Maddalena ola Veronica ricalcano forme e posture, tipiche delle popolane; e sempre ispirati al reale osservato appaiono anche i modelli figurativi dell’apostolo san Giovanni, i due ladroni o i restanti attori della Via Dolorosa.

Raro è il rinvenimento di firme di artisti certificati, come quelle di  Giuseppe Buttazzo (1821-1890) e Alessandro Bortone (1848-1939), attivi a Diso, Agesilao Flora (1863-1952) di Latiano o Ciro Fanigliulo (1881-1969) di Grottaglie, pittori e affreschisti rinomati, la cui presenza testimonia, in genere, l’intervento generoso di un qualche aristocratico nell’elenco dei committenti di questi sacri edifici.

Un altro dato merita di essere rimarcato: la notevole concentrazione di calvari superstiti in questa porzione geografica della Puglia. Il fenomeno, a parer nostro, si giustifica e si legittima sostanzialmente nella consolidata e secolare presenza degli ordini mendicanti, dei gesuiti e dei passionisti, protagonisti attivi della cultura religiosa popolare presso molte comunità; una presenza rivelatasi fortemente incisiva già a partire dal tempo della riforma cattolica e avvalorata anche dall’azione delle confraternite e dalla pedagogia pastorale delle diocesi e delle parrocchie.

La porzione temporale, entro cui si colloca il patrimonio dei calvari pugliesi, parrebbe circoscritta a circa mezzo secolo e si situa fondamentalmente tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi tre del Novecento. Sporadiche le realizzazioni che cadono fuori da simili riferimenti diacronici. Non è azzardato, tuttavia, pensare, come attestano alcuni esempi riportati dal Perretti, che alcuni dei calvari osservati sono rinati sui ruderi di altri più datati, abbattuti o scomparsi a causa della povertà dei materiali impiegati, per l’esiguità delle loro dimensioni, ma anche per il mutare dell’assetto urbano, che nel tempo, per l’ampliamento delle zone da demizzare, li ha miseramente sventrati o atterrati. Tanto, perché non ci sembra di cogliere alcuna documentata giustificazione storica, che limiti il loro fiorire al solo segmento epocale suddetto, tenuto pure conto del fervore dei suggestivi riti della Passione, attivi in ogni angolo del Salento e che animavano, fin dal sec. XVII, le tante pratiche di pietà, presso le laboriose e devote popolazioni di questa Terra.

Volendo concludere con una qualche riflessione da consegnare ai Lettori, vale la pena ricordare che i calvari salentini (sopravvissuti al guasto o ad azioni di demolizione vera e propria) parlano ancora del legame inscindibile tra sacro e profano, che connotava la civiltà contadina; pertanto, oggi, simili edifici sono da tutelarsi, perché tale è anche il dettato delle norme sui beni culturali, in quanto documenti materiali del patrimonio demo-etno-antropologico[1] di una comunità.

Inquadrati in un contesto più tecnico, essi valgano, ancora oggi, quali testimoni dei tanti saperi e delle competenze di perite maestranze e abili artigiani della civiltà preindustriale; per questo, recuperarli dal degrado in cui versano, vuol dire conservare i segni delle tecniche e delle strategie costruttive, a cui erano estranei alcuni materiali e l’uso massiccio della tecnologia, che ha sostituito la mano e la libera creatività dell’uomo. In questo momento, per molti di questi tempietti, appare urgente il risanamento dei danni statici, prima che le strutture vadano in collasso, come si evince dall’analisi in loco di alcuni di questi monumenti; interventi a regola d’arte possono, poi, risolvere o fermare la perniciosa decoesione dei materiali di fabbrica più usurati. E al fine di non incorrere in quel deprimente ibrido tra antico e moderno (come non è raro vedere), prima di operare e già in fase di progetto, vale la pena accertarsi dei materiali e delle tecniche costruttive poste in essere all’origine, per non sconvolgere – in situazione d’opera – l’autenticità dell’esistente e la validità storica[2] dell’edificio.

La conservazione è uno dei teoremi più categorici delle attuali scuole del restauro.

A tanto va ad aggiungersi la necessità di un programma attento di recupero degli affreschi e delle tele, che rappresentano le componenti più critiche degli antichi calvari salentini. Spesso per un fenomeno di sfarinatura o per scollamento di materiale di superficie, risultano illeggibili sia gli originari stilemi figurativi che la sintassi cromatica, quest’ultima snervata anche dagli attacchi delle muffe, stratificatesi nel tempo. Non mancano gli esempi di degrado anche per la ricca statuaria, che correda numerosi calvari; alcuni esemplari in cartapesta di certo valore artistico, provenienti dalle botteghe di Lecce, con firme anche prestigiose, denunciano distacchi e malformazione di parti non facilmente recuperabili.

Per tutto questo, anche, si leva, alta e autorevole, la voce dell’Autore – e noi lo ringraziamo –  perché, se è pur vero che questi monumenti popolari non ricadono sotto l’interesse delle soprintendenze, è per vero che è un dovere civile, per chi li detiene, provvedere alla loro sopravvivenza, non solo per consegnarli al futuro della collettività, quale prezioso retaggio della cultura dei padri, ma anche per esperire nuove strategie e logiche di valorizzazione e di fruizione collettiva di simili beni culturali minori; “minori”, però, solo per un soverchio e tecnico modo di dire.

 


[1] In sintesi, non nuoce ricordare una breve nota di antropologia culturale, che vuole significare come la presenza dei calvari nei centri urbani del Mezzogiorno d’Italia – sia un segno forte di richiesta di protezione al divino. In tal senso, essi venivano edificati quasi sempre con orientamento a nord, forse come barriera capace di fermare il buio, inteso – nell’immaginario collettivo – come tutto ciò che oscura e mette in crisi l’esistenza individuale, familiare e di una comunità intera. In origine, sorgevano più frequentemente ai limiti dell’abitato; tanto, a significare una apotropaica presenza liminale tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra la luce e il buio. Al di là del valore connotativo di luogo-memoria dei dolori di Cristo, esso appare un segno del sacro che rassicura, che offre protezione dai pericoli materiali e spirituali e tiene lontane quelle inquietanti presenze malefiche, che sempre erano avvertite come reali nella quotidianità umile e sofferente delle masse popolari.

[2] In uno dei più datati documenti internazionali normativi sul restauro, la Carta di Venezia (1964), si dice che “la conservazione ed il restauro dei monumenti mirano a salvaguardare tanto l’opera d’arte che la testimonianza storica”.

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”.

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina, Saggio di presentazione del volume di:  Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area Ionico-Salentina, Manduria 2011, pp. 7-15.

 

La prima parte in:

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina (I parte)

A rischio il patrimonio nazionale dei beni architettonici “minori”

Il caso dei calvari nell’area Jonico-Salentina

(I parte)

di  Francesca Talò

Nei centri originari delle nostre città, edifici comuni ed edifici artistici coesistono, variamente collegati tra loro, a costruire quel cosiddetto ambiente che ne forma la caratteristica fisionomia  (Carlo Ceschi).

Calvario a Montesano Salentino (ph Stefano Cortese)

 

L’invito a presentare gli esiti della laboriosa ricerca di Bruno Perretti sui calvari di Puglia – certamente rara, per quel che attiene l’argomento di studio – mi consente una riflessione, sia pure amara, sul destino senza futuro che sembra incombere su tanta parte di quello straordinario patrimonio dei cosiddetti beni culturali “minori[1]”, custodi di importanti tasselli di storia municipale, che in essi si riconosce e si identifica e di cui riccamente si adorna il nostro Paese. In sostanza, queste testimonianze dal tono dimesso, rappresentano riferimenti storici e artistici di un vissuto comunitario che, ancor più dei grandi e noti complessi monumentali, esprimono la specificità di un territorio, partecipando significativamente alla sua configurazione topografica e urbanistica e la cui perdita è anche perdita di memoria delle proprie radici culturali. Eppure, tale patrimonio, immeritatamente, sembra soffrire di una mancanza di attenzione su più fronti: da parte delle Soprintendenze, perché non soggetto alle norme del vincolo, da parte delle pubbliche amministrazioni, poiché ben altri sono gli interventi che urgono sul territorio urbano e, non ultimo, da parte delle singole comunità, oggi perse in altri modelli culturali, certamente non orientati a far recepire – attraverso la presa di coscienza di simili testimonianze materiali, aventi “valore di civiltà”[2] – una più corretta e consapevole gestione della propria municipalità e delle sue potenzialità.

Nello specifico, soffrono ancor più quei modesti (solo per mero valore materiale) monumenti dei centri storici, abbandonati all’edacia del tempo e all’incuria dell’uomo; e parlo di quei preziosi segni connotativi di una specifica

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!