Nardò: quando la città era celebrata in versi e i poeti erano Agitati …

di Armando Polito

L’importanza di una città si misura attualmente più dalle iniziative di carattere economico che essa è in grado di prendere e, per lo più, visti i risultati, anche quelle culturali, pubbliche o private sono soggette alle prime, in ultima analisi non a favore della conoscenza, ma del profitto, per giunta di pochi; e per quelle pubbliche resta quanto meno il sospetto che il popolare, per non dire godereccio,  serva solo da comodo alibi per coltivare il consenso, nella più bieca applicazione dell’antico panem et circenses. D’altra parte nell’immaginario collettivo qualsiasi circolo culturale continua ad apparire come un ambiente esclusivo più che inclusivo,  come una nicchia elitaria. Le accademie, per entrare nello specifico, non nascono certo oggi e, comunque,  costituiscono la spia principale della vivacità culturale di una comunità, anche quando il loro nome non sembra essere indizio di serietà (un esempio pugliese: L’Accademia del lampascione di San Severo). La soluzione è facilmente intuibile: favorire un punto d’incontro tra un'”intellettualità” sovente schizzinosa, gelosa e narcisistica (quando non supponente) e una “popolarità” forse anche superficiale, ma per il cui innalzamento culturale si fa sempre meno, e non solo per colpa dell'”intellettualità” di prima.

Sotto questo punto di vista non saprei dire come Nardò stia messa oggi, ma mi piace ricordare con una punta d’amarezza da laudator temporis acti la sua situazione nel XVIII secolo.

Già agli inizi del precedente  il duca Belisario Acquaviva d’Aragona vi aveva fondato l’Accademia del Lauro e dopo la sua estinzione per iniziativa del vescovo Cesare Bovio nacque l’Accademia degli Infimi, che prosperò fino alla fine del secolo XVII.

Il post di oggi è ambientato nel secolo XVIII (più precisamente nel 1721), quando, per iniziativa della duchessa Maria Spinelli, nacque l’Accademia degli Agitati. Essa raggiunse l’apice della fioritura e della fama nel 1725, grazie al patrocinio di Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona, marchese di Pescara e del Vasto. Egli ne fu principe perpetuo col nome di Infaticabile, Console fu Francesco Antonio Delfino, soci furono Giovanni Giuseppe Gironda marchese di Canneto col nome di Audace, l’abate Girolamo Bados col nome di Ravveduto, Giuseppe Salzano de Luna col nome di Luminoso, Scipione di Tarsia Incuria col nome di Ardito, Domenico Parisi col nome di Intrattabile e Mattia de Pandis col nome di Nadisco.

Una rapida scorsa ai nomi (quelli originali) nonché ai titoli fa capire come non ci fosse un legame diretto tra la maggior parte dei personaggi citati e Nardò, fatta eccezione, forse, per Francesco Antonio Delfino, Domenico Parisi e Mattia de Pandis, i cui cognomi erano diffusi a Nardò in quel tempo (quelli degli gli ultimi due ancora oggi). Paradossalmente, però, c’è da dire che il loro interesse per Nardò non era certo casuale e, da qualsiasi sentimento fosse dettato, esso era una prova della considerazione, anche politica,  di cui la città godeva. Se il rapporto tra Maria Spinelli di Tarsia e Nardò (e, per via di una probabile parentela con lei anche quello di Scipione di Tarsia Incuria, casato diffuso a Conversano), era scontato e si intrecciava pure con la sua storia pregressa (la duchessa era moglie di Giulio Antonio IV Acquaviva, undicesimo duca di Nardò e ventitreesimo conte di Conversano), quello degli altri esige un discorso più lungo. Comincio da Cesare Michelangelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona (1667-1729), feldmaresciallo, oltre che principe del Sacro Romano Impero, con una collezione impressionante di ulteriori titoli nobiliari. DI seguito il suo ritratto (tavola tratta da Domenico Antonio Parrino, Teatro eroico, e politico dei governi de’ vicere del regno di Napoli dal tempo del re Ferdinando il Cattolico fino al presente, Parrino e Mutii, Napoli, 1692), un tallero del 1706 (immagine tratta da Simonluca Perfetto, Demanialità, feudalità e sede di zecca. Le monete a nome di Don Cesare Michelangelo d’Avalos per i marchesati di Pescara e del Vasto,  Vastophil, Vasto, 2012), in questo caso moneta di ostentazione, cioè di rappresentanza, poco più che una medaglia, che gli Asburgo gli avevano concesso di coniare dal 1704, quando si trovava in esilio a Vienna, e una medaglia del 1708 (immagine tratta da  http://www.tuttonumismatica.com/topic/3960-medaglia-di-cesare-michelangelo-davalos/).

Al dritto: busto di Cesare Michelangelo con parrucca, corazza e tosone d’oro al collo; legenda: CAES(ARDAVALOS DE AQUINO DE ARAG(ONIAMAR(CHIOPIS(CARAE) ET VASTI D(UX) G(ENERALIS) S(ACRI) R(OMANI) I(MPERII) PR (INCEPS) [Cesare d’Avalos d’Aquino d’Aragona marchese di Pescara e duca di Vasto principe generale del Sacro Romano Impero).

Al rovescio: stemma familiare con legenda: DOMINUS REGIT ME ANNO 1706 [Il signore mi guida anno 1706)

Al dritto: due fasci di spighe di grano legate da nastri svolazzanti, sui quali si legge: FINIUNT PARITER RENOVANTQUE LABORES [Le fatiche allo stesso modo finiscono e ricominciano] su quello di sinistra e SERVARI ET SERVARE MEUM EST [È cosa mia essere rispettato e rispettare] su quello di destra. Entrambi i motti fanno parte della storia del casato per la linea maschile e per quella femminile1.

Non è dato sapere quale motivo più o meno recondito rese Cesare Michelangelo mecenate a favore di Nardò, ma è certo che ben poco si sarebbe saputo dell’Accademia degli Agitati (come successo per tante altre della cui produzione poco o nulla fu pubblicato) senza la Compendiosa spiegazione dell’impresa, motto, e nome accademico del Serenissimo Cesare Michel’Angelo d’Avalos d’Aquino d’Aragona che Giovanni Giuseppe Gironda, come s’è detto, uno dei soci, pubblicò per i tipi di Felice Mosca a Napoli nel 1725 (integralmente leggibile in https://books.google.it/books?id=o3peAAAAcAAJ&pg=PA6&dq=compendiosa+spiegazione+michelangelo+D%27AVALOS&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwic9Z6L7_zkAhULjqQKHfTPDbgQ6AEIKDAA#v=onepage&q=compendiosa%20spiegazione%20michelangelo%20D’AVALOS&f=false).

Giovanni Giuseppe, figlio di Alfonso, fu il quarto marchese di Canneto dal 1708 (feudo ceduto nel 1720 alla famiglia Nicolai, mantenendone però il titolo), Patrizio di Bari, primo Principe di Canneto dal 1732.

Il volume ospita un nutrito numero di componimenti dei soci che ho citato all’inizio ed a breve leggeremo quelli in cui compare espressamente il nome di Nardò. Prima, però, intendo dire qualcosa sui soci fin qui trascurati. Girolamo Bados potrebbe essere colui che ebbe una controversia col lucchese Alessandro Pompeo Berti (1686-1752), che ne lascio memoria in Se fosse maggior dignità il Consolato,o la Dittatura nella Repubblica Romana. Controversia col Sig. Abate Girolamo Bados, opera manoscritta di cui è notizia in Giammaria Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1760, v. II, p. II, p. 1038. Per Giuseppe Salzano de Luna (nel volume del Gironda è detto Cavaliere) null’altro posso ipotizzare se non l’appartenenza a quel casato napoletano. Nello stesso volume Domenico Parisi appare col titolo di Segretario di S. A. e Francesco Antonio Delfino come abate.

Siamo giunti, finalmente, alle poesie dedicate a Nardò, tutte del Gironda: cinque in lingua latina [quattro in distici elegiaci (nn. 1, 2, 3 e 5), una in strofe alcaiche (n. 4)] ed una in italiano (un sonetto, n. 6), rispettivamente alle pp. 64-66, 66-67, 67-68, 71-73, 74 e 75. Una nota filologica preliminare: del toponimo la forma adottata è, come vedremo, Neritos, con il derivato aggettivo Neritius/a/um, il quale, nel latino classico significa di Nerito (monte di Itaca citato da Omero).

Appare evidente l’ipotesi, a quel tempo dominante2, di un legame tra Ulisse  e Nardò, ipotesi durata a lungo ma poi abbandonata a favore della derivazione del toponimo da una radice indoeuropea nar che significa acqua. Nella trascrizione ho rispettato il testo originale, comprese le iniziali maiuscole e la punteggiatura, mentre nella traduzione, che mi sono sforzato di rendere quanto più letterale possibile (rispettando anche la corrispondenza del verso, tuttavia senza la velleità di fornire una traduzione poetica), ho fatto prevalere l’uso moderno. Per quanto riguarda le note di commento non mi illudo che esse (in particolare quelle con riferimenti alla mitologia) suscitino curiosità nel giovane lettore, ma non dispero che risveglino qualche ricordo, non necessariamente gradito se ha frequentato il liceo classico …,  in chi, più o meno, ha la mia stessa età.

1) (pp. 64-66)

2) ( pp. 66-67)

3) (pp. 67-68)

4) (pp. 71-73)

5) (p. 74)

 

6) (p.75)

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1 Finiunt pariter renovantque labores era stato già il motto dell’Accademia dei Pellegrini fondata a Venezia nel 1550 (Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica  da S. Pietro sino ai nostri giorni, Tipografia Emiliana, Venezia, 1858, v. XCI, p. 348 alla voce Venezia), ma esso nello stesso periodo risulta confezionato da Paolo Giovio (1483 circa-1552) secondo quanto si legge nel Dialogo dell’Imprese militari di Monsignor Paolo Giovio Vescovo di Nucera uscito postumo per i tipi di Antonio Barre a Roma nel 1555. Dall’edizione uscita per i tipi di Guglielmo Roviglio a Lione nel 1559 alle p. 103-104 si legge: Hora queste spighe del signor Theodoro mi riducono à memoria l’impresa, ch’io feci al Signor Marchese del Vasto, quando dopò la morte del Signore Antonio da Leva fù creato Capitan Generale di Carlo Quinto Imperatore; dicendo egli , che à pena eran finite le fatiche , ch’egli aveva durate per esser Capitano della fanteria, ch’egli era nata materia di maggior travaglio; essendo vero, che ‘Generale tiene soverchio peso sopra le spalle: gli feci dunque in conformità del suo pensiero, due covoni di spighe di grano maturo con un motto, che girava le barde e le fimbrie della sopravvesta, e circondava l’impresa nello stendardo; il qual motto diceva FINIUNT PARITER RENOVANTQUE LABORES ; vol end’io isprimere, che à pena era raccolto il grano, che nasceva occasion necessaria di seminarlo per un’altra messe, e veniva à rinovar le fatiche de gli aratori. E tanto più conviene al soggetto del Signor Marchese, quanto che i manipoli delle spighe del grano furono già gloriosa impresa guadagnata in battaglia da Don Roderigo Davalos bisavolo suo, gran contestabile di Castiglia. E a p. 102 compare l’immagine seguente.

Lo stesso Bovio risulta essere il creatore pure di Servari et servare meum est. AlLe pp. 100-101 della stessa opera si legge: E poi che siamo entrati nelle donne, ve ne dirò un’altra [impresa], ch’io feci all’elegantissima Signora Marchesa del Vasto Donna Maria d’Aragona, dicendo essa, che sì come teneva singolar conto dell’honor della pudicitia, non solamente la voleva confermare con la persona sua, ma anchora haver cura,che le sue donne, donzelle e maritare per istracuraggine non la perdessero. E perciò teneva una disciplina nella casa molto proportionata à levare ogni occasione d’huomini e di donne, che potessero pensare di macchiarsi l’honor dell’honestà. E così le feci l’impresa che voi avete vista nell’atrio del Museo, la quale è due mazzi di miglio maturo legato l’uno all’altro, con un motto, che diceva:SERVARI ET SERVARE MEUM EST, perche il miglio di natura sua, non solamente conserva se stesso da corruttione, ma anchora mantiene l’altre cose,che gli stanno appresso, che non si corrompano, sì com’è il reubarbaRo e la Canfora, le quali cose pretiose si tengono nelle scatole piene di miglio, alle botteghe de gli speciali, accio ch’elle non si guatino.

E a corredo a p. 100 la relativa immagine.

2 Giovanni Bernardino Tafuri in Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, tomo XI, 1735, p. 33 scrive di un anonimo scrittore del quale cita un piccolo frammento trascritto da Bartolomeo Tafuri nel suo lavoro manoscritto dal titolo Mescolanze: Neritini, qui Chones etiam vocabantur ab Ithacae monte  ob magnam aquae penuriam  expulsi Salentinam Provinciam petierunt,  et inter alias Civitates, et loca Neritonem urbem aedificavere, et tale nomen  illi imposuere ob eorum relictam Patriam in monte Ithacae, de qua meminit Homerus, et Vergilius (I Neritini , che erano chiamati anche Coni, banditi dal monte di Itaca per la grande penuria d’acqua raggiunsero la provincia salentina e tra le altre città e luoghi edificarono la città di Nardò e le diedero tale nome per la loro patria lasciata sul monte di Itaca, della quale hanno lasciato un ricordo Omero e Virgilio). Per completezza riporto di questi due autori i passi relativi:

Omero, Iliade, II, 632-633: Αὐτὰρ Ὀδυσσεὺς ἦγε Κεφαλλῆνας μεγαθύμους,/οἵ ῥ᾽ Ἰθάκην εἶχον καὶ Νήριτον εἰνοσίφυλλον (Poi Odisseo comandava i coraggiosi Cefaleni, che abitavano Itaca e Neritoche agita le foglie)

Omero, Odissea IX, 21-22: Ναιετάω δ᾽ Ἰθάκην ἐυδείελον· ἐν δ᾽ ὄρος αὐτῇ/Νήριτον εἰνοσίφυλλον, ἀριπρεπές, ἀμφὶ δὲ νῆσοι (Abito la tranquilla Itaca; in essa lo splendido Nerito che agita le foglie, isole intorno)

Virgilio, Eneide, III, 270-271: Iam medio apparet fluctu nemorosa Zacynthos/Dulichiumque Sameque et Neritos ardua saxis (Già in mezzo al mare appare la boscosa Zacinto e Dulichio e Same e Nerito scoscesa di rocce).

Nardò: il duca Belisario può far celebrare messa nel suo palazzo

di Armando Polito

Su Belisario Acquaviva, ultimo duca di Nardò con tale nome, vedi Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli,1848, v. I, pp. 443-445.

Di seguito il documento di autorizzazione emesso dall’arcivescovo di Amalfi Paolo Emilio Filonardi (Roma, 1580 – Roma, 24 aprile 1624) su autorizzazione di papa Paolo V (1552-1621). È contenuto in un manoscritto del secolo XVII (Borg. lat. 67, carta 188r e v) custodito a Roma nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Esso, come si vedrà, non reca data, ma, siccome è seguito da altre licenze concesse ad altri nel 1618, è plausibile che risalga a quell’anno. Ad ogni buon conto non può essere anteriore all’aprile del 1618, data in cui il Filonardi fu nominato nunzio apostolico, carica ricordata proprio all’inizio.

Lo riproduco con, di mio, la trascrizione a fronte e  la traduzione in calce.

Paolo Emilio Filonardo di Roma, arcivescovo di Amalfi per grazia di Dio e della sede apostolica, e attualmente nunzio per il Regno di Napoli per conto dell’illustrissimo signore nostro papa Paolo V e commissario appositamente deputato a tutto ciò che dopo è posto. A tutti e ai singoli fedeli di Cristo che leggeranno la presente, nonché a quelli che la vedranno e alla quale siano pervenuti  o in qualsivoglia modo spetti, dichiariamo quale licenza concediamo al signore Belisario Acquaviva duca di Nardò in forza della facoltà concessaci dal signor nostro papa Paolo e con la presente disponiamo che al medesimo duca sia lecito e possa far celebrare il sacrosanto sacrificio della messa nella sua cappella o oratorio della medesima città di Nardò con i suddetti limiti e condizion, in modo che l’oratorio adeguatamente a ciò arredato, rimanga libero da tutti gli usi domestici, tuttavia dall’organizzazione del luogo anche da visitare e da approvare, affinché qualche messa

possa celebrare per mezzo di qualsiasi sacerdote secolare o regolare su licenza, tuttavia, dei suoi superiori, rispettati ed esclusi i giorni di Pasqua di Resurrezione, Pentecoste e Natività di nostro signore Gesù Cristo e in presenza del suddetto signor duca e della sua famiglia, così che si pensi che gli altri, oltre ai domestici necessari al medesimo duca, che qui partecipasseo alla messa nei giorni festivi non abbiano soddisfatto per niente il precetto dell’obbligo di ascoltare la messa in chiesa e che tuttavia sia celebrata una sola volta al giorno, finché non sarà stata concessa licenza di celebrarla nel detto palazzo. In questa dichiarazione di fede e testimonianza noi presenti abbiamo sottoscritto di propria mano e abbiamo ordinato che fosse corredata del solito sigillo. Emesso a Napoli nel palazzo apostolico1. Nel giorno

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1 Da intendersi palazzo della nunziatura apostolica.

 

Giornate FAI di Primavera. Nardò e il suo castello

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani

dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente angioina o sveva e magari non con i poderosi torrioni o con le caratteristiche dei castelli presenti in ogni luogo d’Italia.

La prova è data dal qualificato lavoro di Lucio Santoro titolato “Castelli Angioini e Aragonesi nel Regno di Napoli” (Milano, 1982), in cui si riporta l’ elenco dettagliato e documentato dei castelli esistenti al momento dell’ occupazione angioina, suddivisi per “Giustizierato”. Tra i castelli di Terra d’Otranto, oltre a quelli di Ydronti (Otranto), Licii, Galipuli, Brundusii, Meyani (Mesagne), Orie, Hostuni, Tarenti, Massafre, Motuli (Mottola), Ienusie (Ginosa) e Mante (Matera), è incluso il castrum Neritone, cioè il nostro.

In altro documento del 10 dicembre 1463 il re Ferrante d’Aragona nel castello di Nardò riceve l’omaggio dei cittadini di Ceglie, qui convenuti per la conferma della concessione al loro feudatario.

particolari della facciata (ph Vincenzo Gaballo)

 

Forse solo nuovi documenti potranno identificare il sito su cui sorgeva, a meno che pesanti ristrutturazioni o modifiche non lo abbiano eclissato, senza tuttavia poterne escludere la distruzione.

Nel 1482 il re Ferrante aveva preso le difese del suo parente duca di Ferrara contro la Repubblica di Venezia e questa, per vendetta, aveva allestito una flotta da guerra per attaccare la Puglia. Iniziarono con Brindisi, poi con San Vito dei Normanni e Carovigno, e da qui mossero verso Otranto e Gallipoli, che venne assediata nella primavera del 1484 per alcuni mesi. Si diressero quindi verso l’ entroterra sottomettendo numerosi centri salentini, tra cui Copertino, Galatone e Nardò, che, accerchiata in maniera pressante, si arrese nel luglio 1484. In tale gesto la nostra città era stata incoraggiata dal suo signore Anghilberto del Balzo, conte di Ugento, filo-veneziano, al quale era stata venduta nel 1483 “…con suo castello seu fortellezza et con la Portulania, pesi et misure mezo Banco della Giustizia, et cognitione di prime cause civili, criminali et miste et integro stato per prezzo di 11.000 ducati donandoli tutto lo di più che forse detta Città valesse…”.

Raggiunta la pace tra il re di Napoli Alfonso II, figlio di Ferrante, e Venezia, Nardò per la sua resa fu punita con l’abbattimento delle mura e la perdita delle difese militari. La città fu data in vassallaggio a Lecce (secondo quanto scrive Bernardino Braccio in “Notiziario o parte di Istoria di Lecce”:…con spianarne tutte le mura e vi fece morire il sindaco Notare Andrea e sospese alle forche quattro gentiluomini e dopo li fece in quarti. La possessione della quale città anno perduto i leccesi per loro trascuraggine e negligenza…”). Ecco dunque come la città avrebbe potuto perdere il suo castello.

Per effetto della pace di Bagnolo, il 9 settembre 1495 Nardò, con altri centri, venne restituita al re di Napoli Federico d’Aragona, il quale il 12 marzo 1497 tolse la città al figlio di Anghilberto, Raimondo del Balzo, per donarla a Belisario I Acquaviva d’ Aragona. Fu questi dapprima conte, poi marchese, quindi primo duca, per privilegio di Ferdinando il Cattolico del 1516.

Belisario fece costruire l’attuale castello, realizzato dunque dopo la sua presa di possesso di Nardò, e fece realizzare la cinta muraria, in parte ancora visibile.

Inizialmente provvisto di ponte levatoio, cannoniere, balestriere e feritorie disposte sui lati, il castello ha subito diversi rifacimenti e restauri, che hanno mutato le linee architettoniche originarie e l’antica facies, mutandosi in palazzo gentilizio.

particolare della pianta del Bleau-Mortier con il castello, parte della cinta muraria e porta Viridaria

 

A pianta quadrangolare, secondo le più aggiornate tecniche di difesa dell’epoca,  mostra ancora oggi quattro torrioni a mandorla, di cui uno, quello che protende verso Piazza Battisti (più noto come “torre ti lu ‘nnamuratu”) è il più sporgente rispetto al perimetro del castello e alle mura della città, ed un tempo era collegato con porta Viridaria. L’altro, compreso tra Piazza Battisti e Via Roma, è certamente il più antico, e forse il solo originario, come documenta il bellissimo bucranio con l’arme dei duchi Acquaviva ancora visibile nella parte più alta, incastonato nella cortina muraria.

bucranio dei duchi Acquaviva d’Aragona sul torrione meridionale del castello di Nardò

 

Altri stemmi della stessa famiglia, evidentemente posteriori, sono sui due torrioni del prospetto principale, che, come gli altri, sono cilindrici nella parte superiore e a scarpa nel pian terreno. Cornicioni lievemente aggettanti poggiano su piccole mensole, riprese su quasi tutto il perimetro.

altro stemma dei duchi Acquaviva d’Aragona, su uno dei torrioni settentrionali

 

Subito prima del portone, a sinistra, vi era il corpo di guardia, che vigilava l’ingresso alla ridotta piazza d’armi, cioè il cortile interno. Nella parte superiore dimoravano i duchi Acquaviva ed i loro familiari, come è documentato nei secoli XVI-XVII.

Il fossato che lo circondava fu colmato nel secolo scorso ed una parte, quella attaccata alla città, fu trasformata in giardino inglese (attuale Villa Comunale).

Le decorazioni ottocentesche della facciata, con fregi ed archetti molto eleganti, fu aggiunta dai baroni Personè, la cui arme col motto è visibile sul prospetto del balcone, con diverse figurazioni di corazze e trofei che si vedono un po’ dappertutto. I lavori di restyling e le decorazioni furono eseguiti dall’ing. Generoso De Maglie (Carpignano, 1874 – 1951), che aveva prestato la sua opera anche per alcune delle ville gentilizie degli stessi baroni in località Cenate.

Per altre notizie si rimanda a:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/note-storiche-sul-castello-aragonese-di-nardo/

Mesagne e la sua Accademia degli Affumicati (1/5)

di Armando Polito

C’è da meravigliarsi se la superficialità (indotta dalla velocità, non sempre giustificata, cui i tempi attuali quasi obbligano ognuno di noi) connessa con la scarsa considerazione in cui il passato è tenuto da una società totalmente immersa nel presente, indurrà qualcuno, neppure tanto giovane,  imbattutosi nelle indicazione viaria sottostante (immagine tratta ed adattata da GoogleMaps) a manifestare la sua meraviglia esclamando, magari in versi: – Strano, ho percorso tutta questa via, ma non c’è ombra di salumeria! -.

Non m’illudo certo che queste note elimineranno per sempre il rischio e sarebbe già tanto se, veicolate dalla rete, lo riducessero sensibilmente.

Preliminarmente giova ricordare che accademia è dal greco Ἀκαδήμεια  (leggi Acadèmeia), che, secondo Teognide1 e Plutarco2deriverebbe dal nome dell’eroe eponimo Ἀκάδημος (leggi Acàdemos). Originariamente era il nome proprio della scuola filosofica fondata da Platone, poi fu il nome comune indicante un’associazione di studiosi creata per promuovere le lettere, le arti o le scienze oppure una scuola superiore (di indirizzo artistico o militare). L’aggettivo derivato, accademico, indica genericamente un docente universitario ma anche, con accezione negativa, un’esibizione virtuosistica fine a se stessa,

Superfluo far notare il carattere elitario di tale istituzione nelle manifestazioni appena ricordate, per cui, soprattutto in passato, gli adepti erano persone di elevata cultura, provenienti di solito da famiglia di ceto altrettanto elevato, molto spesso nobiliare.

Tra le più famose accademie di cui il lettore conoscerà almeno il nome vanno citate la Crusca (sorta a Firenze nel secolo XVI) e l’Arcadia (sorta a Roma nel 1690). Quest’ultima in particolare ebbe numerosissime diramazioni locali, dette colonie. Quella chiamata Sebezia (dal fiume Sebeto) comprendeva i letterati meridionali, non pochi salentini, e tra questi il neretino Antonio Caraccio.3 Ogni pastore (così si chiamavano i membri dell’Arcadia) assumeva uno pseudonimo, di regola di origine greca; così quello del Caraccio era Lacone Cromizio. Tuttavia già nei secoli precedenti erano sorte accademie locali: per esempio, per Nardò il Tafuric’informa che il duca Belisario Acquaviva provvide a rinnovare l’estinta Accademia del Lauro e che dopo la morte del duca il vescovo Cesare Bovio dette nel 1571 l’incarico di rinnovarla a Scipione Puzzovivo, il quale mutò il nome Accademia del Lauro in Accademia degli Infimi. In questo dettaglio onomastico c’è già la tendenza a quella che potrebbe definirsi dichiarazione di umiltà attraverso l’ironia, quasi un omaggio al ben noto principio socratico. E così, per restare a Nardò,  dal Lauro agli Infimi e da questi, nel 1724, agli Infimi rinnovati. Così era stato per l’Accademia degli Intronati nata a Siena tra il 1525 e il 1527, per quella degli Insensati nata a Perugia nel 1561, per quella degli Oscuri nata a Lucca nel 1585, per quella dei Sepolti a Volterra nel 1597, per quella degli Erranti a Brescia nel 1619 e, ancora a Siena, per quella dei Rozzi nel 1665 (già Congrega dal 1531). Curiosamente …  contraddittoria sembra l’Accademia degli Infecondi, dal momento che fu il nome di due accademie distinte, una fondata a Roma nel 1613, l’altra a Prato nel 1715.

Sull’omonimia, poi, emblematico è il caso dei Trasformati, nome sotto il quale si registrano ben 5 accademie diverse: a Milano intorno al 1550, a Lecce intorno al 1558, a Firenze nel 1578, a Noto intorno al 1672, a Milano nel 1743, sulle fondamenta dell’omonima Accademia milanese del Cinquecento.

Non fa eccezione a Mesagne l’Accademia degli Affumicati riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata prima di tale data.5 Non sempre delle accademie si hanno notizie dettagliate e la stessa produzione degli associati raramente è stata oggetto di pubblicazione e molto spesso qualche contributo di qualcuno di loro si trova inglobato in raccolte varie, il che non rende agevole, a parte la loro non facile reperibiltà, una ricerca mirata.

Tra l’altro, nonostante la fantasia mostrata dai fondatori nel dare il nome alla loro creatura, era tutt’altro che improbabile che il nome non fosse stato già usato da altri e non sempre, essendo incerta la data di nascita di certe accademie, è possibile stabilirne la priorità d’assunzione e d’uso.

Così è pure per l’Accademia degli Affumicati. Intanto va detto che, a quanto pare, non fu l’unica con quel nome, visto che in Rime degli Ereini di Palermo, Bernabò, Roma, 1734, tomo I, a p. X si legge: In Modica v’ha memoria, che vi fu l’Accademia degli Affumicati fondata intorno al 1673, ch’elesse per impresa un Sciame d’api affumicati presso l’Alveare. L’informazione è ribadita da Francesco Saverio Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, Bologna, Pisarri, 1739, p. 81, mentre a p. 93 dello stesso volume si legge: Fiorivano in questo luogo [Policastro] fin dal secolo scorso gli Affumicati; dell’accademia di Policastro, però aveva già dato notizia  Elia De Amato in Pantopologia calabra, Mosca Napoli, 1725, p. 319: Ex Urbis Accademia, degli Affumigati, vulgò dicta, multi exiere viri …6  Inoltre in Biblioteca Picena, tomo I, Quercetti, Osimo, 1790, a p. 17, a proposito di Francesco Abondanzieri (1708-1763) di Rocca Contrada7 si legge: Ritornato in Padria, promosse ivi gli studi ameni, riassumendo gli esercizi dell’Accademia degli Affumigati, già da molti anni intermessi; insomma, un’accademia marchigiana si aggiunge, con lo stesso nome, alla siciliana ed alla calabrese prima citate.

Degli Affumicati di Mesagne, poi, ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi8. Ho ritenuto opportuno, perciò, riprodurre e trascrivere le parti testuali riguardanti l’accademia, nonché i disegni,  e di commentare le une e gli altri con note in calce atte a far comprendere anche al lettore comune la vivacità culturale di quell’epoca.

carta 334r

Il motto (Explorat robora) è tratto del verso 175 delle Georgiche di Virgilio (Virg. Georg.), laddove si parla della costruzione dei pezzi dell’aratro. Riporto, per risparmiarmi la descrizione dell’immagine centrale,  i vv. 173-175: Caeditur et tilia ante iugo levis altaque fagus/stivaque, quae currus a tergo torqueat imos,/et suspensa focis explorat robora fumus (Prima vengono tagliati per il giogo il leggero tiglio e l’alto faggio e il manico che da dietro guidi i profondi solchi; e il fumo saggia la solidità dei pezzi sospesi sul focolare).

Per quanto riguarda et I.° Aeneid. (e [libro] I dell’Eneide)va detto intanto che la locuzione explorat robora non è presente nell’Eneide. Tuttavia il verbo explorare ricorre due volte nel libro I dell’Eneide, cioè al v. 779 e al v. 30710 e, dunque, il riferimento è, metaforicamente concettuale, ai due passi relativi.

 

carta 335v   

La tabella che segue sintetizza i dati presenti nella carta precedente. Il lettore troverà notizie sui personaggi di questa tabella e della successiva nell’Appendice che costituirà l’ultima parte di questo lavoro, dove il loro nome comparirà in ordine alfabetico. Sarò grato a chiunque fornirà, a pubblicazione integralmente avvenuta, integrazioni, precisazioni o correzioni.

 


carta 336r

Eccone la trascrizione in tabella.

6

 

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/01/27/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-25/

Per la terzaa parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/01/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/06/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-45/       

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/13/mesagne-la-sua-accademia-degli-affumicati-55/     

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1 992.

2 Theseus, XXXXII, 5.

3 Armando Polito, Antonio Caraccio, l’Arcade di Nardò, in Nardò e i suoi.Studi in onore di Totò Bonuso, a cura di Francesco Gaballo, Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, 2015, pp. 41-66.

4 Giovanni Bernardino Tafuri nel capitolo VIII del libro I della sua opera Dell’origine, sito, ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, e Giovanni Bernardino di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p.p. 468-469. I primi sei capitoli del libro I erano usciti in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, tomo XI, Zane,Venezia, 1735. Il curatore lì alla fine avverte che La continuazione di questo Primo Libro si darà nel Tomo seguente. Il che non avvenne.

5 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.

6 Dall’accademia della città [Policastro], detta volgarmente degli Affumicati, uscirono molti uomini …

7 Oggi Arcevia, in provincia di Ancona.

8 Integralmente leggibile all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209601

9  Vv. 77-78: Aeolus haec contra: – Tuus, o regina, quid optes/explorare labor; mihi iussa capessere fas est – (Eolo in risposta: – O regina, è tua fatica cercare di scoprire ciò che vuoi, mia adempiere gli ordini).

10  Vv. 305-309: At pius Aeneas per noctem plurima volvens,/ut primum lux alma data est, exire locosque/explorare novos, quas vento accesserit oras,/qui teneant (nam inculta videt), hominesne feraene,/quaerere constituit sociisque exacta referre (Ma il pio Enea rimuginando per tutta la notte molti pensieri, non appena fece alba decise di uscire, di esplorare quei luoghi sconosciuti, dove sia approdato spinto dal vento, chi abiti il luogo, infatti lo vede incolto, o uomini o bestie, e di riferire tutto ai compagni).

 

 

 

 

Nardò, via Belisario Acquaviva

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spesso mi chiedo se abbia un senso intitolare una via, e il discorso vale per qualsiasi nucleo abitato, dalla frazione alla metropoli,  ad un personaggio che in qualche modo abbia avuto un rapporto con essa, quando la grafia stessa del nome suscita non poche perplessità: emblematico, per restare in casa, per Lecce il caso di via a. da taranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/06/archita-da-taranto/) e, per restare ancora più in casa …, per Nardò quello di via Scapigliari (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/). E se per a. da taranto  c’è forse l’alibi dei troppi secoli trascorsi e per Scapigliari un’idiota esigenza di nobilitazione, per personaggi più recenti come, faccio un solo esempio, Foscolo, avanza l’alibi dell’ignoranza (da non escludere a priori, anzi da sommare a quello del tempo trascorso nei casi appena ricordati …), che assume aspetti macroscopici quando il personaggio in questione ha una duplice fama, nazionale, per così dire, e locale.

In fondo, forse, è meglio così: la lettura sulla targhetta viaria di via Ugo Foscolo non evocherà, distraendolo,  al pedone o all’automobilista il carme Dei sepolcri, propiziando, nel caso in cui l’uno o l’altro passi con il rosso di propria competenza, quel funerale che di regola precede la tumulazione …

Continueremo, così, a dare con gli stessi inconvenienti procedurali un nome alle nuove vie anche con i nomi nuovi che la storia fatalmente ci proporrà, con la stessa logica, in fondo, delle giornate, la cui celebrazione (ormai con soli 365 giorni a disposizione, restano, credo, pochi giorni da dedicare, per cui saremo costretti nel giro di qualche anno ad attribuire due o tre dediche alla stessa giornata …) non è servita certo, almeno fino ad ora, a ridimensionare sensibilmente i problemi connessi con il tema volta per volta celebrato; con la stessa logica delle altre feste che avremmo il dovere di sopprimere  in un empito di responsabile coerenza.

E quanto vale, ritornando al Foscolo, per tante città d’Italia, perché lo stesso non dovrebbe valere per Nardò a proposito di Belisario Acquaviva con la via che reca il suo nome?

Ma io in questo momento sto in casa, comodamente seduto e, perciò, posso permettermi senza correre rischi la distrazione che sto per sottoporre alla vostra attenzione. Spero solo che non mi leggiate mentre guidate o attraversate …

Debbo notare che la lunghezza della via (credo sia la più lunga di Nardò) è congrua al personaggio che, per cominciare con i titoli, fu duca di Nardò dal 1516 al 1528. Di lui mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/25/ho-scritto-un-libro-ma-non-trovo-il-prefatore/ e quanto sto per dire può essere considerato integrazione di quel post.

Non capita a tutti di essere celebrati quando si è ancora in vita e questo anche ai tempi del nostro Belisario era riservato a personaggi veramente eccezionali, tanto più quando l’autore della celebrazione era, a sua volta, famoso.  E la stessa celebrazione, quand’era in versi1, assumeva, com’è facile intuire, un rilievo tutto particolare. All’esame delle più significative è dedicato questo post.

Camillo Querna, De bello Neapolitano, Sultzbach, Napoli, 1529: Non Aquivivus abest Belisarius, optima pandens/virtutis monimenta suae. Fidissima magni/corda gerens Caroli titulis, discedere numquam/Partenope voluit, tanta est constantia fortis/,et virtus animi, nullo sub tempore pallens (Non manca Belisario Acquaviva, che mostra ottime testimonianze del suo valore. Mostrando fedelissimo affetto alla corona di Carlo mai volle andar via da Napoli, tanto grandi sono la costanza e il coraggio del forte animo, che non impallidiscono in nessuna circostanza). 

Girolamo Carbone (1465-dopo il 1527) in due versi (18-19; li cito dall’edizione dei Carmina curata da P. de Montera, Ricciardi, Napoli, 1935= di un’elegia (carme XXX) indirizzata ad Agostino Nifo: Namque videre iuvat duplici sua tempora fronde,/et Phebi, et Martis, Dux Aquavive, premi (E infatti, duca d’Acquaviva, piace vedere che le sue tempie sono premute da una duplice fronda e di Febo e di Marte).

Giovanni Matteo Toscano, Peplus Italiae, Morelli, Parigi, 1578, p. 42: Quam non Marte minus Musae sint principe dignae,/gentis Aquivivae gloria bina docet./Frater uterque suis cumularunt sceptra tropheis,/

ornavit libris frater uterque suis./Nunc calamo est gravis, ense manus nunc rite colore/tingitur hic rubro, tingitur ille nigro./Classica nunc animos stimulans, nunc barbita mulcent:/quodque caput cassis, mox sua serta tegunt./Duplex ergo tuum gemini decus Adria fratres/nobilitantque sago, nobilitantque toga (Quanto le muse siano degne di Marte non meno che di un principe, lo insegna la duplice gloria della famiglia Acquaviva. Entrambi i fratelli con i loro trofei accrebbero il potere, entrambi i fratelli lo adornarono con i loro libri. Ora la mano è affaticata per la  penna,  ora per la spada e si tinge in questo caso di colore rosso, nell’altro di nero. Ora c’è la tromba che stimola gli animi, ora la cetra che li accarezza: quella testa che gli altri coprono con vari oggetti, subito la  ricoprono le loro corone. Dunque i due fratelli, o Atri, nobilitano il tuo duplice decoro con il sago, lo nobilitano con la toga).

Pietro Gravina (1452/1454-1528 circa) celebrò il valore militare e letterario di Belisario in un epigramma in distici elegiaci tramandatoci da Giammaria Mazzucchelli in Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1753, volume I, parte I, p. 121: Qui populis dare iura suis non destitit umquam/qui Patriae toties profuit ore potens,/non minus aeratas ductando in proelia turmas, /fortiter austerum Martis obivit opus,/Palladis amplexus Numen veniente senecta,/ipse docet, quales convenit esse Duces (Colui che mai desistette dal dare diritti alle sue genti, che con la forza della sua voce giovò tante volte alla patria, non di meno guidando nei combattimenti le schiere armate con forza andò incontro alle severe fatiche di Marte, dopo avere abbracciato al sopraggiungere della vecchiaia la divinità di Pallade, proprio lui  insegna quali condottieri conviene essere).

Jacopo Sannazzaro (1457-1530), Epigrammi, II, XXXVIII:

De lauro ad Neritonorum ducem

Illa Deum laetis olim gestata triumphis,/claraque Phoebaeae laurus honore comae,/iampridem male culta, novos emittere ramos,/iampridem baccas edere desierat./Nunc lacrimis adiuta tuis revirescit; et omne/frondiferum spirans implet odore nemus./Sed nec eam lacrimae tantum iuvere perennes;/quantum mansuro carmine quod colitur./Hoc debent, Aquivive, Duces tibi debet et ipse Phoebus; nam per te laurea silva viret  

(Intorno all’alloro al duca di Nardò

Quell’alloro un tempo recato ai trionfi lieti degli dei e famoso per l’onore della chioma di Febo, già da prima mal coltivato aveva smesso di emettere nuovi rami, già da tempo di produrre bacche. Ora aiutato dalle tue lacrime rinverdisce e respirando riempie di  profumo ogni frondoso bosco. Ma ad esso non giovarono tanto le perenni lacrime quanto ciò che viene onorato da un canto destinato a rimanere. Questo ti devono, o Acquaviva, i condottieri  e lo stesso Febo; infatti grazie a te verdeggia la selva d’alloro).

Ecco cosa scrive Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, v. II, pp. 53-54: Il celebre Belisario Acquaviva, uno degli assidui, e dotti Accademici dell’Accademia del Pontano nel 1506, ne fondò una in Nardò sotto il titolo del Lauro, la quale, e per gl’insigni Personaggi, che la componevano, e per la condizione de’ versi, e degli eruditi Ragionamenti, co’ quali era coltivata, si rendè chiara, e rinomata in quella Stagione, onde Jacopo Sannazzaro ebbe co’ seguenti versi a lodare l’Acquaviva fondatore della medesima …  

Osservo che, seguendo pedissequamente il Tafuri, la storiografia successiva ha attribuito a Belisario la fondazione delle neretina Accademia del lauro. Appare, però, strano  che di un’accademia presumibilmente vissuta fino alla morte del suo fondatore, dunque per ben ventidue anni, non resti cenno alcuno nei contemporanei (a parte quello,  presunto, del Sannazzaro), mentre minore peso avrebbe senz’altro il fatto che nessuna testimonianza esista né manoscritta, né a stampa (per quest’ultima, però, con uno sponsor come Belisario quale ostacolo economico sarebbe stato invalicabile? …), di una produzione, anche in versi, che, secondo l’affermazione del Tafuri, sarebbe stata ragguardevole?

E la dedica del Sannazzaro, allora? A nessuno è venuto il dubbio che il lauro, che compare fin dal titolo, non contenga riferimento  alcuno ad un’accademia, ma sia proprio l’albero in radici, rami, tronco e foglie (se fosse stato un animale avrei detto in carne ed ossa …) da sempre simbolo della poesia? E che, dunque, il Sannazzaro celebri Belisario non come fondatore di un’accademia ma come ispiratore di poesia (scritta da altri) con le sue gesta militari e pure con i suoi trattati?

E con questo ennesimo dubbio suscitato dalla storiografia tafuriana quando essa, come troppe volte succede, non è suffragata da uno straccio di fonte o, come nel nostro caso, è supportata da una discutibilissima interpretazione dell’unica esistente (per non parlare di quelle truffaldinamente  inventate …), chiudo con via Belisario Acquaviva ma lascio aperto un sentiero, sia pur debolmente tracciato, per chi vorrà approfondire …

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1 Per quanto riguarda, invece la prosa, oltre a quanto riportato nel post citato all’inizio, mi sembra doveroso informare il lettore che Antonio De Ferrariis detto il Galateo gli dedicò l’opera Argonautica de Hierosolymitana peregrinatione dichiarando espressamente all’inizio: Nos somniamus quotidie Argonautica. Tu Dux nostre eris Iason … (Noi sogniamo ogni giorno le Argonautiche. Tu, nostra guida, sarai Giasone …).

Ho scritto un libro, ma non trovo il prefatore …

di Armando Polito

Ci ho messo settantuno anni (ho cominciato a scrivere un’ora dopo la nascita) ma finalmente ho portato a termine la stesura del mio primo libro. La presunzione mi portava a pensare che il più fosse stato fatto, ma, come l’uomo che non usava Danacol, mi sbagliavo. Ho sottoposto il parto del mio ingegno a diversi editori ma nessuno si è mostrato disposto a scommettere su di me. Da ingenuo che ero e che sono rimasto non ritenevo ancora indispensabile che a tal uopo (accidenti, eppure so usare vocaboli difficili …) fosse indispensabile ormai essere un pluriomicida o godere già di una certa notorietà televisiva che aiuta tanto nel lancio della propria creatura. Per chi si illude di uscire dall’anonimato con la pubblicazione di un libro, in parecchi casi, compreso il mio, c’è sempre, comunque, la possibilità di coronare il suo sogno, solo che quello autentico, come dice il proverbio, non costa nulla; questo, invece, obbliga ad anticipare il costo della stampa di un certo numero di copie e, in qualche caso, a cedere contestualmente i diritti all’editore. A me è stata fatta solo la prima proposta, segno evidente della grande considerazione per la mia fatica in vista di un eventuale sfruttamento futuro …

In compenso, però, mi è stato detto che sarebbe stato meglio che nelle pagine iniziali comparisse una prefazione che non fosse la mia. Su questo sono d’accordo, perché è meglio che le solite fesserie incensatorie siano dette da un estraneo che, bene che vada, del libro ha letto solo il titolo, piuttosto che da colui che l’ha scritto per intero …

Fino ad ora non ho trovato nessuno disposto a scrivere questa benedetta prefazione e, probabilmente, o sono un imbecille o uno sfigato, perché non esiste prefatore che non gongoli all’idea di leggere una volta in più il suo nome da qualche parte. Probabilmente non ho saputo scegliere persone adeguatamente poco intelligenti e molto vanitose …

Ma chi penso di essere? Forse penso di essere un duca? Quale duca, fra tanti, reali o sedicenti che siano? Le cose bisogna farle bene, perciò il duca al quale sto pensando è Belisario Acquaviva, primo duca di Nardò dal 1516 al 1528. Non so se fosse un bene o un male né sto a disquisire sulla disparità di condizioni ambientali che a distanza di secoli permangono (con un nepotismo oggi diventato di bassissima lega), ma, secondo me, la cultura non fa mai male e a quei tempi, per lo più, chi esercitava il potere era anche un uomo di grande cultura. E così, oltre che duca, Belisario fu anche letterato. Qualcuno si starà già chiedendo se non sia in atto in me un deragliamento mentale che mi ha portato dalla prefazione al duca. Un po’ di pazienza e alla fine si scoprirà che l’una è un pretesto per parlare dell’altro, e viceversa nel prosieguo.

Il nostro Belisario è ricordato per un volume di pedagogia, per così dire, aristocratica, uscito per i tipi di Bibliotheca Ioan. Pasquet de Sallo il 5 giugno 1519, come si legge nel colophon, che di seguito riproduco.

Il volume si apre con una lettera che funge da prefazione e il mittente non è uno qualunque, ma Antonio Summonte (1538 circa- 1602), autore di Dell’historia della città e regno di Napoli, Carlino, Napoli, 1601. Di seguito il testo in formato immagine e la mia traduzione.

Il Summonte saluta Belisario Acquaviva duca di Nardò. Certamente è vecchia discussione, e volesse il cielo che non fosse troppo giusta, o generoso Duca, che gli studi letterari ed artistici, al di là di quelli praticati dagli antenati, siano stati abbandonati da re e principi a tal punto che quelle arti in passato chiamate liberali ora sono scivolate ormai da quella senatoria sublimità tra il popolo e la plebe e lì sembrano essere tenute in poco conto come se fossero nella melma e nella merda. E, cosa di gran lunga peggiore, soprattutto dove la loro pratica era opportuna e necessaria, lì esse sono state lasciate senza protezione e cacciate lontano. Infatti quasi tutti ignorano quali guide del popolo Platone voleva. Per farla breve, egli, come tu sai, ritiene felici i popoli ai quali tocchi un sistema di governo originato soprattutto dalla filosofia. Quando questo avviene, è difficile a dirsi quanto completamente debba a te e quanto ad Andrea Matteo duca di Atri tuo fratello il nostro tempo in cui vediamo voi come  illustrissimi esempi, tanto nel campo militare che in quello delle lettere, che possono stimolare i nobili e gli ottimati e spingerli a così onorevole imitazione. E, per tacere di tuo fratello, che è nato prima di te, e più assiduamente ha coltivato con assiduità più le lettere nelle quali, per non parlare della gloria militare che già da tempo è ritenuta peculiare della famiglia Acquaviva, quanto abbia giovato lo sanno non solo i nostri uomini ma anche i paesi stranieri. Tu stesso certamente, dopo che attraverso vari assalti del destino e la sua lunga offesa è stato possibile, ti sei così dato di recente agli studi letterari ai quali un tempo fanciullo ti eri accostato senza dare troppa importanza, e ti sei dedicato ad essi con  tanta voglia di conoscere e tanto ingegno che a stento si può credere che in così poco tempo tu abbia potuto apprendere e scrivere tanto. E questo in nessuna parte ha il sapore dell’apprendista ma del veterano al quale, come dice quello,[i] è stato già donato il bastone. Molto acutamente si accosta alla dottrina la tua indagine che io loderei in primo luogo soprattutto per il fatto che hai scelto nello scrivere quella materia che fosse degna di te e che si addicesse ai nobili ed ai nati in famiglia elevatissima. Grazie a te essi hanno già di che leggere con attenzione. Infatti scrivendo anzitutto dell’educazione dei loro figli nulla hai tralasciato di ciò che riguarda la loro dignità, mentre discuti assolutamente in modo così dotto ed esauriente di arte militare, di una gara singolare, di materia economica, di caccia e uccellagione, che (questo voleva Platone) che è possibile vedere nei tuoi scritti o il filosofo che guida il popolo o il principe che parla o agisce da filosofo. Tuttavia se grazie a te ho letto volentieri di questi argomenti poiché mi sembra che tanto in materia civile che militare te ne derivi meritata gloria, l’ho fatto più volentieri per il fatto che posso a buon diritto dire grazie ai nostri tempi che comincerebbero a tornare all’antico costume e vedo pure la nostra professione essere riscattata da un luogo umile e sporco all’antica dignità ed all’abituale decoro. Sta bene. 

Le pagine II-XIIIv. contengono il De instituendis liberis principum (L’educazione dei figli dei principi); segue (la numerazione riprende da capo) alle pagine I-XVIIIv  la Prefatio paraphrasis in economica Aristotelis (Prefazione-parafrasi all’Economia di Aristotele) e, dopo una  non numerata con gli errori di stampa, in chiusura, una vera e propria postfazione, una lettera di Pietro Gravina, altro pezzo da novanta della cultura di quei tempi.

Pietro Gravina augura felicità all’illustre Belisario Acquaviva duca di Nardò eccellente e in patria e fuori.

Hai dato alla luce gemelli economici di felicissima fattura, oriundi della famiglia peripatetica e li hai donati agli occhi e alle orecchie romane. Certamente essi già sebbene adolescenti hanno un aspetto così bello che, se non fossero distinti per ordine di nascita e di stesura, non senza difficoltà si riconoscerebbe la loro prima origine. Per entrambi la stessa statura, la stessa forma, pari soavità di linguaggio, pari passo, il medesimo aspetto, il medesimo tono di voce, pari, infine, la cura e la  raffinatezza. Quando per la prima volta li ho visti ed osservati li ho baciati teneramente come quelli che capivo essere allievi di una stirpe generosa e che mostravano in fronte e in petto non solo molto della nativa bellezza ma anche molto delle gemme e li guardavo senza mai chiudere gli occhi per la gioia e l’ammirazione a tal punto che non potevo saziarmi mai del piacere della loro presenza. Si aggiungeva a questo l’eleganza dei costumi, e una maturità per così dire senile che mi manteneva, purché mi parlassero, sempre avido e in attesa di qualcosa di nuovo. Li ho visti  educati da quei precetti e strutturati da quegli esempi che brevemente e lucidamente esprimono i sentimenti dell’animo e che senza indugio portano a compimento ciò che hanno proposto. Quanta dolcezza di eloquio, quanto equilibrio d’espressione, che bene ed onorevolmente sentono dei genitori, che generosamente ma non meno prudentemente s’incontrano con i servi così che non solo non sembrino da correggere, come tu nelle tue elegantissime lettere mi chiedesti se fosse da farsi, ma sapere  affinché possano provvedere agli anziani. Tu veramente, illustre duca, quando segui ed emuli tuo fratello non solo nelle lodi dell’arte militare ma anche nella gloria delle lettere, non cessare, poiché la natura ti ha generato così fecondo, di accrescere il vivaio dell’una e dell’altra. E come per volere del destino ti abituasti a seguire valrosamente lo stesso Marte così non ti rincresca di abbracciare e venerare con tutto il cuore  pure Minerva, che pure lei dotata di elmo vibra l’asta e scuote l’egida. Sta bene, onore dei nobili! 

Il nostro Belisario, però ebbe la fortuna di avere post mortem un altro prefatore, sia pure indiretto, che ne fece, addirittura, il contraltare di colui che è considerato come il fondatore della scienza politica moderna, il Machiavelli.

Mi accingo a prendere in considerazione, infatti, un’edizione del 1576 (la data si deduce dalla lettera dedicatoria, che esamineremo tra poco, con cui si apre il volume) uscita a Basilea per i tipi di Perna  e contenente, oltre al  De principum liberis educandis (con una piccola differenza nel titolo rispetto al già visto De instituendis liberis principum), il De aucupio (L’uccellagione), il De venatione (La caccia) e il De singulari certamine (La lotta singolare).

Comincio dal frontespizio.

Il volume si apre, come avevo appena accenato, con una dedica a firma del Leonclavio, latinizzazione di Hans Lewenklaw (1541-1594), storico, orientalista ed umanista tedesco. La riporto nel consueto formato con l’aggiunta, di mio, della traduzione e di qualche nota.

 

 

 

Subito dopo la lettera del Leonclavio c’è un componimento in esametri (forse dello stesso Leonclavio) per il lettore.

– A chi tanto, a chi niente! – mi verrebbe da dire riconducendo, era ora!, me e voi dal duca alla prefazione mancata, se non fosse per due piccoli dettagli: io non sono un duca e con i tempi che corrono è sì facile trovare dei leccaculo, quali a tratti a qualcuno possono sembrare il Summonte, il Gravina e il Leonclavio (va detto, però, che l’opera in questione non detiene certamente il record specifico: fino al XIX secolo s’incontrano talora volumi con i quali, prima di arrivare al testo vero e proprio, il lettore deve sorbirsi un notevole numero di pagine contenenti prefazioni, dediche, attestati di stima e simili) ma è difficile che nello stesso tempo abbiano la loro cultura. Come ho già detto, per me niente prefazione e niente pubblicazione, ma sicuramente è meglio così  che fare la fine di quel politico del tempo che fu appena eletto che fu gelato dalla madre, lei sì intelligente (ma a quei tempi, tutte le madri, e non solo, erano intelligenti …), che così accolse la lieta notizia: – Figlio mio, che disgrazia! Prima a sapere quanto sei fesso erano solo i parenti e gli amici più stretti, ora lo sapranno in tanti -.

Spero solo che questo post non sia, però, sulla mia pelle il tatuaggio di questa barzelletta …

Note storiche sul castello aragonese di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano (l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano[1](l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò[2] (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in qualche occasione divennero convergenti con punti d’incontro che produssero eventi di notevole

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