Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

Il “Romanico fiorito” a Lecce. Una sintesi esplicativa e le sue immagini

di Paolo Marzano*

Questa indagine ha lo scopo di riflettere sull’arte di agire dell’uomo, sulla materia. Egli in effetti, ricerca e sperimenta le diverse espressività che il mondo e il corpo consentono, generando con la sua ‘industria’ artistica, delle ‘serie’ di oggetti che soddisfano quelle soluzioni formali capaci di tradurre i suoi bisogni, evidenziando prima di tutto, il grado della tecnologia adottata per produrli ed essenzialmente confermando come sia sempre più appropriato il metodo ‘multidisciplinare’, d’intervento, proprio quando si tratta di analizzare, come in questo caso, il salto che fa passare una forma da un’arte all’altra.

L’oggetto d’arte ha particolari premure nel far rispettare le condizioni del suo uso in un particolare tempo, mediando di continuo la propria autonomia con l’ambiente esterno che lo ingloba e lo considera. Far mutare il progetto della sua identità sia nella forma e sia per l’uso a cui è destinata, è il compito degli ‘artigiani’ che creano e inventano nuovi ‘assoggettamenti’ tra materiali e tra materiali e luoghi. D’altronde tutta una vasta letteratura coglie dettagliatamente quel valore ‘limite’ tra il profilo dell’oggetto e la sua potenziale propagazione nello spazio; la continua e costante dilatazione o contrazione progettuale, permette all’antiquaria di inventare, vivendo di sorprese e interazioni inattese sulla base delle prevedibili mutazioni che quella particolare materia, sollecitata fino al suo limite, può permettere di creare.

E’ il caso di dire che la proprietà di un ‘manufatto’ artigianale (intendendolo anche come architettura o sistema urbano) si possa affermare come risultato della variante di un ‘modello’ che, sapendo ‘usare’ la materia, ne gestisce la grandezza e permette all’oggetto di “ricollocarsi” tra gli schemi conosciuti e di riferimento, ai quali di certo si rifanno i committenti con l’appoggio della migliore esperienza tecnologica. A questo proposito tra i tanti casi che possiamo individuare nella storia delle arti delle “cose” dell’uomo, ricordiamo l’esempio della cornice di coronamento mistilineo tardogotica che, coinvolse diversi materiali; dai gioielli alle suppellettili, dai mobili alle finiture delle pale d’altare, agli apici di edifici, all’arredo liturgico, impreziosendosi di dorature e contemporaneamente venendo “adottata” per diventare il profilo aggiornato, quindi riconoscibile, della “linea/forma” di quel tempo. Un ‘oggetto’ (linea) garante di sofisticate preziosità che dunque ha fatto salti da un’arte all’altra, ripresentandosi tradotto poi, in altre serie con le dovute varianti, per molte facciate di altrettante chiese e palazzi lungo le rotte europee, nelle diverse latitudini.

Successe anche con i mobili in noce intagliato che pur sulla base della trattatistica italiana seppero modificare la loro competenza assolvendo a compiti del tutto rinnovati. Essi, infatti, vennero ‘riscritti’, riaggiornati e trasformati nelle diverse varianti che dalle Fiandre, alla Spagna, alla Francia fino al Salento e dunque in tutta Europa, confermavano l’importanza del commercio e dei flussi di linguaggi decorativo-figurativi seguendo tendenze ben precise, quasi standardizzate, a conferma di una dotta selezione e controllo di qualità (vedi l’esempio approfondito la facciata del San Domenico di Nardò

La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Adottiamo allora lo stesso metodo di osservazione, di confronto, di ricerca, di studio e verifica, facendone l’obiettivo delle nostre riflessioni ed esaminiamo attentamente quel monumento stra-ordinario, in “romanico fiorito”, della facciata di Santa Croce a Lecce.

Cerchiamo di sommare alla sua riconosciuta peculiarità, data dall’inatteso luminoso impatto plastico-visivo, anche l’origine (ed è questo lo scopo dello studio) della scelta della sua ‘forma’. L’insieme viene letto come una confluenza di elementi accordati dallo stesso suono, costituenti la sua struttura ‘materica’. Mi riferisco all’originaria, molto probabile, componente ‘antiquaria’ che ne rappresenta la matrice generativa e filologica.

Ogni forma per meglio esprimersi ha degli ambiti di riferimento e di ‘competenze’ relative all’ eco delle tante modifiche assorbite che l’hanno poi individuata, tra-dotta (selezionata) e dunque fatta diventare ‘linguaggio’ per quel preciso tempo. Un principio che conosciamo bene e che fonda le sue radici su ottime riflessioni discusse da una vasta letteratura. Invece qui, cercherò di evidenziare a quale probabile tipologia di riferimento appartiene o a quale presumibile forma può essere assimilabile, la facciata di Santa Croce di Lecce, rispetto alla ‘serie’ da me individuata tra le “cose” che l’uomo, il tempo e la tecnologia, in quel periodo avevano già prodotto.

Un’interpretazione (o variazione, ritengo, della serie già esistente) assolutamente di altissimo livello che i nostri scalpellini hanno saputo ‘ri-collocare’, riproponendone la sublime traduzione in pietra di un testo “di ritorno” a favore dell’ampliamento delle possibilità espressive e dell’esperienza umana a contatto del mondo delle ‘cose’. Ancora una volta, come detto in premessa, ‘linee’, poi ‘forme’ e ‘oggetti’ sono capaci di trasportare messaggi utili ad una maggiore conoscenza del potenziale espressivo inserendolo nell’evoluzione della storia utile a spostare ‘artigianalmente’ l’attenzione verso un prodotto/forma che, in-potenza, è gioiello, edificio, città.

Una condizione di gestione progettuale che, sceglie la procedura scultorea ed è capace di regolare ed organizzare un fitto palinsesto di temi, simboli e significati che la Chiesa realizza per meglio comunicare la sua dottrina. Lo scritto non ha la presunzione di scoprire nulla se non individuare l’appartenenza di genere e di serie, di alcuni linguaggi e procedure costruttive, confrontando e verificando come sia meraviglioso il fenomeno della rivelazione delle qualità dell’architettura e quali strumenti preziosi possa usare, per propagarsi e così viaggiare sui territori, spostarsi tra gli oggetti e muoversi fra le cose.

Un dovuto e obbligato allineamento di dati e immagini che ritengo possano aprire ad una possibile alternativa percettiva della nostra realtà monumentale e paesaggistica, verificandone l’interessante profilo d’eccellenza proprio perché derivante da una commistione di lingue e dalle competenze che ne fanno un esempio altamente culturale. Vediamo dunque come funziona l’interessante ‘salto’ concettuale e fisico che permette ad una materia di modificarsi e specializzarsi in altra competenza, mutando funzione, grandezza e la sua stessa intima struttura, aiutandoci così a percepirla per il suo tono e la sua migliore ‘voce’.

Siamo nel periodo delle corti ‘ambulanti’ come quella di Carlo V, per le quali, durante un viaggio (conosciamo bene l’immenso territorio del suo Impero), una volta decisa la sede della sosta e del soggiorno, si prevedeva, nelle sedi adeguate ad ospitare il suo seguito, la possibilità di dislocare le centinaia di persone e di bagagli, arredi e suppellettili, in ambienti non fissi, pur mantenendo un dignitoso e autorevole aspetto. In effetti fu Filippo II che scelse di fermarsi a Madrid. Ricordo che proprio Carlo V prediligeva certi tipi d’armadi a ‘due corpi’ dalla Germania, come gli stipi dall’Italia e molti rappresentanti dei relativi paesi erano in Spagna per questo importante commercio. Da quali materiali e di quali forme e disegni era composto il mobilio? Ecco allora bauli, cassoni, stipi, che il ferro compatta il legno sovrapponendosi con schermature a celle e disegnando alveari di pigne, con punte lanceolate metalliche si salvano gli angoli o con i rombi si inglobano gli spigoli, consolidandosi in grandi cerniere; praticamente il segno considera l’altra sua funzionalità e allora ecco le forme più elaborate delle maniglie, dei pomi d’apertura e delle toppe di serrature tonde, quadre o romboidali poste e adeguate alla ritmata decorazione mudejar. E’ come se la scena esterna della città entrasse in casa sotto forma di modelli della scala di un baule o più bauli posti l’uno sull’altro.

Si alternano blocchi e volumi sovrapposti come fosse un allestimento di piccoli opulenti edifici o di ridimensionati, ‘grandiosi’ palazzi che costituiscono davvero l’arredo di un paesaggio. Una fantastica città/mobilio che contiene facciate-estraibili o ad ante e cassetti, con interi modelli di edifici trasformati in preziosi scrigni. Il mobilio è l’oggetto che definisce la grandezza media proporzionale tra il piccolo gioiello decorato e la città da allestire, per comunicare l’importanza e la potenza dei regnanti, compresa la cultura della gente che vi ci vive e se ne pregia. L’arredo recupera le linee di forza e le “adatta” alla materia secondo l’uso e il desiderio che l’individuo, aspirando ad una vita diversa e sicuramente migliore, sceglierà.

Tra questi particolari mobili, quello che diventò l’elemento caratterizzante gli interni delle case spagnole è il bargueño (piccolo stipo). E’ un pregiato contenitore con anta a ribalta composto al suo interno da diversi piccoli cassetti per conservare denaro, documenti, carte. La caratteristica più importante di questo mobiletto era quella che fondava la sua funzionalità sul contrasto e sulla sorpresa che poteva provocare la decorazione del contenuto una volta aperto.

Poteva contenere scomparti segreti o cassette nascoste difficili da trovare (la tipologia simile ad una cassaforte). Faceva parte del bagaglio di viaggio del conquistatore o del missionario quando si trattava di trasportare effetti amministrativi, diplomatici o personali specialmente nelle spedizioni nel Nuovo Mondo. Oppure faceva bella mostra di sé, con il suo tono ‘aureo’, quando era aperto, nei grandi saloni tra arazzi murali e tappeti.

Lo sportello aperto poggia su due aste estraibili telescopicamente dai lati, decorate alle estremità con una conchiglia che funge da pomo prensile e, aprendolo scopre la splendente serie di cassetti diversamente posizionati. Alternatamente sia nella parte centrale che in quelle laterali sono evidenti, nella maggior parte dei casi, per questo genere di mobile, delle piccole facciate, simili a quelle di piccoli templi architettonici. Tutti questi elementi stilisticamente elaborati, sono formati da piccole placchette sovrapposte in avorio, a volte dipinte con decori floreali e si caratterizzano dall’uso di legno policromo su fondo di velluto rosso o colorato o ancora dai profili dorati.

Ogni piccolo tempio in effetti è un’anta apribile o cassetto estraibile, incorniciato da un fregio scolpito; il tempietto consiste di un ‘portico all’antica’, brevi volute a frontone spezzato poi arrotondato a voluta o orecchia nascono dallo spazio d’intervallo tra le due corrispondenti colonnette inferiori. Lo spazio della toppa della chiave centrale dunque è affiancato da doppie colonnine tortili in osso, che rimanendo staccate dal fondo, offrono un prezioso effetto di rilievo. Seguito da un architrave con spessa trabeazione può anche essere fiancheggiato da placchette in avorio, poggiante su quattro o più colonne di osso tortili, che incorniciano la serratura. Queste a loro volta sono posizionate su appoggi mensole modellate e dorate.

I pomelli dei cassetti molte volte hanno la forma di un guscio Saint-Jacques, in riferimento ai bauli portatili utilizzati dai pellegrini in viaggio verso Compostela. Ricordo che il bargueño rappresentava per molti l’oggetto del desiderio, in quanto arredava da sè intere zone di ambienti interni, infatti era considerato sia un mobile per cerimoniali da parata che veniva mantenuto aperto nelle sontuose sale del palazzo, o una volta chiuso, riproponeva il suo antico significato, un baule da viaggio come è attestato dalle maniglie laterali e dall’imponente dispositivo di serrature. Con l’affilato strumento della ‘variazione di scala’, l’architettura riesce dunque a propagarsi nello spazio con i flussi commerciali e, nel tempo, attecchendo sui territori, soddisfacendo bisogni e desideri.

Le piccole facciate riproposte nei piccoli modelli per le antine del bargueño si svilupparono in tantissime tipologie diverse, appartenenti tutte a quella classicità ‘ri-trattata’ che “tornava” dalla Spagna, ed arrivava nel Viceregno, in Italia o scendendo dal nord, nel meridione, seguendo la direzione adriatica, ad ispirazione per architetti e artigiani, guidati da capitoli o commissioni ecclesiastiche per la composizione di facciate di chiese, conventi, monumenti e altari. Lo scritto conferma ancora una volta come la possibilità del cambiamento di scala degli oggetti, comporti, a seconda della sensibilità, della tecnologia e della cultura di chi li adotta, quell’alchimia della mutazione, risultato dell’azione diretta dell’uomo sulle materie a sua disposizione.

Una fondamentale condivisione di espressività antiquarie che continuando a proporre con diplomazie le sue specifiche potenzialità all’architettura, capace di sostanziarle e coglierne per vocazione naturale, una visione sempre fantastica e sempre possibile del nostro paesaggio. Il bargueño dunque dava il senso di un “tutto possibile”, proprio come nella scoperta di spazi nascosti e luoghi riservati come può esserlo una donna o la propria casa e ancora, il proprio spirito. Il concetto figurato ed evidente della luce dorata come simbolo di purezza, nascosta, meditata, attesa, ma che si rivela, in tutto il suo splendore, aprendo un cupo scrigno, ogni giorno, all’alba di sé.

 

Immagini:

Alcune tipologie di bargueño: il bargueño con taquillón” (stipo con mobile di base) e “bargueño de pie de puente” (stipo con sostegno a ponte decorato ad archetti e colonne). La tipologia di bargueño è presa in esame per lo studio della mia ipotesi di recupero della forma del piccolo tempietto centrale o laterale del registro centrale del mobile, assimilabile alle varianti antiquarie tra le quali è possibile individuare la soluzione compositiva del secondo livello della facciata di Santa Croce a Lecce.

E’ evidente nel secondo livello della basilica, la presenza, come nel bargueño, delle due colonnine laterali che poggiano all’altezza della balaustra aggettante e mensolata. Poi lo spazio quadrato al centro, con l’alta trabeazione e il timpano, ormai inesistente, che non è del tipo spezzato, ma trasformato e ripreso solo come coronamento con orecchie laterali contratte, la cui genesi corrisponde esattamente al vuoto delle colonnette inferiori. Sono tanti i dettagli che coincidono con quella che si rivela come la cultura formale diffusa e sempre più comunicante, esistente nell’immaginario consolidato e ben strutturato da Filippo II e sostenuto dai suoi successori. Infatti, è Filippo III che pone il suo stemma sulla facciata sopra l’ingresso principale di Santa Croce a Lecce; chiaro a questo punto il risultato impreziosito, ma disponibile a trasformazioni, di una cultura potente spagnola tornata da noi, con il suo immaginario figurativo, dopo la sua partenza post-rinascimentale, da trattato. Il bargueño tipico di Salamanca. Una volta aperto mostra il fronte dorato con decorazioni di osso in rilievo che richiama l’impianto dei grandi retabli. I materiali usati sono i più diversificati, alcuni esempi del XVI secolo, hanno una decorazione di intarsio di osso di mucca e legno di noce su plateresco, talvolta manierista. Nel XVII secolo i due stili mudéjar e plateresco sono misti. Generalmente questi mobili sono fatti di noce o noce su legno meno ricco. Ricordo che la tecnica dei ‘mori’ (mussulmani spagnoli), era proprio quella di usare l’intarsio come replica della tecnica del mosaico consistente nell’intarsiare piccoli pezzi di legno pregiato sovrapponendoli ad altri meno pregiati. E dunque l’ebano, l’aloe, il limone o piccoli pezzi di avorio ricoprivano legni più semplici, pur mantenendone alto, il valore artistico. Teniamo presente che artigiani che lavoravano in Spagna per questi mobili erano per la maggior parte moreschi o ebrei molto abili nella lavorazione di legno, cuoio, metallo e benché ricevessero nuove soluzioni decorative, tendenzialmente privilegiavano le soluzioni a nodi, stuccatura a fogliami come rappresentazioni schematiche di vegetali miste talvolta a lettere mussulmane o altra simbologia.

Sostengo da sempre l’importanza di recuperare l’immaginario progettuale e artistico per scoprire e tradurre meglio i “caratteri” delle storie dell’arte, non legati al tempo, ma alla tecnologia artigianale e alle lingue (forme) diverse che la compongono, con attenzione all’approccio alla diversità della materia lavorata.

 

 

Le foto della facciata di Santa Croce sono di Élise Delle Rose.

Le immagini dei dettagli del bargueño sono prese dal Web e sono accessibili scrivendo le parole chiave: “bargueño con taquillón”, “bargueño de pie de puente”, “bargueño di Salamanca”, “bargueño”.

Il testo è una sintesi dell’articolo già pubblicato, con allegate le immagini mancanti: di Paolo Marzano, L’ Impero delle città mobili – Storie di viaggi e di idee, dall’architettura all’antiquaria e ritorno, in “Rassegna Storica del Mezzogiorno, Studi in onore di Alfredo Calabrese”, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, Continuazione della “Rivista storica del Mezzogiorno” fondata da Pier Fausto Palumbo, n. 4, Stampa CMYK – Alezio (Le), 2020.

(note e riferimenti bibliografici sono nell’articolo già pubblicato nel 2020)

Compatrioti leccesi…

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di Giuseppe Maria Costantini

Ignoro il modo in cui sia stata presentata Lecce alla giuria, so solo che il clima meteorologico della visita in città era avverso e che il filmato ufficiale era infarcito di arcaici luoghi comuni: in primis “IL BAROCCO” e, soprattutto, QUEL BAROCCO quello dei testi scolastici anni ’60.
Quanto affermano tanti leccesi colti e saggi, in merito alle ragioni della “sconfitta” di Lecce, è certamente vero, ma, non è certamente tutto.
È riduttivo fino all’assurdo che Lecce sia letta e classificata quale città barocca, nella ‘classe’ delle città barocche ci sono almeno una trentina di altri centri urbani italiani più barocchi di Lecce; altrettanto, è riduttivo fino all’assurdo che il tasso di cultura di Lecce sia legato agli spettacoli circensi-parrocchiali che le sei città hanno inscenato davanti alla commissione; temo di essere incomprensibile, ma, è riduttivo fino all’assurdo anche misurare il tasso di “capacità di contaminazione culturale di una città” sugli investimenti delle sue amministrazioni in cultura, il numero di teatri istituzionali e posti entro le mura, idem per i cinema.
Tante città italiane possono essere lette e classificate in maniera a sé stante, Lecce è la testa di un insieme urbano diffuso (più o meno la sua provincia) capace di competere, in ogni aspetto culturale, con qualsiasi altra città italiana, di qualsiasi dimensione.
Conoscete le collocazioni geografiche dei giurati, parlo almeno degli italiani? Avete notato la composizione geografica di questo governo? Credete che Lecce, il Salento, la Puglia, in termini macro-economici, culturali, geo-politici, siano confrontabili con Matera? Matera: città incantevole, soprattutto dopo il terremoto dell’Irpinia. Conoscete Gravina? Credete che, nel loro genere, sia meno di Matera?
Non avete qualche dubbio sul senso economico, geopolitico, di un’eventuale scelta di Lecce?
Vittorio Bodini, sublime poeta e buon “pittore”, nella sua comprensione mono-prospettica di Lecce e dei salentini, nel sua ostinazione, tutta artistica, per una proiezione onirica delle sue emozioni sul suo territorio avito, è stato tanto leccese e salentino da non fare affatto una poesia locale, ma, esprimere i sentimenti internazionali di una classe sociale agonizzante: è riduttivo fino all’assurdo che Lecce e la penisola salentina vogliano trovare una propria iconografia di sé nei versi di Bodini, un luogo metaforico.
È in uscita in questi giorni un libro, curato dal mio amico Sergio Ortese, sulla pittura tardo-gotica nel leccese, chi sa che il Leccese è stato un territorio di grande e originale pittura tardo gotica (anche di là da Galatina)? Il nostro territorio ha una variegatura culturale insuperabile, “Lecce” comincerà a vincere quando si conoscerà-riconoscerà e cesserà di vestirsi di luoghi comuni: non tutta l’urbanità del territorio è a Lecce; non tutto il leccese è rurale; non tutto è contadino; non tutto è barocco; non tutto è arido; non tutto è ulivo e muri a secco; non tutto è greco; non tutto fave e cicorie; non tutto pietra a vista; c’è anche tutto il resto, quello “estromesso”.
A mio avviso, l’ultima popstar che aveva almeno intuito una comprensione tridimensionale del territorio leccese è stato Carmelo Bene, stop.

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

San Giuseppe in età barocca nel tarantino

 

Dubbio di S.Giuseppe, di Paolo De Matteis (1715)(400×280) ph Nicola Fasano

di Nicola Fasano

In occasione della ricorrenza di San Giuseppe presenterò per gli amici e lettori  alcune opere artistiche sul Santo presenti nel territorio tarantino. Nell’iconografia barocca (quella da me presa in esame) lo sposo di Maria Vergine, nonché padre putativo di Gesù, è raffigurato come uomo anziano con barba bianca nell’atto di sorreggere in braccio Gesù Bambino.

I suoi attributi principali sono gli attrezzi da falegname e la verga fiorita. Anteriormente al periodo barocco il Santo appariva in episodi legati all’infanzia di Cristo o in scene dedicate alla vita della Vergine e solo dopo la Controriforma, quando il suo culto fu promosso da Santa Teresa di Avila, il falegname potè godere di una raffigurazione autonoma.

A Taranto nella chiesa dedicata a Giuseppe (già Santa Maria della Piccola) è collocato nel controsoffitto un dipinto mistilineo di notevoli dimensioni raffigurante il Dubbio di  San Giuseppe. L’autore dell’opera è il celebre pittore napoletano Paolo De Matteis, artista molto richiesto dalla committenza nobiliare ed ecclesiale tarantina. Formatosi presso la scuola Luca Giordano, passò in seguito a Roma per comprendere la lezione del classicismo marattesco.

Le opere tarde come quella in questione, databile al secondo decennio del settecento, registrano uno stanco irrigidimento nelle posizioni classiciste, oltre un appiattimento qualitativo forse dovuto a commissioni meno prestigiose e in territori provinciali.

Il soggetto della tela tarantina fa riferimento all’episodio narrato dal Libro di Giacomo, ovvero la rassicurazione portata dall’arcangelo Gabriele a Giuseppe sul concepimento divino di Maria.

Isolata dalla Sacra Famiglia, è la figura in abiti nobiliari settecenteschi che prega guardando lo spettatore. Ritenuta erroneamente autoritratto del pittore, è più probabilmente il committente dell’opera (il priore della confraternita ? un nobile devoto al Santo ?).

Purtroppo alcune infiltrazioni di umidità dal soffitto (denunciate da anni senza risultati) hanno causato la caduta del colore, impedendo la piena leggibilità del dipinto.

Altra opera degna di menzione è il Transito di San Giuseppe, facente parte della collezione di quadri che il Vescovo di Nardò e Taranto Ricciardi donò al museo archeologico nazionale nel 1907, tramite legato testamentario.

Transito di S.Giuseppe (ph Paolo Buscicchio) da Storia di una collezione-i quadri donati dal Vescovo Ricciardi al Museo di Taranto

L’opera dopo notevoli vicissitudini e spostamenti, è finalmente fruibile al pubblico dopo il nuovo allestimento e la riapertura del M.AR.TA nel 2007.

Il soggetto del dipinto tratto dalla biografia apocrifa, raffigura la morte di Giuseppe all’età di 111 anni, assistito dalla Vergine, dagli angeli e dal figlio al capezzale del letto. Alle spalle del Santo morente l’Arcangelo Gabriele, abbigliato con armatura seicentesca, veglia sulla scena. La tela attribuita (generosamente, secondo il parere dello scrivente) dalla soprintendenza a Luca Giordano è probabilmente opera di Andrea Vaccaro (autore del bellissimo Salvator Mundi conservato nella stessa collezione museale).

Non bisogna farsi trarre in inganno dalla gamma cromatica dorata, dalla luminosità dei veneti cara a Rubens e ai cortoneschi, ripresa dal Giordano in dipinti di composizione simile, come la celeberrima Deposizione di Pio Monte della Misericordia o il Lot e le figlie di Dresda. La figura patetica di San Giuseppe ci conduce ad Andrea Vaccaro, pittore che lavorò a stretto contatto con Giordano negli affreschi di Santa Maria del Pianto a Poggioreale. Il dipinto quindi, testimonierebbe la congiuntura del Vaccaro con alcune prove giovanili del più celeberrimo e quotato pittore napoletano quali appunto la Deposizione del Pio Monte e quella di soggetto analogo della Gemaldegalerie di Oldenburg (come giustamente rileva il Prof. Galante)

Il terzo dipinto è un gioiellino di Corrado Giaquinto  raffigurante il Sogno di San Giuseppe conservato nel palazzo arcivescovile di Taranto[1] e proveniente dalla chiesa di San Domenico della città ionica.

Sogno di San Giuseppe, di Corrado Giaquinto (104 x 74), da Corradogiaquinto.it

L’angelo che irrompe sulla scena scuote il clima di intimità domestica, ordinando a Giuseppe di fuggire in Egitto con Maria e il Bambino a causa della persecuzione di Erode. Il pittore molfettese di educazione napoletana e romana, era presente a Taranto con un’altra tela di ragguardevoli dimensioni raffigurante la Natività di San Giovanni Battista. Quest’ultima opera conservata nella pinacoteca provinciale di Bari (a titolo di deposito…perenne, aggiungo io, se le istituzioni preposte non si attivano per chiederne la restituzione) fu commissionata da una nobildonna tarantina, per l’altare maggiore di San Giovanni Battista, chiesa poi abbattuta dal discutibile piccone risanatore negli anni ’30 del Novecento.

L’opera custodita nell’episcopio testimonia la maestria del pittore molfettese nei dipinti di piccolo formato, caratterizzati da delicate e cangianti sfumature pastello, dall’azzurrino, al rosa-lilla, al turchese, che apportano alla scena quella trasognante atmosfera onirica.

Il dipinto costituisce il modello per il bozzetto conservato nella pinacoteca di Montefortino (vero must per gli amanti del maestro) e nella collezione della Baronessa de Maldà a Barcellona, testimonianza del soggiorno spagnolo di Corrado.

Un altro protagonista del ‘700 napoletano presente a Taranto è lo scultore napoletano Giuseppe Sanmartino, il maggiore esponente della plastica a Napoli in età borbonica tra tardo barocco, rococò e protoneoclassicismo[2].

S.Giuseppe, cappellone di S.Cataldo, ph Nicola Fasano

La statua di San Giuseppe presa in esame chiude in ordine cronologico, insieme al San Giuseppe Gualberto, l’importante ciclo di sculture che l’artista realizzò per il cappellone di San Cataldo, nella Cattedrale ionica. L’opera di marmo, collocata nel vestibolo della cappella, fu commissionata nel 1790 dall’arcivescovo Capecelatro, il cui stemma è effigiato sul basamento. L’artista per l’approvazione della statua aveva inviato al presule un modellino di creta che, ratificato, perfezionò il contratto con la cifra pattuita di 700 ducati. Una probabile riproduzione in ceramica del bozzetto preparatorio è conservata al Getty Center di New York ed è stata attribuita a Gennaro Laudato[3].

San Giuseppe appoggiato ad un blocco roccioso regge Gesù Bambino con fare protettivo, afferrandogli delicatamente il piedino sinistro; il fanciullo sembra indicarlo o piuttosto fargli il solletico, senza però scomporre il padre putativo. Nonostante l’impronta personale del maestro, si nota l’apertura verso le già diffuse istanze neoclassiche, la scultura sembra affine alla pittura accademica dell’ultimo  De Mura.

Passando in provincia, va segnalata a Manduria la statua lignea di San Giuseppe col Bambino Gesù conservata nella chiesa eponima. La statua portata alla ribalta nella mostra leccese sulla scultura barocca del 2008, è  opera dello sculture Vincenzo Ardia che si firma sul retro della pedagna.

San Giuseppe, di Vincenzo Ardia (170x80x65)(ph Angela Mariggi)

Dello scultore vissuto a cavallo fra il 1600 e il 1700 è conosciuta in Italia soltanto un’altra statua, il San Francesco Saverio di Ghemme presso Novara (che ironia della sorte si lega alla cittadina messapica anche per l’ottima produzione di vini), esposta anch’essa alla mostra per fini comparativi.

San Giuseppe regge amorevolmente Gesù con la mano sinistra, mentre il fanciullo protende le braccine verso il padre quasi a chiedere protezione; il tutto è rafforzato da un complice gioco di sguardi[4]. Con il braccio destro il falegname regge il bastone da cui, secondo la tradizione agiografica, sbocciano fiori di mandorlo simboleggianti la scelta divina. Secondo altre interpretazioni il mandorlo in ebraico “shaked” presenta una forte assonanza con la parola “shakad”, che significa “vegliare”, come Giuseppe fece con Maria e Gesù; il frutto poi, duro esternamente e tenero e dolce internamente richiama il carattere protettivo del falegname.

L’accento plastico della statua è caratterizzato dall’incedere del Santo e dallo strabordante panneggio, che a fatica si raccoglie intorno alla vita. Il recente restauro curato dal laboratorio del museo provinciale di Lecce, ha messo in luce la ricca decorazione floreale che riveste il manto e la tunica; un vero e proprio campionario floreale che va dai tulipani, agli anemoni ai nontiscordardime, raro a vedersi nella scultura napoletana del periodo .


[1] In occasione delle giornate FAI di primavera, 26-27 marzo 2011, il palazzo arcivescovile di Taranto sarà aperto al pubblico. All’interno dell’edificio, oltre la tela del Giaquinto, sono conservati dipinti di Nicola Malinconico e altre  tele di scuola napoletana e locale.

[2] Tengo a sottolineare come lo studioso Catello, nella sua godibile descrizione monografica sul Sanmartino, dedica la copertina al San Francesco del cappellone di Taranto. Scelta coraggiosa ma apprezzabile, rispetto al bellissimo e celebre Cristo velato della cappella Sansevero a Napoli, a testimonianza del valore e della bellezza del ciclo scultoreo tarantino.

[3] Scultore coroplastico, molto rinomato nella Napoli borbonica.

[4] In origine il Bambino Gesù reggeva il globo terrestre.

Santa Croce in Lecce. L’ordine prigioniero e la colonna inglobata. L’interno della basilica

di Teodoro De Cesare

Nella parte inferiore della facciata ci si accorge di un altro elemento architettonico e decorativo che viene definito colonna inglobata. Questa colonna è posta sul fianco della facciata e fa parte, quindi, della fase progettuale di Gabriele Riccardi. Questo tipo di colonna può essere ricondotto al simbolismo dei volumi, cioè alla forma pura della colonna cilindrica (assimilabile alla perfezione celeste del cerchio) contenuto all’interno del pilastro (assimilabile al movimento del cubo, simbolo della terra). La successione di cornici ovali può far pensare sia alla serie di figurazioni romaniche entro riquadri circolari sia alle cornici circolari od ovali che appaiono negli altari del Rosario. Gli ovali inseriti sul fusto del pilastro possono far pensare anche ai circoli come moduli sovrapposti dai teorici sul disegno degli ordini architettonici .

La colonna inglobata non è un caso isolato a Lecce, oltre a che sulla facciata di santa Croce essa è presente, sempre come colonna-pilastro angolare, in un altro monumento cittadino: il cosiddetto Sedile, in piazza sant’Oronzo, e in questo caso si tratta non di un edificio religioso ma di una struttura di civile, probabilmente un antico comando militare. Si accennerà poi brevemente alle ipotesi che sono state avanzate riguardo alla simbologia sottesa alla colonna inglobata . L’inserimento della colonna inglobata nella facciata di Santa Croce, dunque, non è un episodio isolato ma ha riferimenti precedenti nei grandi studi e progetti rinascimentali. Questo dimostra che l’autore della facciata inferiore, Gabriele Riccardi, è un architetto ancora molto vicino alla pratica costruttiva cinquecentesca.

L’interno

Lo spazio interno è organizzato in tre navate che si caratterizzano per un accentuato verticalismo. Inizialmente la basilica era a cinque navate, due delle quali vennero utilizzate per la costruzione delle cappelle nel Settecento. Le due navate laterali sono sormontate da volte a crociera con festoni rettilinei, mentre quella centrale è chiusa superiormente da un soffitto ligneo a cassettoni dorati di forma esagonale, al centro del quale è incassato un dipinto della Trinità, sormontato dagli stemmi di san Pietro Celestino e dell’ordine dei celestini. La navata centrale contiene sedici colonne marmoree che arrivano fino al transetto, riccamente decorato da cordonature di melagrane, cespi d’acanto e spettacolari fioriture in pietra. Tra il transetto e la navata centrale si alza la cupola decorata con festoni di foglie d’acanto, angioletti e motivi floreali. Le sedici colonne hanno il fusto liscio con pulvini piumati e capitelli in stile corinzio, arricchiti dai volti dei 12 apostoli, mentre i capitelli delle colonne binate del transetto sono caratterizzati dai simboli degli Evangelisti.

Nel presbiterio si può ammirare l’abside polilobata e costolonata. Lungo le navate si aprono sette profonde cappelle per lato, al cui interno si trovano splendidi altari riccamente decorati. Un monumento importante di questa chiesa è l’altare con le storie di san Francesco da Paola, nel transetto sinistro, realizzato da Francesco Antonio Zimbalo tra il 1614 e il 1615. A questo si affianca l’altare della Croce, commissionato nel 1637 dalla famiglia Foscarini a Cesare Penna: qui la cosa più interessante da notare è la loggetta balaustrata alla sommità dell’altare che richiama la loggia con balaustra della facciata. Sono due altari significativi non solo per la loro ricchezza compositiva e decorativa, ma perché offrono l’opportunità di evidenziare il parallelismo tra altari barocchi e facciate. In pratica così come gli altari sono elementi e opere a sé stanti applicati alla parete interna della chiesa, così le facciate nelle chiese barocche sembrano dei giganteschi altari aggiunti a edifici precedentemente costruiti.

È proprio questa caratteristica di apparato effimero che rende unica la facciata di santa Croce, facendocela percepire come una continua e quotidiana festa religiosa. L’ornato e la decorazione ricca, con i loro messaggi, investono l’osservatore e rendono all’opera architettonica una netta frontalità. Ciò è molto diverso dall’effetto del classico rinascimentale; al contrario del barocco romano, che articola edifici e luoghi urbani immettendo lo spettatore in un percorso più complesso; invece la facciata leccese non cerca di includere lo spazio antistante.

Nel 1646 il barocco Leccese è ancora all’inizio, ma la facciata di Santa Croce fornisce già ampie porzioni di repertorio e di elementi che si svilupperanno in altri edifici anche più consapevolmente barocchi. Santa Croce resta un crocevia di storia, arte e cultura su cui tutto si ferma e da cui tutto riparte per la definizione di questa particolare tipologia di barocco .

 

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6.

Santa Croce in Lecce (III parte)

di Teodoro De Cesare

Il rosone centrale è l’elemento che colpisce di più l’occhio: si dipana da esso una specie di movimento e di giochi visivi che hanno il carattere della festa e della gioia. Nel giro più interno ci sono dodici cherubini che corrisponderebbero al motivo dei dodici raggi, frequente nei rosoni delle cattedrali medievali e simbolo di Cristo-Sole; nei due giri più esterni si vedono i ventiquattro melograni cristologici e i ventiquattro cherubini.

La parte superiore della facciata di santa Croce è il trionfo della fantasia decorativa, presenta alcuni elementi iconografici ricorrenti come le fiamme e i leoni, simboli della fede, il pellicano che nutre i suoi piccoli (nel capitello a sinistra del rosone) e i melograni, simboli della passione di Cristo. È possibile riconoscere anche un riferimento alla tecnica grafica della miniatura nel particolare dei volti infrascati e, soprattutto, nelle lettere sostenute da angioletti che compaiono, intrecciate e poco leggibili, nel fregio .

Questa ricca e sfavillante decorazione rappresenta un barocco applicato a una struttura parietale preesistente, concepita in maniera più sobria nel Cinquecento seguendo delle regole di architettura manierista e controriformata.

Nella sua arditezza artistica, bellezza e finezza tecnica la facciata di santa Croce appare una costruzione provvisoria, leggera, simile alle costruzioni in cartapesta che in Italia, almeno dal Quattrocento, sono legate agli apparati provvisori o simile alla fase provvisoria del bozzetto, dello studio preparatorio, del modello che raramente viene conservato . Non a caso dal Settecento a Lecce si forma una grande tradizione di maestri cartapestai che è viva e fiorente ancora oggi.

(continua…)

 

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6.

Santa Croce in Lecce (II parte)

 

di Teodoro De Cesare

Tra il 1549 e il 1646 l’arte italiana cambia radicalmente: la fase del Manierismo è alla sua conclusione, Firenze perde la sua egemonia artistica a favore di Roma che, a sua volta nel corso del XVII secolo, accoglierà artisti da tutta la penisola e dall’estero; si susseguono, quindi, classicismo, naturalismo e barocco. Questa situazione ha i suoi riverberi anche a Lecce dove i ritardi dei modelli romani si uniscono a una forte tradizione culturale presente in loco. Si può affermare che il barocco leccese, che si vede nella facciata di santa Croce e che si rileverà in altre architetture della città, prende forma tra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Settecento.

 

Il quadro storico nel quale si inserisce questo fenomeno artistico è quello della Controriforma e della nascita degli ordini religiosi riformati, un contesto che riguarda processi economici e culturali particolari a cui danno il loro contributo personalità politiche e artistiche diverse e dirompenti. I cambiamenti non sono semplicemente artistici ed estetici, ma si inseriscono in un insieme di idee che coinvolgono anche trasformazioni urbanistiche.

Quello di Lecce è un complesso di palazzi, ville e residenze nobiliari, chiese, conventi, scuole religiose, edifici assistenziali che testimoniano il rango politico attribuito alla città al di là dell’infelice quadro economico che gli storici delineano sulle vicende della Terra d’Otranto tra il Sei e il Settecento . Si può affermare che la facciata di santa Croce sia concepita come un grandioso altare e rappresenti un continuo rimando tra esterno ed interno, piccolo e grande, che è l’ossatura del significato dell’architettura barocca leccese. In qualche modo la facciata, come l’altare, in questo caso rappresenta una sovrastruttura decorativa su una parete preesistente e che, nel caso specifico della basilica di santa Croce, deve essere indagata anche per i suoi rimandi simbolici e figurativi. Un Barocco di facciata?

La conclusione della parte inferiore del prospetto della chiesa, come da iscrizione, risale al 1582. I tre portali sarebbero stati eseguiti su progetto di Francesco Antonio Zimbalo tra il 1606 e il 1607; prima della loro costruzione dovevano comunque esistere, sotto qualche altra forma, poiché corrispondono agli ingressi nelle tre navate. È molto probabile, allora, che una primitiva forma di portali possano essere di mano di Gabriele Riccardi, autore della parte inferiore della facciata. In particolare, il portale centrale si caratterizza per avere quattro colonne, abbinate a coppie, ed è plausibile che sia proprio questa l’aggiunta dello Zimbalo. Le coppie di colonne terminano con piedistalli ruotati di 45°: questa soluzione si può vedere all’interno della chiesa anche nell’altare di san Francesco di Paola, realizzato proprio da Francesco Antonio Zimbalo nel 1614. L’ordine ruotato di 45° non è qui isolato, lo si ritrova nella teoria architettonica del manierismo italiano .

Di Riccardi, forse, resta nel portale il motivo delle lesene a “foglie d’acqua” come si evince dal confronto con le foglie d’acanto poste sopra ai capitelli della navata di santa Croce. […] In questa porzione del prospetto entra in campo una terza figura di artista e scultore, Cesare Penna che la conclude entro il 1646. Questa data è riportata in un cartiglio retto da due figure di leoni e sancisce la consacrazione della chiesa.

La balaustra è sorretta da telamoni e figure zoomorfe alternati e che affondano le loro radici culturali in un passato lontano. Il riferimento è ai bestiari medievali, che nel Salento non è inusuale, e lega temi profani e religiosi: l’esempio più significativo è il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, eseguito fra il 1163 e il 1165. In Santa Croce il tema potrebbe anche essere quello della Croce vittoriosa sui miti e sulla superbia dei pagani: «L’allusione si evidenzia nella serie dei tredici telamoni che fanno da mensola alla loggia del secondo piano: è, ingrandita nella magniloquenza barocca, l’antica simbologia dei leoni stilofori, che alludono alla bestialità e al male soggiogati: troviamo infatti tra le tredici mensole il leone, ma anche il grifone, l’aquila, il drago, immagini di orgoglio e di mostruosità, nonché la lupa romana, (…) Ercole con la pelle di leone, figure di legionari, di negri, di musulmani, pagani o infedeli antichi e moderni, con provabilissimo, anzi certo, riferimento ai pirati del Mediterraneo, i famigerati turchi sgominati di recente (…) nella battaglia di Lepanto» .

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

I parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/03/30/santa-croce-in-lecce-emblema-del-barocco/

Santa Croce in Lecce, emblema del barocco

di Teodoro De Cesare

Santa Croce è il monumento simbolo del barocco leccese, è l’edificio che incarna lo spirito artistico dell’architettura nel Salento. La chiesa è famosa per la decorazione ricca e sfarzosa della sua facciata, in particolar modo nella parte superiore.

Non è una chiesa barocca edificata ex novo, essa è stata infatti edificata in epoche precedenti. Si pensa che la sua origine possa risalire addirittura al XIV secolo: i gigli intorno al rosone centrale dovrebbero rappresentare i gigli donati dalla corona di Francia alla popolazione e alla prosperità dei celestini. Quei gigli, dunque, sarebbero un richiamo alla prima fondazione, all’epoca in cui Gualtieri VI di Brienne era conte di Lecce, il quale richiese al vescovo, per conto dei padri celestini, di lasciar ad essi una chiesa di proprietà del vescovo stesso. Il conte volle che la chiesa fosse intitolata a “Santa Maria Annuntiata” e a “San Leonardo confessore”, ma poiché la chiesa era già conosciuta con il nome di Santa Croce, a livello popolare rimase questa titolazione . Gualtieri morì nel 1356 e i lavori furono interrotti; i documenti scarseggiano su una possibile prosecuzione del’opera.

È certo che la chiesa fu nuovamente sottoposta a lavori di costruzione a partire dal 1549 su sollecitazione dei padri celestini. Qui comincia la storia della chiesa che arriverà agli anni della conclusione barocca nella facciata. La ricostruzione della chiesa di santa Croce, dunque, ebbe luogo a partire dal 1549 grazie all’architetto Gabriele Riccardi che ne predispose il progetto. Egli creò la struttura della basilica e compì anche la parte inferiore della facciata, di equilibrio classico e con richiami all’architettura romanica nella cornice ad archetti ciechi. La parete è divisa da sei colonne con capitelli zoomorfi ed è sormontata da un fregio di ispirazione classica. Nel 1606, per opera di Francesco Antonio Zimbalo, si aggiunsero una sorta di protiro a colonne binate su plinti e i due portali laterali. La parte superiore fu eseguita da Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo intorno al 1646. Essa si poggia su una balconata sostenuta da cariatidi zoomorfe o simboliche, la balaustra è composta da 13 putti recanti emblemi. Il grande rosone centrale risente della tradizione romanica ed è circondato da una ricchissima cornice; quattro colonne hanno una decorazione fantasiosa; a queste si affianca il fregio, le cui lettere infrascate caratterizzano il nome dell’abate committente, don Matteo Napolitano ; due colonne sorreggono le statue di san Pietro Celestino e san Benedetto. Tutto è unito da una resa plastica di sfrenata fantasia e libertà inventiva, senza per questo risultare troppo ridondante ed eccessivamente abbondante, infatti la struttura risulta, nella sua ricchezza, semplice e chiara. Questa leggerezza nella ricchezza è dovuta sicuramente alla pietra leccese, facile da lavorare, di un colore chiaro che rende vivace la composizione. Queste brevi notizie ci fanno comprendere che solo la vicenda costruttiva della facciata occupa uno spazio temporale di circa cento anni.

 

(continua…)

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