A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (quarta parte)

di Salvatore Coppola

All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].

Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:

 

[…] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].

Masseria Petrose

 

Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].

 

L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.

Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].

Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:

[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].

Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].

Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:

 

[…] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].

campagna salentina (ph Fondazione TdO)

 

Note

[1] Ivi.

[2] Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.

[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).

[4] Fg, Archivio PCI, MF 0328.

[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.

[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.

[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

Per la terza parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Sulla vicenda complessiva dell’Arneo è opportuno fare alcune considerazioni. Il movimento contadino pugliese, fin dai primi anni del secolo scorso, e in modo clamoroso nel primo dopoguerra, si è sostanzialmente espresso in forme di lotta anarcoidi ed estremistiche tipiche di una regione caratterizzata dalla presenza di una grandissima massa di braccianti e contadini poveri, ai quali i governi che si sono succeduti dall’Unità d’Italia in poi non avevano saputo offrire alcuna seria alternativa alle loro durissime condizioni di vita. Improvvise esplosioni di collera popolare e forme di protesta anarchica e primitiva hanno costituito la forma di lotta tradizionale del bracciantato pugliese che, più che nel riformismo del PSI, aveva cercato una guida, una prospettiva ed un programma nella tradizione massimalista delle Leghe bracciantili che avevano assicurato un discreto consenso elettorale al PSI nelle elezioni del 1919 e del 1921. Nel secondo dopoguerra il movimento sindacale era ancora fortemente condizionato dalla tradizione massimalista che trovava la propria giustificazione nella tragica condizione dei braccianti e dei contadini poveri. Le lotte del periodo 1945-1949 ebbero come obiettivo le rivendicazioni immediate (il pane, il lavoro, il salario) più che i problemi delle riforme di struttura, del rinnovamento dello Stato e delle possibili alleanze di classe. Anche il movimento che si è sviluppato in Puglia tra il 1949 e il 1951, in concomitanza con l’occupazione delle terre in Calabria e in altre regioni del Mezzogiorno, non pose al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra e della riforma agraria generale, con l’unica eccezione del movimento di lotta che si è sviluppato sull’Arneo. Quel movimento ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad analoghi movimenti popolari e contadini della Puglia, ha posto al centro della propria iniziativa il problema della conquista della terra, della riforma agraria generale e delle alleanze con i ceti medi della campagna e della città. La lotta contro il più vasto latifondo borghese del Salento avrebbe potuto costituire un modello per le future azioni di lotta in tutta la regione, ma così non fu, e anzi, all’interno dello stesso movimento sindacale salentino, nella fase di attuazione della riforma agraria, emersero alcune incertezze programmatiche tipiche dell’intero movimento sindacale pugliese che stentava a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge di riforma. I dirigenti politici e sindacali salentini che guidarono il movimento di lotta sulle terre dell’Arneo dimostrarono di aver saputo individuare precisi obiettivi di riforma agraria che i gruppi dirigenti di altre province, come ad es. quelli di Bari e Foggia, non avevano saputo indicare.

Al di là dei risultati immediati conseguiti con la riforma agraria (il numero degli ettari di terre concesse e delle famiglie degli assegnatari, il reddito agrario conseguito dalle stesse, ecc.), è importante sottolineare il dato storico rappresentato dal fatto che la lotta contro il latifondo borghese, condotta soprattutto sull’Arneo e in qualche altra zona del Salento, ha rappresentato l’inizio della fine del regime feudale nelle campagne salentine, un sistema fatto di soprusi e di angherie, di gestione clientelare del mercato del lavoro, di prestazioni servili. Quella lotta ha costituito il primo passo per il definitivo riscatto politico, sociale, morale e culturale delle masse contadine del Salento. Con riferimento alla seconda fase dell’occupazione (1950/1951), così scriveva nel 1977 Antonio Ventura:

 

[…] i contadini lasciarono l’Arneo, a piedi: le loro biciclette contorte e bruciate erano rimaste sotto gli alberi d’ulivo, simbolo emblematico di una sconfitta che poteva non essere tale. E non lo fu se si guarda a ciò che quel movimento riuscì a conquistare, alle cose che riuscì a chiarire, alle alleanze che fece intravedere come possibili [… ] e se tali furono i risultati ottenuti là dove meno forte e organizzato era il movimento operaio, c’è da chiedersi a quali vette si sarebbe giunti, nel Salento e altrove, se alla lotta per la riforma agraria e per imporre un limite alla proprietà terriera, le zone più forti e le categorie più combattive avessero dato quel contributo che esse potevano dare in particolare[1].

Le riflessioni di Ventura rappresentano uno dei tanti contributi al dibattito sui risultati delle lotte per la riforma agraria che, negli anni cinquanta e sessanta, si è sviluppato all’interno delle organizzazioni politiche e sindacali salentine come in ambito storiografico nazionale. Per quanto riguarda il Salento, la valutazione non può essere univoca. I limiti del movimento appaiono evidenti, e sono costituiti essenzialmente dalla mancata estensione della lotta alla vasta area del basso Salento (dove la stragrande maggioranza dei lavoratori agricoli fu costretta a cercare nell’emigrazione il proprio riscatto economico e sociale) e dalla insufficiente capacità delle forze politiche della sinistra di esercitare un efficace controllo sulla gestione della riforma che, sul piano politico, ha finito col favorire i partiti di governo, soprattutto la Democrazia cristiana. Questo partito riuscì, infatti, attraverso l’uso di strumenti pubblici quali gli Enti di riforma, la Cassa del Mezzogiorno e gli istituti di credito, a legare a sé la maggior parte delle famiglie dei coltivatori diretti. Nel corso di una delle tante cerimonie di assegnazione delle terre d’Arneo, alle quali partecipavano deputati e sottosegretari democristiani, autorità civili e religiose (chiamate queste ultime a benedire le terre concesse), un autorevole rappresentante della DC neretina dichiarava che «la riforma agraria si attua per opera della DC nell’ordine, nella legalità e nella libertà. Si ottiene contro i comunisti»[2].

 

In quegli anni di grandi passioni politiche e di scontri ideali e ideologici, la DC incassava i risultati di una riforma che sostanzialmente aveva voluto e per la quale, nelle prime elezioni successive all’adozione dei provvedimenti agrari, pagò un prezzo in termini elettorali perdendo voti a vantaggio sia delle destre (Partito liberale, Partito nazionale monarchico e Movimento sociale) sia dei partiti di sinistra (soprattutto il PCI, che nella lotta per la terra e per la riforma agraria aveva impegnato l’intero gruppo dirigente meridionale). Quello che la DC perse nell’immediato sul piano elettorale lo conquistò però sul piano politico nel periodo di media e lunga durata. All’interno della CGIL e dei partiti di sinistra (in particolar modo il PCI) si è sviluppata, negli anni successivi alla conquista della legge stralcio, una complessa e non facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Emergeva la consapevolezza che era stato un errore concentrare la lotta solo sulle terre del latifondo classico senza investire contemporaneamente le immense estensioni degli oliveti condotti in economia dai grossi agrari e con rese produttive largamente inferiori a quelle che si sarebbero ottenute se quelle terre fossero state concesse ai contadini con contratti di compartecipazione. Emergeva, altresì, la consapevolezza che era stato un errore concentrare gli sforzi solo su alcune zone (l’Arneo, la fascia adriatica a nord e sud di Lecce) senza interessare alla lotta le zone del basso Salento (dove i rapporti agrari erano ancora di tipo feudale), e che era stato fatto poco per coinvolgere nella lotta contro i grossi agrari i piccoli e medi proprietari terrieri. All’interno della sinistra si confrontavano due linee diverse di politica agraria, una legata alla piattaforma sindacale dei braccianti, che costituivano la categoria più importante e maggioritaria dei lavoratori iscritti alla CGIL, un’altra che, pur non volendo trascurare l’impegno per quella categoria, sollecitava l’elaborazione di una politica agraria che coinvolgesse nella lotta contro la rendita parassitaria le categorie dei ceti medi produttivi, ai quali occorreva assicurare un forte impegno per la costituzione di cooperative di produzione e consumo, per una politica di agevolazioni creditizie, onde garantire la stabilità sulla terra e la proprietà della stessa a coloni e mezzadri, per la ricerca di sbocchi di mercato che non fossero imposti dalla strategia capitalistica dei monopoli pubblici e privati, per la creazione, infine, di una rete di complessi manufatturieri di lavorazione e trasformazione dei prodotti.

Al di là, quindi, della riflessione sui risultati economici della riforma (siamo d’accordo con quanti sostengono che i circa 17.000 ettari concessi a poco più di quattromila famiglie contadine non possono essere considerati una vera e propria riforma agraria), nonostante tutti i limiti oggettivi e soggettivi emersi dalla conduzione e gestione della battaglia per la riforma, dobbiamo sottolineare come la lotta contro il latifondo borghese abbia costituito uno dei momenti più significativi della storia sociale della provincia di Lecce. Dopo l’Arneo, e grazie all’Arneo, nulla fu più come prima nei rapporti agrari; l’Arneo ha contribuito, infatti, a fare dei braccianti e dei contadini poveri, fino ad allora politicamente e socialmente disgregati, una classe pienamente consapevole dei propri diritti. Dall’Arneo è partito il movimento di rinascita degli anni cinquanta e sessanta, quando i braccianti e contadini poveri hanno conseguito altre significative vittorie, come l’abolizione definitiva del cappuccio e la sua sostituzione col paniere nel lavoro di raccolta delle olive e la trasformazione dei contratti colonici miglioratari in contratti di enfiteusi. Migliaia di coloni, infatti, che avevano trasformato terreni seminativi poveri in vigneto e oliveto, erano costretti (sulla base dei vecchi contratti) a cedere la metà del prodotto ai proprietari, il più delle volte esentati dalle spese di trasformazione e di coltivazione. Il perdurare di tali contratti era insostenibile non solo dal punto di vista della giustizia sociale, ma anche della stessa economia della provincia, perché condannava l’agricoltura alla stagnazione e al regresso, e i contadini all’esodo. Con la loro lotta (sviluppatasi soprattutto alla fine degli anni sessanta) i coloni riuscirono a far approvare la legge sulla trasformazione dei contratti di colonia in contratti di enfiteusi che garantiva la stabilità sulla terra a migliaia di famiglie contadine e consentiva loro di riscattarsi dalla servitù feudale e dal capestro delle scadenze che, il più delle volte, colpiva i lavoratori proprio quando avrebbero potuto raccogliere i frutti di anni di intenso e duro lavoro.

 

Se la riforma agraria, con tutti i suoi limiti, non ha trasformato la realtà produttiva della provincia di Lecce (tant’è vero che molti tra i primi assegnatari abbandonarono le terre concesse per mancanza di prospettive concrete), il giudizio sul movimento di lotta dell’Arneo deve essere più articolato. Nelle relazioni e nei documenti delle organizzazioni politiche e sindacali della sinistra si trovano di frequente espressioni come «la lotta eroica dei contadini dell’Arneo», «la gloriosa lotta dell’Arneo», le «memorabili lotte dell’Arneo oramai scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento», dell’Arneo insomma si parlava quasi con toni mitici. Anche nei documenti della controparte padronale e in quelli delle autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico si trovano spesso riferimenti all’Arneo, con toni naturalmente diversi. La possibilità o il timore che i lavoratori agricoli di altre zone della provincia potessero fare quanto era stato fatto sull’Arneo costituiva, infatti, un formidabile pungolo a chiudere le trattative e a sottoscrivere i contratti provinciali di categoria. Molti grossi proprietari che avevano lasciato incolti i loro terreni, temendo un’azione di occupazione da parte dei braccianti, effettuarono opere di dissodamento, impiantarono vigneti e oliveti.

Se i braccianti agricoli e i contadini poveri del Salento hanno maturato una chiara coscienza politica lo si deve proprio all’Arneo, la cui vicenda, avvertita come una loro vittoria per avere costretto il governo ad estendere alla provincia la legge stralcio, costituì lo stimolo per ulteriori lotte e per nuove conquiste sociali, economiche e culturali. Oggi, comunque, gli studi e le ricerche per esprimere un giudizio sereno su quella pagina di storia non mancano, e anche la pubblicazione degli atti del convegno organizzato in occasione del 50° anniversario di quelle lotte possono rappresentare un contributo utile ad approfondire una pagina di storia politica e sindacale che è tra le più importanti e significative del Salento[3].

fine

Note

[1] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in F. De Felice, Togliatti e il Mezzogiorno, cit., pp. 331-332.

[2] L’Ordine, organo dei cattolici salentini, del 28/12/1951.

[3] M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)

di Salvatore Coppola

Nel corso dei lavori della Conferenza interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania (Matera, 13 e 14 maggio 1950), si discusse ampiamente delle occupazioni delle terre che si erano avute nella provincia di Lecce. «Nei mesi di novembre e dicembre 1949 e gennaio 1950» – si legge nel testo del documento finale – «in concomitanza con tutta la grande azione dei contadini calabresi e siciliani, per l’occupazione e la trasformazione del latifondo in queste regioni, si sviluppava l’azione veramente di massa dei contadini poveri e dei braccianti nel leccese per l’occupazione delle terre incolte dell’Arneo e delle altre zone paludose o abbandonate del litorale adriatico del Salento. A questa azione hanno partecipato fino a 10 o 15.000 piccoli contadini ed avventizi agricoli, i quali molte volte sono partiti da comuni, come Copertino o Carmiano, distanti 15 o 20 Km. dalle terre da occupare». Si mise in evidenza, tuttavia, che le occupazioni avevano avuto un carattere fondamentalmente simbolico. I risultati complessivi, considerato che della grande estensione occupata solo poche centinaia di ettari risultavano assegnate in enfiteusi ai contadini, dovevano considerarsi nel complesso deludenti specie se messi a confronto con quelli conseguiti nella provincia di Matera dove si erano mobilitati, oltre ai braccianti, anche i coltivatori diretti, e l’occupazione di 10.000 ettari, che era stata effettiva e non simbolica, aveva portato alla concessione di 2.500 ettari di terre. Se il bilancio complessivo delle lotte venne considerato positivo, vennero individuati anche lacune e difetti («le nostre organizzazioni non sono riuscite ancora a costituire un efficace fronte contadino da opporre al fronte agrario […] molti nostri organizzati ed anche alcuni dirigenti si sono chiusi in un settarismo di categoria»). È per questo che fu proposto alle Federbraccianti pugliesi e lucane di farsi esse stesse promotrici della lotta in difesa degli interessi, non solo dei braccianti, ma anche dei coltivatori diretti (perché fossero esonerati dal pagamento dei contributi unificati e venissero esclusi dall’obbligo dell’imponibile di manodopera), dei piccoli proprietari (perché ottenessero lo sgravio di tasse e imposte ingiuste), dei compartecipanti (per un contratto che migliorasse la loro quota di riparto) e per i mezzadri (per rivendicare la giusta ripartizione dei prodotti). Tuttavia, nelle conclusioni del convegno, mancava qualsiasi riferimento preciso e programmatico ai temi della riforma agraria[1].

Nella primavera del 1950 continuarono nel Salento le occupazioni delle terre a sostegno della battaglia politica e parlamentare tesa al conseguimento di una legge di riforma agraria generale. Dopo i tragici avvenimenti di Modena (dove, nel corso di una manifestazione operaia, vennero uccisi dalla polizia sei lavoratori), e dopo la costituzione del nuovo governo presieduto da Alcide De Gasperi (del quale non facevano più parte i liberali, tra i più tenaci oppositori del progetto di riforma agraria), vennero adottati, nonostante la resistenza dei rappresentanti degli agrari meridionali, i primi provvedimenti di riforma. La legge 230 (cosiddetta legge Sila) fu approvata il 12 maggio. La 841 (legge per l’espropriazione, la bonifica, la trasformazione e la concessione delle terre, detta legge stralcio perché doveva costituire lo stralcio di un più vasto e organico progetto di riforma agraria) fu approvata il 21 ottobre 1950. Le due leggi, per la prima volta nella storia d’Italia, intaccavano la proprietà privata, sia pure con un diverso criterio di esproprio. Mentre la legge del maggio 1950 prevedeva interventi di scorporo sulla parte di proprietà eccedente i 300 ettari, la legge stralcio, con criteri più limitativi rispetto all’ammontare complessivo dell’estensione posseduta dal singolo proprietario, individuava i terreni suscettibili di esproprio con riferimento al reddito dominicale. Una volta censite ed espropriate, le terre sarebbero state assegnate ad appositi Enti di riforma che le avrebbero successivamente concesse ai contadini con contratto di enfiteusi. I dirigenti nazionali della CGIL e della Federbraccianti, pur esprimendo un giudizio complessivamente non positivo sulle leggi agrarie, considerate provvisorie e di portata limitata, si impegnarono a lottare per la gestione democratica delle stesse e per la loro estensione ad altre aree del Paese non incluse nella previsione della stralcio. Denunciarono, inoltre, la volontà del governo e della maggioranza parlamentare di mirare a dividere i contadini in quanto solo una piccola minoranza di loro avrebbe ottenuto, a pagamento, la terra, mentre ne sarebbe stata esclusa la stragrande maggioranza degli aventi diritto e, nel mentre sollecitavano l’adozione di una riforma agraria che, fissando un limite alla proprietà fondiaria, assegnasse in enfiteusi ai contadini con poca o senza terra i milioni di ettari eccedenti, mobilitarono i braccianti allo scopo di ottenere l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate anche sulla base delle vecchie leggi Gullo e Segni ancora in vigore[2].

La legge stralcio prevedeva interventi di esproprio nelle aree del Fucino, della Maremma, del Delta del Po, in Emilia, nel Veneto, in Molise, in Campania, in Sardegna e, per quanto riguarda la Puglia, nelle province di Bari e Foggia, ma non in quella di Lecce. È per questo che, a partire dai primi giorni di dicembre del 1950, la CGIL salentina promosse una campagna di propaganda e di mobilitazione finalizzata all’occupazione dell’Arneo con l’obiettivo di costringere il governo ad includere quella ed altre aree del Salento nelle previsioni di esproprio della legge.

La lotta, che si sviluppò a partire dal 28 dicembre 1950, fu impostata e condotta in modo politicamente efficace e in forme diverse dalle tradizionali jacqueriés tipiche del movimento sindacale pugliese e salentino. Essa era coordinata e diretta dai dirigenti del PCI, del PSI e della CGIL e nulla fu lasciato al caso o alla spontaneità delle masse («da vari giorni», comunicava il 28 dicembre il commissario di Pubblica Sicurezza di Nardò dr. Michele Magrone al ministro degli Interni, «questo ufficio era informato che la locale Camera del lavoro stava organizzando, dietro ordine degli esponenti provinciali del Partito Comunista Italiano, una nuova occupazione di terre nella vicina plaga dell’Arneo»). I marconigramma e le relazioni inviate dal prefetto Grimaldi al ministro degli Interni Mario Scelba sembravano tanti bollettini di guerra: «Federterra et dirigenti comunisti», si legge in una comunicazione urgente e riservata del prefetto, «hanno sospinto numerosi gruppi contadini a portarsi in alcune località zona Arneo per procedere occupazione terre. Sono affluiti in zona procedendo simbolica occupazione terreni incolti aut insufficientemente coltivati circa milleduecento braccianti agricoli vari Comuni. Numero occupanti successivamente est aumentato at circa duemila. Sul posto est stata notata presenza onorevoli Giuseppe Calasso comunista et Mario Marino Guadalupi socialista. Forze polizia et Arma scopo ottenere sgombro zona occupata facevano uso mezzi lacrimogeni, senza ottenere grossi risultati perché occupanti dileguavansi soprastante boscaglia […] tutte locali forze Polizia sono impegnate fronteggiare situazione». Nella strategia dei dirigenti politici e sindacali che promossero la nuova occupazione delle terre, questa non doveva costituire più, come per il passato, uno strumento di pressione sui proprietari terrieri per conseguire alcuni obiettivi limitati come l’imponibile di manodopera o il rinnovo dei contratti né doveva servire solo a ottenere miglioramenti salariali e altri benefici di natura economica o previdenziale. L’obiettivo era molto più ambizioso, molto più avanzato. La lotta mirava, infatti, a mettere in discussione i secolari rapporti di proprietà nelle campagne, a distruggere il latifondo e ogni forma di rendita parassitaria, a porre fine ai rapporti di tipo feudale ancora largamente presenti nelle campagne salentine e a gettare le basi per realizzare, in forme nuove e tutte da sperimentare, il programma della terra ai contadini. Poiché in quel momento lo strumento più efficace per conseguire tale risultato sembrava la legge stralcio, i lavoratori agricoli furono mobilitati per ottenere l’inclusione della provincia di Lecce nelle aree di esproprio previste dalla stessa, ritenuta come il primo passo verso la riforma agraria generale. Se i fini erano ben individuati, anche le forme di lotta furono attentamente programmate, ad ogni Lega dei paesi gravitanti sull’Arneo fu assegnata una determinata zona da occupare, ai capilega comunali e agli altri dirigenti sindacali fu affidato il compito di guidare i contadini e furono date istruzioni per evitare (con tattiche di tipo militare di avanzata e di ritiro strategico all’interno della boscaglia) scontri diretti con la polizia. Il centro operativo si trovava Lecce in via Idomeneo (dove, a poche decine di metri di distanza, avevano la propria sede tanto la Federazione provinciale del PCI quanto la CGIL), il movimento era guidato dal segretario del PCI Giovanni Leucci, dal vicesegretario Giovanni Giannoccolo, dai deputati Giuseppe Calasso (PCI) e Mario Marino Guadalupi (PSI), dal segretario della CGIL provinciale Giorgio Casalino e dal segretario della Confederterra Antonio Ventura. A livello locale la guida della lotta era assicurata dai segretari delle sezioni del PCI, del PSI e delle Leghe bracciantili dei paesi più direttamente coinvolti nell’occupazione (Salvatore Mellone di Nardò, Felice Cacciatore di Veglie, Crocifisso Colonna di Monteroni, Ferrer Conchiglia di Trepuzzi, Cosimo Di Campi e Cosimino Ingrosso di Guagnano, Luigi Magli di Carmiano, Mario Montinaro di Salice, Pietro Pellizzari di Copertino, Giuseppe Scalcione di Leverano, Pompilio Zacheo di Campi Salentina). I dirigenti delle sezioni del partito e delle Leghe bracciantili degli altri paesi della provincia erano impegnati a organizzare azioni di solidarietà morale e materiale con gli occupanti[3].

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

 

Note

[1] Archivio nazionale Flai-Cgil, Programma dei lavori della Conferenza Interregionale delle Federbraccianti di Puglia e Lucania.

[2] Sulla posizione della Federbraccianti, G. Gramegna: Braccianti e popolo in Puglia, cit., pp. 133-135.

[3][3] Asle, Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

Per la seconda parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)

di Salvatore Coppola

A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].

 

Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].

 

In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:

 

[…] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].

 

Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].

Note

[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.

[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.

[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.

[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.

 

Per la prima parte:

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)

di Salvatore Coppola

 

Nel 70° anniversario dell’approvazione delle prime leggi organiche di riforma agraria del secondo dopoguerra (di cui la più importante è la cosiddetta legge stralcio dell’ottobre 1950) è possibile tracciare un bilancio sul movimento di lotta che, sviluppatosi soprattutto sul latifondo dell’Arneo (ricadente per la sua maggiore estensione in agro di Nardò) ha consentito ai lavoratori agricoli della provincia di Lecce di inserirsi nel più generale movimento di occupazione delle terre che ha visto protagonisti i braccianti e i contadini poveri di molte regioni meridionali.

Il problema della conquista della terra da parte dei lavoratori agricoli del Mezzogiorno ha interessato la politica italiana fin dai primi anni successivi all’Unità. Importanti e significative lotte agrarie si sono sviluppate nel biennio 1919/1920, quando la promessa di concedere le terre, fatta nel corso della guerra, aveva alimentato la speranza dei lavoratori agricoli di poter conseguire, attraverso il possesso di un pezzo di terra, un riscatto sociale ed economico atteso da decenni. Dopo i primi timidi tentativi fatti dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti di venire incontro alle attese dei contadini con l’emanazione dei decreti Visocchi e Falcioni (dal nome dei due ministri dell’agricoltura) che prevedevano la concessione di terreni demaniali a favore delle cooperative degli ex combattenti, la reazione degli agrari (sostenuti dallo squadrismo fascista) e l’avvento del fascismo al potere avevano posto fine ad ogni movimento di lotta e di rivendicazione. Nel secondo dopoguerra si ripropose in tutta la sua drammaticità il problema della terra e della riforma fondiaria, che, a distanza di quasi cento anni dall’Unità d’Italia, è stata in parte conseguita con l’emanazione delle leggi del 1950. Come si sia giunti all’emanazione delle leggi di riforma agraria e quali conseguenze abbiano avuto le stesse per l’economia del Salento, quali sono state le condizioni storiche e politiche che ne hanno favorito l’emanazione e qual è stato il ruolo delle forze sindacali e dei partiti politici che hanno promosso le lotte per la terra nel Salento, sono stati temi dibattuti nel corso di un convegno di studi (che si è tenuto nei giorni 12-13 e 14 gennaio 2001 a Nardò, Copertino, Leverano e Campi Salentina), promosso dalla Società di Storia Patria per la Puglia (sezioni di Maglie e Lecce), dal collettivo di cultura Ibrahim Masiq di Lecce, dal GAL Terra d’Arneo e dall’Insegnamento di storia delle dottrine politiche della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Lecce[1].

Il movimento di occupazione delle terre nel secondo dopoguerra si è sviluppato in provincia di Lecce in due fasi, la prima delle quali, tra il 1944 e il 1949, aveva come obiettivo la concessione delle terre incolte sulla base di quanto previsto dalle leggi agrarie promosse dai governi di coalizione antifascista (il decreto luogotenenziale n. 279 del 19/10/1944 voluto soprattutto dal ministro dell’Agricoltura Fausto Gullo e quelli successivi emanati dal ministro Antonio Segni nel 1947). Nella seconda fase (1949/1951) il movimento di lotta ha avuto come obiettivo principale quello della riforma agraria generale. Le leggi agrarie del periodo 1944/1947 avevano un carattere per certi aspetti innovativo rispetto alla tradizione storica italiana; nel contesto politico dell’unità antifascista, mentre si decideva di rinviare al varo della Costituzione la soluzione dei problemi strutturali e della riforma agraria generale, assunsero una certa importanza i provvedimenti adottati (la legge sulla concessione, per quattro o nove anni, delle terre incolte, quella sulla proroga dei contratti agrari e sulla parziale modifica degli stessi, con la previsione di una ripartizione dei prodotti più favorevole ai lavoratori, la legge sui benefici a favore delle cooperative per la conduzione dei terreni, le disposizioni sui decreti riguardanti l’imponibile di manodopera, ecc.). Ma già dai primi mesi del 1945, la CGIL (che tenne il suo primo congresso delle regioni dell’Italia liberata nel mese di febbraio), e successivamente la Confederterra (l’organizzazione dei lavoratori agricoli) avevano indicato nella riforma agraria generale lo strumento capace di garantire una prospettiva di sviluppo alle grandi masse dei lavoratori che, fin dal 1944, avevano dato vita al movimento di occupazione delle terre[2].

Due delle categorie agricole più importanti della provincia di Lecce (dove avevano minore estensione rispetto ad altre aree del Mezzogiorno i rapporti di mezzadria e colonia) erano quelle dei braccianti e dei coltivatori diretti, anche se erano abbastanza diffuse le figure sociali cosiddette miste (salariati, piccoli proprietari e fittavoli). La Confederterra salentina tra il 1947 e il 1949 riuscì ad organizzare migliaia di braccianti, tabacchine, coloni e mezzadri ma, sui circa 70.000 coltivatori diretti, gli iscritti non superarono mai le poche centinaia. È per questo che, all’interno dell’organizzazione, prevalevano le tematiche bracciantili su quelle specifiche delle altre categorie. In una relazione sull’attività della CGIL in Puglia (scritta dal dirigente nazionale Gustavo Nannetti nel 1949) venivano evidenziate le difficoltà (presenti soprattutto all’interno della Confederterra) dovute ad uno stato di conflittualità tra le diverse organizzazioni di categoria agricole (braccianti, mezzadri e coloni, coltivatori diretti). Nella primavera del 1949 (in coincidenza con il dibattito parlamentare per l’approvazione della nuova legge sul collocamento) si registrò in tutto il Salento una ripresa della mobilitazione sindacale per sostenere le rivendicazioni dei braccianti (diritto all’indennità di disoccupazione, stipula del contratto provinciale di categoria, garanzie per l’iscrizione negli elenchi anagrafici, concessione delle terre incolte, ecc.). Nei primi giorni di novembre del 1949, nel corso del congresso nazionale della Federbraccianti, il segretario Luciano Romagnoli indicò al movimento sindacale l’obiettivo della concessione delle terre incolte che sancisse, sul piano legislativo, il principio della fissazione di un limite alla proprietà privata. Nei giorni successivi la mobilitazione dei lavoratori raggiunse punte molto elevate; nelle province di Bari e di Foggia, ma anche nel Salento, alla lotta per la costituzione delle commissioni di collocamento e per l’applicazione dei decreti sull’imponibile di mano d’opera, si accompagnò quella per la concessione delle terre incolte. Era quello il periodo in cui masse di braccianti calabresi e siciliani occupavano i latifondi, e proprio sull’onda delle notizie che giungevano soprattutto dalla Calabria, nel Salento ci fu una ripresa su vasta scala dell’occupazione delle terre. Parliamo di ripresa perché già tra il 1944 e il 1945 si erano avuti i primi fenomeni di occupazione di terre incolte che avevano portato alla concessione, nel 1946, di poco più di duecento ettari a cooperative di contadini di Veglie, Carmiano e Martano (anche se, dopo appena un anno, le cooperative erano state in pratica costrette ad abbandonare quelle terre in quanto era risultata pressoché nulla, in mancanza di una seria politica di sostegno creditizio e di altre misure organiche, la possibilità di conseguire da quelle terre un reddito sufficiente)[3].

 

 

Note

[1] La presente relazione è una riedizione aggiornata di quella presentata al convegno di studi del gennaio 2001 (L’occupazione delle terre nell’Arneo e la politica agraria del PCI salentino, pp. 109-145), i cui atti sono stati pubblicati in M. Proto (a cura di), Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, ed. Lacaita, Manduria 2001. Sulla vicenda dell’occupazione delle terre dell’Arneo, S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci. La lotta dei braccianti salentini per la redenzione dell’Arneo, Grafiche Giorgiani, Castiglione 1997; R. Morelli, Cristiani e Sindacato dalla fase unitaria alla CISL nel Salento. 1943-1955, Capone, Cavallino 1992, pp. 112-120; G. Giannoccolo, L’occupazione delle terre nel Salento nel quadro di due linee di politica agraria, in M. Proto, Agricoltura, Mezzogiorno, Europa, cit, pp. 147-161; M. Spedicato, L’utopia sconfitta. Dai contadini senza terra alla terra senza contadini, ivi, pp. 179-189. Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali, F. De Felice, Il movimento bracciantile in Puglia nel secondo dopoguerra (contenuto negli atti del convegno organizzato dall’Istituto Gramsci Campagne e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia dal dopoguerra ad oggi, De Donato, Bari 1979).

[2] Sulle proposte di politica agraria delle organizzazioni sindacali: R. Stefanelli: Lotte agrarie e modello di sviluppo 1947-1967, De Donato, Bari 1975, pp.23-25; R. Zangheri: Movimento contadino e storia d’Italia, in Studi Storici n. 4/1976, p. 19.

[3] La relazione di Nannetti è contenuta nell’Archivio nazionale della Federbraccianti (oggi Flai-Cgil).

Annali di vita salentina: gli sposi di Monteruga

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di Rocco Boccadamo

Fino agli anni quaranta/cinquanta dello scorso secolo, la mappa della Penisola Salentina evidenziava nitidamente, sia sotto lo stretto profilo fisico e/o naturale, sia secondo il sentire e la conoscenza della gente, un particolare tratto di territorio, incuneato, quasi a lambirne i confini ufficiali, fra le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tale fazzoletto di Puglia era denominato – lo è ancora, per le connotazioni e gli sviluppi residuali – comprensorio dell’Arneo, un vasto agro sostanzialmente incolto, se non selvaggio, ricoperto pressoché interamente di una bassa e fitta macchia, latifondo posto in capo, dal punto di vista della titolarità, a uno sparuto numero di famiglie abbienti, principalmente ai Tamborino di Maglie.

A detta plaga, nelle condizioni d’abbandono in cui versava, si attribuiva, in giro, soprattutto cattiva fama, correlata al suo utilizzo, sovente, come nascondiglio o rifugio, quasi impenetrabili, da parte di figure (sarebbe, forse, più giusta l’accezione figuri) irrispettose delle leggi e delle ordinarie regole di civile comportamento e buona condotta.

Conseguente eco di ciò, in una sorta di tamtam surreale, la definizione di “briganti”, accennata a bassa voce, se si vuole approssimativa e, però, indicativa, veniva a correre, di tanto in tanto, con conseguenti singulti di timore e preoccupazione, sulla bocca e nella mente delle persone, diciamo così, corrette o perbene.

Altro riflesso, ad esempio, i trasportatori che, per mezzo di traini, dalle alte ruote a raggi, lunghe stanghe anteriori e sospinti da quadrupedi, recavano merci, prodotti e beni vari da Lecce a Taranto (allora gli autocarri erano rarissimi), nell’intento di evitare o ridurre i rischi di brutti incontri con i personaggi di cui sopra, evitavano di percorrere il tratto stradale Nardò – Avetrana, in corrispondenza della boscaglia più folta, durante le ore notturne. Per lo meno, se costretti a coprirlo al buio, non procedevano da soli, bensì in carovana.

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Nel periodo fascista, il Governo decise di porre in atto, un po’ in tutto il Paese, una serie di operazioni di bonifica agraria; per il territorio su descritto, affidò il compito alla S.E.B.I. Società Elettrica per Bonifiche e Irrigazione.

Quest’ultima, rilevò una parte dell’Arneo dagli storici proprietari privati e aprì un pubblico bando rivolto specialmente all’indirizzo di contadini e braccianti del Basso Salento, proponendo ai medesimi di spostarsi dai paesi d’origine, dai miseri poderi singolarmente posseduti, dalle precarie giornate lavorative sotto padrone (quando c’erano), verso, precisamente, le terre da bonificarsi, poste, alla fine, appena un po’ più a Nord, nell’Alto Salento.

All’inizio, gli aderenti avrebbero contribuito direttamente, dietro regolare retribuzione, con l’ausilio di attrezzature e mezzi meccanici procurati dalla S.E.B.I., alle opere di sbancamento per la trasformazione della macchia in superfici coltivabili, dopo di che, a ciascuno, sarebbe stato assegnato un appezzamento (due o tre ettari, secondo la composizione del nucleo famigliare), dove coltivare specialmente tabacco, salvo piccole aree da impiegarsi per differenti varie colture destinate alle occorrenze domestiche.

Nel frattempo, con oneri parimenti a suo carico, la S.E.B.I. metteva a dimora molte migliaia di ulivi e vaste estensioni di viti, patrimoni che, poi, sarebbero passati in gestione, non ai coloni, bensì ai massari, cioè i responsabili delle preesistenti masserie acquisite dai privati e, in certo qual modo, fiduciari della società neo proprietaria.

In parallelo alla trasformazione dei terreni, si realizzavano stalle, silos, un frantoio, serbatoi per l’acqua potabile, uno stabilimento vinicolo e una grande manifattura, su tre piani, per la lavorazione del tabacco.

Veniva in tal modo a sorgere o nascere l’insediamento o borgo o piccolo paese di Monteruga, richiamato nel titolo di queste note.

Dopo essere stata dotata, oltre che delle strutture operative prima menzionate, anche di una trentina di abitazioni per i coloni arrivati da fuori e provvisoriamente sistematisi nelle vecchie masserie (senza contare quella, con qualche confort aggiuntivo, a uso del fattore e della scuola), Monteruga arrivava a rappresentare una realtà funzionale, residenziale e di vita laboriosa, umile e insieme civile. Vi risiedevano, fisse, circa duecentocinquanta/trecento persone, entità che poteva lievitare nei momenti di concentrazione dei raccolti e/o delle varie attività lavorative.

Le case erano composte di due stanze, con servizio igienico e giardinetto sul retro, erano servite da impianto elettrico e si rivelavano, con certezza, maggiormente vivibili rispetto all’alloggio, sotto forma di angusto monolocale, a disposizione di ogni singolo colono nelle masserie.

Nella fase finale del cantiere di edificazione, nel borgo sarebbe sorta anche una chiesetta, dedicata a S. Antonio Abate, che c’è ancora e, anzi, rappresenta la struttura conservatasi meglio.

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Volendo tracciare una carta geografica più ristretta e determinata, se l’Arneo si poneva, nell’insieme, alla stregua di fulcro, ideale e virtuale abbraccio, fra tre provincie, si può osservare come anche Monteruga detenesse, e annoveri pure oggi, una polivalenza di riferimento.

Sul piano della viabilità stradale, essa si affaccia, difatti, sul rettilineo provinciale che da S. Pancrazio Salentino (Brindisi) corre in direzione di Torre Lapillo di Porto Cesareo (Lecce), esattamente all’altezza del Km.7, punto mediano dell’arteria.

Dal lato meramente amministrativo, il suo territorio ricade, invece, nel feudo del Comune di Veglie (Lecce), anche se tale centro abitato si trova più distante, cioè a quattordici chilometri.

Tuttavia, per estrema precisione, va annotato che una piccola porzione dell’agro dove insiste il borgo di Monteruga, di là da un certo portone o arco del perimetro edificato, riguarda il territorio di Torre Lapillo, frazione di Porto Cesareo, quest’ultima località, da alcuni decenni Comune autonomo, prima, a sua volta, frazione di Nardò (Lecce).

A comprova del richiamato spicchio di territorio con differente competenza o appartenenza, è sufficiente rilevare che, a brevissima distanza, poche centinaia di metri, da Monteruga, è situato il grande circuito o anello o pista per prove e collaudi di autovetture, di pertinenza della casa automobilista tedesca Volkswagen, noto come Pista di Nardò.

Infine, sul piano religioso, Monteruga faceva capo alla parrocchia, incardinata nell’arcidiocesi di Brindisi – Ostuni, di Guagnano (Lecce), località distante, all’incirca, dieci chilometri.

Non suonino fini a se stessi e rasentanti la pignoleria, gli elementi di dettaglio anzi elencati, giacché, unicamente alla luce di determinati particolari, è dato di conferire ancoraggio e spiegazione logica a talune vicende, soprattutto a un episodio, vissute, in decenni ormai trascorsi ma non lontanissimi, dalla comunità già stanziale di Monteruga e di cui si farà rievocazione più avanti.

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Nata all’insegna, con i buoni auspici e sotto l’effetto di un poderoso e, perché no, benemerito stimolo impresso dalle autorità governative, nella pur delicata parentesi di transizione dello Stato dal regime monarchico a quello repubblicano, in altre parole fra la fase conclusiva dell’ultima guerra e il primo lustro immediatamente successivo, la realtà di Monteruga avrebbe dovuto recare tutti i presupposti per una lunga, interessante e proficua vita.

Si poteva, addirittura, intravvedere un suo positivo influsso sulle comunità tradizionali limitrofe, specie quelle di dimensioni limitate, che incedevano, indubbiamente, su binari di sviluppo sociale a scartamento ridotto, con traversine di povertà, indigenza e arretratezza più evidenti e accentuate.

Invece, non è dato di sapere come, forse per un’imperscrutabile e misteriosa nemesi storica, forse semplicemente sulla scia dei corsi e ricorsi delle cose, nonostante l’apparente ordinata gestione e amministrazione complessiva, la giovinezza del sito, intesa come buona salute, andò avanti a malapena per un quarto di secolo, un trentennio a voler abbondare.

Epilogo, fra il 1970 e il 1980, in concomitanza con l’abbandono, da parte della mano pubblica, del complesso, già fatto oggetto d’ingenti investimenti, e il ritorno del bene in testa a privati, purtroppo senza, almeno sinora, nessuna ipotesi o prospettiva concreta di rilancio di Monteruga e di una diversa destinazione d’uso, l’insediamento finì con lo svuotarsi del tutto.

E, da un pezzo, sopravvivono esclusivamente le tracce dei suoi edifici, manufatti, abitazioni, esercizi lavorativi, pochi gli immobili ancora integri, in prevalenza, invece, cadenti e/o diroccati e saccheggiati da mani incivili quando non vandaliche.

Per la precisione, un’idea di accettabile resistenza e mantenimento si riscontra unicamente nelle strutture del grande magazzino per la lavorazione del tabacco e della chiesetta.

Risultato, in sintesi d’immagine, un paese fantasma.

Si ricava la sensazione che nessuno abbia il desiderio o la volontà, non dico d’interessarsi, ma neppure di accostarsi a ciò che in quella plaga c’è stato e di cui, comunque, rimangono chiari segni e testimonianze materiali e tangibili ancora fresche.

Insomma, solo silenzio assoluto, in ogni senso, e abbandono.

Anche attraverso i moderni mezzi di comunicazione e d’informazione, stampa e web, sono rarissime le occasioni in cui si parla di Monteruga.

Del resto, con la privatizzazione, è venuta a mancare la vicinanza delle amministrazioni locali contermini, in particolare del comune di Veglie competente per feudo; infine, partiti i fedeli, è cessata anche la presenza da parte della Chiesa.

Pochi e occasionali riferimenti si riscontrano in internet sotto la voce “Monteruga”, ove si eccettuino alcuni recenti saggi e/o articoli e due libri, uno a firma di Michele Mainardi e l’altro pubblicato da Adriana Diso.

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Si esaurisce qui la trattazione espositiva intorno a Monteruga, dalla nascita, alla sua purtroppo breve esistenza attiva e alla fine.

E, però, intende andare avanti l’applicazione analitica dello scrivente, da osservatore e narrastorie, con l’attenzione e la suggestione interiore spostate e orientate verso una serie di figure fisiche, esattamente due nuclei famigliari fra loto molto vicini, marittimesi d’origine, perciò compaesani, che, a suo tempo, hanno a lungo vissuto a Monteruga, ivi attraversando, da protagonisti di primo piano o testimoni prossimi e coinvolti, un’intensa serie di avvenimenti ed eventi.

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Nella natia Marittima, lo scrivente, classe 1941, iniziò piccolissimo, appena dopo l’ascolto degli iniziali accenni/riferimenti a tata (papà), mamma, nonni, a sentir parlare, talvolta, di trappiti (frantoi oleari), parmenti (stabilimenti vinicoli), tabacco (coltivazione delle relative piante a foglie verdi) e fieu (accezione, la più strana di tutte e, per ciò, a lungo rimasta per lui misteriosa e senza significato).

Si trattava di voci o echi, con associate immagini di gruppi di compaesani, anche cospicui, che lasciavano il luogo d’origine, in pratica emigravano, spostandosi temporaneamente in aree distanti (Brindisino, Tarantino, Basilicata). A ciò indotti, dal bisogno di accedere a opportunità lavorative meno precarie, con i cui proventi far fronte alle ordinarie necessità famigliari e, possibilmente, mettere da parte qualche risparmio che sarebbe stato poi utilizzato per preparare il corredo (dota) per le figlie femmine e costruire una nuova casa (frabbicu) a beneficio dei discendenti maschi che dovevano sposarsi.

Già avanti rispetto a detta, precocissima esperienza del narratore, nell’ambito della minuscola comunità marittimese, esistevano due determinati nuclei o focolari, che, di qui in poi, concorrono indicativamente ad animare le presenti note.

Il primo, dal cognome del capo famiglia A., nella sua massima composizione, sarebbe giunto ad annoverare otto membri viventi (più due nati morti o deceduti subito): Costantino e Ttetta (Maria Concetta) i genitori, Adele, Floriana, Clementina (detta Tina), Elvira, Settimia e Maria (quest’ultima, venuta alla luce proprio a Monteruga), le figlie, ben sei.

Due particolari sui nomi di battesimo, nello stretto rispetto delle usanze e tradizioni dei tempi passati: Floriana, a voler perpetuare l’appellativo del nonno paterno, Settimia, invece, a rimarcare che era, esattamente, la settima creatura venuta al mondo fra quelle mura domestiche.

Il secondo nucleo, dal cognome del capo famiglia P., comprendeva, da parte sua, i genitori Cosimo e Isabella e cinque figli: Attilio, Rita, Luigi (Gino), Emilio e Maria.

La famiglia A., volle porsi sull’esempio di due/tre altri gruppi di concittadini che già avevano preso l’iniziativa di lasciare Marittima e andare a vivere in masseria (fra S. Pancrazio Salentino, Veglie e Torre Lapillo).

Cosicché, attirata dalla prospettiva di attività lavorative sicure e continue (quanto all’uomo, nelle operazioni di bonifica e, una volta, le medesime, esauritesi, nelle coltivazioni agricole dirette, in primis il tabacco; circa le donne, in numero progressivamente crescente man mano che le figliole si facevano più grandi, dall’opportunità, non meno importante e redditizia, dell’impiego per tre/quattro mesi all’anno nella manifattura tabacco), fu la prima a partire, si era ancora in guerra, nel 1943, sistemandosi inizialmente nella masseria “Ciurli” e, in seguito, nelle nuove e più confortevoli abitazioni del borgo vero e proprio di Monteruga.

Analogo passo, a distanza di qualche anno, dopo un’esperienza di “prova” maturata dal giovane Gino, chiamato a lavorare da una compaesana, già loro vicina di casa, che dimorava da qualche tempo in una masseria, compì pure la famiglia P.

Nonostante l’impegno per l’adattamento nella nuova realtà, le prove della fatica e anche alcuni tristi eventi che sopravvennero colpendoli direttamente o indirettamente, non ebbero mai a pentirsi della scelta, i due gruppi di marittimesi, anzi erano contenti, si sentivano più liberi e aperti, in confronto ai ristretti limiti delle relazioni sociali e interpersonali nel paesello natio.

Per gli adulti c’erano le partite a carte sotto i portici coperti o nell’osteria – bottega di mescita del vino (puteca); riguardo specialmente ai giovani, in masseria, e ancor meglio a Monteruga, era loro dato agio di avvertire più ampi orizzonti, di crescere e di arricchirsi dentro, attraverso i contatti con i colleghi/amici emigrati, originari di altre diverse piccole località del Basso Salento (Diso, Vitigliano, Botrugno, S. Cassiano, Scorrano, Galatina).

Oltre al lavoro, anche duro, vi erano spazi per frequentazioni, svaghi, amicizie, sorrisi, affetti e amori; saltuariamente, balli in famiglia sulle note del grammofono, oppure, allargati, all’aperto, seguendo i ritmi dal vivo di complessi musicali o orchestrine che qualcuno dei residenti, con conoscenze nel settore, riusciva a portare a Monteruga.

In un’occasione, nel borgo, arrivò e si esibì addirittura il rinomato Gran complesso bandistico “Maestro Carlo Vitali” di Bari.

Fin qui, un quadretto in linee generali, ma limitato a taluni, ancorché tangibili, aspetti.

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Nei giorni scorsi, ho voluto incontrare quattro degli attori protagonisti dell’epopea, a voler dire esperienza concreta e reale, di Monteruga, viventi, attivi e lucidi: Floriana ed Elvira A., insieme con i rispettivi mariti, Gino ed Emilio P. (innamoramento, fidanzamento e, in un caso, anche celebrazione del matrimonio, avvenuti proprio nel minuscolo borgo).

A proposito delle coppie come sopra formatesi, Emilio ha tenuto a rilevare che, pur essendo più giovane, è stato lui, per primo, a mettersi con Elvira e, solamente dopo, il fratello Gino, ad allacciare rapporti con Floriana.

All’atto delle nozze, la sequenza temporale si è però rovesciata; per la precisione, gli sposi più anziani, per pronunciare solennemente il “Sì”, hanno fatto ritorno nella natia Marittima, mentre Elvira ed Emilio (guarda la combinazione, due nomi con le medesime iniziali) hanno voluto, a ogni costo, coronare il loro sogno a Monteruga, il 1° maggio 1960, in quella semplice chiesetta, facendo convenire lì, dal luogo d’origine, una vasta schiera di altri famigliari e parenti.

V’è una bella fotografia, ovviamente in bianco e nero, che immortala l’evento, con un piccolo mondo antico, trasferitosi, per festeggiarlo, nel piccolo mondo nuovo di Monteruga.

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A benedire le nozze, una figura assai benvoluta dalla comunità monterughese, don Giovanni Buccolieri, per tutti Papa Nino, originario di S. Pancrazio Salentino, a lungo preposto spirituale a Guagnano, prima da vice parroco e poi da parroco, e in mezzo alla gente del piccolo borgo agricolo da poco inaugurato.

Papa Nino si distingueva per la sua vicinanza e le premure all’indirizzo dei poveri e disadattati; si ricorda che, in un’occasione, arrivò a prelevare “furtivamente” un paio di scarpe (forse appartenenti a una persona abbiente) che erano nella bottega del padre calzolaio per una riparazione, per passarlo a un miserabile sofferente che era perennemente a piedi nudi.

Emilio, poco tempo dopo l’emigrazione da Marittima a Monteruga, si era arruolato in Marina, spesso si trovava di stanza a Taranto e faceva su e giù, per vedersi con la fidanzata, a cavallo di una Vespa (esiste un’altra istantanea, invero non comune in quell’epoca, con i due innamorati in sella allo scooter, a Monteruga, e, sullo sfondo, sorridente, Maria, la sorella di Emilio).

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In tema di fidanzati e mogli, i quattro amici intervistati mi hanno anche riferito del terzo figlio P., Attilio, il maggiore, il quale, nei primi anni cinquanta, da poco giunto a Monteruga e pur avendo una zita (fidanzata) al paese natio, s’invaghì di un’altra Maria, appartenente a una famiglia terza, quella di un massaro del borgo: quest’ultimo non era per niente favorevole al rapporto della figlia con un “comune” colono, sicché la coppia si determinò a compiere la classica fuitina, sposandosi rapidamente e restando a vivere, come a distanza di tempo avrebbero fatto anche Gino e Floriana, nella natia Marittima.

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Ecco, ora, le note non liete, per non dire tristi e dolorose, accennate prima.

Nel 1946, a ventuno anni, dopo una repentina e fulminante malattia, nel giro di otto giorni, venne a mancare, a Marittima, dove si era temporaneamente recata insieme con una sorella, Adele, la più grande delle sei A.

Nel 1954, cessò di vivere, a Monteruga, anche il genitore Costantino A., pure lui ancora relativamente giovane, le cui spoglie furono sepolte nel cimitero di Porto Cesareo, in Comune di Nardò, e tale destinazione finale, per la circostanza che il punto di Monteruga su cui sorgeva l’abitazione della famiglia A. ricadeva in quello spicchio di area rientrante, precisamente, nei confini comunali neretini.

Peraltro, in seguito, a distanza di una dozzina d’anni, i resti di Costantino A. furono trasferiti da Porto Cesareo al camposanto di Marittima, a cura della vedova Ttetta e con l’ausilio, io ero completamente all’oscuro di tal episodio, di mio padre Silvio, già a lungo impiegato all’anagrafe e Ufficiale dello Stato Civile e dunque, diciamo così, esperto in siffatto genere di pratiche.

Infine, pressappoco nella metà degli anni cinquanta, a Monteruga, rimase vittima di un incidente sul lavoro il giovane marittimese, lì emigrato, Pippi, che faceva il trattorista.

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Formavano un insieme di belle ragazze le sei (a un certo punto, purtroppo, rimaste in cinque) sorelle A., come si può vedere da un’altra fotografia.

Certamente, non restavano inosservate; mi è stato detto, da Elvira, che, quando, in mancanza ancora della chiesa a Monteruga, si recevano insieme a piedi, per ascoltare la Messa, a S. Pancrazio salentino (quattordici chilometri, fra andata e ritorno), sovente qualche abitante del paese, al loro passaggio, commentava: “Vardàti, ce belle piccinne ne manda Monteruga” (osservate che belle ragazze arrivano da Monteruga).

Oltre ai lavori in campagna e nella manifattura tabacco, le giovani A. si occupavano di altre attività, erano divenute esperte di cucito e ricamo (Clementina detta Tina, sartoria, Elvira e Floriana, nell’ordine, tombolo e telaio, con esatti attrezzi di legno, a tutt’oggi conservati, costruiti da un abile falegname di S. Pancrazio Salentino).

Avevano un discreto numero di clienti, non solamente a Monteruga, ma, pure, nelle località contermini.

Non a caso, la loro abitazione era denominata la casa delle mescie (maestre).

In punto, per mostrare il significato del termine dialettale fieu richiamato prima, a lungo rimasto misterioso per l’infante Rocco.

Fieu  sta per feudo, da intendersi nell’accezione di contrada o comprensorio o grande estensione di terreni. I marittimesi di sessanta/settanta anni fa, specie le donne, partivano dal paese per il fieu, nell’Alto Salento, per la campagna di raccolta, a mano, delle olive, che si protraeva lungo un arco stagionale di due/tre mesi.

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Nell’intento di completare appieno il mio giro d’orizzonte propedeutico alla stesura delle presenti note, in aggiunta ai vari dati raccolti qua e là e alle confidenze dirette dei citati quattro amici e compaesani già vissuti a Monteruga, ho avvertito la necessità di compiere personalmente una visita materiale all’interno del borgo.

E’ stato, invero, un giro veloce, sotto un cielo grigio e, tuttavia, sufficiente a farmi avvertire e assimilare una piccola catena di suggestioni che esclusivamente il contatto materiale poteva lasciare scaturire ed emergere.

Non mi soffermo sulla descrizione delle strutture edificate che mi si sono parate innanzi agli occhi in fedele aderenza con quanto già trovato descritto, unico particolare di novità un grande disegno a colori vivaci, moderno, tipico dell’oggi, sulla parete interna di una delle abitazioni utilizzate dai coloni.

Con lo sguardo, invece, ho raggiunto, soffermandomi, una collinetta che si erge a breve distanza del borgo, il “monte” la definizione datale dei residenti, su cui, stando al racconto di Floriana ed Elvira, durante le parentesi di svago, erano solite radunarsi compagnie di ragazze e giovani, al fine di cogliere fiori di campo e…sognare.

Dalle medesime fonti, ho anche sentito che, dalla sommità, durante le giornate terse, si scorgeva non soltanto la vicina distesa dello Ionio, ma anche, in direzione sud, il campanile del Duomo di Lecce.

Mi piace e, nello stesso tempo, mi pare doveroso, terminare questo cammino di scrittura dando sparute righe di spazio alla quiete, pace assoluta, aleggiante e imperante nel cuore, che, per sé, non cesserà mai di battere, della minuscola Monteruga, sensazione notevolmente dominante in confronto a tutti i restanti elementi posti d’intorno e a contorno, vuoi che siano semplicemente opera della natura, vuoi che rappresentino frutti dell’attività umana che una volta vi pulsava.

E il silenzio, nei suoi contenuti più profondi, a parer mio, può significare anche storia che travalica il tempo.

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1° settembre 1902, i contadini di Nardò si ribellano

di Armando Polito

A scrivere un post come questo si corre il rischio, come capita a certa magistratura che scoperchia pentole sempre più maleodoranti, di essere etichettato come comunista. Per evitare, però, al lettore inutili perdite di tempo e per fugare questo dubbio basta che io mi dichiari, come in effetti sono, felicemente (perché così ho conservato la mia libertà) disorientato politicamente e religiosamente, tant’è che in chiesa ci ho messo piede in passato, ora nemmeno quello, solo come turista e, per quanto riguarda la politica, non voto da più di venticinque anni.

Anch’io, però, ho dei sussulti di sana umanità, anche se per evitare il disgusto del presente mi rifugio nello studio del passato, specialmente quand’esso è altrettanto disgustoso. E, quando gli occhi si sollevano dalle carte, mi rendo conto della validità del proverbio niente di nuovo sotto il sole e di come fenomeni antichi si rinnovino mutati nella forma ma non nella sostanza. Così alla nobiltà terriera di un tempo si contrappone quella politico-finanziaria di oggi, e ai braccianti di allora sono subentrati i sottoccupati e sfruttati odierni.

Ecco cosa ho trovato sul numero del 7 settembre 1902 del giornale francese La liberté des colonies  leggibile all’indirizzo http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6337828r.r=Nardo.langEN  (nelle foto sottostanti la prima pagina e la seconda, dalla quale è tratto il dettaglio con la mia traduzione a fronte). Da notare che la corrispondenza da Roma è datata 1° settembre ma credo che il tempo trascorso fino alla sua pubblicazione sul giornale francese sia dovuta alle tecniche di comunicazione dell’epoca. Alla faccia, invece, di quelle della nostra epoca i telegiornali nazionali si affannano a dare giornalmente notizia di dichiarazioni che vorrebbero essere rassicuranti ma che sono solo buffonescamente ridicole; per converso, però, la parte preponderante dei notiziari mi tiene aggiornato sulle ultime tendenze della moda, sul numero preciso di coltellate con cui è stato portato a termine l’omicidio del giorno, sulle nausee da gravidanza della vip di turno, etc. etc.

Per non morire di goduria non mi resta che non accendere il televisore. Sto pure pensando seriamente di farlo fuori con trentacinque martellate e mezza, ma, poi, come farò ad esaltarmi quando la tv nazionale ne darà, sicuramente, dettagliata notizia?

Rivoluzione contadina: “Vento freddo sull’Arneo”

 

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
campagna salentina (ph Fondazione TdO)

di Francesco Greco

 

Misconosciuta, anzi, rimossa: dalla Storia, dalla memoria popolare, dall’immaginario collettivo. Ma siamo figli dei tempi e questo, che sembra un tempo senza speranza per i giovani,   può essere quello che annoda i fili della nostra Storia e illumina gli eventi che hanno costruito  la nostra identità.

   Anche il Salento ha avuto la sua Rivoluzione. Ne scrisse il sommo poeta Vittorio Bodini in un memorabile reportage per la rivista “Omnibus” (1951). L’inviata di “Noi Donne” invece fu scacciata. A quel tempo il giornalismo era serio, autorevole, decisivo (come si dimostrò poi al processo in Corte d’Assise a Lecce, con gli articoli letti dal pm della Procura di Trani Biagio Cotugno che forse puntellarono la sentenza di assoluzione perché non c’era il reato).

Non come oggi: sociologia, acqua fresca per comari da bar sport.   

   Qualche documentario in anni recenti. Tutto qui. Difetto di comunicazione si dirà. Damnatio memoriae evocata dalla scuola e l’intellighentia, diremo. E non per caso. Più si cancella il passato, più si asserve una comunità e la si può dominare spingendola su disvalori, contagiando i surrogati da cui è aggredita la quotidianità.  

   Eppure fu una Rivoluzione di popolo, che dovrebbe continuare a intrigare chi volesse scannerizzarla (come ha fatto Salvatore Coppola). Affascinato almeno da un elemento: la sovrapposizione semantica con la più celebrata Rivoluzione d’Ottobre. 1905-1917 quella russa. 1920-1947-1950 in Salento: invasione delle terre abbandonate (tra Fattizze, Case Arse e Carignano); 2.000-4.000 contadini e braccianti piantarono bandiere rosse e tricolori cucite dalle sarte dell’Arneo (Nardò, Veglie, Monteroni, Trepuzzi, Guagnano, Carmiano, Salice, Copertino, Leverano, Campi S.) e  cominciarono a dissodare e coltivare le terre: tanto che, primavera 1951, al processo, i contadini offrirono i frutti del lavoro: piselli, fave e altre delizie fresche.

   Una scena che a immaginarla fa venire i brividi. Mentre l’agrario Achille Tamborino, senatore, da Maglie, proprietario di quelle terre, va a dire, ammantandosi di ridicolo, che gli servivano per la caccia, e di non sapere esattamente i loro confini, e comunque non aveva avuto danni. 15 contadini furono condannati a un mese, col condono e la non iscrizione (art. 633, “chiunque invada arbitrariamente terre altrui al fine di trarre profitto”).

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   L’epopea fra il 28 dicembre 1950 e la primavera 1951 (ma le occupazioni erano iniziate nel 1947), è ricostruita con un respiro narrativo essenziale che trasfigura l’epos da Tina Aventaggiato in “Vento freddo sull’Arneo”, editore Loffredo, Napoli 2013, pp. 255. € 13.50 (collana “I Semi di Partenope”), con l’emozionante prefazione di Gianni Giannoccolo, testimone del tempo (“uomini e donne veri… di quell’esperienza poi è stata segnata la loro vita (…) in seguito ai duri anni di guerra si era radicalmente mutata la psicologia dei contadini”).

   La password usata oscilla fra la tragedia greca (Odissea su tutte) e la lotta dei comuneros (contadini con terre in comune) peruviani narrata dal grande Manuel Scorza. Pure qui una sovrapposizione metodologica: Scorza vagò per le Ande armato di magnetofono, la scrittrice nata in Grecìa (Castrignano dei Greci, vive a Poggiardo), ha recuperato dalla memoria le storie udite da piccola, dal padre soldato in Etiopia; storie che ha arricchito con le sapide tracce dell’affabulazione popolare d’oggi. Il tutto poi stemperato in un romanzo storico che attinge ai canoni del neorealismo e del verismo, che intreccia elementi oggettivi e documentali al vissuto quotidiano del Salento rurale, librandosi verso la poesia più pura quando contamina il racconto con i sentimenti e le storie d’amore dei personaggi: Pati e Cristina, Arcona e Yusuf prima, l’ebreo Isaiah poi, Vera e Aldo Specchia “lo scemo di guerra”. Incluso il thriller che tanto piace alla narratrice (“Abigail è tornata”, sempre con Loffredo, 2012): una vecchia colt della guerra d’Africa sparisce all’inizio e riappare in un muretto alla fine.     

   E dunque l’Arneo, cuore vivo del Salento, in lotta per il pane e la dignità. Figli di un dio minore, tornati dal fronte, scoprono che mentre loro combattevano, i padroni e i furbi si arricchivano col mercato nero. Non solo, ma anche che la legge della Repubblica che ovunque in Italia assegna le terre con l’enfiteusi, per loro non vale. La coscienza politica nata sui fronti dove hanno combattuto (guerra coloniale compresa) non li rende però più disposti a tollerare un mondo ingiusto, le disparità sociali, le esclusioni, la fame.

   Dove la scrittrice è insuperabile è nel tracciare la composizione di classe rigidissima in un feudalesimo cristallizzato e antistorico, sullo sfondo di un canovaccio pregno di etos, modulato sull’antropologia, la sociologia, il conflitto di classe. Al processo tentarono di incolpare i contadini di aver bruciato le loro stesse biciclette: tutto ciò che avevano per campare.

   Un’opera memorabile (“Arneide”), scritta in stato di grazia, che dovrebbe essere adottata nelle scuole per rafforzare identità vacillanti, puntellare memorie fragili, rafforzare radici esili. Il suo oblio è funzionale al dominio delle nostre menti. Se ci occupiamo di subcultura (Grande Fratello, talent, soap e spam vario), di vuoto feticismo, chiusi in casa, quando mai guarderemo alla nobiltà del passato per decodificarlo e cercare così di governare il nostro futuro? 

Trainella, fra Marittima, Diso e Tricase

trainella

di Gianni Ferraris

Ci sono modi di dire che si utilizzano per abitudine, spesso per convenzione, “Il mondo è piccolo”, ad esempio. A volte poi ti accorgi che la tradizione orale, la cultura popolare, spesso tramandano verità. E’ piccolo il mondo se mia figlia, alessandrina che studia all’università a Pavia, ha una “collega” salentina che la invita a Tricase per l’estate, successe nell’agosto 2012, ed è piccolo se a distanza di un anno incontro Costantino, il padre della ragazza salentina, nella piazza di Diso ed iniziamo a parlare accorgendoci di avere in comune amici e interessi, oltre che di trovarmi davanti ad un raffinato scrittore. Diso è un paese tranquillo, poca gente per strada, seggiole in piazza martedi 6 agosto fra i tavolini del bar, un palco, una bandiera italiana ed una della CGIL. C’è la proiezione di un documentario che per varie vicissitudini ancora non avevo visto: Arneide. Passano su quel piccolo schermo e con un audio improbabile le immagini e le testimonianze dei protagonisti delle lotte a cavallo fra il 1950 e il 1951, quando le terre vennero occupate, quando la polizia di Scelba caricava donne e uomini che volevano solo e banalmente lavorare un pezzo di terra, che chiedevano di poter sopravvivere.

Anche Costantino Nuzzo era in piazza a Diso, e mi ha sorpreso regalandomi un libro che aveva scritto nel 2010: Trainella. Non è romanzo, non è saggio, è un racconto di vita vissuta fra Marittima, Diso e Tricase. Lui nacque a Marittima, ora vive e lavora a Tricase. Già direttore di Radio Salento popolare e collaboratore di riviste, ha voluto mettere su carta i suoi ricordi, che sono quelli della sua generazione. L’ha fatto perché occorre ricordare, avere memoria di come eravamo per comprendere cosa siamo. E l’ha fatto perché gli spiriti più attenti della nostra generazione si rendono conto che il filo della memoria è esageratamente esile e fragile. Cito un passaggio della sua presentazione del libro: quella attuale, per Costantino “è una società senza chiari modelli diriferimento, confusa e smarrita, che si concentra […] sull’insano culto dell’io senza lasciare spazio al noi… Una società concentrata nel quotidiano individuale, che vive alla giornata. Senza passato, senza storia e senza alcun progetto di futuro[…]”

Forse una visione ecessivamente pessimistica, che tuttavia ha ragion d’essere se valutiamo la deriva sociale e politica in cui siamo stati risucchiati tutti quanti, e della quale la mia generazione, che è anche quella di Costantino, ha qualche responsabilità. Consideriamo le lotte dell’Arneo, quando una classe di “ultimi” chiese, pretese ed ottenne in parte di avere un pezzo di terra che desse loro dignità di esseri umani, che facesse uscire il Salento dal feudalesimo crudele dei baroni e dei proprietari terrieri che utilizzavano centinaia di ettari di terreni coltivabili come riserva di caccia, e vediamo oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, nuovi “baroni” tanto simili a quelli antichi che vengono incarcerati perché riducono in schiavitù altri “ultimi”, i ragazzi che arrivano con scafi di fortuna. Le domande sorgono spontanee, le conquiste di un tempo, quanto valgono oggi? Soprattutto, perché la cosiddetta “società civile” consente questi ignobili comportamenti? Perché un conclamato razzista ricopre importanti cariche in parlamento? Perché i diritti conquistati nel tempo sono stati tutti risucchiati e negati da un capitalismo globalizzato che si ritiene invincibile? E potremmo proseguire a lungo, ma torniamo a Trainella. Il libro è di agilissima lettura, scritto in modo asciutto, riporta episodi, guaches di personaggi e comportamenti di Marittima e Diso degli anni fra il 1957 e il 1967, quando la guerra finita sembrava lasciare posto alla rinascita, ma che vedeva i contadini, i mezzadri fare una vita meno che dignitosa, spaccarsi la schiena e lottare ogni giorno per sopravvivere. E lo fa senza enfasi e senza cadere nel tranello del “Mulino Bianco”, quando i mulini erano bianchi, ben lo sappiamo, i poveracci crepavano di fame. Racconta, anche con simpatica ironia, la quotidianità di una famiglia con molti figli, del parto provocato da un ribaltamento del “traino”, racconta del contrabbandiere, della festa patronale con gli abiti buoni, della raccolta del tabacco, del trasferimento della famiglia intera, compreso il nonno fumatore incallito, a Ginosa per la raccolta sulla “millequattro” con autista che stipava tutto l’occorrente per la sopravvivenza di alcuni mesi e oltre 9 persone a bordo. Un viaggio di ore e ore, sempre che non ci fossero guasti e che la polizia stradale non fermasse quella strana auto stracarica per la multa di ordinanza. E ricorda, Costantino, del daziere che potremmo definire gabelliere, di come il “Don” precedesse il nome dei figli laureati dei possidenti terrieri. Quelli che studiavano anche se “ciucci”. E poi il cinema Excelsior dove occorreva andare alle tredici per prendere posto, ed era indispensabile andarci perché anche le ragazze potevano, con il beneplacito dei genitori e del prete, recarsi. E ancora, i matrimoni mai fatti perché dalla dote mancavano i materassi, o della “fusciuta” (scappatella) di chi non poteva permettersi la dote e giustificava in questo modo un matrimonio improvviso. Acquarelli leggeri nella loro pesante realtà, che fanno sorridere con tristezza. Accompagna per mano a capire, fa vedere con occhi diversi le bellezze di queste terre e la durezza del lavoro. Soprattutto si comprende meglio la trasversalità delle storie degli “ultimi”, quelle descritte da Nuto Revelli nel suo stupendo ed irrinunciabile libro che conserverò accanto a Trainella:  “Il mondo dei vinti” che racconta la vita dei contadini di Langa, costretti ad emigrare per fare “la stagione” in Francia da clandestini ovviemente, costretti a nutrirsi di castagne e a comprare il sale di contrabbando dagli “acciugai”, tutto ciò per poter dire di avere vissuto. Il mondo, in fondo, è veramente piccolo.

 

Costantino Nuzzo – Trainella – Minuto D’Arco Editore. € 10.00  

La Repubblica Neritina

Il 9 aprile 1920 i contadini di Nardò si sollevarono contro lo strapotere dei latifondisti

LA REPUBBLICA NERITINA

Al grido di “pane, lavoro e libertà” oltre cinquemila rivoltosi, capeggiati da Giuseppe Giurgola e Gregorio Primativo, occuparono il Palazzo di Città e tennero testa per un’intera giornata alle forze dell’ordine accorse in gran numero dal capoluogo

Nardò, piazza Salandra, l’antico palazzo municpale


di Emilio Rubino

Per attirarsi le benevolenze e i favori del popolino e per mantenerlo nell’alveo dell’ordine pubblico e del quieto vivere, i governanti di ogni epoca e di ogni luogo puntavano essenzialmente al raggiungimento di due obiettivi di estrema importanza. Come prima cosa, essi garantivano a ogni cittadino una razione giornaliera di pane per tacitare i languori di stomaco e, soprattutto, eventuali pericolose contestazioni; in secondo luogo, organizzavano di tanto in tanto delle feste, degli intrattenimenti pubblici, delle gare sportive, dei tornei popolari per infondere nel loro animo la necessaria contentezza, buon viatico per affrontare il duro lavoro quotidiano. Insomma applicavano alla lettera l’antico motto “Panem et circenses” dei nostri padri latini. Aveva ben ragione Lorenzo il Magnifico quando asseriva che pane e feste tengono il popolo quieto. Nel regno delle due Sicilie i Borbone attuarono un sistema ancora più mirato, la cosiddetta politica delle tre F: Feste, Farina e Forca. In presenza di questi necessari elementi, la vita pubblica di ogni comunità cittadina non poteva che scorrere tranquillamente.

Ci sono stati casi, purtroppo, in cui le sorti di una nazione sono state completamente sovvertite dalla rivolta popolare per la scarsa lungimiranza, l’incuria e l‘arroganza di certi regnanti. La storia, magistra vitae, ci ha tramandato alcuni esempi, il più eclatante dei quali è la Rivoluzione Francese. Scaturita dalle tante ingiustizie sociali, dalla corruzione dilagante e dalle continue vessazioni alle quali era sottoposta la gleba, esplose in modo cruento e sanguinoso allorquando i cittadini, da giorni in agitazione per la mancanza di pane, si sentirono ancor di più umiliati e vilipesi dalla regina Maria Antonietta che, ad un loro accorato appello, aveva risposto incautamente e con distacco: ”Non hanno pane?… allora che mangino brioches!”. Poi, sappiamo bene come sono andate a finire le cose.

Una situazione analoga, anche se di proporzioni molto ridotte, accadeva all’inizio del secolo scorso in diversi comuni del Salento e, in modo particolare, a Nardò. Grandi masse di contadini, muratori e braccianti vivevano in condizioni di estrema miseria e tra tante sofferenze. Sfruttati dai latifondisti, dovevano chinare la testa e accettare mestamente ogni tipo di maltrattamento e mortificazione. I governanti dell’epoca, purtroppo, stavano dalla parte dei “padroni”, tolleravano ogni loro sopruso, addirittura li proteggevano e nulla si poteva fare o dire contro di loro per non ritrovarsi senza il minimo necessario alla sopravvivenza. Mancava il lavoro, nonostante ci fossero a disposizione immensi campi incolti di proprietà dei “signori”, i quali preferivano non coltivarli piuttosto che sobbarcarsi al pagamento di un salario giornaliero di £ 7 a contadino. Questa era la paga pro-capite pattuita con il Prefetto di Lecce.

Era difficile, assai difficile campare con quei padroni, i quali, nonostante tutto, continuavano a retribuire i contadini alla vecchia maniera, dando loro un salario di una lira e mezza al giorno. La povera gente, per non inimicarsi il padrone strangolatore, era costretta, obtorto collo, ad accettare le imposizioni e a mantenere un silenzio omertoso.

veduta settecentesca di Nardò

Riportiamo un’eloquente testimonianza di un funzionario di Pubblica Sicurezza rilasciata nel 1922, esattamente due anni dopo la sanguinosa rivolta neritina: “La mentalità dei signori di Nardò è tuttora arretrata, come ai tempi del duca di Conversano, che, giungendo in città nel 1647, rimase attonito per l’eccessiva tolleranza con cui si trattavano i servi della gleba, nonostante questi vivessero in condizioni disumane, come un branco di bestie moleste e dannose”.

Lo stesso Tommaso Fiore annotava in un suo scritto: “I padroni della gleba sono avidi, gretti, bigotti sino all’assurdo, reazionari, nemici acerrimi della gente povera”. Noi aggiungiamo che i “signori”, ed anche i loro pupilli, abusano delle donne, soprattutto di quelle che avevano estremo bisogno di portare avanti la propria famiglia.

Con tanta rassegnazione nel cuore e nella speranza che la situazione potesse migliorare, i contadini e i braccianti, sconfitti e umiliati, continuavano a subire ogni genere di sopraffazione e a masticare l’amarezza delle loro sofferenze.

“Cusì ‘ole Diu!” – erano soliti dire, a giustificazione delle loro pene.

Poi giunse la Grande Guerra.

“Difendete la Patria e sarete ricompensati!” – fu promesso loro prima di partire per il fronte e combattere contro gli Austriaci in difesa degli interessi della “casta degli eletti”, ma non certamente di tutti gli Italiani.

Furono in molti a perire sul Piave o sui monti della Carnia e pochi, soltanto pochi, a riabbracciare la moglie, i figli, i genitori. In cambio non ottennero nulla. Non un pezzetto di terra da coltivare in proprio (nonostante le iniziali promesse), non una sussistenza che potesse lenire i tanti disagi, ma soltanto una misera medaglia di rame o una croce di bronzo e, tutt’al più, una modestissima pensione d’invalidità, a ricordo di una guerra che era stata prodiga soltanto di lutti.

Ritornarono le paghe basse, ritornò lo sfruttamento dei ricchi proprietari, ritornarono prepotentemente a riaffacciarsi la solita miseria e la solita fame. Tutto come prima, se non più di prima.

Era comprensibile, quindi, come a questi umili uomini covasse nel cuore un giustificato risentimento di odio e di riscatto nei confronti dei ricchi proprietari e accogliessero con favore coloro che si battevano per la loro causa e per la costruzione di una società più giusta e socialmente più avanzata. Pian piano si cominciò a parlare di Socialismo e si dette vita alle Leghe. Sorse, entro le vecchie mura di questa sonnacchiosa città, la “Lega di Resistenza dei Contadini”, il cui animatore fu il neritino Eugenio Crisavola, ottimo persuasore e agitatore, e, per tale motivo, inviso sia ai ricchi signori sia al clero locale che, di socialismo, non volevano nemmeno sentir parlare. Quest’uomo era considerato un sobillatore di coscienze, era il diavolo vestito di rosso, che metteva zizzanie nella mente del popolino.

Si badi attentamente che, in quegli anni, i signori, pur retribuendo il bracciantato con paghe misere, che a malapena consentivano l’acquisto del pane, si facevano pagare l’olio ed altre necessarie cibarie (di scarsa qualità, ovviamente) a prezzi esagerati; allo stesso modo, imponevano per le anguste case date in locazione (più che altro tuguri) affitti salatissimi, da veri strozzini.

Nardò, piazza Salandra con il Sedile e la guglia

Ben presto si manifestarono i primi malcontenti di piazza e le dure contestazioni allo strapotere della classe agiata. Le forze dell’ordine riuscirono facilmente ad avere il sopravvento sui dimostranti e a disperderli nelle campagne, anche perché erano poco organizzati.

Un delegato di Pubblica Sicurezza, disgustato dallo spropositato intervento delle forze dell’ordine, ebbe a scrivere al Prefetto di Lecce: “Non è giusto, né opportuno, né possibile usare la forza contro disoccupati che non chiedono altro che il lavoro… I signori pretenderebbero avvalersi della loro disoccupazione per farli lavorare nei loro terreni con pochi denari, ed esigono che l’Autorità, con la forza, li protegga”.

L’intransigenza dei padroni, nonostante tutto, continuava a persistere come prima e più di prima.

Nel frattempo, il 7 aprile 1920, accadeva nell’interno della Lega dei Contadini un avvenimento decisivo, che avrebbe stravolto da lì a poco l’intera vita della città. Si erano verificati gravi contrasti tra il Crisavola, che voleva trattare con i padroni, e Gregorio Primativo e Giuseppe Giurgola, entrambi favorevoli ad uno scontro frontale. A spuntarla furono i secondi. L’8 aprile si preparò lo sciopero generale, si studiò nei particolari il piano per isolare completamente la città e per far cadere il governo municipale. Alla rivolta aderì anche la Lega Muratori. Tra gli scioperanti nacque l’idea di proclamare, a battaglia vinta, “La Repubblica Neritina”, retta dai proletari rivoluzionari. Si diede vita ad un corpo di polizia denominandolo “Guardie Rosse”, al quale aderirono numerosi giovani, e fu nominata una Commissione Permanente di Agitazione, a presidente della quale fu chiamato il carismatico Giuseppe Giurgola.

Nella notte tra l’8 e il 9 aprile furono tagliati i fili del telefono e della luce, s’innalzarono barricate agli ingressi principali della città, fu bloccata la stazione ferroviaria, disarmati i carabinieri e il delegato di Pubblica Sicurezza, di modo che Nardò fu totalmente isolata.

Alle sette della mattina successiva, la città si sollevò dalle sue ataviche sofferenze e una folla di oltre cinquemila persone si riversò nella Piazza del Comune, mentre i ricchi proprietari si rinserrarono nei palazzi insieme alla servitù, rimasta loro fedele. Alcuni baldi giovani salirono sulla loggia del Municipio per ammainare il tricolore e issare la bandiera rossa. Un consistente manipolo di dimostranti sfondò il portone di palazzo Personè e dai magazzini furono trafugati grano, vino, olio, formaggi e salumi in abbondanza.

Verso le tre pomeridiane arrivarono in città settanta soldati e trenta carabinieri, armati di moschetti, pistole e bombe a mano. L’ordine impartito dal Prefetto di Lecce era stato perentorio: repressione!

Intanto la folla dei rivoltosi si era radunata nei pressi della “Porta ti lu pepe”. In prima linea alcune donne iniziarono a lanciare pietre e quant’altro capitasse nelle loro mani contro i militari, che si avvicinavano a ranghi serrati. Un soldato puntò contro la folla il fucile senza però sparare. Immediatamente il militare fu assalito da cinque dimostranti che lo disarmarono e lo pestarono duramente. La scintilla della sommossa era ormai scoccata. Di fronte al furore incontenibile dei rivoltosi, i militari indietreggiarono mentre la folla, scatenata e agguerrita, continuava a scagliare pietre ed oggetti di ogni dimensione. Ben presto i soldati, vistisi alle strette, lanciarono contro i manifestanti due bombe a mano. Fu una vera strage: persero la vita cinque uomini, un sesto morirà dopo alcune ore. I feriti furono ventisette, alcuni dei quali in condizioni gravi, mentre tra le forze dell’ordine si contò un solo morto.

La guerriglia terminò dopo tre ore, intorno alle sei di sera, quando i rivoltosi furono accerchiati e presi tra più fuochi. Intanto continuavano a giungere da tutta la provincia altre forze dell’ordine (un migliaio in tutto) che rincorsero i manifestanti, dividendoli e disperdendoli nelle vicine campagne. Alla fine i militari arrestarono ben duecento persone, grazie anche all’aiuto dei servi dei padroni, che in seguito si lasciarono andare ad ogni azione delittuosa nei confronti dei contadini che abitavano nei casolari di campagna.

Gregorio Primativo fu arrestato il 20 aprile. Mandati di cattura furono spiccati anche contro il Crisavola e altri personaggi di spicco, fra cui il noto avvocato galatinese Carlo Mauro, colpevole di aver partecipato alla costituzione della Lega di Resistenza dei Contadini.

Il mitico Giuseppe Giurgola si rifugiò nella Repubblica di San Marino, che gli dette asilo politico. In seguito, si trasferì esule in Francia, dove morì nell’agosto del 1938 in un incidente sul lavoro.

La repressione dei padroni si scatenò con ferocia inaudita sui contadini e muratori rivoltosi tra l’inspiegabile indifferenza delle forze dell’ordine.

La mattina del 10 aprile i ricchi proprietari organizzarono una contromanifestazione per le strade cittadine. I palazzi furono bardati col tricolore e ornati a festa. Una folla di 1500 persone sfilò per le vie più importanti di Nardò, con in testa gli agrari più ricchi (Zuccaro, Personè, Giannelli, Muci, Fonte, Vaglio, Colosso, Arachi, Saetta, ecc.).

Cinque giorni dopo, esattamente il 15 aprile, alcuni signori si riunirono nel Palazzo Comunale e fondarono il “Fascio d’Ordine”, i cui componenti si vantarono di aver represso la sommossa e affossato la Repubblica Neritina: un’istituzione vissuta solo ventiquattro ore, ma che poi rinacque più forte e più bella vent’anni dopo.

Quella dei rivoltosi sottoposti al giudizio del Tribunale Penale di Lecce è un’altra brutta pagina di storia, sulla quale ci soffermeremo in un prossimo articolo.


Riflessioni sull’etimologia di Arneo

E SE L’ACQUA, QUESTA VOLTA, NON C’ENTRA?

Riflessioni sull’etimologia di Arneo.

 

 di Armando Polito

 

La prima attestazione del toponimo (tenimentum Dernei) risale al 1092 ed era contenuta in una pergamena dell’archivio della curia vescovile di Nardò, pergamena oggi perduta, di cui nello stesso archivio resta il transunto cinquentesco. Fortunatamente quella originale era stata pubblicata prima da F. Ughelli1 e  successivamente   da   G. Guerrieri2.    

La seconda attestazione è del 11043: Item ecclesiam Sancti Nicolai de Verneo…(Parimenti la chiesa di san Nicola di Arneo).

La terza risale al 13764: …item massariam unam sitam in Derneo, in loco nominato Sancta Maria de le Campure  cum  dicta ecclesia   cum  gripta…(…parimenti una masseria sita  in Derneo in località chiamata Santa Maria delle

Il paesaggio dell’Arneo attraverso i segni e i luoghi dell’acqua

di Fabrizio Suppressa

Se c’è un elemento che può descrivere appieno le caratteristiche dell’agro neretino, questo è certamente l’acqua; materia presente e al contempo nascosta, che ha modellato il paesaggio naturale ed umano di quest’angolo di Salento.

Tale rapporto tra territorio e acqua lo si evince già dalle tante leggende. Si narra infatti che l’insediamento di Nardò fu fondato laddove un toro, colpendo con lo zoccolo il terreno, fece zampillare una sorgente d’acqua. Ritroviamo lo stesso legame anche nell’etimologia della parola “Arneo”, poiché secondo alcuni studiosi il termine deriva da Varneus, toponimo che indica un “terreno ricco d’acqua”[1].

Il prezioso liquido, con le sue strutture per l’approvvigionamento, ha disegnato ed impresso la trama della viabilità e della toponomastica dell’Arneo. Nella parte bassa e pianeggiante di questo territorio, pozzi attingevano ad uno dei più vasti giacimenti d’acqua dolce del Salento, ma poiché era difficoltosa sia la natura geologica del suolo sia la pratica di scavare pozzi, il numero di questi scavi nel passato era assai esiguo.

Ed infatti durante il periodo medioevale la maggior parte dei casali si addensa in prossimità di una risorsa idrica esistente e in alcuni casi il nome deriva proprio da questa caratteristica, come ad esempio Pozzo d’Arneo e Pozzovivo. La prima località, che fu in epoca imperiale una villa rustica, conserva ancora l’antico pozzo di fattura romana scavato a mano[2] e fu per secoli punto di riferimento per la viabilità neretina trovandosi in prossimità della via Sallentina. Proprietà termali sembra avessero avuto le acque del profondo pozzo della masseria Messere, nelle vicinanze del secondo casale, tant’è che nel ‘600 molti nobili e prelati neretini venivano a curarsi il così detto “mal della pietra”[3].

Anche nel periodo successivo al Medioevo, l’elemento acqua ha contribuito a variegare la geografia del territorio. Come ad esempio masseria Ingegna, nome che ricorda la ‘ngegna, una noria o ruota idraulica mossa a forza animale, che grazie ad un sistema di pulegge e secchi, sollevava l’acqua dal fondo del pozzo alle colture.

Altrettanto curiosa è l’origine del toponimo “monsignore” dove è sita la famosa masseria Trappeto. La leggenda popolare narra di una ricca ereditiera, proprietaria di tutti quei vasti fondi, che fu rinchiusa dai familiari in un profondo pozzo, poiché voleva donare le estese proprietà alla chiesa e

Le amarene dell’Arneo

LETTERATURA GASTRONOMICA

LE AMARENE DEL FANTASMA

 

Divenute sciroppose al sole in un tegame di creta coperto da una lastra di vetro le amarene all’acquavite fanno… “ risuscitare i morti”

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

Era abitudine della zona che, almeno dieci volte l’anno, i signori si riunissero per una battuta di caccia. A queste, chiamiamole pure vacanze, il nonno non mancava mai e poiché spesso si andava lontano, l’assenza si protraeva per diversi giorni; al ritorno c’era sempre l’eccezionalità di una preda a solleticare una festosa curiosità, tanto più che il nonno era solito imbalsamare le sue numerose “vittime”. La sua casa, infatti, straripava di cimeli e chiunque, entrando, capiva subito che ivi abitava un cacciatore incallito, ancor meglio se veniva ammesso nella sala grande, dove una ricca collezione di armi sovrastava il lupo cacciato in Sila, l’aquila abbattuta nel Gran Sasso, il cinghiale nero (che a detta del nonno era stato uno dei migliori bocconi), le volpi nostrane e tutta una legione dei più svariati uccelli. E lo zoo imbalsamato cresceva giorno per giorno, poiché non succedeva mai che il nonno tornasse col carniere vuoto. Una sola volta era accaduto, ma “tutto per colpa del fantasma” precisava nel suo orgoglio di cacciatore. “Ovverosia per colpa delle amarene” rettificava la nonna con un risolino. Ne nasceva una piccola scaramuccia coniugale che si concludeva immancabilmente con il racconto dell’avventura.

In quel tempo – ancora lontano dalla riforma agraria – nel Salento esisteva un grande latifondo chiamato “Arneo”. Chilometri e chilometri di terreno macchioso, dove, unico segno di vita, erano gli stazzi, pigiati di bestiame e seminati alla lontana, essendo la zona un ottimo pascolo. Fra stazzo e stazzo si infittiva il groviglio delle frasche e si snodava tutto un labirinto di sentieri che i pastori del luogo chiamavano “le strade perse”. Nella zona più isolata e più

Un passato rivoluzionario

 

di Alessio Palumbo

 

In questi giorni, le notizie e le immagini sulle rivolte nel nord Africa rimbalzano da una testata all’altra, da un’emittente all’altra. Si tratta di proteste, manifestazioni e scontri legati spesso alla miseria, al bisogno di pane e diritti. Storie lontane, di paesi lontani? Non proprio.

Anche il Salento, insieme ad altre zone del paese, ha vissuto infatti periodi di ribellione spontanea, legata alla fame, al bisogno di terra, pane e lavoro.

Siamo nella seconda metà degli anni ’40. In un paese da poco emancipatosi dalla dittatura fascista, devastato dalla guerra e ridotto alla fame, tra le masse contadine si diffonde un forte sentimento di rivalsa. La Terra d’Otranto vive a pieno questi fermenti.

Contadini e tabacchine scioperano contro la povertà, l’assenza di lavoro, il caro viveri. Invocano l’applicazione delle leggi Gullo e delle leggi stralcio per la concessione delle terre incolte ai proletari. L’opposizione degli agrari, spesso appoggiati dalle autorità democristiane e  dalle forze dell’ordine, le lungaggini

Arneo, la Maremma della Puglia

di Oreste Caroppo

LE LOTTE CONTADINE PER DISTRUGGERE IL PARADISO SELVAGGIO DELL’ARNEO, LA MAREMMA DELLA PUGLIA!
UN ERRORE STORICO GRAVE CUI SI DEVE RIMEDIARE OGGI CON L’ESTESA RINATURALIZZAZIONE-RIMBOSCHIMENTO DI ARNEO CON PIANTE AUTOCTONE!

Un errore storico, non l’occupazione delle terre per le esigenze di tutti contro lo strapotere dei baroni-latifondisti, ma la folle foga devastatrice degli ecosistemi forestali plurimillenari lì esistenti, fonti di prodotti alimentari e di un’economia intrecciata silvo-agro-pastorale, che andavano sfruttati ecosostenibilmente, ma che furono invece quasi del tutto cancellati a scapito poi di chi vi praticò, tra mille sacrifici, le monoculture dagli esiti a lungo termine più che mediocri! Un fallimento agronomico!

Sabato sera, 27 maggio 2012, a Lecce si è tenuto il virtuoso Festival della Dieta Med-Italiana, finalmente un festival di valore ambientalista vero a Lecce dopo la kermesse volgare e strumentale del Festival dell’ Energia tenutosi per tre anni a Lecce prima di essere cacciato via a calci e fischi dai salentini, poiché mirava palesemente, nel progetto dei suoi ideatori, a fare del Salento una desolata inquinata landa dove produrre energia da ogni fonte da esportare altrove!

Tra gli appuntamenti del Festival della Dieta Med-Italiana, un bel convegno sulle lotte contadine novecentesche di Arneo, l’area del Salento che si affaccia sull’arco ionico del Golfo di Taranto, da Gallipoli a Nardò fino a Manduria e oltre.

Ho avuto lì modo di ascoltare i racconti delle lotte contadine di Arneo per l’occupazione delle terre “incolte” anche dalla voce dei vivi protagonisti dell’

Il formaggio pecorino del Salento

di Massimo Vaglio

Nel paesaggio delle splendide e importanti produzioni casearie pugliesi la provincia di Lecce assume un po’ la posizione di fanalino di coda, ciononostante difende ancora il primato per quanto riguarda i formaggi pecorini, la cui produzione vanta una consolidata tradizione supportata da un ancora ingente patrimonio ovino.

La produzione è costituita da forme cilindriche del diametro di 20-30 cm con scalzo di 6-12 cm a piatti piani, crosta giallognola che vira al nocciola con la stagionatura, recante l’impronta della fiscella.

Nei primi decenni del secolo scorso nella classifica di gradimento e diffusione fra i pecorini italiani tipici, subito dopo il pecorino romano, il pecorino sardo tipo romano e il fiore sardo, veniva appunto il Maglie-Poggiardo ovvero il pecorino prodotto dalle fiorenti masserie di questo comprensorio, la cui produzione intraprendenti commercianti avevano con successo organizzato, provvedendo allo stoccaggio e alla commercializzazione; la stessa sorte seguivano i non meno validi pecorini d’Arneo anch’essi conosciuti e ricercati in tutti i più importanti mercati.

Ben diversa la situazione attuale. Dall’ultimo censimento dell’agricoltura risulta che nel territorio di Maglie insistono attualmente appena quattro allevamenti ovini, quattro a Scorrano e nessuno nel territorio di Poggiardo e tante antiche masserie, da lungo tempo abbandonate, versano ormai in rovina, tanto nel comprensorio di Maglie, quanto in quello dell’Arneo, ove comunque insistono ancora più di un centinaio di aziende.

Le mutate condizioni socio economiche, e tutta una pur giusta serie di adempimenti e di normative imposte dalla Comunità Europea, specialmente per quanto riguarda l’adeguamento alle norme sanitarie delle aziende, hanno disincentivato molti allevatori a proseguire questa millenaria attività.

Il pecorino di Maglie e il pecorino d’Arneo non presentano sostanziali differenze nella tecnica di produzione da quello prodotto nel resto della regione: il latte crudo di pecora, viene portato, a fuoco diretto, alla temperatura di 36‑37°C, quindi addizionato di caglio liquido di agnello. La coagulazione avviene in 30‑45 minuti e dopo 15 minuti circa di rassodamento, la cagliata viene rotta con uno spino di legno (rùetulu) fino alla dimensione di seme di pisello o poco più, lasciata riposare per qualche minuto, quindi estratta e trasferita in fiscelle di giunco che vengono lasciate spurgare e pressate manualmente per favorite lo spurgo del siero. Qui si rileva la prima differenza tecnica sostanziale: mentre nel resto della regione le forme vengono sottoposte a scottatura immergendole per qualche secondo nella scotta, ossia nel siero caldo a 80‑85°C, quindi sottoposte a salagione a secco e trasferite nei locali di stagionatura, nel nostro caso viene omessa la scottatura e le forme, dopo essere state sottoposte a salagione, invece di essere trasferite nei freschi locali di stagionatura vengono mantenute nel tepore dello stesso locale di lavorazione, detto “merce”, almeno sino al raggiungimento del cosiddetto stadio ceroso (ispessimento della crosta che vira dal bianco candido al giallo carico) evitando persino di tenere la porta aperta  più dello stretto necessario, ciò per evitare la cosiddetta intisciatura, termine mutuato dalla medicina popolare e che sta ad indicare la screpolatura delle forme, un po’ come avviene alle delicate mani dei bambini, se non adeguatamente protette, durante le fredde tramontane invernali.

Ciò che resta di un antico luogo di lavorazione dei formaggi, in una masseria salentina

Ma a conferire le particolari ben distinte e apprezzate caratteristiche organolettiche concorre anche l’inarrivabile sapidità dei pascoli salentini, sferzati dai salsi venti marini e soprattutto la specifica razza ovina.

Il Salento ha infatti una sua razza ovina autoctona, la Moscia Leccese, derivata dall’antico ceppo di razza asiatica, Siriana del Sanson, diffusa nei Balcani sino al Danubio. Le pecore di questa razza, distinguibili per la caratteristica faccia nera, sono di taglia piccola (30-40 kg.), poiché adattate da secoli alla povertà degli aridi pascoli salentini e a resistere all’intossicazione da fùmulu (Hypericum humifusum).

Hanno la caratteristica testa piccola dal muso allungato, mirabilmente adattato a brucare negli anfratti delle rocce, tra le pietre e soprattutto dagli irsuti cespi della gariga e della macchia mediterranea, da cui carni e latte traggono quel di più, indimenticabile, distinguibile anche da chi ha avuto la fortuna di assaporarli solo poche volte.

Queste pecore, riescono a sostentarsi persino brucando le distese di minuscole pratoline (Bellis perennis L.) che imbiancano in pieno inverno anche i più ingrati pascoli rocciosi del Salento, e a ricordarlo anche in questo caso è stato coniato un curioso adagio:

«Quandu esse lu fiuriceddhu,

no nd’hae male lu picurieddhu».

Oggi, purtroppo, le greggi costituite con ovini di questa pregiata razza sono molto poche (tanto che si teme per la sopravvivenza della razza) in quanto sostituite in modo improvvido e spesso ingiustificato con greggi di razza Sarda o Comisana e con greggi costituite da meticci ottenuti incrociando la Moscia con le pecore di razza Bergamasca, che hanno una mole molto maggiore e quindi una prevalente attitudine alla produzione di carne, Queste, sono di contro pessime lattifere e sono animali non ecocompatibili con il nostro ambiente e ovunque si pone lo sguardo, visitando la campagna salentina, sono visibili i danni provocati dalle fameliche fauci di queste bestie alle colture e all’ambiente.

su queste mensole poggiavano le assi di legno su cui si collocava il formaggio per la stagionaturapiano di lavoro per la preparazione del formaggio e mensole per l’appoggio delle assi di legno

Un settore, quello dello della zootecnia salentina, che sconta anni di diffuso disinteresse tanto della parte politica, quanto degli enti e delle associazioni di categoria, snobbato dall’imprenditoria locale che ha preferito esplorare modelli economici nuovi, privi di un retroterra culturale, anziché cavalcare le, collaudate, e perché no, prestigiose, antiche vocazioni agro pastorali del territorio. Con buon senso, si sarebbero potute richiedere le deroghe in materia sanitaria sulla scorta di quanto avvenuto in altri contesti o si sarebbe potuto pensare alla creazione di più razionali caseifici sociali. Quel che certo è che, nonostante tutto, quest’antica e nobile arte continua; ne scaturiscono comunque formaggi ricercati sia per le caratteristiche organolettiche sia per le nuove riconosciute proprietà nutrizionali proprie degli animali al pascolo quali: il basso contenuto di colesterolo, l’elevata presenza di principi antiossidanti e di acido linoleico coniugato, che nei derivati degli animali al pascolo è triplo rispetto a quello contenuto nei derivati degli animali tenuti in stalla.

ariete di proprietà dell’allevamento di Franco Cazzella (ph G. Tortorella)

E’ comunque anche vero che difficilmente potremo più gustare gli stessi formaggi di quando, arrivando per una strada polverosa alla masseria, sotto l’antico portico di conci a vista, si vedevano perfettamente allineate delle strane forme rinsecchite, simili a piccole otri, dall’aspetto repellente e inquietante, che venivano guardate dai visitatori occasionali con diffidenza. Erano gli abòmasi degli agnelli, salati e messi ad essiccare dagli stessi massari per produrre il caglio naturale, peraltro immortalati in un gustosissimo “cuntu” di Papa Cagliazzu.

Il pastore, rientrando con le greggi, portava una fascina di frasche selvatiche con cui alimentava il fuoco sotto il càccamo (caldaia di rame stagnata internamente che serviva per la cagliata). Il tutto avveniva in uno stesso ambiente, nella cosiddetta merce: preparazione, salatura con il sale marino, spesso raccolto direttamente dalle conche delle scogliere, e prima stagionatura sulle assi di legno imbiancate da decenni d’essudazioni saline; il tutto inalterato, come in un rituale che si ripete da centinaia d’anni.

In questi ambienti, di un candore abbacinante per le frequenti imbiancature a calce ma quasi asfittici, perché muniti spesso solo di anguste feritoie schermate da fitte reti, e sovente fumosi, i formaggi acquisivano un’ aroma particolare, forse anche una blanda affumicatura che conferiva quel di più, quel particolare…

E se è vero che le grandi specialità si ottengono con la riproduzione meticolosa di tanti piccoli dettagli, ho fondati motivi per ritenere che tali sapori appartengono purtroppo ormai inesorabilmente al passato.

 

 

 

 

 

Giudice Giorgio, regina delle masserie del neritino

di Marcello Gaballo

Il territorio del comune di Nardò è straordinariamente ricco di strutture masserizie, tra le più variegate per tipologia ed estensione rispetto ad altri territori a vocazione contadina del Salento e della Puglia.

Il territorio del secondo comune della provincia si affaccia sul mare, nel tratto di costa ionica di circa 22 Km. compreso tra Torre del Fiume e Punta Prosciutto, estendendosi per circa 2000 ha. anche nell’ interno, arrivando ad ovest sino al confine provinciale Lecce-Taranto.

Il suolo è pianeggiante con qualche ondulazione che, nella parte Sud, si eleva in collinette che fanno parte del sistema orografico delle Serre Salentine, propaggine delle Murge, abbassandosi con varia pendenza verso il mare.

Il cuore del territorio neritino è rappresentato dall’Arneo, che fino a qualche decennio addietro ha rappresentato la zona più importante dal punto di vista economico-agricolo, caratterizzata dal latifondo e dal bracciantato, il quale, nel primo e secondo dopoguerra, ha occupato buona parte di quelle fertili terre, con scontri sociali che hanno scritto le pagine più accorate della storia contemporanea del Salento.

L’ amenità dei luoghi e la fertilità dei terreni, un tempo occupati da foresta e macchia mediterranea, ha spinto i diversi proprietari a realizzarvi, nel corso dei secoli, insediamenti produttivi come le masserie, spesso fortificate per frequenza delle incursioni piratesche dalla costa.
Molte masserie dell’Arneo si impongono per la bellezza architettonica, la varietà delle tipologie, l’imponenza delle dimensioni, l’alto livello degli elementi fortificativi, il raccordo con le vie di comunicazione e la compiutezza delle espressioni collegate all’attività produttiva agricola e pastorale.
Fra tutte ritengo che una in particolare meriti il titolo di regina, la masseria Giudice Giorgio, una delle masserie strategicamente più importanti, sulla strada statale 164, Nardò-Avetrana (da secoli denominata strada tarantina, a circa 10 km dal centro abitato di Nardò.

la torre cinquecentesca

Caratterizzata dall’imponente torre cinquecentesca a pianta quadrata, a tre piani, dei quali l’inferiore, cui si accede attraverso un artistico portale bugnato, leggermente scarpato, fu adibito un tempo al deposito e alla lavorazione delle olive. È collegata a vista con le masserie Bovilli e Roto Galeta, che tuttavia non possono competere con essa in altezza e particolarità architettoniche.

Il pianterreno, voltato a botte ed assai più antico rispetto al resto, era collegato al primo piano da una scala a pioli  che portava alla scala in muratura impostata a circa

Arneotrek. Cronaca di un’escursione guidata

ph Mino Presicce – ripr. vietata

 Camminando per il Salento: il territorio dell’Arneo

di Mino Presicce

L’Arneo: vasto territorio posizionato nel cuore della penisola salentina, in passato scenario di sanguinose lotte contadine.

L’Arneo: terra di latifondi, distese immense di pascoli, uliveti, macchia mediterranea; territorio aspro, crudo, arido, rifugio di briganti.

L’Arneo: terra rossiccia, terra deserta, terra assetata.

Per chi ha la fortuna di esplorarlo, oggigiorno,  l’Arneo conserva ancora le cicatrici di un indelebile e triste passato. Quella fortuna noi l’abbiamo avuta e grazie all’abilità nonchè all’esperienza di Roberto (la nostra guida) in un caldo pomeriggio di luglio, abbiamo girovagato per una quindicina di chilometri, lungo i tortuosi sentieri dell’Arneo. Abbiamo visitato masserie, ville gentilizie, dimore signorili e incontrato, lungo il cammino, ruderi di antiche abitazioni, furnieddhi [1], vecchi pozzi per la raccolta dell’acqua piovana, torri colombaie, abbeveratoi per animali, ecc.

ph Mino Presicce – ripr. vietata

La nostra spedizione è partita da masseria Carignano Grande, in territorio di Nardò. Lo scenario che si presenta davanti ai nostri occhi è quello di un paesaggio in via d’estinzione: un impianto masserizio cinquecentesco con masseria fortificata (ben visibili ancora oggi le numerose caditoie lungo il perimetro della costruzione), ampio giardino con cisterne, chiesetta con campanile a vela e, poco distante, la torre colombaia. Già il primo impatto è

Libri/ Sangue di nemico

a cura di Stefano Donno

L’occupazione dell’Arneo – vasto territorio posto all’estremità nord-occidentale della provincia di Lecce, caratterizzato da macchia mediterranea e pascoli – segnò la storia salentina negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. La sollevazione popolare fu repressa dalle forze dell’ordine ma rappresentò comunque un’importante presa di coscienza per i braccianti, le cui condizioni di vita fanno da sfondo a questo romanzo corale ambientato a Monteroni, piccolo paese del Salento.
Nucleo della narrazione è la storia del diciannovenne Alfredo, figlio di Enrico, calzolaio, e del suo amore per la coetanea Maria, costretta a condividere con la madre le fatiche dei campi. Entrambi sono protagonisti in un Salento all’apparenza immobile e lontano come un lembo di terra dimenticato nell’estremo sud, ma traboccante di varietà umane e personaggi genuini che ne fondano un’identità unica e irripetibile.
Intorno all’amore di Alfredo e Maria è tutto un paese a muoversi e commentare i tempi e le vicende private, in un’epoca di confine tra il vecchio e il nuovo che si contende tra i pettegolezzi dei signori in piazza seduti attorno al solito mazzo di carte e la laboriosità inesauribile degli artigiani nelle botteghe, la religiosità delle perpetue a messa e la crudezza del lavoro nei campi di tabacco, la nascita di una grande fabbrica di scarpe pronta a stravolgere

L’opulenza tentatrice della macchia d’Arneo

SALENTO FINE OTTOCENTO

 L’OPULENZA TENTATRICE DELLA MACCHIA D’ARNEO

e l’ammirevole industriosità degli uomini salentini

 

L’OSSE SARTARIEDDHRE

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Inoltrandosi nella macchia d’Arneo, i contadini correvano il rischio di soggiacere a una contaminazione di libertà preistoriche, poiché nel sollecito allettante di quella natura primordiale, irruente nella sua proliferazione e così opulenta nella spontaneità dell’offerta, ognuno si sentiva novello Adamo in un lembo di Eden e quasi per un processo logico di immedesimazione era spinto ad affermare un suo diritto non soltanto sul mondo vegetale ma anche sulle presenze animali che lo circondavano. Mettere nel sacco insieme ai pampasciùni (vampagioli) anche l’inerme leprotto scoperto nella tana era un impulso irresistibile, anche perché in quel momento si scaricava tutto un complesso di privazioni e negazioni quotidiane, facendo sì che l’appropriazione, in sé stessa occasionale, assurgesse a referente convenzionale di una ribellione dalle assonanze ataviche. Di fronte a tutto quel ben di Dio che sembrava ribadire il concetto di una provvidenza destinata a tutti indiscriminatamente, più netto balzava il contrasto della sofferta miseria, e l’avidità che ne scaturiva la si doveva tanto all’inventario dei bisogni privati quanto alla mortificazione di una coscienza collettiva.

Come potevano i contadini, che mangiavano la carne solo nelle feste comandate – peraltro riducibili a Natale, Pasqua, Carnevale, San Martino e la ricorrenza del Santo patrono -, rimanere indifferenti di fronte allo sbucare ti nna milògna (di un tasso), la cui carne aveva sapore di porcellino lattante? La conflittualità fra lecito e proibito veniva naturalmente a cadere, assorbita da quel momento di fortuna che, se pure prefigurato nel desiderio, nasceva ugualmente inaspettato e quindi assumeva i contorni superstiziosi di una predestinazione. Né suonava improprio o esagerato pensarla in tali termini, giacché tornare a casa con una lepre, un coniglio selvatico, un tasso, un istrice, o sia pure semplicemente un riccio, equivaleva non soltanto a celebrare una festa fuori calendario, ma anche ad assicurarsi un provento extra: al di là dello scialo familiare, permesso e costituito dalla carne, di ogni preda, per povera che fosse, l’industriosità contadina ricavava un qualche profitto, sia in termini prettamente commerciali, sia come elementi idonei a

Un passato rivoluzionario

per gentile concessione di Franco Cavallo

di Alessio Palumbo

In questi giorni, le notizie e le immagini sulle rivolte nel nord Africa rimbalzano da una testata all’altra, da un’emittente all’altra. Si tratta di proteste, manifestazioni e scontri legati spesso alla miseria, al bisogno di pane e diritti. Storie lontane, di paesi lontani? Non proprio.

Anche il Salento, insieme ad altre zone del paese, ha vissuto infatti periodi di ribellione spontanea, legata alla fame, al bisogno di terra, pane e lavoro.

Siamo nella seconda metà degli anni ’40. In un paese da poco emancipatosi dalla dittatura fascista, devastato dalla guerra e ridotto alla fame, tra le masse contadine si diffonde un forte sentimento di rivalsa. La Terra d’Otranto vive a pieno questi fermenti.

Contadini e tabacchine scioperano contro la povertà, l’assenza di lavoro, il caro viveri. Invocano l’applicazione delle leggi Gullo e delle leggi stralcio per la concessione delle terre incolte ai proletari. L’opposizione degli agrari, spesso appoggiati dalle autorità democristiane e  dalle forze dell’ordine, le lungaggini burocratiche, l’operato delle commissioni filo-padronali frustrano queste richieste. I braccianti sono costretti a rivendicare i propri diritti con la forza, occupando le campagne.

Già nel 1945 numerose manifestazioni, per il rispetto dei patti colonici e la revisione dei rapporti agrari, si svolgono in vari paesi della provincia di Lecce. La tensione nelle campagne salentine cresce, soprattutto con il ritorno dei reduci. Le donne non sono da meno, anzi! Spesso sono le tabacchine ad inscenare le manifestazioni più vigorose.

Dal 1947 gli scioperi si fanno più duri e frequenti; di conseguenza non mancano le prime vittime. A Campi Salentina la polizia spara sui manifestanti; a Lizzanello, nel corso di un comizio comunista, viene lanciata una bomba tra la folla.

Nel 1949, infine, spinti dall’esempio di analoghe proteste nazionali e dall’insostenibilità della situazione locale, i contadini si lanciano in una prova di forza. Occupano l’Arneo: un grosso bubbone di terre, spesso abbandonate, all’incrocio delle tre province che formavano il Salento. Le autorità trattano, ma, a fine gennaio ’49, sui 42.000 ettari che compongono l’Arneo (28.000 dei quali di proprietà dell’allora senatore Tamborino) solo

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