Seclì e un suo figlio dimenticato del secolo XVII

di Armando Polito

La vita è molto strana. È toccato proprio a me, laico fino a tal punto da considerare tutte le religioni come favolette consolatorie e illusioni nemmeno tanto pie, viste le guerre che ancora oggi scatenano, di imbattermi casualmente nel personaggio genericamente evocato dal titolo ma che ora specifico appartenere alla sfera ecclesiastica. Nello sfruttare per ricerche di altro tipo le immense risorse della rete ho acquisito un dato che ho ritenuto meritevole di essere partecipato ad altri. Forse qualcuno ha colto in quel dimenticato del titolo una nota di rimprovero. Non è così, ho solo voluto approfittare di una fortuita quanto fortunata circostanza per colmare una lacuna  che nella ricostruzione del passato è sovente legata alla maggiore o minore importanza, reale o presunta, attribuita ad un personaggio, concetto che ribadirò nella domanda finale.

Se, infatti, sono ben note le figure di altri figli di Seclì del XVII secolo, quali Padre Francesco e Suor Chiara1, di Padre Marcellino nulla sapremmo se non fosse possibile leggere la sua biografia in un libro  del 17322, che è, credo, l’unica fonte per chi abbia voglia e tempo di saperne di più. Anzi, alla riproduzione del frontespizio faccio seguire quella delle poche pagine coinvolte (184-186).

Abbastanza scontato è il repertorio di dettagli che ne esaltano le virtù e, purtroppo, l’unica data riportata è quella della morte avvenuta il 26 ottobre 1702 all’età di 65 anni, dato che consente di collocarne la nascita al 1637.  ll titolo Venerabile Servo di Dio che si legge all’inizio fa pensare ad un processo canonico di beatificazione già avviato. Se è legittimo pensare che alla data del libro non si fosse concluso, sarebbe interessante conoscerne l’esito. A costo di essere accusato di maliziose allusioni chiudo lasciando al lettore l’adesione, la contestazione o l’indifferenza che suscita la domanda: se Padre Marcellino avesse pubblicato qualcosa, avrebbe avuto la notorietà di Padre Francesco e, se fosse disceso da nobili lombi, la sua biografia avrebbe avuto l’estensione di quella di Suor Chiara, scritta in ben quattro tomi (di seguito il frontespizio del primo) da Francesco Maria Severino (de’ Duchi di Seclì, Conte di Tamarano, come si legge nella dedica)?

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1 Il primo (1585-1672), teologo, fu autore molto prolifico:

Paragone spirituale, Giacomo Gaidone, Bari 1634

Viaggio di Gierusalemme nel quale si have minuta, e distinta notitia delli Santi Luoghi, Pietro Micheli, Lecce, 1639

Discorso, e conchiusione, che la religione futura de’ catenati profetizzata dal padre frat’Ugone da Dina, e la congregatione futura de’ Cruciferi di Giesu Cristo, profetizzata da Santo Francesco da Paola, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Regola e vita, che denno osseruare li fratelli della congregatione de’ catenati nouellamente eretta nella diuotissima citta di Gallipoli, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Paradiso terrestre del molto reuerendo padre fra Francesco da Secli. Trattato breue, non men dottrinale, che curioso, nel quale si proua con autorita, che detto luogo durera sino al giorno del Giudicio, e che hoggi e nell’istesso essere, mel quale in principio fu piantato dal mistico agricoltore, Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1671

Suor Chiara (1618-1693), al secolo Isabella D’Amato, era figlia del duca Francesco e della marchesa Caterina D’Acugno, feudatari di Seclì e Temerano.

2 Arcangelo da Montesarchio, Cronistoria della riformata provincia di S. Angiolo in Puglia, Mosca, Napoli, 1732.

Seclì: il suo abitante si chiama “seclioto”?

di Armando Polito

 

Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.

Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.

Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.

Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.

Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).     

Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …,  è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).

Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.

Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?

A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.

Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.

È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.

Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate  e corrette alternative.

Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù

Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν  (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo Syllabus Graecarum membranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.

Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro. 

Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).  

Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.

Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).

Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.

Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.

Antonio Oliviero, il bombardiere di San Cataldo

di Armando Polito

Quante volte in tv abbiamo sentito dire Non faccio il nome … , in ossequio al detto Si dice il peccato, non il peccatore! Si tratta di pura vigliaccheria, anche perché, se hai prove inconfutabili, nessuno avrà interesse a querelarti; se non le hai, fai una figura migliore non nominando neppure il peccato. Lo stesso vale quando, soprattutto i politici, fanno a gara a sparare all’impazzata dati figli di nessuna fonte che non sia quella del loro truffaldino intento di ottenere consenso.  Con questo mio post, allora, mostro di essere coraggioso oppure  incosciente ?

Né l’una né l’altra cosa, anche perché ho scritto bombardiere, non bombarolo. Quest’ultimo vocabolo negli anni ’70 ha etichettato colui che compiva attentati con esplosivi, ma dalle nostre parti designava da tempi notevolmente anteriori colui che esercitava la pesca di frodo utilizzando lo stesso strumento di distruzione e morte, anche se in quantità ridotta1.

Antonio, dunque, non era un bombarolo, anche se il toponimo che lo accompagna nel titolo si riferisce, come ben sanno non solo i Salentini, ad una località di mare ove in passato sorgeva un castello2, fabbrica che per la sua natuta militare era particolarmente esposta a rischi di assalto. Non mi risulta nemmeno che si sia reso protagonista di atti vandalici ai danni di qualche icona o statua del santo. Eppure, il nostro con l’esplosivo aveva dimestichezza per motivi professionali e ne ho le prove.

Esibisco, per non far perdere ulteriore tempo a chi finora mi ha seguito per sana (almeno, mi auguro …) curiosità non la pistola, ma la bombarda fumante (fonte: una relazione manoscritta di ben 334 fogli, parecchi dei quali, per mia fortuna bianchi …, contenente un quadro completo della fiscalità del regno di Napoli per l’anno 1571, custodita nella Biblioteca Nazionale di Spagna e per me oggetto da pochi giorni di famelica attenzione, nel senso che, se non avessi famiglia, per lei salterei volentieri qualche pranzo e qualche cena.

 c 74v (dettaglio)

in la terra di san cataldo ala marina de leccie

Al Castellano per sua provisione ducati 120

al vice Castellano ducati 36

a tre compagni, a ducati tre lo mese per ciascuno ducati 108

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                                                                                        ducati 264                   

Al mastro antonio oliviero bombardiero deputato per lo illustrissimo signor vicere inla torre di san catalde con provisione di scuti quatro lo mese ducati 124

Le immagini di chiusura sono tratte da Luigi Colliado3, Pratica manuale di arteglieria, Dusinelli, Venezia, 1586. La prima mostra  la tecnica di sollevamento per rendere operativa la bombarda su una torre,  la seconda la traiettoria  parabolica del suo colpo.

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1 A confermare la protervia umana nel perseverare a soddisfare il primitivo istinto di violenza, che nelle cosiddette bestie si è mantenuto entro i limiti naturali della sopravvivenza e della difesa, basterebbe considerare tutti i figli di quella radice onomatopeica che ha generato un’ampia serie lessicale che annovera, per restare al tema di oggi, bomba, bombo, bombicebombola, bombolone e l’insospettabile salentino ‘mbile (per quest’ultimo e i suoi rapporti con le voci italiane appena citate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/ e  https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/17/dialetti-salentini-mbile-approfondimento-etimologico/). Una riflessione diacronica sulle voci con specializzazione bellica ci mostrano obsoleta la sola bombarda, mentre bombardiere si avvia rapidamente ad esserlo con l’avvento dei droni, mentre bombardamento è più che mai vivo e vegeto nonostante le postazioni missilistiche abbiano da molto tempo preso il posto delle bombarde (non si finisce mai di peggiorare …). Confortiamoci pensando che le graziose bombolette spruzzanti  di tutto (dalle vernici ai deodoranti e agli anestetici), grazie all’adozione di propellenti ecologici, ci terranno compagnia e che bomboloni e bombette continueranno a deliziarci il palato.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/27/lecce-il-giallo-del-castello-di-s-cataldo/

3 Come si legge nel frontespizio,  Ingegnere del Real Essercito di sua Maestà Cattolica in Italia.

Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

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1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

Lecce: il giallo del Castello di S. Cataldo

di Armando Polito

Chi si attende una storia di fantasmi e simili, magari con contorno di  fattucchiere, magiche pozioni e sangue umano e non a volontà è solo un allocco che si è lasciato incantare dal titolo e probabilmente non proseguirà nella lettura. Per tutti gli altri preciso che il colore nominato nel titolo riguarda solo la fine che fece il castello del quale mi sono già occupato per altri motivi1.

Riproduco dal secondo link indicato in nota quella che probabilmente è l’immagine più antica (seconda metà del XV secolo) del nostro castello.

 

Rimane, tuttavia, incerta la sua data di nascita, proprio come quella della sua morte, che è il giallo di cui sopra. Già qualche anno fa, nel post segnalato col primo link in nota 1, avevo riportato che in Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Tale informazione, però, aggiungo oggi, era già comparsa, con le stesse parole e virgole, in Rita Auriemma, Salentum a salo: porti, approdi, rotte e scambi lungo la costa adriatica del Salento, Congedso, Galatina, 2001, p. 156.

Andando, poi, a ritroso nella clonazione (altrimenti non so definirla), si giunge a quello che sembra essere l’originale , che, sempre nella forma già riportata, è in Francesco D’Andria, Lecce romana e il suo teatro, Congedo, Galatina, 1999, p. 119.

Ad ogni buon conto, ed è questa la cosa più eclatante, considerando lo spessore degli autori citati, senza ombrta di fonte.

Noto preliminarmente che il toponimo, unito ad un simbolo inequivocabile,  risulta presente nel foglio 31 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni pubblicato a Napoli dal 1808.

 

E le carte successive? Debbo ad un competente ed assiduo frequentatore di questo blog, che nei suoi gratificanti commenti si firma DrAnvilon, la volontà di approfondire la questione, grazie ad una mappa (Terra d’Otranto, Napoli, 1851 Eseguita sotto la direzione dell’autore B. Marzolla), della quale qualche giorno prima mi aveva fatto pervenire un ritaglio, del quale l’immagine che di seguito riproduco è un dettaglio, pensanco che potesse tornarmi utile per qualche eventuale post di interesse storico-geografico.  E questa è la prima occasione che mi si è presentata. Dal dettaglio si direbbe che alla data del 1851 il castello fosse ancora in piedi.

 

Non è finita, perché in un’altra carta, reperita in rete, dello stesso autore e datata 1859, dalla quale ho tratto il dettaglio che segue, nulla, in riferimento all’oggetto di questa indagine, appare cambiato.

 

Antonio Rizzi Zannoni e Benedetto Mazzolla furono cartografi ufficialmente al servizio del regno e, se per il la carta del primo la data del 1808 attribuita per prudenza al foglio risulta compatibile col  citato distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo, lo stesso non può certamente dirsi per le date delle due carte del Mazzolla. Mi pare poco probabile, anche perché non si tratta di mappe storiche che Castello S. Cataldo stia ad indicare solo un mucchio di rovine o che Castello sia da intendersi come Faro, ipotesi, questa, inaccettabile se si pensa che l’attuale faro alla data del 1865 era ancora allo stadio progettuale. E così il giallo del titolo per la soluzione attende un investigatore che non sia quella schiappa del sottoscritto.

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https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

Dialetti salentini: ‘mbile (approfondimento etimologico)

di Armando Polito

Del tema mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/, ma a distanza di più di dieci anni lo riprendo, per una più precisa e  completa documentazione delle fonti. Non è necessario a chi ha interesse a leggermi sfruttare il link appena segnalato, anche perché le osservazioni più salienti di allora risultano qui imglobate.

Secondo il Rohlfs (e questo non l’avevo riportato) ‘mbile deriva dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo  quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di carattere semantico superabile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari.

Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta).

Ulteriore contributo è dato da un altro glossario (Περὶ τὸ  ἰδιωτικοῦ βίου τῶν ἀρχαίων Ἐλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: βομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦν ἐν χρήσει  παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ  ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo un bicchiere dalla bocca molto stretta. Con questo l’acqua  passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La  βομβύλη infatti somigliava alla  βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).

Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbile (aferesi; nel Tarantino è in uso  la variante, con assimilazione mb->mm-, ‘mmile e il alcune zone del Leccese e del Brindisino vummile, con il normalissimo passaggio b->v– e la già ricordata assimilazione). Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un ipotetico intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.

Nicola Cacudi (Monteroni di Lecce, 26/6/1882-Bari, 8/7/ 1963), da Monteroni di Lecce a Parigi, passando per Bari: appunti per una biografia

di Armando Polito

Di Nicola Cacudi mi sono già occupato su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/) quasi dieci anni fa e, a distanza di tanto tempo, il caso, come già allora, mi ha offerto il destro per un’integrazione di quel lavoro tutto incentrato su una testimonianza sonora. Non sarebbe successo se non mi fossi imbattuto, oziando sul web, in un’affermazione pomposa, come sa esserlo la pubblicità, che mi è apparsa lesiva della verità, anche storic ed ho sentito perciò il bisogno di applicare il principio dell’unicuique suum o del dare, in questo caso restituire, a Cesare, anzi a Nicola, quel che è, forse, di Nicola. In https://journals.openedition.org/studifrancesi/ si legge: “Studi francesi”  fondata da Franco Simone nel 1957, è la più antica e prestigiosa rivista italiana di studi sulla letteratura francese. Pubblica studi storici e critici, testi e documenti inediti finalizzati a una conoscenza sempre più approfondita della civiltà letteraria francese e al rinnovamento delle prospettive critiche.

Non giungo ad affermare che la  Rassegna di studi francesi, fondata e diretta da Nicola dal 1923 al 1940, trimestrale il primo anno, bimestrale nei successivi, organo della sezione pugliese dell’Union  intellectuelle franco-italienne di Parigi, che si avvalse della collaborazione di illustri letterati, filologi e critici italiani e stranieri, abbia tout court  il diritto di vedersi rivendicare, da me poi …, un prestigio, se non maggiore, almeno pari e non affermo nemmeno che essa è la più antica, ma è incontrovertibile che è più antica di Studi francesi.

Archiviato questo dettaglio non indotto, come ben sa chi mi conosce, da risentimenti di natura campanilistica in senso estensivo, continuo con altre testimonianze ed immagini, quasi un quaderno di appunti utili, credo, per chi vorrà cimentarsi in un lavoro ben più colplesso, qual è quello evocato dall’ultima parola del titolo.

Per una ricostruzione della sua carriera:

Bollettino periodico settimanale del Ministero dell’educazione nazionale, anno XV, n. 10, 11 marzo 1937, p. 603 (Dall’Elenco dei professori idonei all’ufficio di preside dei Regi Istituti di istruzione media classica, scientifica e magistrale dal 16 settembre 1936 al 15 settembre 1937Idonei all’ufficio di preside nei regi ginnasi.

Nel n. 20 del 20 maggio 1937 dello stesso bollettino a p. 1333 (Dalla Relazioine della commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario alla cattedra di lingua e letteratura francese del Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia (sezione filologica):

Mi lascia perplesso in questo giudizio, che sostanzialmente è una stroncatura, quel possesso pratico della lingua (avrà saputo usare merde! al momento opportuno?) e ancor più quel difetto di spirito critico sia gli smilzi saggi con quel che segue, quasi a confermare il triste nemo propheta in patria, vista la considerazione di cui Nicola godeva proprio nella patria degli autori che, secondo il parere della commissione, aveva trattato smilzamente.1 Come dire, ribaltando la trita locuzione di cui sono intrisi i muri di tutte le aule scolastiche  il ragazzo s’impegna ma non è intelligente

Tornando cronologicamente indietro, ecco il primo contatto di Nicola con Parigi (diploma di studi universitari rilasciato dalla Sorbona). Nell’elenco gli unici cognomi italiani sembrano essere il suo e quello di M. Ungarelli. Da Le matin del 4/6/1914:

La tappa successiva, dieci anni dopo, da Le Petit Comtois  del 18 giugno 1924

(COMUNICATI DIVERSI Facoltà di Lettere- Discussione di tesi. Il signor Cacudi, direttore degli studi francesi a Bari (Italia), discuterà, lunedì 23 giugno 1924, alle ore 11, 30, una tesi in vista del dottorato dell’Università di Besançon. La tesi ha per titolo: “La Fontaine imitateur de B occace”. Questa discussione avrà luogo nell’aula magna della facoltà di Lettere, in via Mégrevand)

E, dopo quasi vent’anni dai primi passi registrati nell’articolo del 1914, a ruoli questa volta invertiti, da Lèclair Comtois del 5/8/1932

(RICEVIMENTO DEGLI ALUNNI STRANIERI DAGLI ALUNNI DI BESANÇON

Giovedì pomeriggio, alle ore 16, nei pressi della sede dei nostri alunni in via Laconée, presentavano una vivace e gioiosa animazione gli alunni di Besançon, con la loro cortesia e la loro amabilità consueta, ricevendo degli alunni stranieri venuti per seguire i corsi estivi delle nostre facoltà. Numerose personalità erano presenti a questa manifestazione che fu tanto affascinante quanto cordiale. Si distinguevano in particolare i Signori: Van Daèle, decano di Lettere, vicepresidente dell’Istituto di Lingua e Civiltà francesi; Maugras, direttore dei corsi; Seignier, segretario delle facoltà; Fournaud, presidente dell’assemblea; Vercier, tesoriere; Piquet, Gallot, Dupré, Cacudi, Beckér, Nicolas, professori …)

Per l’anno successivo, , da  Dépêche républicaine del 28/7/1933

(Besançon. Il signor Cacudi, anche nostro ex allievo, dottore della nostra Università, fondatore e direttore della rivista franco-italiana “Rassegna di studi francesi”, che è al suo decimo anno di vita prospera e conta numerosi lettori in tutti i paesi, il signor Cacudi terrà anche in agosto , come gli anni precedenti, lezioni sempre godibilissime sulla letteratura francese).

Seguono ora le immagini relative alle pubblicazioni, a cominciare da l n. 1 dell’anno XV (1936) della rivista da lui fondata e diretta (come si legge nel sommario, alle pp. 30-46 uno dei suoi abituali contributi).

Tra le sue pubblicazioni alle quali la commissione giudicatrice di cui sopra applicò,  non senza ombra di supponente disprezzo,  l’etichetta di scolastiche (come se un testo destinato ai giovani fosse a priri meno pregevole di un saggio destinato, forse, ad essere letto solo dai non più giovani), spicca quel corso di francese, precoce applicazione del metodo globale (soppiantato solo decenni dopo da quello fonetico), tutt’altro che spregevole, come inequivocabilmente dimostra l’elevatissimo  numero di edizioni2; di seguito quella del 1957 con dedica alla moglie Maria  (A Te, Maria, che il mio insonne lavoro sorreggesti sempre col Tuo sereno profondo amore ed oggi conforti e illumini con la luce del Tuo Spirito eletto).

Delle altre innumerevoli pubblicazioni3 riproduco per brevità solo due frontespizi:

Dieci anni fa, col post all’inizio segnalato, ho potuto ascoltare e far ascoltare la voce di Nicola Cacudi e di sua moglie Maria nella registrazione datata 17/3/1914 (25 anni Maria, 31 Nicola), oggi di Nicola sappiamo qualcosa in più sulla sua carriera, sull’impegno culturale e sulla produzione letteraria, ma non abbiamo nulla che ci restituisca il suo aspetto fisico, anche se per gli uomini di un certo livello (tra gli andati e tra chi, almeno per ora, resta …) questo conta poco. Non so se avrò il tempo di colmare questa lacuna, ma lascio, comunque, una traccia.

Dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, a. 107° n. 22 del 7/9/1966:

Non sarebbe bello se da Bari, che a Nicola ha intitolato una via,qualche volenteroso desse notizia, dopo averla acquisita sul campo, e dei 1502 volumi e del ritratto ad olio?

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1 La commissione era composta da Giulio Bertoni (vedi i8l penultimo dato della nota successiva)  della R. Università di Roma (Presidente), Luigi Sorrento dell’Università cattolica<di Milano, Alfredo Schiaffini della R. Università di Genova, Carlo Pellegrini della R. Università di Firenze e Francesco Picco della R. Università di Genova. Il concorso fu vinto da Italo Siciliano, mentre Nicola Cacudi si piazzò al sesto posto su nove concorrenti.

2 Oltre ai saggi nella Rassegna:

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie. Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1932

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1938

Nuovo metodo di lingua francese : fonetica, letture, morfologia, sintassi, lingua : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1946

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico completo per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1955 

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1957 

 Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordin e grado, Tipografia Resta, Bari, 1960

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordine e grado, Resta, Bari, 1964

3 Alfred De Musset e I suoi canti di dolore, Tipografia A. Trani, 1905

La quistione del metodo nell’insegnamento delle lingue moderne, Paravia & c., Torino, 1906

La révolution au pensionnat: pièce en un acte pour les enfants, Paravia & c., Torino, 1906

La coniugazione dei verbi francesi. Studio analitico per le scuole medie, con l’aggiunta di un dizionarietto dei verbi irregolari, Paravia, Torino, 1907

Le verbe francais dans la proposition et la periode, a l’usage Des ecoles superieures d’Italie, E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910

Psychologie de deux ames [W. Goethe et H. Foscolo], E. Pantaleo & C., Torre del Greco 1910

Impressions de lecture, Tipografia E. Capelli, Rimini, 1913

La Fontaine imitateur de Boccace, Accolti, Bari, 1924

Alphonse de Lamartine Graziella, Le Monnier, Firenze, 1924, 1931, 1938 e 1964

Molière,  L’avaro, Le Monnier, Firenze, 1926 e 1927

Spunti letterari, Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Gabriel Faure, Autunno, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Il nuovo progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti : testo definitivo approvato a Parigi nell’ottobre 1927, anno VI, Società Editrice Tipografica, Bari, 1936

Alexandre Dumas fils. Les idées de madame Aubray, comédie en quatre actes, en prose, Adriatica Editrice, Bari, 1949

Un innamorato dell’Italia: Gabriel Faure, Alfredo Cressa, Bari, 1952

La Biblioteca Estense Universitaria di Modena custodisce (Carerteggio Bertoni, fascicolo Nicola Cacudi) una lettera inviata Il 2/12/1934 da Nicola Cacudi a Giulio Bertoni.

La Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti Volpi di Bari custodisce (Epistolario Fiore, lettera n. 082) inviata  a Nicola Cacudi il 20/6/1950

Il Salento e la sua viabilità principale in tre mappe ottocentesche

di Armando Polito

È scontato il fatto che in una mappa l’abbondanza, la dimensione e la leggibilità dei dettagli sono legati alla seconda cifra del rapporto scalare: quanto più esso è alto, tanto meno la mappa risulta dettagliata. Quelle prese in considerazione solo in una scala che rende impossibile qui una loro riproduzione che sia leggibile, per cui per ognuna di loro all’immagine ridotta seguirà un primo dettaglio relativo alle tre provincie di Terra d’Otranto ed un secondo riguardante il circondario di Nardò.

La prima, dal titolo  Atlante del Regno di Napoli ridotto in 6 fogli per ordine di Sua Maestà Giuseppe Napoleone re di Napoli e Sicilia. L’opera, di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (disgno di Alessandro d’Anna), risalente a data probabilmente non successiva al 1807,  anticipa quella più nota, dello stesso autore, in 31 fogli e con lo stesso dedicatario, la cui pubblicazione iniziò, sempre a Napoli, nel 1808 e terminò nel 1812.

La seconda, pubblicata da Basset a Parigi nel 1822, è di Pierre Lapie.

La terza mappa è, addirittura, in scala 1: 563.000 e questo dato tradisce la sua origine militare. Essa, infatti, è uno dei 21 fogli  (disposti 3 in latitudine e sette in longitudine) disegnati e pubblicati nel 1829 a Vienna dal colonnello austriaco Franz von Weiss (1791-1858).

L’insieme dei fogli occupa una superficie di circa sei m2 e questo fa intuire che anche il foglio che ci riguarda ha dimensioni notevoli, tanto che la sua immagine digitale è un file di oltre 54 MB!. Per questa sua caratteristica sono stato costretto qui a riprodurre il foglio in dimensione ridotta compatibile con quella supportata dal blog, ma ho aggiunto, leggibile, il dettaglio relativo a Nardò ed al suo circondario.

Dialetti salentini … e non solo: pignata o pignatta?

 

di Armando Polito

Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta). Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne. Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato  nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni,  sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.

Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella  la data più antica conosciuta  al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima. Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.

Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò,  il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.

Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).

Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2

Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari  quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.  

(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)

Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).

E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de II Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.

Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però,  risulta presente  nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).

Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio  al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato,  pignata.

E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo  e il polpo, tutti, appunto, a pignatu.

Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …

Nardò: Vora, un toponimo perduto?

di Armando Polito

È destino comune a tutti i toponimi di subire le cosiddette ingiurie del tempo, ma anche in questo caso i pesi e le misure non sempre sono equi. C’è, infatti, quello che si è conservato tale e quale (Roma), quello che è rimasto vittima di mutamenti fonetici più o meno imponenti, ma non tali da renderlo irriconoscibile almeno agli studiosi (Nardò da Neretum, Lecce da Lupiae), quello che già in tempi antichi ha cambiato veste solo parzialmente (Benevento è da Benventum, che prima aveva sostituito Maleventum), quello che, infime (ma la casistica non finisce qui) , è stato soppiantato da un concorrente non sempre sponsorizzato dalla damnatio memoriae.

Credo che nell’elenco già sterminato e che il tempo puntualmente rimpolperà potrebbe essere inserito il Vora del titolo. Per dimostrarlo mi avvarrò inizialmente dello strumento più suggestivo per il suo impatto immediato e che oggi detta legge: l’immagine. Nessuno, però, si aspetta di vedere non dico miniature tratte da qualche manoscritto ma semplici ingiallite foto d’epoca, che molto probabilmente non verranno mai  alla luce, anche perché il fenomeno naturale, più precisamente geologico, in questione è molto diffuso nel nostro territorio, ricco di spunnulate1 e inghiottitoi e la normalità non ha mai fatto notizia, salvo, negli ultimi tempi, quella del male …

I documenti che mi accingo a presentare documenti hanno la loro bella età e, pensando agli strumenti della cartografia moderna tra i quali spiccano le immagini satellitari che ne consentono, volendo, un aggiornamento in tempo reale di un paesaggio globalmente soggetto, ormai, a rapidi cambiamenti, le tavole che riproduco in ordine cronologico e seguite dal dettaglio che ci interessa opportunamente ingrandito.  fanno tenerezza.

Asciugata la lacrimuccia, comincio con la prima, che è Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia La prima è di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), pubblicata postuma dal figlio Fabio a Bologna nel 1620, con dedica, come si legge nel cartiglio in basso al centro, All’Ill.mo Sig.re, et Pron2. Coll. mo3 Ludovico Magnani dell’habito4 di S.to  Jago.

 

Ho evidenziato con la sottolineatura tre topomimi. A nord dI Nardò si legge Vora, alla destra di un simbolo inequivocabile, come altrettanto inequivocabile ai fini dell’identificazione è come riferimento posizionale Logliastro5. La posizione corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato ufficialmente Vora del Parlatano6, da sempre nota al popolo col nome di Ora ti li Culucci (dalla masseria Colucci, in prossimità della quale si trova).

Un nome comune, dunque, (vora) qui sembrerebbe diventato per antonomasia un toponimo, cioè un nome proprio. Tale dettaglio, insieme con le dimensioni del simbolo in rapporto alle proporzioni scalari e con la constatazione che le altre numerosissime vore presenti nella tavola sono rappresentate col solo simbolo (con la sola eccezione di un altro Vora che si legge accanto al simbolo a nord ovest di Casalnuovo, l’odierna Manduria), sottolinea  la fama che da sempre questo inghiottitoio ha avuto, tanto da dar vita ad una similitudine popolare nell’espressione mi pari l’ora ti li Culucci (mi sembri la vora dei Colucci), con la quale viene stigmatizzata la voracità di qualcuno che pare inghiottire il cibo senza masticarlo.

E io, che di ghiottonerie linguistiche vado pazzo, posso perdere l’occasione di aprire una breve parentesi di dilettantesca (mi auguro dilettevole per qualche lettore) filologia? L’ora dell’espressione  appena riportata nasce da vora con aferesi  della v, fenomeno più che usuale nel nostro dialetto (valere>alire, vedere>itire; vincere>incìre; voce>oce, etc. etc.). Per le ulteriori considerazioni rinvio alla nota (altrimenti, dove starebbe la brevità della parentesi? …).7

Siamo ora alla seconda tavola: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Jean Blaeu pubblicata ad Amsterdam nel 1648.

Nel cartiglio in basso a  sinistra si legge (il lettore potrà farlo agevolmente con l’immagine che segue) la dedica, sulla quale mi soffermo perché riguarda direttamente Nardò:  ll.mo ac Rev.mo Domino D. FABIO CHISIO  Episcop. Neritonensi, S.mi   D. PP. Innocentii  X, ad tractum Rheni et Infer. Germ. partes, Ordinario, nec  non, ad tractatus generalis pacis Munasterii, extraordinario, cum potestate de latere Legati, Nuncio, Patrono suo colendiss.mo , D. D. D. Joh. Blaeu (All’illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Fabio Chigi, Nunzio Ordinario del Santissimo Divino Pontefice Innocenzo X presso il tratto del Reno e le parti inferiori della Germania, nonché straordinario con potestà di legato a latere per i trattati di pace di Münste, suo padrone onorabilissimo  Giovanni Blaeu diede dedicò in dono).

 

Mentre per Fabio Chigi rinvio a quanto indicato in nota 8, ricordo che il Blaeu (per par condicio …) dedicò un’altra sua tavola (Civitas Neritonensis vulgo Nardo) a Girolamo Acquaviva d’Aragona duca di Nardò.

Riprendendo l’esame già iniziato della mappa faccio notare come il titolo sembra plagiato dal Magini, il che non lascia presagire alcuna novità, per quanto in questo tipo di rappresentazione esse siano per natura rare. E infatti …

 

È la volta della terza: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Gerard Valck, pubblicata ad Amsterdam fra il 1670 e il 1690. Anche per questa valgono le considerazioni di scarsa originalità, al meno nel titolo …,  fatte per la precedente.

 

L’osservazione riguardante, comunque, le caratteristiche dimensionale del simbolo, non fa escludere, a mio parere, che esso fosse connesso con il sistema di inghiottitoi di cui il Parlatano fa parte e che, perciò, il avesse una funzione di rappresentazione collettiva. È, infatti difficile immaginare che il sito, fra l’altro ancora oggi non eccessivamente antropizzato, abbia subito uno stravolgimento del suo aspetto e, in particolare, una riduzione della bocca del Parlatano.

È probabile, invece, che in breve tempo il toponimo Vora abbia perse la sua importanza, tant’è che esso è assente nella tavola che il De Rossi pubblicò presso la sua Stamperia alla Pace a Roma nel 1714, nonostante nel cartiglio si legga PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO GIÀ DELINEATA DAL MAGINI E NUOVAMENTE AMPLIATA IN OGNI SUA PARTE SECONDO LO STATO PRESENTE.

 

E Vora, quasi a sancire definitivamente la fine di un toponimo,manca pure nell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni  del 1808, dove, nonostante il rapporto scalare imparagonabile con quello delle tavole precedenti, non si nota neppure il simbolo del nostro inghiottitoio.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/29/la-palude-del-capitano-la-donna-malaffare

2 2 Abbreviazione di Padrone.

3 Abbreviazione di Colendissimo (latinismo:=omorabilissimo).

4 Per Ordine.

5 Ogni toponimo va preso con le pinze, nel senso che bisogna tener conto dei fattori che ne possono aver condizionato il rilevamento, tra cui il più importante coinvolge il settore degli informatori che, giocoforza, sono locali e, dunque, soggetti a problemi linguistici che spesso devono fare i conti con l’inttreccio tra forme dotte e popolari. È il caso tutt’altro che isolato, come fra poco vedremo anche con Vora, di Logliastro, frutto dell’agglutinazione dell’articolo, secondo la trafila Ogliastro>l’Ogliastro>Logliastro.

6 Nel 1749 Federico Colucci è proprietario della masseria Colucce, che comprende, oltre l’abitato, alcuni terreni: il pezzo Dell’Arene, del Parlatano, Dell’Otano, delle Ore e la chiusura della Ratta (Archivio di Stato di Lecce, atti del notaio Saverio Felline, anno 1749, cc. 46v-54r). Debbo questa preziosa informazione all’amico Marcello Gaballo. Essa, però, se ha sancito la relativa antichità del toponimo, ha suscitato in me ulteriori interrogativi, non per nulla l’appetito vien mangiando …, circa l’etimo del nostro e dei restanti toponimi. Posso solo avanzare ipotesi destinate a restare tali in assenza di pezze giustificative. Arene potrebbe alludere alle caratteristiche fisiche del terreno, come anche Ore (per vore, secondo quanto si dirà più avanti e soprattutto in nota 7) e lo stesso potrebbe valere per Otano, se è italianizzazione  del dialettale  lòtanu (=terreno fangoso, forma aggettivale dal latino lutum=fango, argilla, che continua nel latino medioevale lutare, che può significare lavare, ma anche il suo opposto, sporcare) attraverso la discrezione dell’articolo (Lotanu>l’Otanu>l’otano). Restano Ratta e, ironia della sorte, proprio Parlatano, per i quali, sempre ipoteticamente, potrebbe essere avanzata un’origine prediale.

7 Questo ha comportato che con l’aggiunta dell’articolo da la vora si è passati a la ora e, infine, a l’ora, in cui ora, anche se si conosce il latino ma si è sbrigativamente superficiali, può essere interpretato come derivante da ore(m), accusativo di os, che significa bocca e che in italiano  ha dato solo la forma aggettivale orale e alla prima parte di composti come oro-faringeo, mentre il denominale orare (=parlare in pubblico, pregare) ha dato vita all’italiano orare e ai suoi derivati (oratore, oratorio, orazione). L’equivoco etimologico potrebbe essere ulteriormente  alimentato, oltre che dall’affinità fonetica tra ore(m) e ora, anche da quella semantica, dal momento che la vora ella sua parte visibile non è altro che una grande, grandissima bocca. Bisognerebbe, però, dimostrare che il latino ore(m) e l’italiano vora sono parenti, il che non è. L’italiano vora, infatti, non nasce da un latino vora(m), che non esiste,  ma è deverbale da vorare, che sempre in latino, ha dato vita a vorago (da cui l’italiano voragine) e vorax (da cui l’italiano vorace). Oltretutto orare comporta sì l’apertura della bocca, ma per un’emissione, mentre vorare coinvolge il concetto esattamente opposto, quello dell’immissione.

8 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/10/lo-stemma-di-fabio-chigi-vescovo-fantasma-di-nardo-e-poi-papa-celebrato-in-versi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/12/fabio-chigi-facebook-e-il-motore-di-ricerca-ovvero-quando-lironia-rende-piu-simpatiche-le-persone/

 

 

 

Dialetti salentini: ‘nzurfione, ovvero quando la tromba marina si tagliava

di Armando Polito

Il dialetto spesso nelle sue similitudini è più poetico della lingua nazionale, anche quando, come nel caso di oggi, appare più legato ad aspetti, dettagli, oggetti, esseri della comune vita quotidiana. Così quella che in italiano è la tromba d’acqua o tromba marina, in dialetto neritino è zumfione (attestato pure per Aradeo, Neviano e Otranto), zumfioni  (Sava), zimfiune (Galatina)S. Pietro Vernotico), zurfione (Castrignano dei Greci), zurfioni (Oria), zurfiune (Calimera), nzumfiune (Squinzano, Surbo). Tutte le voci appena riportate dal Rohlfs1 hanno il corrispondente italiano perfetto foneticamente, di non immediata comprensione semanticamente, in sifone, che è dal latino siphone(m), con i significati di tubo, condotto, pompa per spegnere gli incendi, a sua volta dal greco σίϕων (leggi sifon)=tubo.

Il lettore avrà già notato che è l’ultimo dei significati latini riportati ad eliminare la difficoltà nel collegare il significato di sifone col fenomeno atmosferico. Stesso etimo hanno le innumerevoli varianti registrate per tutta la fascia adriatica e che nel dialetto calabrese, a seconda delle zone, la tromba d’aria è zifune, ziiune, ifune, zifisni e rifuni. Inoltre in Grecia la tromba d’aria si chiama generalmente sifunas/szifunas, quella marina trumba tra i marinai e gli abitanti delle isole, tra i contadini sifuni. Io non escluderei per la m o n che precede f le varianti salentine una dissimilazione da ff per incrocio con soffione.

Com’è sotto gli occhi di tutti, negazionisti compresi, da fenomeno raro, al meno dalle nostre parti, le trombe d’aria si manifestano molto più frequentemente che in passato, con la differenza che oggi non c’è più nessuno (debbo dire fortunatamente, perché di cialtroni ce ne sono già troppi) che tenti, o presuma, di fronteggiarla e ridurla alla ragione. Eppure, lo dico con amara ironia, oggi qualcuno in grado di tagliare una tromba d’aria, come di eseguire una danza della pioggia in tempo di siccità, tornerebbe comodo, non fosse altro che per illusoria consolazione per chi ancora crede nella magia, nera, bianca o multicolore che sia. Il taglio della tromba d’aria era un rito, probabilmente di origine marinara, articolato, sostanzialmente, in due fasi.

Nella prima il capitano dell’imbarcazione, avvistata la tromba, recitava il Padrenostro verde (verde perché è questo  il colore tradizionale del drago) per placarne l’ira, mentre, brandendo un coltello, mimava tre tagli nell’aria. Nella seconda, ad effetto raggiunto, recitava il Padrenostro a Dio per ringraziarlo, stabilendo, così, la vittoria della religione corrente su quella pagana e mettendosi in pace la coscienza accontentando con un comportamento inconsapevolmente  opportunistico, divinità antiche e nuove …

Di regola molte sono le varianti del testo di queste preghiere rituali, destinate a scomparire per sempre, a meno che qualche studioso in passato non abbia fatto in tempo a raccoglierle ed a pubblicarle.

Per la Sicilia lo fece  Giuseppe Pitrè in Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, Palermo, 1889, v. III, pp. 79-85. Qui nella sezione dedicata alla meteorologia nel capitolo X intitolato Il dragone il Pitrè, prima di registrare le varianti testuali del Padrenostro verde, riporta quelle riguardanti il nome stesso del fenomeno: trumma marina e cura ri rattu (Palermo), cura ‘i rau (Palermo e Borgetto), cura di mammadrau (Baucina), cuda (Francofonte), cura draune (Vittoria), dragunara e dragunera (Termini, Roccapalumba, S. Fratello, Siculiana), sufunara (Naso), mànica e rragani (Noto).  A parte trumma marina e rragani (traduzioine, probabilmente recenti, di tromba marina e uragano), alcune sono legate ad una similitudine animalesca: cura ri rattu (coda di ratto), cura ‘i rau (coda di drago), cura di mammadrau (coda di mamma drago), cuda (coda), cura draune (coda di dragone), dragunara e dragunera (forme aggettivali da drago).

A proposito di dragunara, la più antica attestazione a mia conoscenza del fenomeno della tromba d’aria è in Rolandino, un cronista di Paova del XIII secolo. Ce ne ha lasciato il ricordo nella sua Chronica, inserita in MGH (Monumenta Germaniae Historica), XIX, 32-147, da cui riporto, traducendolo, il brano che ci interessa:  Audiens haec alius retulit in exeplum quod ipse viderat in principio guerrae per Estense confinium, nocte quadam ivisse quamdam Dragonariam sive nubem, quae sic destruxit arbores, fruges, vineas et herbas radicitus, ut mane facto visum sit omnibus manifeste quod illic unde ivit non fuisset unquam herba, arbor, aliqua vel cultura.

(Un altro, sentendo ciò, addusse ad esempio il fatto che egli di persona aveva visto all’inizio della guerra, lungo il confine estense, che una notte era arrivata una cosiddetta dragonera, cioè una nube, la quale aveva distrutto dalle radici alberi, raccolti, vigneti ed erbe, a tal punto che, fattosi giorno, apparve chiaro a tutti che laddove era passata non ci sarebbero stati mai erba, albero o qualche coltura)

E così il drago, questo favoloso animale sputafuoco, accusato da tempo immemorabile di essere dispensatore di terrore, distruzione e morte, accomuna l’immaginario collettivo del nord (Veneto con la tromba d’aria) e del sud (Sicilia) con la tromba marina). E, ad integrazione delle notizie sull’uso militare del sifone che darò più avanti, come non ricordare il dragone, cioè il soldato di un antico corpo di cavalleggeri, la cui origine si collega agli archibugieri a cavallo italiani? Infine, per lasciarlo in pace (ma non tanta …) penso agli altri significati di dragone: nel XVI secolo nome di una bocca da fuoco di grosso calibro; in pirotecnica razzo per l’accensione a distanza di fuochi artificiali; in ittiologia nome generico della tracina [(pure questa voce dal greco δράκαινα (leggi dràcaina, che è la femmina del drago e, e, come divinità, corrisponde a ciascuna delle latina Furiae)]  e della pastinaca (ha il corpo a forma di rombo e la coda provvista di un aculeo velenifero (la stessa voce, poi, è sinonimo di carota); in ornitologia la sgarza ciuffetto (ha sul capo un ciuffo di penne erigibili, lanceolate, bianche; in botanica nome comune del dragoncello (diminutivo di dragone) ma pure in zoologia nome comune  di un verme parassita agente della malattia tropicale nota con il nome di dracunculosi. Ora, però, nessuno dica che sono un drago: il mio nome non è Cerutti Gino

Come avevo anticipato, completo il discorso circa gli usi militari del sifone. La fonte principale è Leone VI detto il Saggio, imperatore bizantino dall’886 fino alla morte avvenuta nel 912. L’opera principale è Tactica, un trattato di arte militare, da cui sono tratti i passi che seguono2.

XIX, 6, colonna 9923

La trireme) abbia assolutamente a prua il sifone anteriormente rivestito tutt’intorno di bronzo, com’è prassi, per mezzo del quale scagli contro i nemici il fuoco preparato. E dalla parte superiore di questo sifone in giù una specie di recinto fatto di assi, e questo protetto intorno da tavole, in cui staranno uomini guerrieri che combattono quelli dei nemici che giungono da prua, oppure scagliano frecce contro tutta4 la nave nemica con quante armi è possibile immaginare.

 

XIX, 8, colonna 9935

… di quelli che manovrano a prua gli ultimi due siano uno addetto al sifone, sifonatore, l’altro a gettare l’ancora in mare. 

XIX, 51, colonna 10086

Anche molti strumenti furono escogitati dagli antichi e pure dai moderni contro le navi nemiche e contro chi combatteva su di esse. Per esempio anche il fuoco preparato con fragore e fumo scagliato  mediante i sifoni e che le avvolgeva. 

XIX, 57, colonna 10087

Si useranno anche in altra maniera i piccoli sifoni scagliati con la mano tenuti a disposizione dietro gli scudi di ferro dai soldati, armi che sono chiamate chirosifoni,  poco fa escogitate dal nostro re. Scaglieranno anche questi di fuoco preparato contro il volto dei nemici.   

Ho reso con con lanciafiamme il χειροσίφωνα dell’originale. È voce composta da χείρ (leggi cheir), che significa mano e da σίφων (leggi sifon), che, come ho già detto, significa alla lettera tubo).

In coda ai Tactica lo stesso tomo della Patrologia riporta un’appendice premessa al programma dell’Università di Zurigo del 1854, in cui furono raccolti frammenti adespoti tratti da diversi codici, che prima erano stati pubblicati sparsim. Di seguito il brano che ci interessa.

cap. LIII, colonna 11158

… sono utili quelli chiamati intrecci che emanano per mezzo di una macchina fuoco liquido, certamente anche quello che presso molti è chiamato spendente e quelli chiamati lanciafiamme, armi che ora il nostro re ha escogitato …

Altra fonte è Anna Comnena (XI-XII secolo), figlia dell’imperatore Alessi, autrice dell’Alessiade, in sostanza una biografia del padre:

XI, 109

… avendo sistemato in ciascuna prua delle navi attraverso teste di leoni e altri animali terrestri fatte di bronzo e ferro con bocche aperte e avendole rivestite di oro in modo che alla sola vista apparissero spaventoso, dispose di far passare  il fuoco che cominciava ad uscire contro i nemici mediante elementi attorcigliati attraverso le loro bocche, in modo che sembrasse che a farlo fossero i leoni e gli altri animali di tal genere.    

un fuoco, che naturalmente divampa verso l’alto, ma in questo caso era diretto in qualunque direzione desiderasse il mittente, spesso verso il basso o lateralmente

XIII, 310

Questo fuoco fu preparato da loro [i difensori di Durazzo] attraverso siffatto procedimento. Dal pino e da alcuni altri alberi simili  sempreverdi  s’addensa una lacrima infiammabile. Questa schiacciata  insieme con  zolfo viene introdotta in tubi di canne e viene spinta da chi usa lo strumento con un soffio energico e continuo e così lo indirizza ed applica al fuoco all’estremità e come un fulmine cade sugli occhi di chi sta di fronte.   Questo fuoco usarono i difensori del territorio di Durazzo appena si trovarono faccia a faccia con i nemici e bruciarono le loro barbe e i volt. Ed era possibile vederli come uno sciame di api messo in fuga dal fumo precipitarsi disordinatamente  da dove erano entrati ordinatamente.  

Sulla composizione di questa miscela incendiaria innumerevoli sono state le ipotesi, destinate a restare tali, perché a tal proposito la fonte più dettagliata resta Anna Comnena col suo ultimo brano appena riportato11. La cosa appare scontato, trattandosi di un segreto militare o, se si preferisce, di stato e a talproposito illuminante è quanto ci ha tramandato l’imperatore Costantino Porfirogeneta (    ) nel suo De administrando imperio, XIII12:

Così è necessario che tu anche riguardo al fuoco liquido scagliato mediante i sifoni ti dia pensiero e curi che se mai  alcuni osino chiederlo, come spesso hanno chiesto pure a noi, che essi siano respinti e mandati via con queste parole: “Anche questo fu manifestato e insegnato da dio mediante un angelo al grande e primo re cristiano, S. Costantino. Ricevette anche su questo dallo stesso angelo grandi prescrizioni, come dai padri e dai nonni   abbiamo ricevuto con piena certezza, affinché per i soli cristiani e per la città regnante su di loro fosse preparato , non altrove, e non fosse in alcun modo trasmesso o insegnato ad un altro popolo.  Perciò roteggendolo anche per  coloro che verranno dopo di lui questo grande re su questo dispose che sul sacro altare della chiesa di dio  fossero scritte delle maledizioni  affinché chi avesse osato dare di questo fuoco ad altri popoli non fosse chiamato cristiano né fosse giudicato degno di carica o potere, ma anche se lo avesse avuto per caso e l’avesse portato fuori da questa città fosse colpito da anatema e stigmatizzato nei secoli dei secoli , o re o  patriarca o qualche altro simile, o arconte o suddito che per caso  abbia tentato di violare tale precetto. E esortò tutti quelli che avevano amore e al timore di dio a considerare come un nemico comune e trasgressore di questo importante precetto e ad affrettarsi a a prenderlo chi ha tentato di fare una cosa simile e mandarlo a morte odiosissima e penosa. Accadde una volta, trovando sempre la malvagità l’occasione, che uno dei nostri soldati ,dopo aver accettato dai pagani cospicui doni, li resero partecipi del fuoco e che dio inflessibile non lasciò impunita la trasgressione: un fuoco venuto dal cielo lo divorò uccidendolo mentre si accingeva ad entrare nella sacra chiesa di dio. E allora paura e tremito entrarono nell’animo di tutti e da allora nessuno, né re né arconte né privato né comandante né uomo in generale  osò pensare a qualcosa di simile, mettere mano all’opera, agire, portarla a termine”.13

Ad ogni modo, questa invenzione bizantina, precursore del moderno e già obsoleto  lanciafiamme trova anche una testimonianza grafica nelle due miniature con le quali pongo termine a questa lunga e, per certi versi, molto sofferta digressione sul sifone.

Manoscritto del secolo XI custodito nella Biblioteca Apostolica Vativana (Vat. gr. 1605, f. 30r

Dettaglio ingrandito dell’immagine precedente

Codice Skylitzes Matrilensis del secolo XI custodito nella Bibliteca Nazioinale Spagnola (Vitr. 26-2, Bild. Nr. 77), f. 34 v

 

Prima di chiudere vorrei fare un’annotazione etimologica sulle varianti di dragunara registrate dal Pitrè. Se per sufunara ritorna in campo inequivocabilmente il sifone (e nel dialetto siciliano sufunata non è solo il getto di seltz, ma anche, più genericamente, il getto saettante e il tiro rapido del pallone), per mànica ipotizzerei un rapporto di somiglianza di forma, partendo da ciò che trovo in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, Reale Stamperia, Palermo, 1789, al lemma manica: Mannica diciamo anche lo stretto della rete, che rassomiglia a un sacco.

Che la voce indicante la tromba marina sia connessa con la pesca trova ulteriore conferma in  Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Pensante, Palermo, 1853, al lemma manica: Canale di rame o d’altro per cui si conduce il vino per empire le botti ed a vari arnesi di farmacia, di pesca di marina, ed altro si dà pure il nome di manica. D’altra parte l’idea del tubo è nel significato primario della voce italiana, nonché in quelli dei derivati manicotto e manichetta (con quest’ultima il pensiero corre al già detto siphon antincendio degli antichi romani. Ma, giacché ci sono, faccio notare come l’idea del tubo si connetta con quella del serpente (simbolo del maligno fin dai tempi di Adamo ed Eva) e come questo possa essere considerato un parente del drago. D’altra parte, per quanto tempo i fenomeni naturali avversi sono stati spacciati dalla religione come punizione divina dei peccati umane?

Se per la Sicilia rimane, tutto sommato, un bel gruzzolo di memoria, lo stesso non può dirsi per la Puglia e, ancor più, per Nardò. Io stesso non sarei venuto a conoscenza dello zumfione se nel corso di una conversazione come tante non fosse uscito dalla bocca di mio cognato Giuseppe Presicce, che, pur essendo più giovane di me, ne aveva sentita parlare da suo padre, che aveva avuto, fra l’altro,  l’opportunità di vedere all’opera una tagliatrice di zumfioni.

Ho già detto delle innumerevoli varianti del rituale e dal ricordo di mio cognato (che, fra l’altro, all’epoca del racconto del padre era un ragazzino) emerge che la tagliatrice di Nardò posava il coltello sulla paglia prima di usarlo per il taglio e che nel corso dell’operazione pronunciava parole incomprensibili (capisco che pure il millantatore di un potere non comune sia geloso degli strumenti del mestiere e abbia pure il diritto di difendersi dal plagio, ma non posso fare a meno di ricordare che ciò che è strano e ancor più ciò che è incomprensibile suscitano, comunque, curiosità e, a seconda delle situazioni e  degli individui, timore, rispetto, fiducia, fede (e questo accomuna tutte le religioni).

Resta così, pure per Nardò, press’a poco solo la memoria del nome, destinata anch’essa a scomparire, perché non vivificata da testimonianze a loro tempo registrate. In passato i vecchi erano una fonte preziosa di conoscenza e, siccome da parecchio tempo ormai abbiamo per so quasi completamente la virtù dell’ascolto, la tradizione orale, in pratica, non esiste più. Tuttavia una speranza mi ha ispirato a scrivere questo post: quella che qualche volenteroso onesto (pure per me sarebbe facile inventarmi una giaculatoria e spacciarla per autentica … ) ci renda partecipi di quanto, eventualmente, appreso dal bisnonno grazie al nonno …

Sarebbe, oltretutto, una prova dell’interesse suscitato da argomenti diversi da questo, quale, per esempio, Magia popolare: le legature con il sangue mestruale, che su questo blog, ancora oggi, a distanza di più di cinque anni dalla sua pubblicazione, riscuote quotidianamente il più alto numero di visualizzazioni (sicome ne ho la possibilità, periodicamente mi piace studiare fenomeni statistici di questo tipo). Per questo mi ha fatto meraviglia che il 3 u. s. abbia registrato solo 5 visualizzazioni rispetto alle 151 del mio post, ancor più datato (4/11/2011) L’escort e la pulandra: magra consolazione dovuta probabilmente ad un pruriginoso passaparola, nella conferma di una regola … .

Forse un titolo più accattivante o, addirittura, sparato, avrebbe dato alla mia speranza qualche possibilità in più, ma sono un pacifista e non sparo a nessuno e a niente, nemmeno a un titolo

Vi raccomando di non segnalare questo post al vostro idraulico, per evitare le conseguenze sintetizzate in questa vignetta di coda.

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Note

1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

2 Li cito, aggiungendo la mia traduzione, dall’edizione di Giovanni Lamio, 1745 inserita nel v. CVIII della Patrologia del Migne, 1863. Questo per risparmiare al lettore la rettifica delle innumerevoli (quando ci sono …) citazioni fasulle e traduzioni fantasiose che s’incontrano in rete.

3  XIX, 6, colonna 992

Ὲχέτω δἑ  πάντως τὸν σίφωνα κατὰ τὴν πρώραν  ἔμπρσθεν χαλκῷ ἠμφιεσμένον,  ὡς ἔθος, δι’οὗ τὸ ἐσκευασμένων πῦρ κατὰ τῶν ἐναντίωνἀκοντίσαι. Καὶ ἂνωθεν  δἑ  τοῦ τοιοὺτου σίφωνος ψευδοπάτιον ἀπὸ σανίδων, καὶ αὑτὸ περιτετειχεσμένον σανίσιν, έν ᾧ στήσονται ἄνδρες πολεμισταὶ τοῖς έπερχομένοις ἀπὸ τῇς πρώρας τῶν πολεμίων ἀντιμαχόμενοι ᾓ κατὰ τῇς πολεμίας νεὼς ὁλῇς βάλλοντες δι’ ὅσων ἄν έπινοᾑσουσι ὅπλων.

4 L’edizione, che, fra l’altro, è quella di riferimento, reca ὄλης (leggi oles), che in greco non esiste; per questo nel testo riportato nella nota precedente’ho emendato in ὁλῇς  (leggi olès). Fra l’altro la voce risulta comodamente omessa nella traduzione latina a fronte, che accompagna il testo originale.

5 τῶν δὲ πρῳρέων ἐλατῶν οἱ τελευταῖοι δύο ό μὲν ἔστω σιφωνάτωρ, ό  δὲ ἔτερος ό τὰς  ἀγκύρας βάλλων κατὰ θάλασσαν.

6 Πολλὰ δὲ καὶ ἐπιτηδεύματα τοῖς παλαῖοις καὶ δὲ τοῖς νεωτέροις ἐπενοήθη κατὰ τῶν πολεμικῶν πλοίων καὶ τῶν ἐν αὐτοῖς πολεμούντων. Οἶον τό τε ἐσκευασμένον πῦρ μετὰ βροντῇς καὶ καπνρῦ προπείρου διὰ τῶν σιφώνων πεμπόμενον, καὶ καπνίζον αὐτά.

7 Χρήσασται  δὲ καὶ τῇ ἂλλῃ μεθώδῳ τῶν διὰ χειρὸς αλλομένων μικῶν σιφώνων ὄπισθεν τῶν σσιδερῶν σκουταρίων παρὰ τῶν στρατιωτῶν κρατουμένων, ἄπερ χειροσίφωνα λέγεται, παρὰ τῆς ἡμῶν βαοιλείας ἄρτι κατεσκευασμένα. Ρίψουσι γὰρ καὶ αὐτὰ τοῦ ὲσκευασμένου πυρὸς κατὰ τῶν προσώπων  τῶν πολεμίων. 

8 … λυσιτελεῖ τὰ στρεπτὰ καλούμενα τὰ διὰ μηχανῆς τὸ ὑγρὸν πέμποντα δηλαδὴ πῦρ , ὃ δὴ καὶ λαμπρὸν παρὰ τοῖς πολλοῖς, ὀνομάζεται , καὶ τὰ λεγόμενα χειροσίφωνα , ἅπερ νῦν ἡ βασιλεία ἡμῶν ἐπενόησε .

9 … ἐν ἑκάστῃ πρώρᾳ τῶν πλοίων διὰ χαλκῶν καὶ σιδήρων λεόντων καὶ ἀλλοίων χερσαίων ζῴων κεφαλὰς μετὰ στομάτων ἀνεῳγμένων κατασκευάσας, χρυσῷτε περιστείλας αὐτὰ ὡς ἐκ μόνης θέας φοβερὸν φαίνεσθαι, τὸ διὰ τῶν στρεπτῶν κατὰ τῶν πολεμίων μέλλον ἀφίεσθαι πῦρ διὰ τῶν στομάτων αὐτῶν παρεσκεύασε διιέναι, ὥστε δοκεῖν τοὺς λέοντας καὶ τἆλλα τῶν τοιούτων.

… οὐδὲ γὰρ ἐθάδες ἦσαν τοιούτων σκευῶν ἢ πυρὸς ἄνω μὲν φύσει τὴν φορὰν ἔχοντος, πεμπομένου δʼ ἐφʼ ἃ βούλεται ὁ πέμπων κατά τε τὸ πρανὲς πολλάκις καὶ ἐφʼ ἑκάτερα …

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Τοῦτο δὲ τὸ πῦρ ἀπὸ τοιούτων μηχανημάτων αὐτοῖς διεσκεύαστο. ἀπὸ τῆς πεύκης καὶ ἄλλων τινῶν τοιούτων δένδρων ἀειθαλῶν συνάγεται δάκρυον εὔκαυστον. Τοῦτο μετὰ θείου τριβόμενον ἐμβάλλεταί τε εἰς αὐλίσκους καλάμων καὶ ἐμφυσᾶται παρὰ τοῦ παίζοντος λάβρῳ καὶ συνεχεῖ πνεύματι, κᾆθʼ οὕτως ὁμιλεῖ τῷ πρὸς ἄκραν πυρὶ καὶ ἐξάπτεται καὶ ὥσπερ πρηστὴρ ἐμπίπτει ταῖς ἀντιπρόσωπον ὄψεσι. τούτῳ τῷ πυρὶ κεχρημένοι οἱ τἄνδον τοῦ Δυρραχίου κατέχοντες, ἐπείπερ ἀντιπρόσωποι ἦσαν τοῖς πολεμίοις, τάς τε γενειάδας αὐτῶν κατέφλεξαν καὶ τὰ πρόσωπα. καὶ ἦν ἰδεῖν τούτους καθάπερ σμῆνος μελισσῶν ὑπὸ καπνοῦ διωκόμενον ἐξαγομένους ἀτάκτως, ὅθεν εὐτάκτως εἰσῄεσαν.

11 Tale non può essere considerato il Liber ignium ad comburendos hostes (Libro dei fuochi per bruciare i nemici), un breve trattato,  il cui manoscritto del secolo XV, fu rinvenuto nella biblioteca Nazionale di Parigi da Gabriel de La Portel, che lo pubblicò nel 1804. Il trattato, del quale è dichiarato come autore Marcus Graecus, è in latino, ma si è certi che si tratta della traduzione da un originale greco, per la cui datazione è possibile indicare solo il termine ante quem in qualche decennio prima del 1267, anno in cui lo conoscevano Alberto Magno e Ruggero Bacone, che lo citano nelle loro opere. Il testo, magnificato poi dagli eruditi di tutta Europa nei secoli XV e XVI, successivamente vide drasticamente ridotta la sua importanza, almeno per quanto riguarda la ricetta per la preparazione del fuoco greco, che, comunque, riporto proprio dalla prima edizione: Ignem Graecum tali modo facies: Recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et picem, sal coctum, oleum petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene.    Postea impone stuppam et accende, quod si volueris exhibere  per embotum ut supra diximus.    Stuppa illinita non  extinguetur, nisi urina vel aceto vel arena. (preparerai il fuoco greco in tal modo: prendi zolfo naturale, tartaro, sarcocolla e pece, sale cotto, petrolio e olio di gomma. Fai bollire bene tutto questo insieme. Poi immergi della stoppa e accendila e se vuoi gettala con uno stantuffo, come ho detto prima. La stoppa accesa si spegne solo con l’orina o con l’aceto o con la sabbia)

12 L a mia traduzione è sul testo originale riportato nella nota successiva, quale si legge nell’edizione critica Weber, Bonn, 1840, p. 84.:

13  Ὡσαύτως χρή σε καὶ περὶ τοῦ ὑγροῦ πυρός, τοῦ διὰ τῶν σιφώνων ἐκφερομένου μεριμνᾶν τε καὶ μελετᾶν, ὡς εἴπερ ποτὲ τολμήσωσί τινες καὶ αὐτὸ ἐπιζητῆσαι, καθὼς καὶ παρ’ ἡμῶν πολλάκις ἐζήτησαν, τοιούτοις αὐτοὺς ἔχεις ἀποκρούεσθαι καὶ ἀποπέμπεσθαι ῥήμασιν, ὅτι· “Καὶ αὐτὸ ἀπὸ τοῦ Θεοῦ δι’ ἀγγέλου τῷ μεγάλῳ καὶ πρώτῳ βασιλεῖ Χριστιανῷ, ἁγίῳ Κωνσταντίνῳ ἐφανερώθη καὶ ἐδιδάχθη. Παραγγελίας δὲ μεγάλας καὶ περὶ τούτου παρὰ τοῦ αὐτοῦ ἀγγέλου ἐδέξατο, ὡς παρὰ πατέρων καὶ πάππων πιστωθέντες πληροφορούμεθα, ἵνα ἐν μόνοις τοῖς Χριστιανοῖς καὶ τῇ ὑπ’ αὐτῶν βασιλευομένῃ πόλει κατασκευάζηται, ἀλλαχοῦ δὲ μηδαμῶς, μήτε εἰς ἕτερον ἔθνος τὸ οἱονδήποτε παραπέμπηται, μήτε διδάσκηται. Ὅθεν καὶ τοῖς μετ’ αὐτὸν ὁ μέγας οὗτος βασιλεὺς ἐξασφαλιζόμενος περὶ τούτου ἐν τῇ ἁγίᾳ τραπέζῃ τῆς τοῦ Θεοῦ ἐκκλησίας ἀρὰς ἐγγραφῆναι πεποίηκεν, ἵνα ὁ ἐκ τοῦ τοιούτου πυρὸς εἰς ἕτερον ἔθνος δοῦναι τολμήσας μήτε Χριστιανὸς ὀνομάζεται, μήτε ἀξίας τινὸς ἢ ἀρχῆς ἀξιοῦται· ἀλλ’ εἴ τινα καὶ ἔχων τύχῃ, καὶ ἀπὸ ταύτης ἐκβάληται καὶ εἰς αἰῶνας αἰώνων ἀναθεματίζηται καὶ παραδειγματίζηται, εἴτε βασιλεύς, εἴτε πατριάρχης, εἴτε τις ἄλλος ὁ οἱοσοῦν ἄνθρωπος, εἴτε ἄρχων, εἴτε ἀρχόμενος τυγχάνοι ὁ τὴν τοιαύτην ἐντολὴν παραβαίνειν πειρώμενος. Καὶ προετρέψατο πάντας τοὺς ζῆλον καὶ φόβον Θεοῦ ἔχοντας, ὡς κοινὸν ἐχθρὸν καὶ παραβάτην τῆς μεγάλης ταύτης ἐντολῆς, τὸν τοιοῦτον ἐπιχειροῦντα ποιεῖν ἀναιρεῖν σπουδάζειν, καὶ ἐχθίστῳ καὶ χαλεπῷ παραπέμπεσθαι θανάτῳ. Συνέβη δέ ποτε, τῆς κακίας ἀεὶ χώραν εὑρισκούσης, τινὰ τῶν ἡμετέρων στρατηγῶν δῶρα παρά τινων ἐθνικῶν πάμπολλα εἰληφότα μεταδοῦναι αὐτοῖς ἐκ τοῦ τοιούτου πυρός, καὶ μὴ ἀνεχομένου τοῦ Θεοῦ ἀνεκδίκητον καταλιπεῖν τὴν παράβασιν, ἐν τῷ μέλλειν αὐτὸν ἐν τῇ ἁγίᾳ τοῦ Θεοῦ εἰσιέναι ἐκκλησίᾳ πῦρ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ κατελθὸν τοῦτον κατέφαγε καὶ ἀνάλωσεν. Καὶ ἀπὸ τότε φόβος μέγας καὶ τρόμος ἐν ταῖς ἁπάντων ἐνετέθη ψυχαῖς, καὶ οὐκέτι οὐδεὶς τοῦ λοιποῦ, οὔτε βασιλεύς, οὔτε ἄρχων, οὔτε ἰδιώτης, οὔτε στρατηγός, οὔτε ὁ οἱοσοῦν ὅλως ἄνθρωπος κατετόλμησέ τι τοιοῦτον ἐνθυμηθῆναι, μήτι γε καὶ ἔργῳ ἐπιχειρῆσαι ποιῆσαι ἢ διαπράξασθαι.

 

Dialetti salentini : “iata a” o “iat’a”?

di Armando Polito

Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.

Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.).
Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione)  può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’a mme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jata forma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.

Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.

Dialetti salentini: fiata, fiatu, fiatare

di Armando Polito

 

 

L’apparenza inganna e, infatti, le due prime voci non sono legate ad una differenza di genere e hon sono, nemmeno lontanamente, parenti.

La prima, fiata, appartiene all’insospettabile schiera delle parole il cui uso è classificato nei vocabolari d’italiano come letterario , ma che, nonostante questa caratteristica nobiliare, sono tanto radicate nel nostro dialetto da non essere state affiancate, tanto meno sostituite, da sinonimi. Non sentirete mai un salentino dire Pi ‘sta volta ti perdonu o, nel raccontare una favola (circostanza poco probabile, a meno che non si tratti di un politico …), C’era ‘na volta

Per chiarezza ripercorro, sia pure rapidissimamente la vita di fiata, partendo dalle origini: latino volgare vicata (dal classico vicis=alternanza, sorte)> francese antico fiée>italiano fiata

E siamo a fiatu, esatto corrispondente dell’italiano fiato, dal latino flatu(m), a sua volta deverbale da flare=soffiare. Nel salentino fiatu entra pure nella locuzione esclamativa fiatu mia!, a sottolineare una situazione favorevole (da un amore corrisposto al gradimento di un cibo, da una promozione in vista ad una appena ottenuta, etc. etc.). Qui fiatu è utilizzato nel significato traslato di respiro, anima, come in italiano in anima mia!, vita mia!.

Fiatare, tal quale la voce italiana (che è dal latino tardo flatare, forma intensiva del flare prima citato),  assume nel salentino il significato di soffiare (che è pure dell’italiano letterario).

La vignetta riassume, forse più eloquentemente, quanto fin qui detto.

 

Dialetti salentini : “iata a” o “iat’a”?

di Armando Polito

Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.

Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.). Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione)  può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’a mme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jata forma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.

Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.   

Negli esempi riportati al n. 1 del  lemma iatu è chiaro il valore aggettivale in perfetta concordanza con il sostantivo che l’accompagna. Al n. 2, invece, si parla di aggettivo indeclinabile, dicitura omologa al forma invariabile. Osservo anche qui che iata alle soru toi! vale dico (sottinteso) beata alle tue sorelle! e la mancata concordanza al plurale per iata è dovuto al fatto che il beata è detto a ciascuna delle sorelle. Di conseguebza, gli esempi del lemma iata per me vanno scritti così: iat’a ddi frati toi!, iat’alli ii e no alli muerti!, iat’a dde case a ddu na chierica nci trase.

Ora, per quanto il Rohlfs sia un indiscusse ed indiscutibile maestro e, pur ipotizzando che i dati fornitigli dai suoi informatori locali siano attendibili (cosa che non sempre avviene), c’è una sensibilità, direi genetica, legata alla terra d’origine ed al dialetto in essa parlato. Sotto questo punto di vista il suo vocabolario ha del miracoloso, ma niente è perfetto. E se un tedesco ha dato vita ad un’opera monumentale, sarebbe opportuno che qualche salentino ogni tanto, pur pigmeo di fronte ad un gigante, si ponesse qualche dubbio, sfruttando proprio una, almeno  teoricamente, sufficiente  dimestichezza con il proprio dialetto. Le osservazioni che ho fatto hanno bisogno di un corollario, costituito da quanto mi permette di far notare l’esatto opposto del lemma finora oggetto del contendere:  maru (amaro) anch’esso con aferesi (ma è una semplice coincidenza) come iatu rispetto a beatu.

Maru, intanto, è in uso come aggettivo, ma ricorre pure in locuzioni esclamative come mar’a tte! (guai, alla lettera, amaro per te!), mar’a llu muertu ci non è cchiantu allora! (guai per il morto che non è pianto al momento!). Anche qui mar’ (da maru con elisione) mi appare come aggettivo sostantivato (cosa amara) o ellittico del sostantivo (destino).

Il lemma è trattato dal Rohlfs nel modo che segue.

 

In la maru ciucciu la testimonianza è letteraria e, come spesso succede nella letteratura dialettale la scrittura può risente delle ridotte capacitò filologiche degli autori; in questo caso, però,l’autore (Francesco Morelli, Canti in vernacolo, Lecce, 1935) ha al suo attivo parecchie altre pubblicazioni1 e, anche se questo non è garanzia di affidabilità, è più probabile che si tratti di un errore di stampa (nella pubblicazione originale 2 o nella citazione) per lu maru ciucciu più che per l’amaru ciucciu.

Passo ora al rimando che ci riguarda più da vicino.

In tutti gli esempi riportati (tranne due, in cui la diversa grafia può essere legata, come detto, alla pronuncia) compare mar’, per il quale, a differenza di jata non si parla minimamente di forma aggettivale invariabile e il guai a della definizione potrebbe tradire una valutazione, non dichiarata, di mar’ come aggettivo sostantivato.

Vediamo ora cosa si legge nel Garrisi.

I due lemmi dimostrano emblematicamente come la pronuncia può indurre a valutazioni grammaticali errate e ad una altrettanto errata riproduzione grafica: nel secondo lemma Mmara ddu muertu ci nun ete chiantu all’ura e non Mmar’a … ha obbligato ad inserire nella triade , stavo per dire ammucchiata, delle varianti del secondo lemma un mmara (aggettivo famminile, che mal si legherebbe al resto anche sottintendendo il sorte che il Garrisi ha messo in campo nel primo lemma; se se ne fosse ricordato l’avrebbe messo in campo pure per iata? …). D’altra parte non si comprende come un semplice, quasi fisiologico per il salentino, raddoppiamento della consonante iniziale in mmara avrebbe comportato la soppressione della preposizione a richiesta, invece, da mara.

In conclusione: le grafie iat’a e mar’a del titolo rispecchiano, secondo me, il valore grammaticale nativo (aggettivo sostantivato) del quale il parlante sarà pure inconsapevole, ma la cui individuazione da parte dello studioso è doverosa per evitare bizantinismi interpretativi, dimenticando che l’eeccezione cinferna la regola, proprio

____________

1 Liriche, L’italia Meridionale (Tip. G. Garrisi), Lecce,1934

Saggio delle nuove poesie in vernacolo, Scorrano, Lecce, 1936

Poesie in vernacolo: secondo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?

Poesie in vernacolo: terzoo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?

Liriche: saggio del primo volume, Cafaro, Lecce, dopo il 1936

Fiori e sorrisi: versi  giovanili, R. Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1909

2 Sarei grato a chiunque  potesse comunicarmi l’esito di un controllo, magari occasionale,  che non ho potuto fare.

Le “cattedre ambulanti di agricoltura” in Terra d’Otranto

di Armando Polito

La stupida divaricazione esistente tra la cultura scientifica e quella umanistica si è, a mio avviso, accentuata da quando la scienza cosiddetta pura ha ceduto il passo a quella applicata, per cui la stessa ricerca può contare quasi esclusivamente su sponsorizzazioni pubbliche, e ancor più private, se il campo d’indagine è promettente in vista di uno sfruttamento economico dei suoi risultati. Non auspico certamente che pure quella umanistica diventi schiava del profitto ma che almeno vitalizzi con la pratica una teoria altrimenti destinata a restare stucchevole, noiosa e, purtroppo, sterile sotto tutti i punti di vista, non escluso quello economico. Che senso ha, ad esempio, in un liceo classico studiare il latino ed il greco e, sfruttando il laboratorio d’informatica e la versione elettronica dei vocabolari delle due lingue (per non dire delle risorse reperibili in rete), non  dare agli allievi un’idea, almeno quella, delle enormi potenzialità offerte dall’informatica, senza, per questo, però, trascurare di parlare delle velleità della linguistica computazionale col connesso rischio che dall’IA (‘intelliggenza artificiale) si passi all’IA (idiozia acquisita)? Che ci sarebbe di strano, poi, se già a partire dalla fine del biennio, si mettessero gli allievi in contatto guidato se non con un manoscritto antico, almeno con un’epigrafe? Purtroppo temo che ancora oggi nello studio della letteratura la sezione antologica del manuale sia la cenerentola, oppure che avvenga il contrario, illudendosi che la lettura possa prescindere dalla conoscenza della grammatica o, peggio, che quest’ultima possa essere bypassata.

Oggi ci si lacera le vesti e ci si scompiglia i capelli sciacquandosi la bocca con fenomeni come la dispersione scolastica. I pochi benemeriti come Lorenzo Milani, purtroppo, non fanno testo, perché dovrebbe essere lo stato a farsi carico di portare la scuola nella strada, visto che la strada tiene lontano dalla scuola. Sotto questo aspetto pure il passato può insegnarci qualcosa e per questo entro in argomento.

Le cattedre ambulanti d’agricoltura hanno portato la scuola sul camo, visto che il campo, per una serie di motivi facilmente intuibili (e non per la congenita impossibilità a muoversi …), non poteva andare a scuola.

La prima in Italia nacque ad Ascoli Piceno nel 1868. Via via seguirono le altre, tutte  come associazioni private gestite da figure di grande prestigio in campo agrario. La loro diffusione, proprio per il loro carattere volontaristico, era limitata alle aree in cui l’agricoltura era più avanzata e le amministrazioni locali più attive e lungimiranti. Solo il 13 luglio 1907 con la legge n. 513 esse saranno istituzionalizzate con normativa statale riguardante all’assetto giuridico, la costituzione delle commissioni interne di vigilanza e lo svolgimento dei concorsi per l’attribuzione della carica di direttore. il compito primario delle cattedre era quello di diffondere le più avanzate pratiche di agricoltura attraverso una adeguata serie di conferenze da tenere nei vari paesi, seguite da libere discussioni, con dimostrazioni pratiche in sede o in aperta campagna e con la pubblicazione di un bollettino quindicinala o mensile, oggi documento prezioso per la ricostruzione delle attività ma anche dell’organigramma. La cattedra ambulante di agricoltura di Terra d’Otranto (comprendente all’inizio le sezioni di Brindisi, Taranto, Gallipoli, Tricase e il Comizio agrario di Lecce, nacque (o, quanto meno, iniziò a pubblicare il suo bollettino, L’agricoltura salentina, nel 1902. L’immagine che segue riproduce il frontespizio del primo numero del 1904 e l’analisi che farò, integrata con i dati registrati da altre pubblicazioni ufficiali può dare concretamente un’idea dell’importanza documentaria della quale ho detto prima.

A tale scopo basterebbe solo soffermarsi sui nomi citati ed è quello che farò nelle schede che seguono, anticipando solo che essi, i più non salentini (in quanto la mobilità dell’insegnante, occasione di nuove esperienze e, dunque, di miglioramento professionale, era all’epoca considerata come un fenomeno normale e non una iattura, qual è oggi per l’insegnante che vorrebbe il posto di lavoro a pochi metri da casa sua …), rappresentano, com’è naturale quando è la competenza a prevalere nell’attribuzione di un qualsiasi incarico, la crema della scienza agraria di allora.

FERDINANDO VALLESE

Non sono riuscito a reperire nessuna nota biografica, anche se la sua carriera iniziò a Lecce, continuò a Sassari, per concludersi ancora a Lecce. Il fatto che in quest’ultima città una strada è intitolata al suo nome indurrebbe a supporre, rischi connessi con l’omonimia a parte, che fosse, quanto meno, salentino. Un altro indizio è dato dal suo articolo La coltivazione della Batata a Calimera pubblicato sul n. 23 del 15 dicembre 1902 debollettino; il tema appare troppo legato al territorio [la patata zuccherina di Calimera oggi risulta inserita nel PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali)] per essere oggetto di studio da parte di uno straniero. Quasi sterminata è la serie delle sue pubblicazioni1.  

GIOVANNI MOLÈ

Nessuna notizia biografica; tuttavia, il cognome e il territorio prevalente oggetto di studio dei suoi lavori2 autorizzano ad ipotizzare un’origine siciliana.

GIOVANNI D’AMBROSIO

Il prevalente luogo di pubblicazione dei suoi lavori3 (Casalbordino) induce a pensare che fosse di origine abruzzese.

 GIOVANNI DONINI

I primi dei suoi lavori4 risultano pubblicati a Gallipoli, ma questo da solo non basta per ipotizzare la sua origine salentina.

GIUSEPPE GRAVINA

L’unica sua pubblicazione5 non aiuta a individuarne l’ origina.

FEDERICO SOLERI

I luoghi prevalente delle sue pubblicazioni6 indurrebbero a pensare ad un’origine toscana.

Da notare come nel frontespizio del bollettino riprodotto tra le sezioni (Brindisi, Taranto, Gallipoli e Tricase) manca Nardò. Evidentemente alla data del 15 gennaio 1904) la sua sezione non era stata ancora istituita, mentre risulta presente alla data del 1927, come riportato dall’ Annuario del Ministero dell’economia nazionale, 1927-V – 1928 VI, Libreria Provveditorato Generale dello Stato, Roma, 1928, p. 206, dal dettaglio di seguito riprodotto.

Naturalmente molti altri prestarono la loro opera nella cattedra ambulante di Terra d’Otranto  fino al 1928, anno in cui furono tutte soppresse7. Solo pochi nomi:

LUIGI SCODITTI (1896-1973) Iniziò la sua carriera professionale presso le Cattedre Ambulanti di Agricoltura (gli attuali Ispettorati Provinciale dell’Agricoltura). Prestò servizio dapprima a Lecce, poi a Gallipoli, Francavilla Fontana, Cerignola. Fu autore molto prolifico e dai molteplici interessi8.

LIBORIO SALOMI (Carpignano Salentino 1882 – Lecce 1952). Subito dopo la laurea lavorò presso la “Cattedra ambulante per le malattie dell’olivo” di Lecce e quando questa cessò di esistere passò ad insegnare Storia Naturale presso l’Istituto Tecnico  “Oronzo Gabriele Costa” di Lecce, succedendo a Cosimo De Giorgi. Non ha lasciato nessuna pubblicazione, ma non è questo, soprattutto per quei tempi …, l’unico metro del valore di un uomo di scienza.

ATTILIO BIASCO (1882-1959)  di Presicce. Scienziato principe dell’olivicoltura, come dimostra la maggior parte dei titoli delle sue numerosissime pubblicazioni9. Diresse L’agricoltura salentina dal 1923.

Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.

Tutte le cattedre all’epoca si avvalsero del veicolo pubblicitario all’epoca più potente e in pratica tutte dettero la loro intestazione a cartoline postali, oggi ricercate dai collezionisti. Per risparmiare spazio mi limito a riportare ub solo esempio che ci riguarda più da vicino.

La cartolina, spedita da Lecce il 25/10/1926 e incredibilmente giunta nello stesso giorno a Trani, è indirizzata All’Ill.mo Sig. Conte Pasquale Romano, Palazzo Antonacci, Trani.

I bollettini mensili, che le cattedre, come s’è detto, erano obbligate a pubblicare, sono preziose fonti d’informazione e ricostruzione storica. Nel nostro caso, invece, un aiuto ci viene dall’ Annuario del Ministero dell’economia, op. cit. nel dettaglio prima riprodotto e che, per comodità del lettore, replico.

Apprendiamo così non solo che il conte Pasquale Romano era un avvocato ma pure che alla data del 1928 ricopriva ancora la carica di presidente, mentre direttore era Attilio Biasco.

 

Lo stesso numero ci dà notizia delle cattedre delle altre provincie (Per Brindisi a p. 203 e per Taranto a p. 210).

 

Ho l’impressione che negli ultimi tempi le cattedre passarono, almeno per quanto riguarda la presidenza,  dal controllo dei professori di agraria, vantanti, come abbiamo visto, numerose pubblicazioni, a quello dei latifondisti (conte Pasquale Romano, barone Giuseppe Pantaleo) e di Mosè Stefanelli, che non pubblicarono nulla mentre che non pubblicarono nulla. Sorprende, per la provincia di Brindisi l’assenza del direttore, ma, in compenso, di quello della provincia di Taranto, Aurelio Bianchedi, si registra un numero apprezzabile di pubblicazioni10 .Su Giuseppe Pantaleo riproduco quanto si legge nella Rassegna puglese dfi scienze, lettere ed arti, anno XXX, v. XXVIII, nn. 6-7-8, Trani-Roma, Giugno-Luglio-Agosto 1913, p. 284

È certo, però, che nel meridione le cattedre non si distinsero per attivismo e spirito d’iniziativa, mentre le provincie settentrionali pubblicarono, oltre al bollettino periodico previsti dalla legge, anche alcune delle lezioni.

Non poche coniarono pure medaglie commemorative, con esiti esteticamente apprezzabili grazie alle allusioni a modelli del passato remoto o recente, come volta per volta dirò.

Al dritto lo stemma della provincia di Cuneo e legenda PROVINCIA DI CUNEO; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MOSTRA DI FRUTTICOLTURA OTTOBRE 1928


Al dritto un seminatore; al verso un fascio di spighe a destra ed a sinistra un ramo di pianta di difficile, almeno per me, identificazione, replicata in esergo, e legenda CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA PROVINCIADI COMO. La raffigurazione del seminatore sembra essere sta ispirata  dal famosissimo Seminatore al tramonto di incent van Gogh (ne riporto il dettaglio per comodità di confronto).

 

Al dritto la dea Fortuna seduta in trono regge con la sinistra la cornucopia, simbolo dell’abbonsanza e con la destra il timone dell’aratro; legenda NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS (Niente è maggiore e migliore delle terre) FERRARIA; al verso in campo vuoto CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MDCCCXCIV    FERRARA MCMXXIV. NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS è citazione da Orazio (Odi, IV, 2, 37). La medagli celebra il trentesimo anniversario anniversario dalla fondazione della cattedra (1894-1924) La raffigurazione appare ispirata a quella che nelle monete romane di epoca imperiale è uno dei due stereotipi (l’altro prevede la Fortuna seduta non sul trono ma sulla ruota. Di seguito due dei tantissimi esempi delle due varianti.

Asse: nel dritto testa laureata di Adriano (fu imperatore dal 117 al 138); al rovescio la Fortuna, nell’iconografia sopra descritta.

Al dritto testa di Aureliano (fu imperatore dal 270 al 275); al rovescio la Fortuna seduta sulla ruota.

Il piccolo repertorio di medaglie delle cattedre ambulanti fin qui presentato termina con due ultimi esemplari.


Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda DUX con una fiamma a destra; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI LUCCA COMM(ISSIONE) PROVINCIALE GRANARIA, in esergo una spiga di grano

Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda PIÙ FONDO IL SOLCO PIÙ ALTO IL DESTINO  e in basso al centro DUX e una fiamma; Al verso in alto un aratro e legenda CATTEDRA AMBULANTE AGRICOLTURA PADOVA GARA DISTRETTUALE 1930 e  al margine intorno COMMISSIONE PROVINCIALE GRANARIA. La medaglia attesta apertamente con GARA il clima di competizione tra le varie cattedre nel quadro della cosiddetta Battaglia del grano, caposaldo del programma autarchico del regime fascista.

Da notare nei due dritti l’utilizzo dello stesso modello iconografico, molto simile ad uno dei due (prima immagine sottostante) utilizzato in altre medaglie, in alternativa all’altro (seconda immagine).

Se le medaglie potevano costituire motivo di orgoglio per le cattedre, un carattere più peronale e privatistico avevano i diplomi rilasciati per aver partecipato con profitto ai corsi.

CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA

DI MODENA

ISTRUZIONE PROFESSIONALE DEI CONTADINI

ANNO 1930-1931-IX

CONCORSO GENERALE DI CAMPOSANTO

Si certifica che Moprselli M.O Luigi figlio di Giuseppe

nato a Camposanto il giorno 16 del mese di ottobre dell’annp 1869

ha frequentato regolarmente il suddetto corso professionale con esito ottimo.

Modena, li 30 giugno 1931

IL DIRETTORE                                                              L’ISTRUTTORE DEL CORSO

della cattedra ambulante di agricoltura

Diplomi erano previsi anche per i partecipanti ai concorsi, ma in questo caso, naturalmente, il premiato non era un contadino ma un produttore, che spesso poteva vantare il titolo di dottore.

CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI FANO

CONCORSO DI FORAGGIERE LEGUMINOSE

4° PREMIO

Diploma di Medaglia di Bronzo

Al Signor

Giovannelli Dott. Alberto

Fano, Giugno 1906 

In tempi molto recenti, poi, c’è chi ha pensato di sfruttare l’improbabile suggestione alimentata dal ricordo di questa istituzione: Giovanni Gregoletto (a cura di), Viti ambulanti. Nuove cattedre di enologia e viticultura, Edizioni SUV, s. l., 2014.

L’autore, nato a Conegliano nel 1963, vive a Premaor di Miane in provincia di Treviso. Viticultore, ha promosso la realizzazione in località Pedeguarda di Follina, sempre in provincia di Treviso, di un luogo museale che ospita gli oggetti che compaiono nel libro. Non a caso SUV è l’acronimo di Spazio dell’Uva e del Vino.

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1

Brevi norme pratiche per riconoscere, prevenire e combattere alcuni nemici della vite, s. n., Lecce, 1884

La cantina sperimentale di Lecce nel 1886, Lazzaretti, Lecce, 1887  

Le viti americane nella provincia di Sassari, Dessi, Cagliari, 1894

Le viti americane e la viticoltura moderna, Vallardi, Milano, 1896

Nuovo vivaio di viti americane nel podere della Scuola pratica di agricoltura in Sassari, Rizzo, Catania, 1898

La regia scuola pratica di agricoltura in Marsala nel suo primo bienno di esistenza, Giliberti, Marsala, 1900

Il presente e l’avvenire della viticoltura marsalese, Giliberti, Marsala, 1900  

Gl’ibridi produttori diretti, Giliberti, Marsala, 1901  

La caprificazione in Terra d’Otranto: osservazioni ed esperimenti, Tipografia cooperativa, Lecce, 1904

La cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Terra d’Otranto nel suo primo biennio di esistenza, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1904

Le cause certe o probabili dell’improduttività degli oliveti leccesi, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907

Gelsi e bachi: istruzioni pratiche per gli agricoltori salentini, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907

ll fico: nozioni botaniche, varietà, coltivazione, produzione, disseccamento, commercio, avversita, Battiato, Catania, 1909

ll trifoglio alessandrino o bersim (trifolium alexandrinum lin.) in Terra d’Otranto : esperimenti culturali eseguiti durante l’anno 1909-1910, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1910

Il gelso: nozioni pratiche di coltivazione, con speciale riguardo al Mezzogiorno d’Italia, Battiato, Catania, 1912

Esperimento contro la mosca delle olive, (dacus oleae gml) col metodo delle capannette dachicide, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1913

La gelsicoltura e la bachicoltura in Terra d’Otranto nel 1913-14, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1914

2

Studio scientifico-economico sull’ex feudo Bosco di S. Pietro con speciale riguardo sulla coltivazione ed utilizzazione della sughera in Sicilia, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1902

La terra ai contadini, Industrie grafiche romane “ars nova”, Roma, 1924    

Perfosfati o fosforiti macinate? Problemi agrari, Stamperia della Libreria italiana e straniera, Sassari, 1926

L’ irrigazione ed il latifondo in Sicilia, s. n., Milano, 1926

Studio-inchiesta sui latifondi Siciliani, Tipografia del Senato, Roma, 1929

Contributo allo studio dell’emigrazione in rapporto alle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, Lucci, Roma, s. d. 

3

L’innesto erbaceo delle viti, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1903 

Concimi di origine organica e concimi di origine inorganica. Istruzioni pratiche sul loro uso, sul loro commercio e sul loro controllo, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905 

L’olivicultura nella zona adriatica brindisina, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905 

La nostra vigna nei riguardi ai concimi e alle concimazioni, Tipografia del commercio, Brindisi, 1913

Potatura dell’ulivo : norme da servire di guida ai pratici ulivicultori, Tipografia del commercio, Brindisi, 1915  

Protezione degli animali utili all’agricoltura, Fratelli Puglisi, Ragusa, 1932 

4

Come si dovrebbe coltivare il castagno nell’alta zona santafiorese, Stefanelli, Gallipoli, 1904

Parassitismo o Saprofitismo dello Agaricus Melleus? Appunti e ricerche, Stefanelli, Gallipoli, 1904

La questione fillosserica e le viti americane nel territorio di Sansevero, Stefanelli, Gallipoli, 1904

Bisogna mutarsi!…,Stefanelli, Gallipoli, 1905

Per una scuola d’agricoltura nel canton Ticino, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1910

Ancora della scuola agraria F. Gigante di Alberobello, Cressati, Noci, 1912

grani Strampelli e Todaro nel Fabrianese, Tipografia Federazione Consorzi Agrari, Fabriano, 1921

Della ginestra spartium junceum L., Gentile, Fabriano, 1937

Della ginestra, Arti grafiche Gentile, Roma, 1938 

5

Sunto sull’attività della cattedra dal 1 ottobre al 30 giugno 1905, Tipografia L. Caforio, Taranto, 1905

6

Guida e norme per l’acquisto e Controllo delle materie utili in agricoltura, Tip. Rusconi-Gavi-Nicrosini Succ. Gatti, Voghera, 1902

Relazione sulla attività della cattedra ambulante per la provincia di Massa-Carrara dal Maggio 1904 al Dicembre 1905, Massa, Tipografia E Medici, 1906  

Guida pratica per l’applicazione dei concimi artificiali : Esperienza di concimazione su lupini diretta dal prof. Federico Soleri, eseguita nel 1905 nella tenuta del Conte a. Guerra, Soc. Tip. Già Compositori, Bologna, 1906 

Relazione sugli esperimenti di concimazione istituiti sui Prati e Pascoli Montani in provincia di Massa e Carrara, Massa, Tipografia E Medici, 1908   

L’attività della Cattedra nel primo sessennio, Poligrafica Stagi, Conti & C., Livorno, 1910

Si può aumentare la produzione granaria in prov. Di Massa-Carrara? : Dati e risultati degli esperimenti di concimazione Chimica del grano istituiti dalla cattedra ambulante di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1922

Per le prossime semine del grano : Consigli pratici agli agricoltori apuani, illustrati dai risultati di alcuni esperimenti di concimazione chimica del grano istituti per conto del Ministero di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1923

7

Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.

8

La lotta contro le principali malattie delle piante. Note pratiche per gli agricoltori del Salento, Tipografia Guido, Lecce, 1927

Note storico-rurali su Mesagne nel Salento, Atel, Roma, 1962

Le origini di Latiano patria di Bartolo Longo. Arti Grafiche Ciccolella, Bari, 1964

Numerosissime sue monografie dattiloscritte sono custodite nella Biblioteca Nicola Bernardini di Lecce:

Origine e fine dei casali medievali del Salento, s. d.

L’ attività agricola dei monaci basiliani nel Salento nello alto medio evo, s. d.

Le incursioni turche nel Salento, 1950  

La patria di Ennio era presso Francavilla Fontana?, 1953

I templi di Minerva ed il porto in cui sarebbe sbarcato Enea sulla costa sud-orientale del Salento, 1955

Tre piazzeforti messapiche tra Oria e Brindisi, 1955

Note storico-rurali sul Salento, 1958

L’ antica via Appia nel Salento, 1959

Specchie e paretoni nel Salento, 1959

I Messapi e le guerre dei Messapi con Taranto, 1959;

Le origini ed il nome di Lecce, 1959

I nomi dialettali salentini dei fioroni di fico, 1959

L’ origine e la denominazione dei centri abitati della provincia di Brindisi, 1959

Il Limitone dei greci e la muraglia confinaria messapica nel Salento, 1959

Le città dell’antica Messapia, 1960

Torri della Regina Giovanna nel Salento, 1960

L’origine del tratto Monopoli-Lecce dell’odierna strada statale adriatica, 1961

La congetturata città di Sibari nella Messapia, 1962

Le origini e la denominazione di Otranto, Gallipoli e Leuca, 1962

Le famose lane tarantine dell’epoca romana, 1962

Fabbricati rurali fortificati del Salento e le loro origini, 1962

Oria fumosa, 1962

Tracce di aziende agrarie e colonizzazione agraria nel Salento dell’epoca romana, 1962

Le antiche diligenze e l’antica strada di Puglia da Napoli a Lecce, 1962

Neviere e neve nel passato a Mesagne a Francavilla Fontana ed altrove, 1962

L’agro di Arneo nel passato nel Salento, 1963

Le masserie del Salento e le loro vicende, 1963

Ancora sulla località in cui sarebbe sbarcato Enea nel Salento, 1963

Antichi passaggi sotterranei nel Salento con particolare riguardo a Mesagne, 1963

Chi era la regina Donna Sabetta del canto popolare di Melendugno nel Salento?, 1963

Centri balneari nel Salento nel penultimo decennio dell’ottocento, 1963

Il culto di Santa Cesaria nel Salento, 1963

Le origini e la denominazione di Santa Cesarea e di Porto Cesareo nel Salento, 1963

Le antiche vie Appia e Traiana Appia nel Salento, 1963

Note critico-storiche su Oria nel Salento, 1964

L’ origine e la denominazione di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1965

Aggiunte e modifiche alla nota n. 8 del mio opuscolo “L’origine e il nome di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1966

Le antiche numerazioni dei fuochi e l’entità della popolazione nel Regno di Napoli, 1966

Note critico-storiche sulle origini del Vescovato di Oria nel Salento, 1966

La chiesa di S. Maria della Mutata in agro di Grottaglie ed il suo nome, 1967

La popolazione di Mesagne dal 1378 al 1961, 1968

Brindisi non è la città di Temesa citata da Omero, 1968

9

L’ olivicoltura nel basso leccese : memoria monografica, Giannini, Napoli, 1807

La brusca nel mandorlo e nell’albicocco; sulla distanza degli alberi negli oliveti leccesi , R. stabilimento tipografico Francesco Giannini & figli, Napoli, 1908

Ricerche anatomo-patologiche sul roncet della vite, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1909

La coltivazione dell’asparago, Stabilimento tipografico Giordignano, Lecce, 1909

La quercia vallonea, Tipografia editrice salentina fratelli Spacciante, Lecce, 1912

Notizie intorno alla Quercia Vallonea (Quercus Aegilops L.), Premiato stabilimento tipografio Ernesto Della Torre, Portici, 1914

Sulla improduttività degli oliveti : cause, rimedi, Editrice salentina, Lecce, 1915

Per il miglioramento dei tabacchi levantini nel Salento : note sulla concimazione, Tipografia sociale G. Oronzo, Lecce, 1924

Per l’incremento della cerealicoltura salentina : a proposito della battaglia del grano, Tipografia sociale, Lecce, 1925

Fattori ambientali e concimazione nella coltivazione dei tabacchi da sigarette, Tipografia Edoardo Pizzi, Milano, 1926

Acqua del sottosuolo ed irrigazione nel Salento, Tipografia O. Guido, Lecce, 1928

L’ asparago : generalità, coltivazione ordinaria, coltivazione forzata, parassiti, commercio, F. Battiato, Catania, 1928

Relazione sull’attività della cattedra ambulante d’agricoltura di Terra d’Otranto : dalle sue origini a tutto il 1927, Guido, Lecce, 1928

Nuovo orientamento dell’agricoltura salentina: conferenza agli agricoltori (Federazione dei Sindacati fascisti degli agricoltori, Commissariato di zona di Gallipoli), Tip. E. Stefanelli, Gallipoli, 1931

Progetto di massima per la trasformazione fondiaria dell’Arneo, Editrice Salentina, Lecce, 1932

Granicoltura salentina, 1925-1932 : Commissione provinciale per la propaganda granaria, Lecce, Tip. Salentina, Lecce, 1932

La gallina leccese selezionata, Editrice salentina, Lecce, 1933

La tabacchicoltura salentina, Editrice salentina, Lecce, 1933

La trasformazione fondiario-agraria dell’Arneo, Stabilimento tipografico Scorrano, Lecce, 1934

La trasformazione agraria nel Comprensorio di bonifica di Ugento : consorzio per la bonifica di Ugento : paludi Mammalie-Rottacapozza e Pali, R. Tip. Edit. Salentina, Lecce, 1934

Per la fertilizzazione dei terreni in Provincia di Lecce, Editrice salentina, Lecce, 1935

Saltuarietà di produzione dell’olivo e concimazione ad alte dosi, Favia, Bari, 1935

L’ olivicoltura salentina attraverso i secoli, Tipografia degli agricoltori, Roma, 1937

La concimazione dell’olivo, Istituto Italiano Arti Grafiche, Bergamo, 1939

La regione salentina, Tipografia Editrice salentina, Lecce, 1946

Una antica pratica che ritorna agli onori della ribalta, Editrice salentina, Lecce, 1958

Cotonicoltura salentina : vicende storiche : prospettive per l’avvenire, Editrice salentina Pajano, 1958

10

Che cosa si e fatto in provincia jonica per la battaglia del grano, Tipografia delle Terme, Roma, s. d.

Appunti di analisi chimica qualitativa, ad uso degli studenti del 4. Corso d’Istituto tecnico, Cooperativa Tipograica Forlivese, Forlì, 1912

l tabacco sostituisca la barbabietola, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1915

Gelsicoltura moderna. I prati di gelso, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1919

Corso pratico di viticoltura. Lezioni svolte agli agricoltori ex-combattenti, Stabilimento Tipografico Editoriale Romano, Roma, 1925

L’attivita della cattedra nel triennio 1927-1929, Arti grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930

La razza asinina di Martina Franca, Arti Grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930

L’uva da tavola tardiva Saint Jeannet, Gandolfi, San Remo, 1932

L’allevamento del coniglio e le sanzioni economiche : norme pratiche ad uso dei volonterosi, Gandolfi, San Remo, 1935

Direttive per un maggior consumo di fiori, Gandolfi, San Remo, 1936

Disciplina dei mercati di produzione per la vendita all’ingrosso dei fiori, Gandolfi, San Remo, 1936

Le armi della vittoria contro le infami sanzioni, Gandolfi, San Remo, 1936

Il garofano e la floricoltura italiana, Tipografia San Bernardino, Siena, 1937

L’allevamento del coniglio : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940

L’ importanza del lavoro nella floricoltura : primo contributo sulle aziende floreali della provincia di Imperia, S.A.I.G.A., Genova, 1940

La lavanda, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1940

L’allevamento familiare della pecora : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940

I mais ibridi in provincia di Treviso : Pubblicato in occasione della Mostra provinciale del granoturco. 25 settembre-2 Ottobre 1951. (Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Treviso), Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1951

Quintali di granoturco per ettaro : Altri 18 concorrenti hanno superato I 100 quintali, Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1953

Relazione sull’attività svolta dall’ispettorato nel 1955 : (Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Treviso), Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso, 1956

I radicchi di Treviso: storia, coltivazione, forzatura, commercio, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1961

BIBLIOGRAFIA

Come s’è detto, fondamentali sono le pubblicazioni periodiche (bollettini ed annuari). quasi sempre di difficile reperibilità. Per quanto riguarda L’agricoltura salentina, fornisco di seguito un quadro della sua dislocazione con relativa consistenza:

Biblioteca dell’Accademia nazionale di agricoltura – Bologna 1907 (6), 1910 (9), 1916 (15); lacunosi 1907 (6), 1913 (12), 1916 (15)

Biblioteca nazionale centrale – Firenze 1902 (1), 1905 (4), 1907 (6), 1910 (9), 1917 (16), 1919 (18), 1939 (32) in gran parte lacunosi

Biblioteca di scienze tecnologiche – Agraria – Università degli studi di Firenze – Firenze 1914) (13); lacunosi 1914 (13)

Biblioteca Roberto Caracciolo – Lecce 1902(1), 1910 9), 1912(11), 1916 (15); lacunosi 1904, 1908-1912

Biblioteca della Camera di Commercio – Lecce  1902 (1), 1915 (14);  lacunosi 1902, 1909

Biblioteca delle Civiche raccolte storiche – Milano  1909 (8 n. 3)

Biblioteca Fondazione Banco di Napoli – Napoli 1925 (18),  1929 (22) tutti lacunosi

I titoli che seguono possono aiutare nella ricostruzione storica.

Tito Poggi, Le cattedre ambulanti di agricoltura in Italia, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1899
Tito Poggi, Le cattedre ambulanti d’agricoltura in Italia: loro origine e scopi, Officine grafiche di C. Ferrari, Venezia, 1903
Enrico Fileni, Elenco completo delle cattedre ambulanti d’agricoltura o speciali con l’indicazione del loro personale tecnico e dell’ammontare e provenienza dei loro bilanci preceduto da brevi notizie sull’Associazione Italiana delle cattedre ambulanti d’agricoltura, Tipografia operaia romana cooperativa, Roma, 1906
Cattedre ambulanti di agricoltura. Disposizioni legislative e regolamentari, Tipografia G. Brunello, Vicenza, 1908
Dino Sbrozzi, Riordinamento delle cattedre ambulanti di agricoltura, Tipografia A. Nobili, Pesaro,1911,
Pietro Zambrini, Le cattedre ambulanti di agricoltura italiane, Tipografia E. Cattaneo, Novara, 1923
Luigi Pagani, Della ricostruzione delle cattedre ambulanti di agricoltura, Arti Grafiche Esperia, Venezia, 1946
A. Bianchi, Dalle cattedre ambulanti agli ispettorati provinciali dell’agricoltura, Centro studi agricoli Shell, Borgo a Mozzano, 1960
Mario Zucchini, Le cattedre ambulanti di agricoltura, G.Volpe, Roma, 1970
Franco Antonio Mastrolia, Istituzioni e conoscenze agrarie in Terra d’Otranto (1910-1930), Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2018

Dialetti salentini: giuncare, giùnculu e risciuncare

di Armando Polito

 

Quando si opera un’indagine etimologica bisogna anzitutto considerare il significato della parola, compreso, eventualmente,  quello o quelli con slittamento metaforico, senza lasciarsi suggestionare più di tanto da sirene fonetiche, che, magari, indurrebbero a credere che due parole con più suoni in comune abbiano lo stesso etimo. Questa premessa non è casuale, perché le tre voci del titolo sono adattissime a spiegarlo in concreto.

Cominciamo, dunque, con le definizioni.

Giuncare esprime l’irrigidimento o il blocco di un’articolazione:  m’hannu ggiuncatuli tèscite (mi si sono anchilosate le dita). La voce ha il suo esatto corrispondente italiano in ciocare, sinonimo di tagliare, mozzare, che è da cionco (di etimo incerto, anche se da alcuni connesso col latino truncus=pezzo di legno tagliato, da cui, con leggero slittamento semantico, tronco), che come aggettivo è sinonimo di mozzato, ma in valenza sostantivata di storpio, sciancato.

Giùnculu è lo spicchio d’arancia o di melagrana (di questa voce dirò più estesamente alla fine).

Risciuncare esprime il rammollimento, soprattutto di un alimento che ha perso la croccantezza a causa dell’umidità: ‘sti friseddhe so’ risciuncate  (queste friselle si sono rammollite, hanno perso la croccantezza).

 

Ma il dialetto (beninteso, non solo quello salentino) è capace delle più ardite metafore: cce aria rrisciuncata! (che afa!).

Risulta chiaro dalle definizioni che le due voci si riferiscono a due concetti opposti: giuncare all’irrigidimento e rsciuncare al rammollimento, come anche i risvolti erotici della vignetta indicano inequivocabilmente …

Rimane da individuare l’etimo di risciuncare, in cui a prima vista, appare chiaro solo il prefisso ripetitivo ri-. Resta sciuncare, che non dovrebbe avere nulla a che fare con giuncare, perché, a parte quanto già detto sul piano semantico, se così fosse stato, non si capirebbe per quale motivo non avremmo dovuto avere rigiuncare e non risciuncare.

Il segmento –sciuncatu mi fa venire in mente sciuncata l’esatto corrispondente salentino all’italiano giuncata, latte rappreso con caglio, non salato, messo a scolare, in passato, in cestelli o su piccole stuoie di giunco.

L’adeguamento linguistico imporrebbe che oggi questa prelibatezza venisse chiamata plasticata, dal momento che in virtù (?) delle direttive europee cestelli e stuoie in giunco sono stati banditi per motivi igienici e sostituiti da quelli in plastica, grazie ai quali il tifo o malattie simili sarebbero nell’immediato scongiurate, salvo, poi, morire di cancro, magari a distanza di qualche anno.

Meglio tornare alla nostra sciuncata, participio passato sostantivato di un sciuncare, verbo totalmente inusitato per quanto riguarda tutti gli altri modi, se la sua presenza non emergesse nel composto, per ora solopresunto, risciuncare.

Ma, per far fuori la presunzione, che legame ci può essere tra questo verbo e la sciuncata? Per ora vi invito solo a pensare alle sue caratteristiche organolettiche, con particolare riguardo alla sua consistenza.

Nel frattempo faremo un’incursione tra coloro che hanno affrontato il problema e vedremo che le sorprese non mancano. La prima è che proprio il più qualificato a dire la sua, cioè il Rohlfs1, non propone alcunché, etimologicamente parlando.

Il Garrisi2 tratta il lemme nel modo che segue.

Viene proposto uno dei soliti, disinvolti incroci, che in più di un’occasione ho definito pericolosi. Qui, addirittura, si sarebbero incrociati gli opposti (cedevolezza del giunco da una parte e rigidità del cionco dall’altra), come risulta dal lemma giuncare.

La contraddizione tra i significati 1 e 2 riportati per rresciuncare è insanabile e può essere soppressa solo collegando etimologicamente 1 a sciuncu e 2 a cionco e non privilegiando quest’ultimo, per cui 1 appare come suo figlio bastardo. E tutto perché ci si è intestarditi sull’esito sc– che il salentino mostra rispetto all’italiano g– seguito da e o da  i (sciardinu/giardino; sciuncu/giunco; sciùu/giogo; sciurnata/gioornata; scelu/gelo, etc. etc.). Lo stesso non avviene rispetto all’italiano c-, sempre seguito da e o da i), che rimane tal quale (cirieddhu/cervello; ciùcciu/ciuco, etc. etc.). Tutt’al più c– può diventare g– (ggimentu/cemento; giintare/cimentare, etc. etc.), cosa, questa, successa pure proprio al cionco di giuncare e, come vedremo tra breve, di giunculu.

Passiamo a Giuseppe Presicce3.

Stesso riferimento alla cedevolezza del giunco già vista nel Garrisi, attraverso una strada che non presenta intersezioni con incroci di sorta. Tuttavia, a me pare che la caratteristica del giunco sia la sua elasticità, ben diversa dalla cedevolezza, tant’è che in passato esso era utilizzato pure come rudimentale legaccio, in omaggio alla probabilissima  parentela del latino iuncus (padre di giunco) con iùngere (=unire, da cui giungere e composti), da una radice iug– condivisa pure da iugum (da cui giogo)..

La confusione concettuale e quella fonetica (relativa all’esito sc-), prima abbondantemente rilevate con le conseguenti acrobazie etimologiche,  permangono e raggiungono il parossismo in Ciarfera-Mennonna4, con in più una serie di snervanti e distraenti rimandi, che riporto integralmente, mettendomi a disposizione del lettore che avesse eventualmente bisogno di orientarsi in simile labirinto nella ricerca disperata di una via d’uscita diversa dalla mia.5 

risciuncare: verbo intransitivo [da sciuncare, vds. voce, con il pref. ri-]. Rattrappirsi o rammollirsi del pane per l’umidità; avvizzirsi delle verdure o dei legumi. Lu pane s’è risciuncatu tuttu: questo pezzo di pane si è tutto rammollito. Si dice anche ggiuncare (vds. voce).

sciuncare: verbo transivo/intransitivo [dall’aferesi di giuncare, vds. voce, con il prefisso s-1].Atrofizzare; paralizzare;afflosciarsi sulle gimocchia. Il termine potrebbe derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e privo di forza.     

ggiuncare verbo transitivo [da ggiuncu, vds. voce]. Atrofizzare; paralizzare: addormentare un arto; afflosciarsi sulle ginocchia. Il termine può derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e senza forza.

Ora non mi risulta per Nardò sciuncare come variante di giuncare, ma, anche se così fosse, sarebbe voce d’importazione dal tarantino, dove sciuncà, in forma riflessiva, significa non svilupparsi più e acciuncà, sempre in forma riflessiva, è usato come invito a sedersi ad un bambino irrequieto, invito decisamente non beneaugurante, pensando al significato di partenza; e poi, nel brindisino, acciungà, sempre riflessivo, sinonimo di rattrappirsi. La valenza semantica, ancora una volta, risulta determinante per l’etimo del presunto neritino sciuncare, che sarebbe, comunque, da cioncare (a sua volta da cionco) con prostesi di s– intensiva; e a tal proposito non posso non ricordare pure il calabrese ciuncare, sinonimo di storpiare.

Per farla finita: secondo me la metafora sta sì nel giunco, ma in forma mediata, cioè in riferimento alla sciuncata, grazie alla quale è nato, con l’aggiunta di un prefisso, un verbo che ancora una volta prova, laddove ce ne fosse stato bisogno, quant’era poeticamente fervida la fantasia popolare.

Era rimasto in sospeso giùnculu. Di seguito il lemma com’è trattato dal Rohlfs.

Come già per risciuncare, non compare proposta alcuna di etimo. La variante figghiùnculu farebbe pensare ad un diminutivo-dispregiativo di fìgghiu (figlio) con l’aggiunta a quest’ultimo del suffisso, di origine latina, presente in italiano in foruncolo, ladruncolo, omuncolo, peduncolo, ranuncolo, mentre fuggiùnculu appare deformazione di figghiùnculu.  Nel primo dettaglio riportato spicca l’attestazine di giùnculu solo per Nardò e Galatone, mentre le altre varianti riguardano il Brindisino ed il Tarantino, ad eccezione di fungiùnculu attestato per Lecce (lo riporta anche il Garrisi, ma senza etimo; nel Presicce il lemma è assente). Questo autorizza a supporre, pur con prudenza, che giùnculu sia voce, per così dire, autoctona, non derivata da figghiùnculu per aferesi e per strana perdita del suono gutturale di g, ma diminutivo di cionco (quello stesso di giuncare), con l’aggiunta del suffisso già visto per figghiùnculu. Certo, l’immagine poetica del parto plurigemellare dell’arancia non può competere con quella prosaica in cui uno spicchio evoca un pezzo del frutto separato per natura dagli altri che lo costituiscono, ma nulla è perfetto, nemmeno la fantasia …

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1 Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

2 Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990

3 Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (solo in rete: http://www.dialettosalentino.it/risciuncare.html:)

4  Enrico Ciarfera-MarioMennonna, Il Vulgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020

5 Eppure, sarebbe bastato, forse, a gettare un po’ di luce, che gli autori avessero tenuto conto del trattamento da loro stessi riservato ai due lemmi che riproduco:

ggiùnculu sostantivo maschile [da ggiuncu, vds. voce, con suffisso -ulu]. Spicchio di agrumi; seme di fava. Il termine può derivare dal fatto che lo spicchio diventa tale se separato e che il seme di fava è tenuto stretto nel baccello.

ggiuncu: aggettivo [cfr. it. cionco, dal lat. truncu(m): tronco, mozzato]. Storpio, sciancato; rattrappito nelle membra; attrappito; paralitico.

 

Dialetti salentini: scilare

di Armando Polito

I cambiamenti climatici sono destinati ad influenzare pure la lingua, tant’è che non è difficile immaginare la rapida obsolescenza della voce dialettale del titolo e del suo esatto corrispondente italiano, che è gelare.

Da notare nella voce dialettale l’esito sc– di g– seguito da e o da i, come in sciurnata/giornata (ma giurnu/giorno) e, per restare alla voce primitiva, in scelu/gelo (ma gelone, e non scilone, /gelone).

L’afa soffocante di questi giorni ci fa rimpiangere tutte le voci attinenti al concetto di freddo finora riportate, ma non è sufficiente a farmi desistere dal chiedermi il perché del comportamento piuttosto capriccioso dell’esito sc-. Mi rendo perfettamente conto che la lingua, essendo lo specchio della stessa vita, è soggetta a fenomeni talora non facilmente spiegabili o perché affondano le loro radici in un passato troppo antico perché possa essere analizzato o, addirittura, nell’irrazionale. In casi simili, purtroppo, formulare ipotesi è come tentare di arrampicarsi sugli specchi, mentre la scienza richiede di stare con i piedi ben piantati per terra.

Munito di un paio di ventose che si chiamano l’una incoscienza e l’altra presunzione, inizio la scalata a caccia di quello che in questi giorni è l’oscuro oggetto di un desiderio che non può essere certo soddisfatto da qualcosa destinata a scomparire al massimo dopo qualche minuto: il gelato..

Participio passato sostantivato di gelare, la voce rimane tal quale nel salentino gelatu, nel quale, da scilare (corrispondente a gelare, come scelu a gelo) ci saremmo aspettato scilatu. Che il mancato esito sc– dipenda da motivi di differenziazione semantica, peraltro poco spinta, per cui scilatu è riservato all’esclusivo uso verbale (m’ha scilatu=ho sentito freddo) e gelato a quello sostantivato?  Difficile attribuire all’uso dialettale la capacità di operare una distinzione di marca grammaticale. E allora? Io non escluderei che gelatu sia entrato nel salentino in tempi relativamente recenti, cioè da quando pure il mondo contadino ha potuto conoscere l’esistenza di questo prodotto e a gustarlo. Lo stesso può essere successo per gelone, che certamente è stato da sempre più democratico di gelato, per cui, pur conoscendolo da sempre, il mondo contadino non poteva barattare il suo poeticissimo pruticeddhu (privilegiante l’effetto, cioè il prurito e non la causa, icioè l freddo) con una voce anch’essa nata in tempi relativamente recenti (il dizionario De Mauro daia gelone al 1822; ma con queste date bisogna andare molto cauti).

Sento che una ventosa, quella della presunzione, emette uno strano scricchiolio; basterà quella dell’incoscienza a riportarmi indenne a terra? Posso sperare che nel frattempo qualcuno stenda un bel telone di salvataggio (leggi interpretazione più attendibile)?. E, se pensate che il caldo mi abbia dato alla testa, pensate al personaggio della vignetta e, se vi resta un briciolo di lucidità,  comunicatemi la soluzione della sciarada …

 

Tricase: un toponimo dall’etimo in…trica..to’!

di Armando Polito

Il passato ha sempre registrato l’attività truffaldina (altro attributo non so riservarle) di non pochi storici, soprattutto locali. Nardò può vantare un campione probabilmente insuperabile, Giovanni Bernardino Tafuri, la cui attività di produttore di documenti falsi è ben nota agli studiosi. Un falsario può essere spinto ad esercitare la sua nefasta attività da una miriade di motivi, tutti, però, riconducibili ad un illecito profitto, non necessariamente da identificare nel denaro. Quest’ultimo nel caso del Tafuri non gioca un ruolo diretto e personale (non ne aveva certamente bisogno); sono piuttosto altre le motivazioni, forse un pizzico di narcisismo (che manca solo nelle cosiddette bestie, nei vegetali e nei minerali …), la frequentazione di cattive compagnie (il compagno di merende Pietro Polidoro), l’intento di nobilitare le memorie patrie col fine di accrescere il prestigio della chiesa neritina, con tutti i vantaggi, anche economici, connessi. Siamo alla prostituzione più vergognosa di ciò che ci distingue, si dice, dalle cosiddette bestie, la conoscenza, quella autentica, che parte da dati reali, non inventati, anche se, poi, la loro interpretazione, sempre operata in buona fede …, resta, deve restare, libera.

Sistemati gli storici, passo ai divulgatori, che hanno una responsabilità di cui spesso, soprattutto quelli sedicenti, non si rendono conto.

E siamo ai letterati, intesi in senso ristretto, nella cui produzione la fantasia e, dunque, la finzione e l’invenzione hanno un ruolo fondamentale.

Ho lasciato per ultimi i lettori, destinatari, in fondo (è proprio il caso di dirlo, dell’attività dei primi tre e sempre più esposti al rischio di essere presi, questa volta ancora più in fondo, per i fondelli.

Tutti, però, si avvalgono, giustamente, degli strumenti che il loro tempo offre, per cui, se fino al recente passato la realizzazione e diffusione (e, dunque, la lettura) delle opere a stampa era molto limitata, oggi i mass media, nel bene e nel male e soprattutto con l’avvento della rete, hanno drasticamente contratto i parametri del tempo e dello spazio nella diffusione della conoscenza, ma, nel contempo, hanno dilatato in maniera esponenziale le possibilità di errore, equivoci, ambiguità e truffe.

Questa premessa è indispensabile per comprendere correttamente il titolo di questo post, quanto sto per argomentare e per collocare i protagonisti al posto giusto.

Qualche giorno fa, avendo incontrato il toponimo Tre casi nella lettura di un manoscritto (autentico ed inedito) del XVI secolo (nell’immagine di testa il ritaglio della carta dell’originale, al quale ho aggiunto il rettangolo evidenziatore del toponimo qui coinvolto), ho avvertito la necessità di aggiornare le mie conoscenze circa il suo etimo. Chiunque utilizzi la rete per le sue indagini sa benissimo che i motori di ricerca in casi simili ti portano dritto dritto, bene che ti vada …, a Wikipedia, a meno che uno non punti, subito dopo la comparsa del primo link, al filtro Libri.

E proprio da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tricase#Origini_del_nome) riporto fedelmente con un copia-incolla quanto vi si legge:

” Tricase, anticamente forse denominato Treccase, poi Trecase, successivamente Tricasi o Tricasium, dovrebbe il suo nome all’unione di tre casali differenti che, unendosi, avrebbero dato origine ad un unico nucleo abitativo[7]. L’etimologia più accreditata tuttavia traduce il nome Tricase come inter casas, vale a dire, un paese formatosi in mezzo ad altri casali[8]. Secondo una nuova tesi, sostenuta dai documenti portati in luce dal ricercatore in studi Bizantini Giovanni U. Cavallera, l’origine del nome non avrebbe un’etimologia latina bensì greca, facendone risalire la genesi a Demetrios Tricás, giovane funzionario dell’Impero Romano d’Oriente, incaricato di monitorare la situazione del Capo di Leuca[9].

Per farla completa, riporto di seguito anche il testo delle note:

“[7] Secondo gli storici Tasselli, Micetti, D’Elia e Marciano.

[8]  Mons. Giuseppe Ruotolo, Ugento – Leuca – Alessano, Siena, Editore Cantagalli, 1952.

[9]  Cavallera U. Giovanni, Il viaggio di Tricàs, 2018

Senza perdere tempo con le due precedenti (peraltro, la prima chiaramente incompleta nella sua sommarietà, oltre al fatto che gli autori risultano citati non in ordine cronologico, in parole povere, alla rinfusa) mi soffermo sulla nota 9 connessa con la parte di testo che ho colorato in rosso, evidenziato col grassetto e sottolineato (se potevo fare di più, fatemelo sapere …). Lì per lì mi sono pure vergognato di non essere a conoscenza di questa nuova tesi (!). Siccome non mi fido nemmeno di me stesso, ho voluto, come al solito, controllare e ho trovato in rete la riproduzione del libro citato (https://www.google.it/books/edition/Il_viaggio_di_Tric%C3%A1s/QhZpDwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=IL+VIAGGIO+DI+TRICaSE&pg=PA4&printsec=frontcover). Nonostante fosse parziale (le prime 22 pagine e l’ultima, la 91, contenente l’indice), essa ha fatto diventare quasi certezza i pesanti dubbi (a cominciare da quello iniziale sul passaggio Tricàs>Tricase) che via via emergevano. Mi hanno colpito, nell’ordine:

1 Il sottotitolo Un inedito bizantino dell’XI secolo, in cui spicca quell’intrigante inedito, che evoca subito l’idea di un manoscritto antico.

2) Il fatto che la stampa è stata curata da una di quelle aziende, spuntate come funghi in questi ultimi anni, grazie alle quali chiunque può pubblicare qualsiasi cosa, purché paghi. Ma, in riferimento al punto 1, se si fosse trattato di un saggio, perché l’autore, non nuovo a pubblicazioni scientifiche, avrebbe dovuto operare una scelta editoriale che condannava questo suo lavoro a non comparire registrato, come gli altri, in OPAC e, tutt’al più, godere dell’effimera gloria delle solite passerelle (https://www.facebook.com/photo/?fbid=1947615412021901&set=il-viaggio-di-tricas-di-giovanni-u-cavalleria-sabato-1-dicembre-scuderie-di-pala&locale=it_IT)?

3) Un’intera pagina ospita la pubblicità di un’azienda con il contributo della quale è detto chiaramente essere stato realizzato il libro.

4) La presentazione, in cui si fa una frittura mista, molto indigesta già al primo assaggio, di Romei, imperatore Basilio, un Giovanni, magistros e didaskalos, ultimo fra i grammatici (che si presenta come traduttore del testo in greco del manoscritto) e un Alessandro, gloria dei Domenicani. Chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere in tempi in cui a scuola era obbligatorio leggere I promessi sposi, ricorderà senz’altro che il Manzoni nella parte introduttiva s’inventa l’esistenza di un dilavato e graffiato autografo, dal quale avrebbe  poi deciso di tratto le vicende del suo romanzo.

5 L’attacco del testo vero e proprio, il cui stile e lessico Giovanni, per rendere più credibile per qualche secondo in più il tutto, avrebbe dovuto antichizzare: Il sole sorgeva dietro i monti dell’Epiro delineando lo scuro profilo della rocca di Dyrrachion

Nonostante fossi più che certo delle mie conclusioni tutt’altro che benevoli per il furbesco sottotitolo, la mia, forse congenita, peccaminosa e perversa mania di accuratezza e precisione ha finito ancora una volta per prevalere. Così, pur non nutrendo nessuna speranza di trovarvi non dico la riproduzione di qualche carta dell’inedito bizantino, ma almeno qualcosa di vero, come la confessione dichiarata, sia pure alla fine, di un’invenzione, nelle Annotazioni e nella Nota storica che si leggono nell’indice, ho comprato il libro, la cui lettura integrale ha ulteriormente confermato ciò di cui ero più che certo. In aggiunta debbo dire che l’autore avrebbe fatto meglio, ma si tratta di un gusto mio personale, a chiarire da subito la natura del lavoro (onde diradare la nebbia del sottotitolo) nella controcopertina, occupata dalla solita, stucchevole scheda personale,  che ormai accompagna tutte le pubblicazioni col pretesto di presentarsi educatamente prima di entrare in casa altrui, in realtà con finalità autoreferenziali e pubblicitarie. Per quanto riguarda, infine, il dotto corredo delle note, peraltro puntuale ed esaustivo, mi permetto di osservare circa quella dedicata a Trikàs , che sarebbe quanto meno strano che non sia sopravvissuto della famiglia proprio il nome di colui che avrebbe potuto aver dato il nome alla città, a parte il fatto che basare un etimo sulla coincidenza parziale o totale dei fonemi è pericoloso e fuorviante. Questa  precisazione mi è sembrata doverosa solo in riferimento a quella velleità etimologica che certamente l’autore non ha, ma che, pur inconsapevolmente (leggi per leggerezza), Wikipedia gli attribuisce.

Il libro, comunque, vivrà, difficile dire per quanto tempo, il suo momento di fasulla gloria scientifica su questa che, purtroppo, è l’enciclopedia più consultata di tutte le altre (compresa la Treccani) disponibili (da un po’ di tempo, però, col ricatto dell’accettazione dei biscotti; io, che non so parlare, chiamo così i cookies. E poi qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia e parecchi ingenui ci hanno pure creduto …) in rete, grazie alla dabbenaggine di chi ha compilato la scheda relativa a Tricase. Tutto questo, lo ribadisco,  sicuramente senza che lo volesse l’autore e a tal proposito debbo supporre che alla data odierna egli non ne sia a conoscenza, non essendo intervenuto, se non per una querela, almeno per una richiesta di rettifica, prima che a qualche laureando o a qualche aspirante accademico di ultima generazione venga la tentazione di fare scellerato uso di simile ghiottoneria.  Insomma, un caso di malarete, simile a due altri dei quali mi ero occupato alcuni anni fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e che, per restare nell’ambito salentino, espone agli stessi rischi della saga su Arthas di Fernando Sammarco. Per Leucasia all’epoca non lessi (né comprai …) il libro: ero meno rincoglionito o sono oggi più dotato di spirito critico, che si nutre di dubbi, suscettibili di diventare certezza o, per quanto umanamente possibile, verità, dopo aver superato i vagli più disparati?

E mi piace chiudere, a dimostrazione che nemmeno a me manca la fantasia, certamente meno raffinata di quella esibita dal creatore di Tricàs, con un messaggio all’estensore della voce wikipediana, che potrà aggiornare pure la scheda relativa a Nardò, aggiungendo, a proposito dell’etimo del toponimo, queste poche righe, possibilmente, se ne è capace, con un copia- incolla, per evitare errori che nel campo della divulgazione, soprattutto scientifica, sono esiziali : Secondo una nuova tesi il toponimo non avrebbe un etimo latino o greca o messapico, e pure tutta l’acqua messa in campo con la radice nar- è, ormai, acqua passata sotto i ponti, per giunta sporca, ragione per cui va buttata, mentre il bambino, cioè l’etimo, è tra le braccia sicure di Armando Polito il (ri)cercatore, per qualcuno presto ricercato(re), abitualmente di funghi e casualmente di manoscritti, come quello  dell’età della pietra da lui rinvenuto in una caverna. Esso conserva il ricordo di Odràn (i genitori l’avevano chiamato Udràn, ma era stato proprio lui a cambiarlo in Odràn perché il suono della u gli sembrava più cavernicolo di quello della o), giovane cavernicolo dotato di capacità profetiche, appassionato di enigmistica, nonché di italiano antico e poetico (odràn), come mostra il suo nome, udite!, udite! (l’aveva pronosticato …), letto all’incontrario.

A breve, non appena avrò trovato uno sponsor all’altezza per la pubblicazione del saggio già pronto, sarà mia cura inviare tutti i dati necessari per la doverosa integrazione con una nota bibliografica.

Neritini, alla ricerca del nonno!

di Armando Polito

L’invito è rivolto direttamente a coloro ch , avendo pressappoco la mia età (78 anni),presumibilmente  hanno avuto la fortuna di conoscere il nonno, ma è aperto a tutti coloro che, coinvolti direttamente o no, vogliano collaborare a questa piccola, ma non insignificante per gli interessati, ricostruzione di un pezzo di storia,  ormai non più recente di Nardò, per ora attraverso i soli nomi, nella speranzosa attesa che qualche lettore ci renda partecipi di documenti, aneddoti, foto. – Va bene cercare il nonno, ma la nonna no? – dirà sommessamente qualcuno giustamente assertore della par condicio o, se preferitre, delle pari opportunità, mentre qualche femminista dal dente avvelenato, non potendo mordermi, mi avrà già mandato al soggiorno sdoganato dai grillini. Già, le pari opportunità oggi sono almeno oggetto di discussione e rivendicazione, ma quasi un secolo fa non esistevano nemmeno come concetto astratto. Questo spiega la ricerca del solo nonno, perché nelle tabelle che  seguono non compare nemmeno un nome, dico  uno solo, che sia femminile. Molto probabilmente sarebbe accaduta la stessa cosa se i dati si fossero riferiti non a notai, medici e simili ma a pittori, scultori, letterati e simili. Fra un secolo, forse, qualcuno farà, utilizzando strumenti ben poù abanzati della rete, dei blog e dei social, la stessa mia operzione utilizzando i dati di oggi  e, magari, non lo dico per conforto vanamente compensativo, ma come sincero auspicio, la situazione risulterà parzialmente o totalmente ribaltata,  anche se il secondo esito mi pare quasi impossibile, essendo improbabile che un costume millernario possa così radicalmente cambiare nell’arco di un secolo.

Nelle tabelle, estrapolate ma fedelmente riprodotte da Il Salento, rassegna abbuale della vita e del pensiero salentino, v. VII compilato da Gregorio Carruggio per l’anno 1933, Editrice “L’talia Meridionele”, Lecce, 1933, ho evidenziato, aggiungendo all’originale la sottolineatura, i nomi dei neritini, tra i quali l’unico che ho conosciuto personalmente è il dottore oculista  Crispino Vetere, padre del professore Benedetto, cuche mi prescrisse il mio primo paio di occhiali. Io ho iniziato; e voi?

pp. XLVII-XLVIII

pp. CIII-CIV

p. 219

Il Salento e tre stemmi parlanti

di Armando Polito

Moltissimi vocaboli dell’uso comune assumono spesso una valenza semantica specialistica con la loro adozione, accompagnati o no da un altro, da parte di un settore specialistico, per lo più scientifico. Talvolta, poi, il vocabolo appare proteiforme grazie all’evoluzione del costume, e non solo di quello..

Così, per fare un esempio legato all’attualità, surrogato lo si incontra come participio passato con valore aggettivale nel settore burocratico e giuridico, come aggettivo sostantivato in quello della lingua comune con riferimento ad un cibo che sostituisce un altro, ma, essendo di qualità inferiore, appare come un ripiego, con tutte le connotazioni negative che tale concetto comporta. Gli ultimi sviluppi di tale processo sono rappresentati dalla locuzione maternità surrogata, sulla quale sorvolo per non uscire dal seminato …

Un cammino simile ha percorso parlante, normalissimo participio presente di parlare, che, usato al plurale usato al plurale con valore sostantivato designa coloro che usano una determinata lingua per le normali esigenze espressive, distinti, forse con un pizzico di spocchioso razzismo linguistico, dai letterati. Ma parlante, conservando  la sua valenza originaria di participio presente, ha un impiego anche in epigrafia e in araldica con le locuzioni, rispettivamente, di iscrizione parlante e di stemma parlante.

Tutte le epigrafi, in fondo, parlano, ma quelle definite tecnicamente parlanti dannoi un’informazione diretta sul supporto che le ospita. Una delle epigrafi parlanti più famose è la fibula prenestina, una spilla in oro risalente al VII secolo a. C. rinvenuta a Preneste. Vi si legge, procedendo da sinistra verso destra, quella che è considerata la più antica testimonianza conosciuta fino ad ora del latino: MANIOS MED FHE FHAKED NVMASIOI, che nel latino classico sarebbe stato MANIUS ME FECIT NUMERIO (Manio mi fece per Numerio). L’epigrafe qui ci fa conoscere il nome dell’artista lche creòa spilla e quello del destinatario, probabilmente il committente, anche se non sapremo mai se l’oggetto era per uso personale o destinato ad essere donato.

Lo stesso vale per lo stemma parlante, in cui lo scudo mostra  un dettaglio strettamente connesso con il nome della famiglia.

È  il caso dei tre stemmi che seguono, relativi a famiglie con le quali, nella persona di un loro appartenente, il Salento ebbe a che fare nel corso del XVII secolo il Salento, nel bene e nel male e, in quest’ultimo con gli ultimi due, Nardò in particolare.

 

Per brevità rinvio chi ne abbia interesse a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/06/iacopo-pignatelli-1625-1698-di-grottaglie-e-papa-alessandro-vii-gia-vescovo-di-nardo/

e, in particolare, per Pignatelli a https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/06/22/dialetti-salentini-e-non-solo-pignata-o-pignatta/

Duomo di Lecce, dettaglio dello stemma arcivescovile di Luigi Pappacoda (in carica dal 1639 al 1670)

Nardò, Stemma di Giovanni Granafei nella chiesetta (sconsacrata) di S. Maria della Grotta e, per agevolarne la lettura, di seguito lo stemma della famiglia  del palazzo Granafei Nervegna a Brindisi.

Sempre per brevità (e non per autoreferenzialità) rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/

I porti di Brindisi e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Ad integrazione delle due mappe riportate tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/24/gallipoli-e-taranto-in-due-mappe-del-xvii-secolo/) ne segnalo altre due facenti parte di una collezione custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (collocazone: Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, GE DD-2987 (5656). Lo faccio a beneficio di chi volesse fare un esame comparativo anche sul piano grafico, tenendo presente che, quando , come nella cartografia, dev’essere rappresentato fedelmente lo stesso soggetto, tutto si gioca sui dettagli. Poi ci sono gli scopiazzamenti spudorati, che coinvolgono pure nomi di cartografi ed editori famosi del passato (solo di quello?…), ma questo è un altro discorso.

Dialetti salentini … e non solo: pignata o pignatta?

 

di Armando Polito

Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta).

Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne.

Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato  nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni,  sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.

Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella  la data più antica conosciuta  al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima.

Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.

Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò,  il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.

Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).

Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2

Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari  quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.  

(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)

Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).

E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de II Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.

Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però,  risulta presente  nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).

Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio  al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato,  pignata.

E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo  e il polpo, tutti, appunto, a pignatu. Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …

(Tavola tratta da Consultationes canonicae, De Tournes, Lione, 1775)

 

E mi piace chiudere con un’informazione destinata a quell’unico lettore che ha avuto l’eroica (per me, per altri perversa)  perseveranza di seguirmi fin qui e che, preso dall’entusiasmo (!) ha intenzione di comprarne una per farle vivere nuove, calde esperienze: la pignata non serve a preparare la frittata, anche se uno dei tanti sedicenti esperti e, nel nostro caso di linguistica, prima in circolazione solo la domenica, oggi tutta la settimana, è riuscito con la pignata a fare l’esilarante frittata che di seguito vi servo insieme col suo prezioso link (affrettatevi a controllare, perché blog di questo tipo hanno fiutato l’affare, ma, nel momento in cui lo sponsor li abbandona in quanto non più produttivi, improvvisamente scompaiono), dopo aver osato evidenziare anche con la sottolineatura il fuoco d’artificio degno finale di un simile spuntino …

(https://comesiscrive.it/dubbi/pignatta-o-pignata/)

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1 Pubblicato in Annali bolognesi, s. n., Bassano, 1789, v. II, p. II, p. 220

2 Chronica Fr.  Salimbeni Parmensis Ordinis Minorum ex codice Bibliothecae Vaticanae nunc primum edita, Ex officina Petri Fiaccadorii, Parmae, MDCCCLVII, p. 407

3 Alfredo Stussi, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Nistri Lischi, Pisa,1966, doc. n. 77 a p. 124)

4 Per alcuni la somiglianza riguarderebbe l’intero contenitore, per altri il coperchio col suo pomello terminale;  a nessuno è venuto in mente che la disposizione delle brattee sembra aver ispirato la messa in opera delle tegole e, se si pensa che pignata in salentino è anche la tegola (mentre l’italiano pignatta designa un laterizio differente), il passo dalla pigna alla pignata/pignatta è veramente breve. Breve, come il passaggio dalla vita alla morte, se si pensa che tegola (insieme con teglia) è dal latino tegula(m)=padella, tegame, pentola, casseruola, a sua volta dal verbo tègere Iil cui participio passato, tectum, ha dato vita a tetto; tetta ha altro etimo)=coprire, per cui ricordo che una sola tegola fungeva spesso da piccola bara nelle sepolture infantili. Per completezza d’informazione dico pure che la pigna non è la sola indiziata di aver messo alla luce la pignata: per esempio, Giovanni Battista Pellegrini mette un campo un’altra trafila che, parte dall’aggettivo latino pinguis=grasso,  attraverso una seconda tappa il cui arrivo per me resta sub iudice, giunge a pignatta: pinguis>*(ollam) pinguiottam (pentola per conservare il grasso)>pignatta (Archivi Glottologico Italiano,61, 1976, pp. 165-172). Infine non va dimenticato il coppo, che della tegola è il sinonimo, imparentato semanticamente con  la  pignata, nonché figlio di coppa, che è dal latino tardo cuppa(m), di cui coppola è il diminutivo, as ua volta dal classico cupa(m), di cui cupola è il diminutivo, che poi ha trovato ridimensionamento opposto nella cupola per antonomasia, quella di S. Pietro, il Cupolone.

Due solenni tirate d’orecchi (la prima di quasi un secolo fa) al letterato neritino Francesco Castrignanò (1857-1938)

di Armando Polito

castrignanò Francesco

Qualcuno, leggendo le prime cinque parole del titolo, si sarà aspettato un prosieguo all’altezza, infarcito di ingiurie e parolacce, come la corrente pratica più o meno giornalistica e televisiva impone per scopi ben diversi dall’interpretazione per quanto è possibile corretta (e urbanamente, lo dico con il massimo rispetto per chi non vive in città) di ciò che istante per istante accade. Sempre quel qualcuno sarà rimasto deluso nel leggere la determinazione temporale delle successive cinque parole, non certo perché fosse chiaro che non potevo essere stato io a tirare le orecchie a Francesco Castrignanò, ma per il fatto che acqua passata non macina più e, se di fronte ad un rimprovero pur non privo di fondamento più o meno tutti reagiamo, se siamo educati, con un’alzata di spalle, senza usare locuzioni in cui la parola finale della proposizione precedente mostra la perdita di s-…, figurarsi quanto può incuriosire l’annunciata, addirittura doppia, tirata d’orecchi fatta tanto tempo  fa. Non è questo un gossip che si rispetti! E poi, Francesco Castrignanò, almeno dalla foto allegata, non sembra che fosse un attore, un cantante, un atleta o qualcuno (stavo per dire, forse più opportunamente … qualcosa) di simile. Infatti era un letterato e, forse m’illudo, le cose per il lettore cambiano. La categoria dei cosiddetti intellettuali non gode, molto spesso a ragione, specialmente ai nostri tempi, di grande considerazione e noi, cosiddetti comuni mortali (sicuramente siamo mortali, ma, se non lo fossimo, ognuno di noi potrebbe discutere per secoli sul comuni), non possiamo rinunziare a quel pizzico di soddisfazione che si prova quando qualche personaggio meritatamente o no in vista viene colto in fallo, soprattutto se quest’ultimo riguarda il campo per il quale e nel quale ha acquisito la notorietà.  Forse, allora, mio unico lettore ancora rimasto, questa è un’occasione da non perdere.

Non ho nulla contro Francesco Castrignanò e l’alta considerazione, che di lui ho mostrato di avere parlandone ripetutamente su questo blog1, non è minimamente cambiata e le due tirate d’orecchi che sto per documentare hanno il solo scopo di scuotere quell’aureola di superiorità che noi stessi poniamo sulla testa di qualcuno un po’ per invidia suscitata dalla consapevolezza dei nostri limiti  o, al contrario, da un’eccessiva autostima.

Comincerò dalla testimonianza di Nicola Vacca (1899-1977), storico salentino (era nato a Squinzano). Una delle sue innumerevoli pubblicazioni riguarda il Libro d’annali de’ successi accaduti nella città di Nardò, una cronaca dal 1632 al 1656, il cui manoscritto autografo sembra perduto, anche se, per fortuna, esistono alcune copie. Nel fare la collazione di quelle a sua conoscenza il Vacca incappò nell’inconveniente che così racconta: Una copia fatta su quella del De Michele, o essa stessa, fu soltanto vista da me, in Nardò presso il Sig. Francesco Castrignanò che non me la volle affidare neanche con deposito cauzionale! È la prima volta che mi succede un fatto simile nel corso – ormai non breve – dei miei studi patri

Non è per giustificare il concittadino, ma è chiaro che per il Castrignanò quel manoscritto, pur se copia, aveva un valore inestimabile, anche se è facile dire, per chi ne è al di fuori, che le ragioni della cultura e della conoscenza non debbono essere prevaricate dalla paura del rischio. Tutt’al più il neritino, anche per evitare  qualsiasi rischio di essere accusato di temere, in un cero senso, la concorrenza7, avrebbe fatto molto meglio a proporre al Vacca di studiare sul posto il manoscritto ospitandolo per il tempo necessario, senza, naturalmente, sorvegliarlo a vista, quasi avesse a che fare non con un cartografo, quale il Vacca in un certo senso pure era, ma con un cartofago …

Non so se il Castrignanò lesse mai quanto appena riportato o come reagì essendone eventualmente venuto a conoscenza anche per via indiretta. Certo è che, se avesse potuto sentirla,  la seconda tirata d’orecchi sarebbe stata avvertita molto dolorosamente, non solo perché coinvolgeva il letterato ma anche per la statura mondiale del suo critio.  Quella tirata d’orecchi non potè sentirla perché era morto quasi vent’anni prima che Gerhard Rohlfs pubblicasse la sua opera ancora oggi fondamentale per chiunque si approcci seriamente, e con la dovuta competenza filologica, allo studio dei dialetti del nostro territorio. Due neritini ebbero l’onore di esservi citati tra le fonti scritte di cui lo studio, oltre quelle orali ricercate personalmente sul campo, si avvalse: Luigi Maria Personè per le sue Etimologie neritine, apparse a puntate sul quindicinale napoletana Giambattista Basile dal 1888 al 1889, e Francesco Castrignanò per il citato Cose nosce e, in particolare, per il vocabolarietto di voci dialettali posto in appendice. Se per il Personè l’unico appunto che si può fare al maestro tedesco è il fatto di aver citato solo il suo primo contributo (lacuna giustificata dalla reperibilità già allora difficile della rivista), pur dando il dovuto risalto ai lemmi in esso trattati, nulla si può obiettare a quanto si legge a proposito del Castrignanò: (il dizionarietto che segue le poesie) è molto incompleto e contiene parecchi errori.

E questa volta osservo che, se il buon Francesco, pur essendo un letterato, non aveva specifiche competenze filologiche, in tempi recenti, molto recenti,  è uscito un vocabolario etimologico del dialetto neritino, in cui la trattazione di moltissimi lemmi, e non solo per quello che riguarda gli etimi, ha scombussolato me e, credo, farebbe sobbalzare le spoglie del Rohfs, anche se posto a decine di km dalla sua tomba …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/gli-affreschi-di-cesare-maccari-a-nardo-visti-con-gli-occhi-del-popolo-e-raccontati-da-un-poeta-dialetta       

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/19/la-pazienza-agli-sgoccioli/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/

4 Cose nosce, Tipografia neritina, Nardò, 1909 (ristampa Leone, Nardò, 1969)

5 Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897

In morte di Giuseppe Garibaldi, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882

Antonio Caraccio: cenno biografico-critico,Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895

Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911

Un saluto a la R. Scuola tecnica gallipolina ospitata in Nardò, Tipografia Emilio Pignatelli, Nardò, 1913

L’alleanza de’ popoli, Bortone, Lecce, 1915 

Triste novembre, s. n., Nardò, 1921

A proposito del risultato della recente e rifatta graduatoria del concorso alla cattedra di lingua francese presso la scuola pareggiata di Nardò: abbasso il favoritismo, s. n. Nardò, 1921

Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923

Per le nozze della sig.na Maria Zuccaro di Giacinto con l’avv. sig. Antonio de Mitri, Guido, Lecce, 1923

Il libro degli Acrostici (A’ turisti d’italia), Carrà, Matino, 1926

Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926

A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928

La storia di Nardò esposta succintamentre, Mariano, Galatina, 19030

L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto, Mariano, Galatina, 1930

Nel solenne ingresso a Castellaneta del suo novello vescovo mons. Francesco Potenza da Nardò, Tipografia R. Antonaci & C., Nardò, 1932

Per l’eccezionale festa a S. Antonio dopo eseguiti in gran parte i restauri della sua Chiesa in Nardò (19 giugno 1932), s. l., s. n., 1932

Nozze Nisio-Giubba, s. n., Nardò, 1933

Omaggio d’un settantenne a Mussolini, Gioffreda, Nardò, 1934

Vesi, Mariano, Galatina, 1935

Tirar dritto, resistere, vincere, Ferrari & C., Palermo, 1935

Ode, Ferrari & C., Palermo, 1935 

Siam tutti eroi, s. n. Nardò, 1936

Acrostici ì: Francesco Castrignanò a un suo concittadino, s. n., Nardò, 1936

6 Nicola Vacca, G. Battista Biscozzi e il suo “Libro d’Annali” in Rinascenza salentina, n. 1,  1936, p.

7 Ricordo, già citato in nota 5, La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930

8 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto). Verlag der Bayer. Akad. d. Wiss., München, 2 volumi (1956-1957)

VECCHIA NOTA-MODERNO LINK ∞-0

di Armando Polito

 

Ciò che sto per dire non ha a che fare, almeno direttamente,  con gli argomenti qui di solito trattati. Tuttavia riguarda una spiacevole situazione  destinata, a parer mio, ad aggravarsi sempre più.

Ho certamente esagerato nel titolo con l’attribuire all’esito dell’incontro un divario più che stratosferico. Restando coi piedi su questa terra e pensando alla caducità umana, ben poco cambia nella sostanza. Parecchi frequentatori del web avranno notato da tempo un fenomeno, del quale ho sottovalutato lì per lì la negatività, finché non ho constatato di averci rimesso le penne o, forse, pur nella modestia delle mie scritture, la penna.

Nella stesura di un lavoro del quale mi sto occupando, nel rivedere qualche mio contributo pubblicato su questo blog, ho constatato con disappunto (anche se, e sono sincero, in misura enormemente inferiore a quello provato quando l’inconveniente si è verificato, in tutto il web, con i contributi altrui) che solo qualche link, dei numerosi che avevo inserito, prima attivi, non conducevano da nessuna parte. Infatti, quando non si tratta di una interruzione provvisoria dovuta ad una momentanea disfunzione della rete (e non è questo il nostro caso), si resta con l’amaro, più che in bocca, nel cervello, per aver perso, molto probabilmente, un’occasione per soddisfare, quanto meno, la propria curiosità.

In fondo, cos’è un link se non la versione moderna, a video, forse più dispersiva, della nota di un libro a stampa? Siamo abituati, ormai, ad osannare le nuove tecnologie come la panacea di tutti i nostri mali, ma la cecità, che per compensazione esalta gli altri sensi,  è forse peggiore dell’allucinazione, tanto più se essa è continua. Può darsi che un tempo anche i libri a stampa non fossero insensibili alle sirene del profitto fine a se stesso, ma oggi, e qualcuno mi dimostri che non è così, la maggior parte dei siti nascono e si sviluppano, sperando (speranza tutta calcolata nella prospettiva di realizzazione …) di non imbattersi in qualche novello Ulisse.

Nascono, si sviluppano e solo qualcuno muore, troppo tardi per i miei gusti. Difficilmente sopravvive, comunque, quello che, in qualche modo, non generi profitto e lo spettacolo diventa ancor più desolante quando, tanto per fare un solo esempio, pure con l’Enciclopedia Treccani on line, per avere una fruizione indenne da finestre che si aprono in continuazione facendoti correre il rischio di beccarti una polmonite informatica, sei  costretto ad accettare i biscottini, trattato, in forma ricattatoria, peggio di un animale , il quale di solito lo riceve come premio dopo l’esercizio …..

Nei condizionamenti e nell’aleatorietà che contraddistinguono il nostro passaggio terreno, i supporti informatici, ai quali affidiamo ciò che di noi potrebbe restare a futura memoria, non hanno ancora dimostrato di avere un’affidabilità e, soprattutto, una longevità superiore a quella, non dico dei manoscritti (non mi riferisco a quelli antichi, che, pure, sono giunti fino a noi,  anche perché, pur volendolo, chi, come me che in questo momento sto freneticamente pigiando tasti manco fossero grappoli d’uva, scrive manualmente?) ma delle opere a stampa. Così basta solo che un dominio non sia più redditizio o le spese per la sua gestione non siano più sostenibili, oppure, nel caso di quelli non nati a scopo di lucro o per soddisfare idioti narcisismi, che il titolare passi a miglior vita senza che gli eventuali eredi ne continuino la meritoria e disinteressata iniziativa, perché tutto scompaia. Un solo topo (o, al limite, un vandalo  umano non tempestivamente bloccato) basta per distruggere più o meno rapidamente un’intera biblioteca, basta  un solo sbalzo incontrollato di tensione dell’energia elettrica o il sadismo, più o meno prezzolato,  di un solo novello pirata per distruggere in un attimo un intero archivio.

Ben venga, dunque, la digitalizzazione, anche quella che permette di copiare fedelmente testi antichi, consentendone a tutti la fruizione virtuale e, per limitarne l’usura, riservare quella diretta solo  a studi sofisticati e specialistici, ma non facciamone un idolo, se non vogliamo che l’esito dell’incontro diventi,  anche se per la definizione corrente di infinito appare impossibile, ancor più pesante, naturalmente a vantaggio della cara, vecchia ma sempre viva, stampa. Non è vedo, forse, che dopo decine di secoli possiamo ancora ammirare piramidi ed acquedotti, mentre strade, ponti e viadotti costruiti pochi lustri fa sono già, errori di progettazione, scarsa qualità dei materiali utilizzati e insufficiente manutenzione a parte, pericolanti?

Dialetti salentini: ‘sta

di Armando Polito

Supponiamo che tra i salentini sia indetto un referendum che ponga la domanda: Ritieni sto venendo traduzione letterale di Sta bbegnu?; immagino che la risposta positiva sarebbe univoca o, comunque, largamente dominante. E poi, non basterebbe l’autorevolezza del Rohlfs a confermarlo?

A dire il vero, nella sua ancora fondamentale opera dedicata al salentino1 al lemma sta (v. II, p. 693) si legge:

e a stu (v. II, p. 714):

A parte il fatto che la grafia più esatta sarebbe dovuta essere ‘sta e ‘stu per aferesi tanto se considerati dall’italiano (questa/questo) che dal latino (istam/istum), per trovare traccia del nostro nesso bisogna andare al lemma staci (v. II, p. 693):

Ad aci (v. I, p. 30):

Non si comprende come per il Rohlfs staci (con la sua abbreviazione aci) sia forma “fossilizzata” di stare (sarebbe, a mia conoscenza, l’unica del salentino e la presunta fossilizzazione non giustificherebbe, comunque, l’assenza di una più dettagliata analisi etimologica e per questo mi sembra essere  stata messa in campo per spiegare la sua invariabilità. A mio parere, invece, la voce napoletana e quella calabrese citate a supporto alla fine del lemma  stace sono corrispondenti all’italiano stacci (forma letteraria per ci sta), in cui ci (in posizione enclitica) è dal latino ecce hic (=ecco qui), dunque non pertinenti. Oltretutto, le due voci usate in funzione perifrastica reggono il gerundio e non l’indicativo (in napoletano stace facenno=sta facendo). La funzione enclitica di –ci in staci/aci trova la sua conferma in altre forme enclitiche da lui registrate al lemma stare1 (p. 68): stocu, stoche (io sto), stave (egli sta).

Al lemma stare2:

 

Insomma, le voci staci e aci riportate per il salentino per  me lungi dall’avere qualsiasi legame con stare, sarebbero anche loro, al pari di ‘sta, dall’avverbio latino istac, come mi accingo a motivare, ripercorrendo passo dopo passo la strada che mi ha portato a questa conclusione..

Anch’io per lungo tempo ho creduto che la traduzione suffragata dal Rohlfs fosse esatta al micron, convinto che sta fosse voce del verbo stare. Poi, tornendoci su, ha cominciato a suscitare perplessità la sua reggenza dell’indicativo nell’espressione dialettale e del gerundio nell’italiana. Supponendo inizialmente corretta l’analisi del Rohlfs, ho controllato le coniugazioni complete, come nello specchietto che segue. Ho evidenziato con la sottolineatura il perdurare nel dialetto di un unico sta, mentre in italiano si susseguono le diverse forme delle persone  del presente indicativo:

sta bbegnu/sto venendo

sta bbieni/stai venendo

sta bbene/sta venendo

sta bbinimu/stiamo venendo

sta bbiniti/stateo venendo

sta bbèninu/stanno venendo

Lo stesso puntualmente si ripete anche con l’altro tempo previsto per il supposto stare in formazione perifrastica, cioè l’imperfetto:

sta bbinìa/stavo venendo

sta bbinìi/stavi venendo

sta bbinìa/stava venendo

sta bbinìamu/stavano venendo

sta bbinìi/stavate venendo

sta bbinìanu/stavano venend

Il perdurare di sta solo nel dialetto fa capire che esso è sicuramente una parte invariabile del discorso, che nel nostro caso non può essere che quella che, come dice il suo nome, è più connessa con il verbo, cioè un avverbio; ma quale? Ci viene in aiuto ‘sta (per aferesi dal latino ista (=questa), femminile del pronome/aggettivo dimostrativo iste, presente in italiano solo nelle voci composte designanti le fasi del giorno: stasera, stanotte, stamane o stamani, stamattina. Connesso con ista è l’avverbio istac (=per di qua, per questa via), da cui, sempre per aferesi e consueta caduta della consonante finale, il nostro ‘sta.1

Per concludere, abbiamo nel dialetto salentino due voci che sembrano omografe (stessa grafia ma diverso significato), ma lo sono solo parzialmente perché la loro comune paternità (anzi maternità, visto che ista è di genere femminile …) si riflette nella conservazione del concetto originario pur nella differenziazione della marca grammaticale (il primo aggettivo, il secondo avverbio:

1) ‘sta aggettivo dimostrativo dal citato ista (‘sta cosa=questa cosa)

2) ‘sta avverbio da istac (chiaramente connesso col precedente ista), usato solo nel nesso dell’immaginario referendum, in cui, dunque, sta (inesistente come forma verbale, essendo le voci del presente indicativo

sto/stai/stae/stamu/stati/stannu) e ricorrente solo in composizione pronominale nella seconda persona singolare statte, corrispondente all’italiano statti, e plurale stàtibbe, corrispondente all’italiano stàtevi,   va emendato in ‘sta e la corretta traduzione in italiano sarà costà (vedi nota 2). Null’altro da aggiungere a quanto detto su quello che mi sembra  un esempio emblematico di un equivoco basato su un errore filologico indotto da suggestioni fonetiche istintive, anche se le conseguenze semantiche per il nesso completo non sono, nel nostro caso, drammatiche

__________

1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Da eccum istac (=ecco di qua) nasce l’italiano costà, in cui l’accento sull’ultima sillaba è giustificato dalla necessità di evitare  la confusione col sostantivo costa; lo stesso succede per costì (da eccun istic), che altrimenti si confonderebbe con costi, voce verbale di costare.

A volte tornano, pure le testuggini

di Armando Polito

Meglio loro che un Hitler o un altro simile umano (solo la nostra razza lo sa fare …). Il lettore già col titolo si starà chiedendo se si trova di fronte ad un giornalista extrapazzo o da strapazzo, ma io, parafrasando l’immenso Totò (per i giovani e per i non ancora anziani

(https://www.youtube.com/watch?v=MuaJdM5JKzs), che sono, un giornalista? E allora, in attesa di altre bordate, proseguo. Le testuggini, anzi la testuggine di cui sopra è quella della quale mi sono occupato su questo blog; consiglio per chi continua a pensare che stia farneticando: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/15/melpignano-due-epigrafi-del-palazzo-marchesale/.

Partita da Melpignano, or sono più  di due anni, e approdata grazie alle vele di questo blog in quel di Ferrara, in Salento  è tornata, arricchita come solo le esperienze, stavo per dire le avventure, culturali consentono, sotto forma di un pdf a firma di Micaela Torboli, dal titolo La formica e la testuggine. L’epigrafe di casa Achille Pozzati di Via della Ghiara a Ferrara, un saggio pubblicato in Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria,  serie V, volume I, Baraldini edizioni e stampe, Finale Emilia, 2021, pp. 99-150. Sarei un ipocrita se non dicessi che l’apprezzamento per qualche mia modesta fatica mi fa piacere (e in questo sono ancora nella razza umana …), ma certamente sono sincero quando dico che mi fanno più piacere le eventuali, tutt’altro che improbabili, critiche negative (e, mi si creda o no, in questo comincio a collocarmi al di fuori di quella razza …). Sorvolo, perciò, sulle locuzioni gratificanti contenute nel saggio e mi soffermo sull’unico appunto che mi si muove, cioè la mancata indicazione del luogo di ubicazione di un manoscritto, riguardo al quale mi si rimprovera pure di non averne sottolineato la rilevanza. Prendo atto della lacuna nella quale sono incorso nonostante il mio rigore quasi maniacale, quanto meno  nella citazione della fonte quando non sia stato possibile fornire alcuna immagine o controllare de visu il manufatto; in questo caso c’è l’aggravante che un manoscritto esattamente con lo stesso nome Palatino 147 (coincidenza quasi incredibile) è custodito nella Biblioteca Vaticana.  Ho già provveduto  alla quanto mai opportuna integrazione, con un doveroso richiamo in nota e  ora intendo disobbligarmi forse contando un po’ troppo nelle mie reali o presunte competenze di cultura classica e in partticolar modo di filologia e, per scendere ancor più in dettaglio, in metrica.

L’autrice nel suo saggio manifesta più volte il dubbio, per non dire la certezza, del rimaneggiamento del supporto, il che avrebbe indotto anche una lacuna nella parte iniziale dell’epigrafe ferrarese.

Di seguito  come essa si presenta nella sua trascrizione, che ho tratto in formato grafico dal documento originale.

Subito dopo l’autrice aggiunge: Questa trascrizione riprende quasi esattamente lo stato grafico del testo, impaginato su due linee.  Esso fa comprendere che la lastra è mutila, perché la linea superiore manca di un verbo iniziale, chiave, come vedremo, per chiarire il senso della frase, e che doveva sporgere sulla sinistra, rendendo armonica la distribuzione delle lettere capitali nello specchio, così:  

Posso assicurare, per quanto mi compete (sul supporto nulla posso dire,  non avendolo, fra l’altro, visionato), che l’iscrizione in sé è assolutamente integra e mi accingo a dimostrarlo,  chiedendo scusa ai meno (cioè ai cosiddetti addetti ai lavori) per rendere fruibile quanto dirò ai meno (ahimè, sempre meno …) disposti a non perdere neppure un po’ del loro tempo per seguire le ultime vicende di questo o quel presunto artista del momento  piuttosto che argomenti come questi. Non confido, comunque, nelle mie capacità divulgative, che, almeno teoricamente, avrei dovuto possedere in partenza e, se non ottuso, affinare proprio grazie al mio mestiere (ricordo che la parola è, tramite il francese, dal latino ministerium=ufficio, incarico,  servizio; e quello dell’insegnante dovrebbe essere, soprattutto, un servizio …).

Intanto la trascrivo con l’emendamento di perambulat (presente indicativo) con perambulet  (presente congiuntivo), non solo perché tale modo esprime la potenzialità solo augurale, purtroppo, delle due azioni, per giunta rese ancora più problematiche dallo scambio dell’habitat naturale (terra/mare) dei due animali  (la congiunzione donec regge, invece, l’indicativo quando si riferisce ad un atto già compiuto o suscettibile di compimento nel futuro), ma anche perché la congiunzione et, che è una coordinante, sarebbe una pessima coordinatrice di una coppia sgangherata quale sarebbe quella formata da due proposizioni, la prima col verbo al congiuntivo, la seconda all’indicativo. Un esame più accurato del manufatto dovrebbe confermare l’emendamento, anche se è sempre in agguato l’errore dell’esecutore, non certo del committente o di chi, per lui, ha fornito il testo da incidere o, se si tratta di un’inscriptio picta, da dipingere.

Haec  domus hic donec fluctus formica marinos

ebibat et totum testudo perambulet orbem

Tuttavia, lo scambio perambulat/perambulet non inciderebbe minimamente, come s’intuisce, sul problema dell’ipotizzata mutilazione  del testo, ipotesi basata su motivi puramente estetici (armonica la distribuzione delle lettere), e di una conseguente  difficoltà di comprendere il senso.

Dirimente, invece, è l’esame metrico; di seguito la scansione.

I due esametri, anche il primo sospettato di essere rimasto vittima di un incidente, mostrano una struttura perfetta, che non lascia alcuna possibilità dell’intrufolamento di STET, perché, almeno fino ad ora, non ho incontrato un solo esametro con un piede mostruoso fatto di quattro sillabe (STET HAEC DOMUS).

– Va bene ! – mi si dirà.  – E col senso, come la mettiamo? Difficile, no? -.  La risposta è – Facile! – e si trova proprio nella parte finale delle due battute, in quel verbo che, paradossalmente, esprime la presenza, l’esistenza, l’essenza, ma che non solo in italiano spesso, senza che ce rendiamo conto, è sottinteso.

Per farla breve: all’inizio dell’epigrafe è sottinteso SIT (sia, esista, resti in piedi), la cui presenza, sarebbe stata certamente plausibile dal punto di vista semantico (da qui lo STET di altre epigrafi in esametri col testo più o meno simile, riportate dall’autrice e che, se trascritte correttamente, mostrerebbero anche loro una struttura perfetta.

Pertanto la traduzione letterale dell’epigrafe suona così:

Sia questa casa qui finché i flutti marini la formica

berrà e la testuggine farà il giro di tutta la terra

Resto a disposizione per ogni ulteriore chiarimento ed esprimo la mia gratitudine perché una delle piccole onde generate da un sassolino gettato in mare è giunta a felice destinazione o, per tornare al titolo,  una piccola testuggine, dopo essere diventata adulta, è tornata a farmi visita …

Dialetti salentini: caissa e bancillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte? *

di Armando Polito

*Questo post sostituisce quello pubblicato per un equivoco nella stesura provvisoria il 17 u. s.    

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione tele un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu  nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che già mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado di individuare i riferimenti specifici, se non un generico indizio di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo bancillera (lì per lì avevo capito bacciollera, ma la forma corretta è emersa dopo qualche giorno nel corso di un’altra telefonata), sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e bancillera, da sua nonna

Nell’affrontare un problema che non richieda una soluzione rapida e, direi, istintiva, ciascuno di noi segue, o dovrebbe seguire, una procedura articolata in due fasi. La prima, che vuol mettere alla prova la nostra competenza, reale o presunta, consiste nel formulare una o più ipotesi di lavoro, mettendosi subito dopo alla ricerca di prove corroboranti. La seconda, che può portare, a seconda degli esiti, la soddisfazione di una conferma o della certezza della propria integrazione o, addirittura, correzione,  oppure la frustrazione per non esserci arrivato, consiste nel conoscere come il problema è stato trattato da chi se ne è occupato prima di noi. Non si sottrae certamente a tutto questo la filologia e, in particolare, Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando si giunge alla seconda delle due fasi prima descritte.

Alla prima di esse si riferiscono le due schede che seguono (quella relativa a bancillera è nella forma originaria, redatta quando ancora era baccillera).

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinge Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede, conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare, dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

 

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a partire dalla prima2.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.3

 

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’articolo (queddha gggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha ggh’è caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BANCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. Credo che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere, usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lo facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.

Fin qui la prima fase, con esiti sottesi, come è bene che sia sempre, dal dubbio.

Nella seconda in questo tipo di indagine punto obbligato di partenza è il Rohlfs. Nel nostro caso, però, nessuna delle due parole è registrata nel suo vocabolario sui dialetti salentini.

Nel volume del maestro tedesco caissa e bancillera non sono le uniche voci in uso, magari ancora oggi, a Nardò che risultano assenti, il che, tuttavia, non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi chiedo sempre cosa ci avrebbe lasciato se ai suoi tempi avesse potuto fruire delle nuove tecnologie e in particolare della rete e delle immense possibilità offerte dai motori di ricerca. Ed è proprio grazie alla rete (e dopo aver appreso che baccillera era in realtà bancillera) che ho potuto apprendere che dell’etimo di queste due voci si era già occupato alla fine del XIX secolo un mio concittadino, cioè Luigi Maria Personè, i cui contributi dal titolo Etimologie neritine vennero ospitati alla fine del XVIII secolo nel quindicinale napoletano Gaiambattista Basile  (anno VI, n. 11, Napoli, 15 novembre 1889, p. 87; anno VII, n. 3, Napoli, 15 marzo 1889, p. 17; anno VII, n. 6, Napoli, 15 giugno 1889, p. 46; anno VII, n.11, Napoli,1 ottobre 1889, p. 87).

Come ho detto, i due vocaboli sono assenti nel Rohlfs nonostante il Personè sia citato nella bibliografia (di seguito il dettaglio).

Mi fa venire il sospetto che il Rohlfs non abbia mai letto il contenuto di questo dato bibliografico (probabilmente passatogli da qualcuno poco avvezzo alla precisione) il fatto che nel numero del Giambattista Basile riportato non appare nessun contributo del meritino, che, invece, collaborò con il quindicinale napoletano dal 1888 al 1889 per un totale non di 15 ma di ben 56 vocaboli, come documenterò in un prossimo lavoro.

Nel secondo tra i contributo del Personè che ho sopra citato compaiono, insieme con altre, pure le due voci che ci interessano e che di seguito riproduco.

Come chiunque può notare, non tutto il male vien per nuocere, perché senza il mio fraintendimento di bancillera con baccillera molto probabilmente non sarei approdato alla soluzione della scheda precedente, anche se mi son perso l’intermediario spagnolo, che oggi è bachillera con la seguenti definizioni tratte dal dizionario della Real Academia Española:

1 Persona que ha cursado o está cursando los estudios de enseñanza secundaria. (Persona che ha frequentato o cvhe sta frequentando gli studi di scuola secondaria)

Persona que había recibido el primer grado académico que se otorgaba a los estudiantes de una facultad universitaria (Persona che abbia conseguito il primo grado accademico che si rilasciava agli studenti di una facoltà universitaria)

Persona que habla mucho e impertinentemente (Persona che parla molto impertinentemente)

desusado Persona instruida, experta. Era u. t. c. adj. Era u. t. en sent. despect. (obsoleto Persona istruita, esperta. Era usato solo come aggettivo. Era usato solo in senso dispregiativo)

Credo che il n. 4 sia proprio la pietra tombale per qualsiasi dubbio relativo a bancillera, che non sia la trafila seguita: dalla voce spagnola indicata  con geminazione di –c– e successiva dissimilazione (bacillera>*bacciller>bancillera) , oppure direttamente (senza la geminazione di –c– ma con la stessa dissimilazione) dall’italiano baccelliera?

La pietra, invece, resta sullo stomaco per caissa. Il Personè cita il Facciolati, che a sua volta cita Festo, il quale nomina Lucilio. è quasi inevitabile in questa catena che l’affidabilità dell’informazione ne risenta, anche perché manca un anello. Ecco la catena con tutte le sue maglie (ho sottolineato quella mancante): Facciolati ( XVII-XVIII secolol)<Paolo Diacono (VIII secolo)<Festo (II secolo d. C.)<Lucilio (II secolo a. C.). Per quanto può essere utile, traduco le parole di Festo tramandate da Paolo Diacono: Carissa presso Lucilio  significa scaltro. Rispetto a Festo, poi, il Facciolati rincara la dose: Carissa, ruffiana scaltra e arguta. E sulla Carissa di Lucilio i letterati medioevali si sbizzarrirono. Basti come esempio Uguccione da Pisa (XII-XIII  secolo), che nelle Derivationes (riporto il testo dall’editio princeps a cura di Enzo Cecchini e di Guido Arbizzoni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2004) al lemma careo (=mancare) così scrive:

Item a careo hoc carenum -ni, idest mustum, quia fervendo careat parte; tertia enim parte musti amissa, quod remanet carenum est, cui contraria est sapa, que fervendo ad tertiam partern redacta descendit; et carino -as verbum neutrum, idest arguere vel conviciari vel illudere, unde hic carinator idest conviciator et maledicus, et hec carisia -e idest lena vetus et litigiosa vel potius dicitur a careo, unde et fallaces ancille carisie dicuntur, quia veritate carentt. (Parimenti da careo questo careno, cioè il mosto, poiché fervendo viene a mancare di una parte; infatti, persa la terza parte del mosto, quello che rimane è il careno, al quale si contrappone la sapa, che, ridotta fervendo alla terza parte, discende; e  carino/carinas, parola neutra, cioè significa accusare o insultare o prendersi gioco, donde questo carinatore, cioè oltraggiatore e maldicente  e questa carisia/carisiae, cioè ruffiana vecchia e litigiosa o piuttosto è detta da careo, donde anche le ancelle che raccontano falsità sono dette carisie, poiché mancano di sincerità)

Perchè carissa (o carisia) possa essere considerata  madre di caissa, bisognerebbe spiegare la caduta di –r– suffragata da almeno una voce in cui tale fenomeno si sia verificato, come caterve di esempi si possono, invece, addurre per la caduta di –v–  (anche quando nasce da un originario –p-, come in capezza>cavezza già in italiano; il salentino ha capezza, ma la variante caezza fa capire l’azione di cavezza.

Sulla scorta di quanto appena documentato potrei anch’io lanciarmi senza paracadute e ipotizzare che caissa sia ciò che rimane di un originario *capessa, femminile di capo, attraverso un *cavessa>*cavissa; non so, comunque, se questa conclusione etimologica sarebbe gradita o meno dalle femministe …

Quanto al χάσσα (leggi chasssa) che il Personè sembra fornire come dato proprio, i controlli effettuati hanno rilevato l’assenza di questa voce nel greco classico, in quello bizantino e in quello moderno.

Per aggiornare il quadro a tempi a noi più vicini aggiungo che caissa (non bancillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente[i], che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria] donna cattiva; donna oppressiva.4

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.5

Siamo giunti alla fine di questo lungo viaggio, le cui tappe, almeno per caissa, non hanno dato un esito definitivamente convincente. In fondo andare alla caccia di un etimo significa immettersi sull’autostrada del tempo, la quale è piena di rettilinei ingannevoli, curve pericolose, svincoli che spesso confondono e costringono a tornare indietro, con una segnaletica sbiadita e, comunque, di interpretazione non sempre immediata. Io con un pizzico d’incoscienza ho imboccato quest’autostrada e, pur avendo pagato il pedaggio,  sto per essere fermato da una pattuglia che certamente mi chiederà anzitutto di esibire una patente che io non ho. Ma, siccome in questo sono presuntuosamente recidivo e non ho nulla da perdere, nemmeno, come ho detto, la patente, la storia potrebbe non finire qui …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

4 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

5 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

 

Dialetti salentini: caissa e baccillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte?

di Armando Polito

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa1 con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che gia mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado individuare i riferimenti specifici, se non una generico indizione di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo baccillera (sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e baccillera, da sua nonna.

Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando altri non se ne sono occupati, primo fra tutti il Rohlfs, nel cui vocabolario sui dialetti salentini mancano non poche parole ancora oggi usate a Nardò, il che certamente non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi pare doveroso aggiungere, però, a conferma del dato per Nardò, che caissa (non baccillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente2, che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria]] donna cattiva; donna oppressiva.3

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.

Di seguito le conclusioni alle quali sono giunto.

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinse Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a patire dalla prima5.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.6

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’artiicolo (queddha ggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha gghìè caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BACCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. sarcasmo de che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lop facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.-

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Sono profondamente convinto, ma non è detto che abbia ragione, che la vera conoscenza si basa sul dubbio ricorrente,  anche perché ciò che appare certo può non corrispondere al varo.

3 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

4 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

5 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

6  Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

Dialetti salentini: peu e ‘bbunatu

di Armando Polito

 

È fenomeno ricorrente in tutte le lingue quello di alcune voci, il cui significato ha subito, col passare del tempo e con l’intervento di fattori non sempre facilmente individuabili, un ribaltamento totale della valenza positiva o negativa (in senso etico) del significato originario.

Così è stato per peu, usato nel dialetto neritino col significato di stupido. Il Rohlf non registra questa voce nella sua opera da me già citata fino alla noia, per cui non ne ripeterò gli estremi bibliografici né riprodurrò, giocoforza, il dettaglio grafico del lemma. L’aureola del Maestro questa volta non m’illuminerà nella ricerca etimologica e posso solo sperare che il mio avventuroso e, forse, avventato tentativo non si risolva in una catastrofe.

Ritengo che peu abbia l’esatto corrispondente italiano in pio, che è dal latino piu(m), accusativo di pius/pia/pium, aggettivo che qualifica l’uomo virtuoso, devoto (da vivente) ed il beato (da defunto). Lo stesso aggettivo in funzione onomastica come cognomen (soprannome) è Pius, da cui l’italiano Pio, nome, fra l’altro, assunto  da ben dodici papi1.

Derivato di pius è pietas, dal cui accusativo (pietatem) è l’italiano pietà, che rispetto alla voce latina significante  virtù e devozione (cioè due fondamentali valori laici e religiosi) ha perso gran parte del suo valore morale, limitandosi ad esprimere un sentimento di compassione, di partecipazione alle miserie altrui, infarcite di astratte elucubrazioni e vuota retorica, quando, in concreto, non finisce per prostituirsi a losco affare, come recenti fatti di cronaca nazionale ed internazionale hanno portato alla luce. Con queste premesse uno si chiede come mai dal concetto gratificante di pio si sia passati a quello mortificante di peu. La risposta viene dalla storia dell’uomo, soprattutto da quella contemporanea e da ciò che è una costante del costume italiano, per cui chi è onesto e rispettoso, anzitutto della legge, è considerato un fesso rispetto ai furbi, categoria alla quale appartengono i politici, che, senza distinzione di colore, nulla hanno fatto, fanno e faranno per porre rimedio alle tante piaghe sociali, in primis l’evasione fiscale2. Prima di deragliare metto in azione la rapida e mi stabilizzo sul binario … La donna, poi, è quella doppiamente coinvolta in questo gioco perverso che non risparmia neppure il sentimento religioso, per cui oltre che pea (stupida) poteva essere anche piarella. Questa voce è dal latino classico piare (propiziare, placare, onorare, venerare una divinità; compiere, celebrare riti espiatori; allontanare, stornare, scongiurare con sacrifici; purificare, espiare con riti espiatori), connesso col pius messo in campo all’inizio. Piare in unione alla preposizione ex (expiare) ha dato in italiano espiare, mentre la tecnica di formazione del nostro piarella è simile a quella che ha portato, per esempio, da cacare a cacarella e da tremare a tremarella, solo che nelle voci appena citate la nota, per così dire, negativa continua a riguardare un’azione, nel nostro caso, invece, una persona che era considerata troppo ligia, forse solo formalmente, ai doveri religiosi.3  Contadino, scarpe grosse e cervello fino, recita un vecchio proverbio; e così ci voleva il suo dialetto e la sua filosofia (o più semplicemente saggezza nascente dalla realistica, nella sua amarezza, quasi cinica visione del mondo, scevra da ogni edulcorazione retorica) per scoprire con peu e piarella l’altra faccia di pio. In fondo lo stesso è successo con cretino, che è dal franco-provenzale crétin, col significato in origine di cristiano, poi adoperato con sentimento di commiserazione nel senso di povero cristiano, povero cristo, poveraccio e, infine, in quello dispregiativo che conosciamo; e che dire di idiota (dal latino idiota, a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes), che, partendo dal concetto di privo, attraverso progressive integrazioni si specializzò già in epoca classica nel senso di rozzo (privo di eleganza), ignorante (privo di cultura), privato (senza cariche pubbliche), per arrivare all’attuale, dominante significato  di privo d’intelligenza?

Siccome, forse presuntuosamente, a proposito d’intelligenza, credo di non esserne totalmente privo, mi concedo il beneficio del dubbio, prima che qualcuno con il suo graditissimo intervento mi mostri che l’ipotesi etimologica avanzata per peu equivale ad una disastrosa arrampicata sul proverbiale specchio. Talora la soluzione più semplice si rivela alla fine come quella più attendibile; per questo non escluderei che peu (non piarella) nasca per aferesi da babbèu, corrispondente all’italiano babbèo, che è di origine onomatopeica). Sul piano fonetico il passaggio b>p non pone alcun problema perché sono entrambe labiali e basterebbe pensare alla lunga storia di Giuseppe>Giuseppino>Peppino>Peppe

>Beppe.

Nessun dubbio suscita, invece, bbunatu, usato, anch’esso come peu, col significato di stupido‘Bbunatu ha il suo esatto corrispondente nell’italiano abbonato, participio passato di abbonare. Però gli abbonare  nella nostra lingua sono due. Il primo, che per comodità chiameremo abbonare 1, ha il significato di fare un abbonamento a favore di uno ed è è dal francese abonner, a sua volta dall’antico francese bonne, dal quale il francese  moderno borne =confine, limite. Abbonare 2, invece, ha i significati di condonare in parte o interamente (abbonare un debito), in senso figurato non tenere in considerazione (abbonare un errore), considerare qualcosa come già adempiuto (abbonare un esame) e, infine, (registrato come obsoleto, il che  non mi pare casuale …) rendere buono, migliorare. Appare evidente come abbonare 2 è da ad+ buono, che è dal latino bonu(m) e fratello, per così dire, del francese bon, ma nemmeno lontano parente di bonne e borne prima citati. Il nostro ‘bbunatu, dunque, è per aferesi da abbonato, participio passato di abbonare 2 e mostra di condividere l’amaro destino di cretino, di idiota e, forse, di pio. Sarà pure vero che il troppo storpia, ma viviamo in una strana società, in cui l’eccesso nel male  viene giustificato, anzi, premiato e quello nel bene deriso e penalizzato (buono>troppo buono>fesso), col trionfo della furbizia, che è anch’essa intelligenza, ma nella sua forma più perversa nutrita di ipocrisia e, non solo nel senso corrente, di abuso di potere.

Alla fine di questa tiritera ricordo, forse anche per dare una comoda giustificazione alle fesserie che potrei aver detto, che in fondo l’etimologia non è altro che l’archeologia della parola, solo che nell’archeologia propriamente detta qualsiasi ipotesi di lavoro può trovare in qualsiasi momento e luogo credito più o meno definitivo in un reperto materiale protetto nel tempo, insieme col suo contesto, dal terreno; lo scavo filologico, invece, ha a che fare con un elemento instabile , non univoco e, quel che è peggio, estremamente labile insieme con il suo contesto, soprattutto orale, qual è la parola.

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1 San Pio I (II secolo), Pio II (Enea Silvio  Bartolomeo Piccolomini, XVI secolo), Pio III (Francesco Nanni Todeschini Piccolomini, XVI secolo), Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano, XVI secolo), Pio V (Antonio Michele Ghislieri, XVI secolo), Pio VI (Giovanni Angelico Braschi, XVIII secolo), Pio VII (Barnaba Niccolò Chiaramonti, XVIII secolo), Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni,  XIX secolo), Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, XIX secolo), Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto, XX secolo), Pio XI (Achille Ratti, XX secolo), Pio XII (Eugenio Pacelli, XX secolo).

2   Solo un idiota metterebbe  in discussione il primato dell’economia e magari negherebbe pure il rapporto strettissimo esistente tra potere e denaro; eppure c’è chi, considerato meno idiota, in rapporto a quest’ultimo (il denaro, per restare nell’ambito economico) continua a non ritenere necessario adottarne il controllo. Uno stato poliziesco è certamente odioso, ma trovo pretestuosamente osceno accampare la ridicola e opportunistica scusa della tutela della privacy e di una libertà dannosa per gli onesti, per non eliminare (altro che limitare!) l’uso del contante e sostituirlo con strumenti tracciabili, quando ormai da tempo la nostra privacy è nelle mani, anzi nella cassa,  del mercato globale.

3 Su piarella vedi pure  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/02/dialetti-salentini-piarella/

Dialetti salentini: scarfisciatu e ‘nfitisciutu

di Armando Polito

Per la poco gratificante serie1 delle voci salentine designanti una particolare puzza , oggi tocca a due altre componenti.

Si sente fièzzu ti scarfuisciatu (Si sentee puzza di fermentato) e Si sente fièzzu ti ‘nfitisciùtu (Si sente puzza di imputridito) sono espressioni ricorrenti, la cui analisi inizia dall’elemento comune, cioè fièzzu.

Fièzzu è da un latino *foetiu(m), dal classico foetère (=puzzare), da cui il salentino fitire, dal quale, con l’aggiunta in testa (pròstesi in linguaggio tecnico) della preposizione in ridottasi poi per sincope in ‘n, la forma incoativa ‘nfitiscire (imputridire), il cui participio passato (nfitisciùtu) è usato con valore sostantivato, come nella seconda delle due espressioni riportate all’inizio.

Scarfisciatu è participio passato, anch’esso in funzione sostantivata, di scarfisciare, frequentativo di scarfare, che è, con sincope di –ce-, dal latino excalfàcere, variante sincopata di excalefàcere, composto dalla preposizione ex (in funzione intensiva e che in scarfare  per aferesi si è ridotta ad s)+calefàcere, a sua volta da càli(dum) fàcere (=rendere caldo). Sopra ho tradotto scarfisciatu con fermentato, che non a caso è da fermentare, a sua volta da fermento, che è dal latino fermentu(m) nato per sincope da *fervimentu(m), a sua volta dalla radice di fervère (=essere caldo, bollire). Da quanto fin qui detto, a parte il fenomeno fonetico ricorrente della sincope che sembra in linea con quello fisico che potrebbe colpire, di fronte ad una puzza, soggetti particolarmente sensibili …, si può concludere che l’azione di ‘nfitiscire è il fatale sviluppo di quella indicata da scarfisciare e che la protagonista (tutt’altro che improbabile con i tempi che corrono …) della vignetta di testa non sa che il caldo dell’armadio altera, il freddo del frigorifero conserva …

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1 Per lientu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

e per lagnu https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/22/dialetti-salentini-lagnu/

Dialetti salentini: lagnu

di Armando Polito

 

 

Dopo lientu,  del quale mi sono recentemente rioccupato1, è la volta di un altro omofono da aggiungere alla lista presente in calce a quel post. Confido nell’aiuto di qualche volenteroso lettore per individuare, al di là degli omofoni, altre voci del nostro dialetto designanti una puzza particolare. Mi rendo conto di quanto l’argomento possa essere gradevole e gradito; però la scienza (!) vuole i suoi sacrifici e, si sa, omnia munda mundis, che viene canonicamente tradotto con tutto è puro per i puri; nella fattispecie basta sostituire puro con pulito e puri con puliti  per comprendere come, forte del mio cognome, mi sia autoautorizzato  (premio in palio per chi individua colui che ha usato questa voce prima di me …) a trattare il tema.

lagnu1 usato nel significato di lamento insistente e fastidioso, corrisponde esattamente all’italiano lagno, che è da lagnarsi, a sua volta dal latino se laniare=graffiarsi, lacerarsi dal dolore (da cui l’italiano dilaniarsi).

lagnu2 usato per significare il cattivo odore emanato dalle capre.

Di seguito come il Rohlfs tratta il lemma nel Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

v. I, p. 283

Su lagnu1 1 non c’è niente da osservare, mentre l’attenzione va riservata a lagnu2 con i suoi numerosi rimandi:

v. I, p. 283

v. II, p. 795

v. II, p. 804

v. I, p. 267

Da quanto riprodotto il Rohlfs fa intendere (anche se il gioco di rimandi sembra un espediente per non dichiararlo apertamente) che lagnu2 è connesso con la pecora, per cui deriverebbe per aferesi da valagna/velagna/ilagna.

Dopo l’osservazione più o meno critica che mi sono permesso nei riguardi delle scelte  esclusivamente formali nella trattazione del lemma, pecco d’audacia più o meno cosciente ed avanzo due altre, a mio parere plausibili,  proposte etimologiche:

1) dal latino classico làneu(m)=relativo alla lana.

2) dal latino Claniu(m), poi Làniu(m), none di un fiume campano ricordato dagli antichi autori2, dal quale deriverebbe Regi Lagni, opera di canalizzazione e bonifica idraulica effettuata tra il 1610 e il 1616 dal viceré Pedro Fernández de Castro durante il predominio spagnolo in Italia. Ancora oggi  in Campania lagni sono chiamati i fossati d’acqua, i maceri per la canapa e i canali collettori di acque stagnanti o piovane.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

2 Tra gli altri: Virgilio, Georgiche II, 225; Silio Italico, Punica, VIII, 537; Livio, Ab Urbe condita libri, XXXII, 29; Stefano Bizantino, Ethnica, v. Γλάνις (leggi Glanis).

 

 

Dialetti salentini: lientu

di Armando Polito

 

In linguistica l’omografo è  una parola che presenta, rispetto ad un’altra, la stessa grafia ma etimo, significato e talvolta pronuncia diversi.  Questo fenomeno non è estraneo al dialetto salentino1 e vi rientra, tra molti altri, anche lièntu, del quale mi sono occupato già più di dodici anni fa con un post su questo stesso blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/10/omografi-del-dialetto-neritino-lientu/); da quello ho replicato le vignette di testa, che ho preferito non aggiornare, ridotto, come sono, su una sedia a rotelle, dettaglio che mi auguro non faccia piacere oggi all’ex studente … ..

Per comodità di trattazione, indicherò con numeri diversi.

lientu 1 corrisponde all’italiano lento, che è dal latino lentu(m) con una caterva di significati non privi, in qualche caso, di apparente contraddizione:

a) pieghevole, elastico, flessibile
b) duttile, malleabile
c)viscoso, appiccicoso
d) prolungato, persistente, tenace, lungo, duraturo
e) resistente, duro, rigido
f) tenace, ostinato, caparbio
g) lento, pigro, tardo, indolente, ozioso
h) placido, tranquillo, paziente, calmo, flemmatico
i) insensibile, indifferente

Può aiutare chi legge a comprendere la convivenza di concetti opposti l’esempio dell’acciaio che si spezza (dunque, debole)ma non si piega (dunque, forte).

lientu 2 (che non ha corrispondente diretto in italiano2) è usato solo col nesso puzza ti (puzza di) con riferimento specifico all’uovo marcio; lientu è per aferesi da un latino *olentum, voce non attestata (da qui l’asterisco) nel latino classico, tardo e medioevale ma in quello scientifico (p. e.: olentum ammoniatum in Archiv der pharmacie, In Verlsag der Hahn’schen Hofbuchandlung, Hannover, 1842, p. 196).

Olentum è dalla radice (olent-) del participio presente (olens/olentis) di olere (mandare odore, cattivo o buono). Da olere (in italiano tal quale, di uso poetico insieme con il participio olente) deriva   l’aggettivo olidus (=odoroso, puzzolente) da cui il verbo *olidare, dal quale, attraverso un *olidiare è derivato l’italiano olezzare, da cui olezzo e da quest’ultimo, per aferesi, lezzo (specializzatosi negativamente col significato di cattivo odore). La prolificità della voce latina si mostra in italiano, oltre alle parole semplici prima citate, in molte altre composte come fraudolento (alla lettera che emana odore di frode), macilento (alla lettera che emana odore di magrezza), violento (alla lettera che emana odore di violenza) e, per finire con il trionfo del concetto di base, maleolente (alla lettera che emana odore malamente) e il quasi tautologico (come, tutto sommato, è puzza ti lientu)  puzzolente (alla lettera che emana odore di puzza). Non deve sorprendere più di tanto l’incontro, pur se probabilmente casuale, tra la scienza (olentum) e il dialetto (lientu); basti l’esempio di munètula (un fungo), che è deformazione (con aggiunta di un suffisso diminutivo) di Amanita. E, quanto a fedeltà rispetto alla forma di partenza, con lientu è andata pure meglio …

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1 Per altri omografi vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/?submit=Cerca&s=ncarrare

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/14/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-16-critazzu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/13/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-15-stuccare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-14-cuerpu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/19/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-spirdare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/02/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-ncarnare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/01/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-3/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/31/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-casu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-2/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/28/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/27/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mpicciare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/26/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mazzu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/24/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-corsa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/23/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-cagge/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/22/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-carza/

2 Riproduco di seguito i due lemmi come sono trattati dal Rohlfs nel suo Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, p. 293)

Laddove esiste un esatto corrispondente tra la voce dialettale e quella italiana l’insigne studioso si limita a riportare quest’ultima; in caso contrario riporta la sua proposta etimologica, a parte i lemmi in cui essa manca, perché, evidentemente, nemmeno lui è riuscito a raccapezzarsi. Così in lientu1 si legge come primo significato lento; in lientu2, invece, lezzo non è il suo esatto corrispondente italiano, perché le due voci, pur nascendo dalla stessa radice (ol- di olere), hanno seguito strade diverse, sicché il lettore comune, per il quale è di banale evidenza anche fonetica la corrispondenza di  lientu1a lento, resterebbe perplesso di fronte a lientu2/lezzo. Il Rohlfs non poteva sprecare tempo e spazio e la mia precisazione ha solo lo scopo di dare una risposta alla sua legittima perplessità. E poi come poteva scovare quel decisivo olentum con gli strumenti a disposizione ai suoi tempi, quando l’informatica e la digitalizzazione con il connesso sviluppo dei motori di ricerca non era nemmeno agli albori?

Dialetti salentini: cacanìtulu

di Armando Polito

Il nido, si sa, non è dotato di servizi igienici e un unico ambiente funge contemporaneamente da soggiorno, stanza da pranzo e bagno. Quando si schiudono le uova, sono i genitori a provvedere alla periodica pulizia del nido per tutto il tempo, relativamente breve, in cui gli uccellini non sono in grado di volare. Si comprende bene che, se così non fosse, in breve il nido si ridurrebbe ad un ammasso di letame con tutte le conseguenze del caso per i suoi abitanti.


Il metabolismo piuttosto accelerato degli uccellini trova il suo parallelo nei cuccioli umani, com’è confermato dal detto Lu piccinnu ti la naca1 lu ggiurnu enchie2 e la notte sdiaca3 (Il piccino della culla di giorno riempie e la notte svuota).

Non sorprende, perciò, come meglio si capirà dall’analisi etimologica che sarà fatta più avanti, che cacanìtulu sia l’appellativo riservato all’uccellino della covata   nato per ultimo. La voce, che trascritta in italiano sarebbe cacanìdolo, risulta composta da caca (come in italiano, a conferma della sua universalità d’uso …)+nitu (corrispondente all’italiano nido)+il suffisso diminutivo -olu (corrispondente all’italiano -olo, come, per esempio, in rìvolo da rivo). Per quanto s’è detto, tutti gli uccellini non ancora in grado di volare sono dei cacanido ma, in virtù del suffisso diminutivo, che agisce non sull’oggetto (nido) ma sul protagonista dell’azione espressa dal primo componente (caca), il cacanìtulu, come anticipato, è l’ultimo nato.

C’è poi chi, divenuto adulto, si è guadagnato l’appellativo di cacamargiali4 per l’abitudine di lasciare il suo ricordino poco gradito sul manico (margiale) della zappa momentaneamente lasciata incustodita dal contadino: è, a seconda delle zone, il saltimpalo o la cinciallegra. Temo che della voce resterà fra poco solo il ricordo, come, tra gli altri, di questi uccelli e del contadino che usa ancora la zappa ….

Questo post per i miei gusti avrebbe avuto forse scarse probabilità di essere, se la voce del titolo non fosse usata metaforicamente per identificare, con un sentimento di nostalgica tenerezza e affettuosa protezione il più giovane dei fratelli di una famiglia; egli, anche se  avrà raggiunto una bella età (e soprattutto se sarà costretto ad usare il pannolone dopo una più o meno lunga liberazione dal pannolino), sarà sempre il cacanìtulu

 

E sempre questo post, se avrà suscitato qualche ricordo tra chi è avanti negli anni e curiosità in chi ne ha ancora tanti da vivere e che potrà contribuire alla sopravvivenza del lemma, non sarà stato scritto invano.

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1 Per naca vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/

2    Da inchire, che è dal latino implere, con normale passaggio –pl->-chi-, mentre in italiano è –pl->-pi– (empire).

3 Da sdiacare, in cui s– è ciò che resta della preposizione latina ex (=fuori), -di- è dall’altra preposizione, sempre latina, de (=da) e acare è, con aferesi, semprea dal latino vacare; va detto che acare da solo è usato nel salentino soltanto nel participio presente (acante) riferito ad un frutto (come una mandorla o una noce) il cui guscio è vuoto o ad un contenitore anch’esso vuoto.

4 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/margiale/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/01/il-sentimento-e-la-tecnologia/

 

 

 

 

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Dialetti salentini: “bisunìe” e “cònsulu”

di Armando Polito

Entrambe le voci designano il pranzo che i vicini di casa, amici o parenti mandano alla famiglia del defunto nel giorno del funerale. Esse, se testimoniano il senso di solidarietà della nostra gente, non sono però territorialmente scambiabili nell’uso, in quanto sopravvivono (per quanto tempo ancora?…) in aree diverse e il fenomeno è strettamente connesso con il loro etimo: greco per la prima, latino per la seconda.

Per bisunie illuminante è lo studio delle varianti (prisunìa, brisunia, prisunìe, brisunìe, bresunìe, parmasia, parasonno, parasomìa). tutte deformazioni del greco παρόψημα (leggi paròpsema=manicaretto), composto da παρά (leggi parà=presso) e ὄψημα (leggi òpsema=companatico, specialmente carne). In tutta evidenza bisunìe è la variante più spinta e non escluderei per essa un’ulteriore “corruzione” per incrocio con bisogni, mentre la più vicina all’etimo appare parasomìa.

Cònsulu corrisponde, con retrazione dell’accento (sistole),  all’italiano consòlo (da consolare, che è dal latino consolari), voce obsoleta soppiantata da consolazione, come confermano i siciliani cùnsulu ( o cunsulatu (a Palermo) e consòlu a Siracusa.

Chiudo con una considerazione che può sembrare, nella sua conclusione, cinica, irrispettosa e in parte contraddittoria col sentimento di solidarietà di cui ho detto all’inizio:  molto probabilmente l’usanza è legata alla pratica antichissima di porre alimenti accanto al defunto nella tomba; solo che col passare del tempo s’è capito che il morto è morto, meglio pensare ai vivi …

 

Dialetti salentini: ‘ddumare

di Armando Polito

fiammifero

Usato col significato di accendere, nasce per aferesi da un precedente addumare, che ha l’esatto corrispondente formale nell’italiano letterario allumare usato col significato di illuminare, rischiarare) e nel regionale centrale con quello di guardare. Per completezza va ricordato che in italiano esiste anche l’omografo allumare, usato col significato di trattare con allume, con etimo evidentemente diverso da quello della nostra voce, come apparirà chiaro da quanto seguirà.

Allumare nasce dal francese allumer, a sua volta da un latino volgare *adluminare, composto dalla preposizione ad+*luminare, del quale nel latino medioevale è attestato il participio passato luminatus. Evidente, poi, che tutto è dal latino classico lumen, da cui il nostro lume. L’italiano illuminare, invece, è direttamente dal latino classico illuminare. composto da in+*luminare.

Il francese allumer trova la sua più antica attestazione col significato di incendiare intorno al 1100, in quello di accendere il fuoco per rischiarare nel 1119, in quello di eccitare, infiammare i sensi nel 11641.

Per quanto riguarda, invece, allumare le più antiche attestazioni che sono riuscito a reperire risalgono al XIII secolo:

Giacomo da Lentini, Poesie, I, 24-26: Foc’aio al cor non credo mai si stingua;/anzi si pur alluma:/perché non mi consuma?3

Bonagiunta Orbicciani: E sono stanco e lasso;/meo foco non alluma,/ma quanto più ci afanno/men s’apprende.4

Giacomo da Lentini: anti, si pur alluma5E allumo dentro e sforzo in far semblanza6; ma Amor m’à sì allumato7; mi conforti e m’allumi8; e sempre alluma sua clarita spera9. Nello stesso autore compare anche alluminareIo che t’alluminai10.

Per il secolo successivo:

Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XX, 1: Quando colui che tutto ‘l mondo alluma.   Per gli autori che seguono, anch’essi del XIV secolo, il testo è tratto da Ludovico Frati, Le rime del codice isoldino2, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, 1913.

Giannotto Calogrosso di Salerno, Cantilena per Donna Nicolosa de Sanutis di Bologna, I, 7: Altra non è che allumi il nostro mondo.

Francesco Petrarca, Canti per Cicco di Ascoli, I, 1: Tu sei il grande Ascholan che ‘l mondo allumi.

Antonio De Lerro di Forlì, Canti e cantilene, I, 29: Alluma, priego, ormai l’ingrata mente.

I, 102: In ogni parte ove ‘l mio cuor alluma. XV, 2: Che col tuo bel parlar il mondo allummi. XVIII, 13: Perché no allumi tu mia vita obscura?

Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, : e più nel cor sentia ‘l foco allumarsi.

Il francesismo non fu disdegnato nemmeno successivamente:

Torquato Tasso (XVI secolo), Gerusalemme Liberata, LXXIV, 6: Que’ pochi, a cui la mente il vero alluma.

Matteo Maria Bandello (XVI secolo), LXXVIII, 12: Febo, ch’allumi il mondo, e questa mia. LXXXVI, 10: ch’alluma e scalda il mondo freddo e cieco. CXL, 10: e quando casca, e alluma il ciel la luna. CLXXIX, 32: non fanno il corso, n’alluman la notte. CLXXX, 9: non vuo’ ch’altrui splendor mai più m’allume? CLXXXII, 36: che potrebbe allumar l’oscuro inferno. CCXXXIII, 98: e tu (la tua mercé) gl’allum’ il core e 157: e tu (la tua mercé) gl’allum’ il core. CCXXXIX, 7: per allumar le tenebrose menti.

Non deve meravigliare in ‘ddumare il passaggio –l->-d-, fenomeno antico presente, per esempio, in sedano, che è dal greco σέλινον (leggi sèlinon) e, nella sequenza inversa (-d->-l-), in Ulisse, che è dal latino Ulìxes, a sua volta dal greco Ὀδυσσέυς (leggi Odiussèus)  e in lacrima,  che è dall’omonimo latino, a sua volta dal greco δάκρυμα (leggi dàcriuma).  Aggiungo che per quanto riguarda sedano la l originaria è stata recuperata dal romanesco sèllero, dal sardo sèllere, dal ligure sello, dal lombardo selar,   dall’emiliano e romagnolo serral/seler e , fuori d’Italia, dall’inglese celery e dal francese céleri. Non è finita: chi, a prima vista, direbbe che sedano e prezzemolo sono parenti non solo botanicamente ma anche etimologicamente? Tutto apparirà chiaro se si pensa che prezzemolo non è altro che la deformazione, attraverso un latino volgare *petrosèmolu(m), del classico petrosèlinu(m), a sua volta dal greco πετροσέλινον (leggi petrosèlinon), composto da πέτρα (leggi petra=pietra) e dal già citato σέλινον.

 

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1 https://www.cnrtl.fr/etymologie/allumer

2 Da Giuseppe Isoldi, nome del proprietario, letterato del XVIII secolo. S’ignora la data del manoscritto che il Crescimbeni definisce bellissimo codice di carta in quarto assai antico contenente molti Poeti antichi, e da me chiamato il Codice Isoldiano (Istoria della volgar poesia, Antonio De Rossi, Roma, 1714, introduzione, s. p.)

3 Testo tratto dall’edizione Bulzoni, Roma, 1979.

4 Testo tratto da Guido Zaccagnini- Amos Parducci, Rimatori siculo-toscani del Dugento, Laterza, Bari, 1915. I versi appartengono alla canzone Avegna che partensa.

5 Canzone Madonna vi voglio, v. 25.

6 Canzone Amor che lungiamente m’ài menato, v. 40.

7 Canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi, v. 13.

8 Membrando ciò c’Amore, v. 60.

9 Canzone Come lo sol che tal’ altura passa, v. 2.

10 Canzone La mia amorosa mente, v. 54.

Dialetti salentini: gliòne, tàccari e asche

di Armando Polito

È tempo, per chi ha la fortuna di avere un camino, di fare la provvista di legna da ardere, anche se i capricci meteorologici figli del cambiamento climatico ci costringeranno a breve a tenerlo spento in inverno e, forse, qualche giorno acceso in estate. Questo post non sarebbe nato, se non avessi letto sul suo profilo facebook (https://www.facebook.com/ciccio.danieli/videos/3625181364210008) quello di Francesco Danieli, che ha frequentato qualche lustro fa il ginnasio di Nardò al tempo in cui io vi insegnavo già da alcuni decenni. Non è stato mio allievo, ma ho potuto apprezzarne la vivacità intellettiva, manifestantesi, fra l’altro, già allora con uno spiccato senso dell’autoironia, quando più di una volta ha trascorso parte dell’intervallo nella mia classe. Oggi, perciò, mi è particolarmente gradito integrare la sua lezione estemporanea e en plein air utilizzando, senza il suo permesso due fotogrammi tratti dal suo video (cosa non grave finché il loro utilizzo non è per fare soldi, non necessariamente per ricatto) e con altre voci emerse nei commenti. Chi mi conosce, avrà già capito che da me ascolterà la solita musica, vale a dire leggerà qualche nota etimologica sulle voci dialettali presenti nel titolo. Quando la musica, quella vera, non piace, oggi basta premere il tasto “MUTE” (è inglese, e questa volta, essendo una voce di origine onomatopeica, non scomoderò né l’aggettivo latino mutus/muta/mutum (=muto) né il verbo greco μύω (=mi calmo, mi chiudo, sto in silenzio); quando, poi, non piace quella metaforica, come nel nostro caso, basta un clic …

gliòne/lìune/lèune/lìvene sono tutte varianti (non sto a specificare il territorio, comunque salentino, in cui ognuna di esse è usata) e indicano la legna da ardere in generale (tocca ffazzu la pruista ti li glione=mi tocca fare la provvista della legna). Le tre voci sono il frutto di una commistione non rara tra genere e numero; e mi spiego meglio partendo dall’italiano legna. Esso è dal latino ligna, plurale di lignum (che ha dato vita a legno. Non a caso, infatti, legno è maschile singolare e legna femminile, sempre singolare, ma con valore collettivo. Le voci dialettali, perciò, sono tutte plurali (li gliòne/li lìune/li lèune) e non esiste il singolare (la gliòne/la liune/la lèune) avendo adattato al plurale il ligna latino, cambiandogli la desinenza -a tipica dei nomi della prima declinazione (ma lignum, di cui ligna, come detto prima, è il plurale, di declinazione appartiene alla seconda) in -e.

 

tàccaru  è forma aggettivale dal germanico tak (=ramo); è in uso anche il diminutivo taccarièddhu (nella foto parzialmente animata dalla mano).

asca (àschia a Gallipoli) è dal latino medioevale ascla [la forma gallipolina presenta l’esito fonetico- cl->-chi– più normale, come succede, per esempio, in chiaro che è da claru(m)]. Ascla, a sua volta è, per sincope, dal latino, sempre medioevale, àscula (=frammento; da esso deriva il diminutivo salentino asculeddha), il quale è forma dissimilata di assula, che è (sembra il gioco delle scatole cinesi adottato dalle società per evadere il fisco; questo gioco giova alla singola società ma non a quella nel suo insieme, il nostro, invece, anzi quello della filologia giova, o dovrebbe giovare, a tutti …), e siamo giunti finalmente alla meta (che poi è il principio …)!, diminutivo del latino classico axis (da cui il nostro asse)=pezzo di legno, tavola.

cugnatu è l’ascia, strumento un tempo indispensabile per ricavare le asche (oggi il pezzo di tronco e i rami più grossi vengono scissi meccanicamente). Con questo attrezzo vostro cognato non ha nulla a che fare, anche se ve ne ha fornito uno con il filo rovinato, perché la voce è dall’aggettivo latino cuneatu(m)=a forma di cuneo.

E, come dicevano i latini, de hoc satis o, come ama particolarmente dire un politico (il nome? Si dice il peccato, non il peccatore: posso solo dire che è di sesso femminile) con arcaismo volutamente (?) esibito, detto questo, mi taccio

Nardò: il Maestro Amilcare Vernich e il suo addio alla scuola

di Armando Polito

Non vorrei essere accusato di uso privato di un blog che si occupa di cultura, dunque, in un certo senso, di emulare ciò che sembra avvenire molto frequentemente da un po’ di tempo sulle reti televisive nazionali e non, dove personaggi più o meno noti (loro …) approfittano del mezzo pubblico per metterci al corrente di dettagli personali in una crescente orgia di sindrome autoreferenziale.

Certo, Amilcare Vernich è stato il mio Maestro (spiegherò dopo perché qui, come nel titolo e dopo, lo scrivo con l’iniziale maiuscola) delle Scuole Elementari (in questo caso, invece, le iniziali maiuscole le spiego subito: mi piace scrivere così pensando al passato, mentre oggi mi pare eccessivo pure per università, e assolutamente non per colpa di chi esercita il mestiere più bello del mondo …).

Certo, nella foto di testa compaio pure io e gli unici compagni che dopo tanti anni ho riconosciuto, cioè Salvatore Calabrese ed Adelchi Vergari (se qualcun altro si riconosce, mi farà piacere esserne informato).

Certo … fino ad ora ho parlato solo di me alla faccia di quanto stigmatizzato all’inizio, ma prima di tacere, una premessa (si salvi chi può …) è necessaria, non, a quanto potrebbe sembrare, a mia discolpa.

Il dottore Tarcisio Vernich, padre di Amilcare, è uno dei lettori di questo blog (vedi, per esempio, https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/amilcare-vernich/) ed ha pensato di farmi cosa gradita inviandomi qualche giorno fa alcune delle foto custodite dal padre. Allora il digitale non era nemmeno fantascienza, però era un rito obbligato che ogni classe immortalasse la fine dell’anno scolastico con una foto affidata al talento ed all’attrezzatura di un fotografo professionista (all’epoca gli unici studi fotografici erano Mauro (la foto è sua) e Mazzarella (specializzato nei ritratti e nella ripresa del paesaggio). Insieme con la foto Tarcisio mi ha fatto pervenire anche una poesia in dialetto neritino del padre1, al quale cedo, finalmente, la parola riservandomi l’onore, forse immeritato, di aggiungere di mio (e ti pareva …) la traduzione a fronte e qualche nota in calce, operazione indispensabile dato che non tutti i termini dialettali hanno l’esatto corrispondente, formale e semantico, in italiano e per alcuni di loro nemmeno una lunga circonlocuzione è in grado di renderne efficacemente la poeticità.

Da notare nella prima strofa l’alternanza chiastica di concordanze tra ulitate (con anime), ndacquata (con spica), ncurmata (con spica) e crissciùte (con anime), a sottolineare lo stretto legame tra il tutto (spica, metafora di scuola) e le singole componenti umane (anime). Il resto, volta per volta, sarà sottolineato nelle note.

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1 Non so se sia inedita, ma so che, purtroppo, non esiste una raccolta organica. A parte numerosi suoi contributi apparsi sulla stampa locale (cito, per esempio:  Pippi Cardone, Maestro di Cappella  e  Musica e Musicisti Neretini in un’intervista di Amilcare Vernich al Maestro Egidio Schirosi, Maestro di Cappella della Cattedrale nel periodico  La Voce di Nardò, 1987 e 1981, nonché Dalla gavetta del Purgatorio nacque un grande artista: Michele Gaballo, in Artisti neritini, collana di cultura neritina (diretta da Antonio Martano), a cura del Circolo cittadino di Nardò, Nardò, 1993, pp. 27-29), due sue poesie, sempre in vernacolo (Pumitori ti iernu, pumitori ti prèndula del 20 febbraio 1990  e Evviva Santu Martinu! dell’11 novembre 1991), sono nel calendario Terra noscia realizzato dalla IV B dell’Istituto Tecnico “Ezio Vanoni” di Nardò per l’anno scolastico 2017-2018 a cura di Diana Rizzello (http://www.istitutovanoninardo.gov.it/ivn/wp-content/uploads/2016/12/calendario2.pdf).

2 Efficace metafora a sottolineare come una classe, pur essendo un organismo unitario (spiga), è pur sempre formata da entità individuali strettamente connesse, come i chicchi di grano nella spiga. La metafora continuerà nella seconda strofa per spegnersi lentamente nella terza.

3 Per ulitate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/22/quando-il-rohlfs-sbaglio-nel-voltare-e-volo-fuori-pista-forse/

4 Dal latino adaquata (participio passato di adaquare, che è da ad+forma verbale da aqua) con aferesi, raddoppiamento di compensazione e dissimilazione (trafila: adaquare>‘ddacquare>ndacquare.

5 Nell’originale miessi, potente metonimia: il nome del prodotto (le messi) invece del mese.

6 Dal latino area.

7 L’originale ndi è dal latino inde=di là.

8 L’originale muddhrìculi è, con cambio di genere per sottolineare il passaggio metaforico dalla cosa inanimata alla persona, di muddhrìcule, plurale di muddhrica (corrispondente all’italiano mollica). Vale la pena notare come la metafora è perfettamente in linea con quella già vista della spiga.

9 l’originale ardhieddhru è per aferesi da vardhieddhru, diminutivo di varda, che, come l’italiano fardo è dall’arabo farḍ=carico del cammello. Se il precedente bardare non fosse da barda (armatura del cavallo da battaglia), a sua volta dall’arabo barda῾a, saremmo stati in presenza di una figura etimologica.

10 Nell’immaginario collettivo di allora la riga era solo un asse di legno, normale strumento educativo con cui mettere … in riga con un adeguato numero di palmate lo scolaro reo di comportamento scorretto o risposta sbagliata. Oggi, invece, ci sono per un nonnulla le spedizioni punitive dei genitori, con i risultati, anche sociali, che tutti facciamo finta di non vedere.

11 A parte le virgolette, da notare l’iniziale maiuscola, a sottolineare l’importanza, anche metaforica dei Maestri, senza tuttavia, ombra di compiacimento narcisistico ma con la consapevolezza della responsabilità e della dignità che il ruolo esige. Mi vien, perciò, da ridere quando qualcuno ha bisogno di sfoderare titoli magari solo per presentarsi e ancor più, nella fattispecie, quegli educatori che preferiscono, non per modestia ma per ignoranza, farsi chiamare insegnanti o professori e non maestri (sia pure con l’iniziale minuscola …), mentre si inorgoglirebbero se, una volta datisi alla politica, diventassero ministri, ignorando che ministro è dal latino ministru(m), a sua volta composto da minus=meno e da –ter, suffisso comparativo che indica il confronto tra due, per cui la voce latina non a caso significa servo (con tutto il rispetto per quest’ultimo); va da sè che maestro è da magistru(m), composto da magis=più e dal suffisso comparativo di cui si è appena detto.

12 Detto parallelo nella sostanza al napoletano Mazz’ e panell’ fanne ‘e figli bell, panell’ senza mazz fann e’ figl pazz.

13 Mette duramente alla prova chi non sa rispondere. L’immagine è tratta dal gioco del tresette dove un giocatore può calare una carta battendo un colpo sul tavolo e dicendo busso, il che equivale a chiedere al proprio compagno di rispondere giocando la carta più alta dello stesso seme. La mezza tragedia, o quasi, è non solo quando non si ha la carta più alta, ma, addirittura, nessuna dello stesso seme.

14 Nell’originale nnòtica, da nnuticare=fa sentire un nodo alla gola , che è da un latino *nodicare, a sua volta da nodus=nodo. La tecnica di formazione col suffisso -icare è la stessa che ha portato, per esempio, da barba a barbicare.

15 Nell’originale nzùccaru la n– è per influsso del verbo ‘nzuccarare (inzuccherare) attraverso il processo inverso che porta dal sostantivo al verbo (zucchero>zuccherare) e credo pure che  non sia estranea a quest’uso popolare la sua presenza nelle nota cantilena natalizia Bambieddhu ‘nzuccaratu.

16 L’originale bròtissi (deformazione del latino prosit=giovi) a Lecce si presenta nella variante bròsitti, più fedele all’originale; la forma neritina rispetto alla leccese presenta una metatesi (-tissi<-sitti) che, negli oscuri meandri psicologici messi in moto dall’ignoranza (lo dico senza disprezzo), potrebbe essere stata indotta anche da brotu (=brodo), come mi è rimasta impresso un greco scatti in pace per requiescat in pace ascoltato anni fa da una vecchierella.

17 Nell’originale siri, plurale di sire, che è dal francese sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio. Tenendo presente quest’ultimo riferimento all’età ed al fatto che pure in italiano sire è stato l’appellativo con cui ci si rivolgeva al sovrano, si può comprendere il rispetto un tempo riservato al genitore (sia pure, almeno formalmente, a quello di sesso maschile …).

18 Nell’originale cannaliri, plurale collettivo usato per lo più al posto del singolare cannalire che è da canna (col significato metaforico di gola) con doppio suffisso (il primo aggettivale): canna>cannale>cannalire.

19 Nell’originale ddifriscu=refrigerio, deverbale da ddifriscare, secondo la trafila friscu (=fresco)>addifriscare (protesi delle due preposizioni ad e de e assunzione del suffisso verbale)>ddifriscare (aferesi). Da notare che l’orinario nesso ddifriscu, Signore  nella pronuncia popolare è così rapido da aver soppresso la virgola che precede il vocativo. Da qui la mia resa con grazie, della cui infelicità sono perfettamente consapevole, poiché sarebbe stato più fedele (ma troppo lungo) il riposo dopo la fatica finalmente è arrivato.

Scipione Puzzovivo di Nardò: frammenti

di Armando Polito

Come ben sanno gli addetti ai lavori, si definisce tradizione indiretta la trasmissione di un testo del passato, facente parte di un testo mai pubblicato o andato perduto. In parole povere si tratta di citazioni, impossibile dire se a memoria o meno,  riportate da autori successivi. Possono essere brevi (più spesso è così) che lunghe ed è cura dei filologi raccogliere i frammenti relativi ad una o più opere dello stesso autore in un unico corpo, in pratica un’antologia in cui il compilatore sarebbe stato ben felice di inserire il maggior numero possibile di brani, nella quale non ha voce la sua scelta ma la maggiore o minore ampiezza delle fonti, cioé degli autori citanti.

Se il fenomeno coinvolge tutti i secoli passati, difficilmente si porrà per quelli attuali (e, probabilmente, futuri), in cui il desiderio di esibirsi e di conservare memoria di sé contrasta con una sincera consapevolezza dei propri limiti, il cui ricordo non converrebbe lasciare all’eventuale residuo spirito critico di qualche postero. E se anche molti autori del passato avrebbero fatto probabilmente meglio a ridurre la loro prolificità, per non pochi c’è il rimpianto per un talento che avrebbe meritato un ben diverso destino, alimentato da quel poco che di loro si sa e da qualche frammento che della loro produzione  è rimasto.

Di entrambi i filoni, relativamente alla sfuggente figura del Pozzovivo, fornisco in sequenza gli unici dati a me noti:

1) Pietro Angelo Spera, De nobilitate professorum Grammaticae, et Humanitatis utriusque linguae, Francesco Savio, Napoli,  1641, p. 365:

Scipione Pozzovivo salentino di Nardò, nel quale non mediocremente risplendettero le luci dei filosofi greci, in patria per non pochi anni precettore dei figli dei primi (cittadini) e poeta pregevolissimo in lingua latina  e  toscana, venne infine a Napoli, dove tra persone come lui raggiunse un posto di condizione non inferiore.

2) Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano,  Bartolomeo,  Bonaventura,  Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, v. I, pp. 333-334 (cito da questa edizione, ma il primo dei due libri di cui consta quest’opera di Giovanni Bernardino era uscito nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Venezia, Zane, pp. 1-315:

Extat MS. apud Jo. Bernardinum Tafuri=Il manoscritto si trova presso Bernardino Tafuri (sulla perdita di tale manoscritto vedi la nota 2 del brano xuccessivo).

pp. 487-488:

In rapporto a questo secondo brano sono doverose le seguenti precisazioni: 

a) sulla sua fine ecco cosa si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 10:

b) Credo che il Succinto ragguaglio del sito della Città di Nardò sia una variante di Descrizione della città di Nardò che si legge in 2). Un’ulteriore variante dovrebbe essere il Notizia dell’antichissima città di Nardò, e sua Chiesa Vescovile che si legge in  Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico …, op. cit. p. 10, insieme con l’informazione la quale rimase manoscritta, e fu involata dalla casa de’  signori Tafuri  (credo che qui involata non stia nel significato specifico di rubata ma in quello generico di volata via, scomparsa).

c) L’epigramma latino a p. 104 della raccolta del Grandi non è di Scipione Puzzovivo ma di Stefano Catalano, letterato nato a Gallipoli nel 1553 ed ivi morto nel 1620. Nella biografia che di lui scrisse Giambattista de Tomasi di Gallipoli, inserita nel settimo tomo della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1820 sono ricordati i seguenti titoli, tutti rimasti manoscritti ed andati perduti: De origine urbis Callipolis (opera dedicata all’amico e concittadino Giambattista Crispo), Descrizione della città di Gallipoli, Vita di Giambattista Crispo.

d) Il libro che il Tafuri cita nella nota 2 e che recherebbe un epigramma del Puzzovivo in onore di Scipione Spina (che fu vescovo di Lecce dal 1591 al 1639) è, com’era facile ipotizzare, quasi irreperibile e l’OPAC segnala l’esistenza di un solo esemplare custodito nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini a Lecce. Impossibilitato a muovermi agevolmente, lascio ad altri il compito di consultarlo e di integrare, se si riterrà opportuno, questo post. In compenso, però, ne ho trovato un altro , che più avanti commenterò, a p. 8 di Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603 (come si vede è lo stesso autore del libro dedicato  al vescovo Spina):

Su Pellegrino  Scardino di San Cesario vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/.

3) Giovanni Bernardino Tafuri, Serie degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1738, Tomo XVI, pp. 184-185:

… [L’accademia del Lauro] …

4) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1753, tomo III, parte III, p. 4:

5) Giambattista Pollidori, De falsa defectione Neritine civitatis ad Venetos regnante Ferdinando I ,  in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, tomo XIX, p. 225:

Scipione Puzzovivo Seniora coetaneo del  Marcianob  nel libro che ha il titolo ….

a E il Puzzovivo Iunior  molto probabilmente è lo Scipione Puzzovivo menzionato più volte (ma il testo non dà la certezza che si tratti della stessa persona, dal momento che l’omonimia è sempre in agguato anche in sussistenza di compatibilità cronologica) nel Libro d’annali de successi accaduti nella città di Nardò, notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città (cito dal testo edito da Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV (1936), n. 4:

A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.

A 13 detto [Gennaio 1654] venne ordine dalla Regia agiunta fatta in Napoli, per la morte del D.r Mario Antonio Puzzovivo, che si conferiscanp, il Sindaco del Popolo,Gio. Donato Ri, e Scipione Puzzovivo, figlio del morto Puzzovivo, ordinando nella Regia Udienza di Lecce,che gli sia data quella gente che è di bisogno per la strada, e che possano andare con armi proibite.

A 20 detto [Gennaio 1654] partì per Napoli Scipione Puzzovivo, per la detta chiamatapartì solo senza il Sindaco del Popolo, havendolo portato sino a Conversano Gio. Ferrante de Noha, suo cugino, di là fu provvisto dal Sig. D. Tommaso Acquaviva di cavalcatura e denaro.

A 5 Marzo 1654 furono chiamati da venti persone dal detto Auditore, esamenandoli se il D.r Mario Antonio Puzzovivo era agente in Napoli della città di Nardò, e se avesse inimicizia con il Patrone, se fusse ammazzato, se Gio. Ferrante de Noha havesse portato  Scipione Puzzovivo in Conversano quando fu chiamato da S. E., se avessero inteso, che Mariantonio Puzzovivo fusse stato annazzato in Napoli, ad istanza del sig. duca delli Noci.   

A 16 Giugno 1654 fu carcerato Gio. Tommaso Sabatino per haver andato per servitore a Gio. Ferrante de Noha, e Scipione Puzzovivo, quando andarono a Conversano, acciò testifica che detto Puzzovivo, quando andò in Napoli chiamato da S. E., andò da Conversano, e negozziò con D.Tommaso Acquaviva.   

b Girolamo Marciano (1571-1628), autore di Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, opera pubblicata postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Alla data del 1739, dunque, il manoscritto del Puzzovivo ancora esisteva prima di fare la fine di cui si parla, come abbiamo visto,  nella nota 2 relativa al secondo brano del n. 3.

 

6) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte I, p. 378:

7) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte II, p. 23:

 

È giunto ora il momento di riportare, enucleati,  tutti i frammenti che le fonti (tra parentesi tonde il numero relativo) appena passate in rassegna mi hanno consentito di individuare.

Frammenti della Descrizione della città di Nardò:

(2) Nardò una delle città più cospicue della Salentina provincia, o s’ave riguiardo all’antichità della sua origine, vantando i popoli Coni per suoi fondatori, o all’eccellenza del suo sito, vedendosi piantata in una amena, e fertile pianura, e sotto d’un Cielo Benigno, o alla nobiltà degli abitanti, potendo andar gonfia, ed altiera sopra d’ogn’altra del Regno di Napoli , vantando, oltre molti nobili, ventiquattro Baroni di Feudi.

(4) L’Amore costante, La Tirannide abbattuta, ovvero la crudeltà di Tiridate vinta dalla costanza di S.Gregorio Armeno, L’Erminia  (Titoli delle opere sceniche di  Raimondo De Vito).

(5) Sotto Ferdinando I d’Aragona patisce ancora molti danni, per la batteria, et assalto fattali dal Campo Venitiano dopo la presa di Gallipoli.

(6) Visse in questo tempo in qualità d’ottimo, ed esperto Medico Gregorio Muci, a cui da più parti concorreva la gente, o di persona, o con lettere per avere di lui la direzione nelle proprie infermità, ed indisposizioni, e quasi di continuo era fuori di casa chiamato ora in un luogo, ora in un altro. E se la Natura gli fu assai proprizia acciò lasciasse parti ben degni delsuo vivace, e spiritoso ingegno, avendo composte molte opere mediche, e filosofiche, delle quali solamente corre per le mani di tutti un suo dotto parere intorno il cavar sangue alle donne gravide, gli fu molto avara a provvederlo di figliuoli  non ostante d’esser stato ammogliato con Prudenzia Filieri. Gregorii Mucii Medici Neritini Opus Practicis perutile. De Vena sectioni in utero gerenti adversus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab Abortu. Neapoli apud Joannem Sulerbachium 1544 in 4°.

Sui dubbi che suscita il titolo del Muci tramandato dal Tafuri vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/06/gregorio-muci-medico-nardo-del-xvi-secolo-suo-libro-fantasma/

(7) L’antica, e nobile Famiglia Longo s’estinse in Alberigo, il quale siccome per la suua gran dottrina apportò somma gloria, e riputazione alla sua Patria,ed al suo Casato, così per amor della verità, e per difesa degl’Amici mancò miseramente di vivere in Roma da un colpo di Archibugio.

Frammento della commedia in endecasillabi sdruccioli Fortunio:

(2) Così vengo or più pronto a te medesimo/per dedicar la mia nuova Comedia.( Questa, è pur ver, fu parte di quel carcere,/ch’io già provai per le colpe imputatemi,/  e Tu per tormi da man de’ Satelliti,/che mi volean straziar per non requiescere/volesti mai finché me render libero/non vedesti da que’ lacci corporei,/onde legata fu per sempre l’anima.

Epigrammi

(3) Quae fuerant Lauri Phoebo sacra pascua quondam/Musarum cultrix Infima turba colit./Aruerant herbis, Cytisi vel flore carentes/saltus,nec Cantum qui daret, ullus erat./Contulit illa atavis felicia serta Camoenis/vaticinor nostris gloria maior erit./At modo quae gaudet Vatum Turba infima dici/certabit, Phoebo tum decus omne feret. 

Quelli che un tempo erano stati pascoli di alloro sacri a Febo (ora) li cura la schiera Infimaa adoratrice delle Muse. Erano inariditi a causa delle erbe, le balze prive pure del fiore del citiso e non c’era chi intonasse alcun canto. Essab ha recato alle antenate Camenec ricche corone. Annunzio: per i nostri ci sarà gloria maggiore. Ed ora quella schiera di poeti che gode a chiamarsi infima gareggerà, tributerà allora a Febo ogni onore.

 

a L’Accademia degli Infimi (per la storia di quest’accademia, sorta sulle cenwri di quella del Lauro, vedi Notizie delle accademie istituite nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 293 e seguenti).

b L’accademia.

c Nome romano delle Muse; molto probabilmente connesso con cànere=cantare e carmen=canto.

 

In quest’epigramma composto da distici elegiaci colgo una dichiarazione di modestia, forse anche troppo ostentata, anche se abilmente, attraverso la ripetizione nel secondo e nel penultimo verso (simmetria strutturale)  dell’accoppiamento delle parole infima e turba con inversione chiastica (Infima turba/Turba infima) e grammaticale in una sottile inversione dei ruoli: nella prima sequenza turba con iniziale minuscola, nome comune con significato iniziale notoriamente dispregiativo  ed Infima con iniziale maiuscola (nome proprio dell’accademia); il contrario nella seconda, dove Turba esprime una sorta di già avvenuta nobilitazione, prontamente ridimensionata, però, da infima abbassatosi ad aggettivo dal significato non certo esaltante. Tuttavia va detto che a p. 55 del tomo II dell’edizione della Istoria uscita per i tipi di Mosca a Napoli nel 1748  in testa al componimento si legge AD SCIPIONEM PUTEVIVUM e, poco prima, che l’autore è Tommaso Colucci di Galatone; insomma, dedicante e dedicatario risultano invertiti e buon senso vuole che l’ultima versione sia quella corretta.

(2,  nota d) Ardua res epigramma solet Scardine videri/nec multis unum saepe placere potest./Namque alii verba, et flores sectantur amoenos,/hic pondus rerum, scommatis ille salem,/fabula nonnullis arridet, priscaque multis/historia in laudem ritè retorta virum./Sed benè cunctorum retines tu corda libello/hoc decies claudens carmina dena tuo/queis neque verborum flores, nec copia rerum,/nec doctrinae laus nec charis ulla deest.

O Scardino, l’epigramma suole sembrare cosa difficile e a molti spesso può non piacere una sola cosa. Infatti alcuni amano le parole e i piacevoli fiori di eloquenza, questi l’importanza degli argomenti, quegli il sale del detto faceto, a parecchi piace la favola ed a molti la storia antica giustamente rivolta a lode degli uomini. Ma tu avvinci felicemente i cuori di tutti includendo in questo tuo opuscolo cento canti ai quali non mancano né fior di parole né abbondanza di argomenti né lode della dottrina né alcuna grazia.

Da notare queis, forma arcaica  per quibus, che ha la funzione di conferire solennità più che obbedire ad esigenze metriche.

Della serie dei componimenti elogiativi posti nella parte iniziale dell’opera di Ferdinando Epifanio Theoremata medica et philosophica, Balliono, Venezia, 1640 fa parte un epigramma del nostro formato da tre distici elegiaci, preceduto dall’intestazione Scipionis Puteivivi u(triusque) i(uris) d(octor) hexastichon ad auctorem: Nec melius quisquam te, Ferdinande, medetur/quos mala vis ferri, vel mala febris agit,/Nec facile invenias, doceat qui rectius artes;/quarum mille locos explicat iste liber./Ad te igitur veniat quicumque aud doctus haberi,/aut fieri sanus cum ratione velit.

(Esastico di Scipione Puzzovivo dottore di entrambi i diritti all’autore:  Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegnui più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica).

Nella presentazione, ormai datata (http://www.lavocedinardo.it/bacheca3-03/ripresa0503-1.htm), di una sua imminente pubblicazione di una storia di Nardò del XVII Giancarlo De Pascalis così scriveva: … Il resto della storia prosegue segnalando le personalità di spicco nell’ambito culturale della città: in particolare sono da rilevare le presenze di Scipione Puzzovivo (che molti studiosi ritenevano non essere affatto vissuto ma pure invenzione storica del Tafuri) …

Non mi è stato possibile fino ad ora leggere tale documento (estremi della pubblicazione in http://www.storiadellacitta.it/associati%20CV/de%20pascalis.pdf:  Nardò nel Seicento: un manoscritto inedito di Girolamo de Falconibus, nella rivista “NERETUM – Annuario della Società di Storia Patria – Sez. di Nardò”, Congedo, Galatina 2003) e, quindi, non sono in grado di dire cosa eventualmente  aggiunga a queste note la parte dedicata al nostro Scipione, né conosco i nomi di coloro che, forse un po’ troppo frettolosamente condizionati dal vizietto della falsificazione notoriamente caro al Tafuri, hanno pensato che fosse un personaggio fittizio. Per fugare definitivamente questo dubbio credo, visto  che l’epigramma 3, per quanto detto, molto probabilmente andrebbe escluso dalla produzione del nostro, basti  il 2, nota d “ospitato” da Pellegrino Scardino proprio all’inizio della sua centuria. Ho detto ospitato, ma avrei fatto meglio a scrivere esibito, insieme con altri tre, rispettivamente di Giovanni Alfonso Massaro, Filippo Antonio Leone e Francesco Mauro, secondo la consuetudine, abbastanza frequente nella letteratura encomistica di quel tempo, di far precedere l’opera da recensioni poetiche di personaggi di una certa notorietà. L’epigramma in questione, inoltre, testimonia, da parte di Scipione, di un certo mantenimento di contatti  con l’ambiente culturale salentino.

Dialetti salentini: “pete” e derivati

di Armando Polito

– Ne ha fatta di strada l’Umanità! – si sente spesso dire, ma sarebbe opportuno chiedersi se altrettanta ne ha fatta la nostra umanità. Credo che le due immagini di testa (separate cronologicamente da cinque millenni e mezzo) la dicono lunga, soprattutto se operiamo una parallela contrapposizione con un’altra coppia in cui siano rappresentate le condizioni antiche e quelle attuali del nostro pianeta , al quale abbiamo fatto le scarpe con la nostra presunta superiorità, senza rispetto per gli altri esseri viventi, animali e vegetali, e pure minerali, che costituiscono l’ambiente.  Continuiamo a pretendere di avere un  piede  in due scarpe illudendoci che il nostro sciagurato modello di sviluppo, basato unicamente sul profitto, possa in qualche modo conciliarsi con i problemi ecologici che, per quanto riguarda la soluzione, appaiono ormai più che inderogabili, irreversibili. Mi verrebbe da dire che abbiamo curato più i piedi che la testa e che il passaggio dall’agricoltura (senza la chimica …) all’industria ci ha portati a dimenticare il vecchio proverbio Contadino: scarpe grosse e cervello fino.

Dopo questa sparata o, per i pacifisti, pistolotto (da epistola, con la pistola non ha nulla a che fare …), consapevole che qualche lettore possa imputarmi (ma deve esibire le prove …) di aver scritto questo posto con i piedi, entro in argomento.

Comincio dal capostipite, cioè da pete, che corrisponde all’italiano piede, rispetto al quale presenta una maggiore fedeltà fonetica per quanto riguarda il comune etimo: il latino pede(m), accusativo di pes/pedis, connesso con il greco πούς (leggi pus), genitivo ποδός (leggi podòs)1. Per i nessi in cui è usato a designare metaforicamente  qualcosa di particolare, oltre a pete ti puercu (piede di porco, l’attrezzo degli scassinatori, ma, col significato particolare (evoca la forma del piede dell’animale)ad Alessano di nuvola presaga di temporale e a Salve di arcobaleno che resta imperfetto, il vocabolario del Rohlfs registra, solo per Nardò, pete di lupu col significato di arcobaleno incompleto2; solo  per Galatone pete ti mosche e solo per Ruffano nella variante pete te mùschie a designare il bagolaro (Celtis australis L.)3; pede de capra per Leuca (peti ti crapa a Brindisi), a designare il bivalve chiamato in italiano Arca di Noè4.

Passo ora ai principali derivati di pete, con la preghiera al lettore di segnalarmi eventuali, tutt’altro che improbabili omissioni, soprattutto laddove la voce pone interrogativi o consente di fare riflessioni di un certo interesse.

PETALE (in italiano pedale), latino pedale(m) forma sostantivata col significato di oggetto della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dell’aggettivo corrispondente che significa della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dalla radice ped– di pes (genitivo pedis) + suffisso aggettivale. 

PITALORA (non conosco corrispondente italiano)= tralcio nato sul tronco della vite. Dal precedente in una forma *pitale, da non confondersi conl’omonimo ,designante il vaso da notte, che è dal greco πιϑάριον (leggi pithàrion), che significa orcio.

PITANTE (il corrispondente italiano pedante ha, con lo stesso etimo, un altro significato)=passeggero, soprattutto nell’espressione pitante ti mare (persona che ama frequentare i luoghi in riva al mare). La voce è participio presente di un inusitato *pitare, a sua volta dal latino medioevale pedare usato nel senso di misurare a passi.

PITATA (in italiano pedata, participio passato di un inusitato *pedare, forma verbale da piede, della quale permane il composto appiedare.

PITICINU sinonimo di picciolo, peduncolo. Come le voci italiane appena ricordate è diminutivo sostantivato dell’aggettivo  del latino medioevale pedicus5=relativo al piede, dal citato pes.

PITICUNE usato (non a Nardò)  nel significato di ceppaia. Stesso etimo del precedente, ma con suffisso accrescitivo.

‘MPITICUNARE è usato nel significato di mettere in condizione di non muoversi o in quello traslato di impegnare totalmente . La voce è dalla preposizione in (con aferesi di i- e normale passaggio –n->-m-davanti a -p-) + una forma verbale derivante dal precedente piticune.

__________

1 Da una radice indoeuropea ped– presente anche nell’inglese foot.

2 Pur essendo di Nardò, è la prima volta che incontro questa locuzione e sarei grato a chiunque fornisse qualche notizia (o fondata supposizione) circa l’origine della metafora. Posso solo dire che qualche collegamento è ipotizzabile con il piede di lupo o Lycopus europaeus L. [Lycopus è dal greco λύκος (leggi iùcos)=lupo + πούς (leggi pus)=piede], in rapporto ai colori dominanti del perianzio (bianco, rosa, rosso, purpureo (vedi   https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=4911. Tuttavia questo comporterebbe un doppio passaggio metaforico (dal mondo animale a quello vegetale e da questo all’atmosferico), per cui è più probabile che l’imperfezione abbia evocato l’immagine del piede dell’animale come credo sia successo per il pete ti puercu di Salve.

3 Anche qui il passaggio metaforico dal mondo animale a quello vegetale dovrebbe essere basato su un rapporto di somiglianza, ma non riesco ad intravvederlo, sfruttando, questa volta, la scheda presente in https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=1825. Faccio presente che il piede di mosca (o piede sporco), indicato con ❡ o ¶,è un antico segno tipografico che in passato segnava la ripartizione di un capitolo e che negli attuali programmi di videoscrittura segna la fine di capoversi e paragrafi; non credo proprio che la nostra metafora possa avere questa origine dotta.

4 A Nardò chiavatone. Probabilmente le sue decantate proprietà afrodisiache hanno propiziato la paretimologia (parziale, perché protagonista, come vedremo, è sempre il chiodo)da chiavare (non nel suo significato letterale di inchiodare ma in quello metaforico alludente al coito maschilisticamente inteso, tanto per cambiare …. Mi sarei aspettato, sotto questo punto di vista, un chiavantone (accrescitivo del participio presente attivo  e non di quello passato che, per i verbi transitivi, come chiavare,  ha significato passivo …).  In realtà chiavatone è accrescitivo, sì, ma da clavatus  (=a forma di clava), a sua volta da clava, che ha la stessa radice di clavis=chiave e di clavus=chiodo (in fondo un chiodo è la forma più semplice di chiave). Chiavatone, perciò, nasce dalla sua somiglianza con una clava, poi la fantasia popolare ha fatto il resto …  Ne approfitto per ricordare che fungu ti crapa è chiamato a Nardò quello che con nome italiano è detto piede di capra (Albatrellus pes caprae), per cui il nome neretino evoca la forma e non una particolare predilezione caprina per esso.

5 Da non confondere con l’omografo del latino classico pèdicus=relativo ai fanciulli, che è trascrizione del greco παιδικόϛ (leggi paidicòs), a sua volta da  παῖς (leggi pàis)=fanciullo. Il pèdicus (da pes) è stato quasi riesumato nell’italiano pèdice [(detto anche  deponente),   segno, lettera, numero che, in formule chimiche o in espressioni matematiche, è collocato in basso rispetto ad altri segni], che è formazione moderna modellata sul latino àpicem (non a caso àpice, tipograficamente parlando, è il contrario di pèdice), che significa sommità.

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