A proposito delle epigrafi della “trozza” di Villa Scrasceta

di Armando Polito

Questo post vuole essere solo una piccola integrazione al saggio recente, interessantissimo e, come al solito, ottimamente documentato, di Marcello Gaballo (Un’architettura rurale impossibile da dimentica+re: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni, II parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/06/unarchitettura-rurale-impossibile-da-dimenticare-lo-scrasceta-dalle-origini-ai-nostri-giorni-ii-parte/).

Le osservazioni che farò, frutto di una ricognizione personale operata più di trenta anni fa (purtroppo all’epoca non esistevano le fotocamere digitali e una reflex di un certo livello non era nelle possibilità economiche di un modesto insegnante) hanno il solo scopo di evitare un’ulteriore proliferazione di errori dovuti non all’autore del post ma alla fonte primaria, cioè il pur pregevole, pluricitato  lavoro dell’indimenticato Emilio Mazzarella; prima che gli oltraggi del tempo e degli uomini le rendano totalmente incontrollabili …

Parto dalla prima epigrafe, quella del fastigio. La trascrizione del Mazzarella è la seguente:

NYNPHARUM LOCUS/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS UBERIBUS/PULCRAE NAIADIS/ECCE FLUIT.

Va detto preliminarmente che l’iscrizione occupa non cinque ma sette linee e che la sua trascrizione esatta è la seguente:

NYMPHARUM/LOCUS HIC/SITIENS BIBE/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

e, con l’aggiunta della punteggiatura. della cui scelta darò ragione più avanti:

NYMPHARUM/LOCUS HIC. SITIENS BIBE!/LYMPHA SALUBRIS/UBERIBUS/PULCHRAE NAIADIS/ECCE FLUIT

L’immagine che segue (tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) mostra chiaramente il degrado della seconda linea ma non so spiegarmi come, dopo la decifrazione ancora oggi possibile di LOCUS, sia sfuggito il visibilissimo HIC.

La questione non è di poco conto, perché l’omissione ha trasformato in una quasi inanimata epigrafe in prosa ciò che era e rimane un perfetto distico elegiaco.

Ne fornisco di seguito la scansione, non per idiota esibizionismo culturale ma solo perché è un passaggio indispensabile per motivare le osservazioni che farò dopo e facilitarne al lettore la comprensione.

Nymphā|rūm lŏcŭs|hīc||sĭtĭ|ēns bĭbě|lymphă să|lūbrĭs                     

ūbĕrĭ|būs pūl|chraē||Naīădĭs|ēccĕ flŭ|ĭt 

Qui (c’è) il luogo delle Ninfe. Tu che hai sete, bevi! L’acqua salutare,

ecco, scorre dalle mammelle della bella Naiade.

Ho definito il distico perfetto, ma ho bisogno però di perfezionare la mia definizione e di rilevare a tale scopo  come la tecnica di costruzione poetica riesca a risolvere tra l’altro pure i problemi derivanti dall’ambiguità grammaticale di una singola parola. Ciò che ho appena finito di affermare, che può sembrare astratto o, peggio ancora, criptico,  è impersonato dalla terza parola del primo verso (HIC) che teoricamente può valere:

1) come nominativo maschile singolare dell’aggettivo dimostrativo hic/haec/hoc (=questo).

2) come avverbio (=qui).

Nel primo caso le traduzioni possibili, tenendo conto della punteggiatura da me inserita in quella proposta, che è la finale, sarebbero:

a) Questo luogo (è) delle Ninfe.

b) Questo (è) il luogo delle Ninfe.

Entrambe le interpretazioni suppongono, dopo HIC, un EST (è) sottinteso che assumerebbe il valore di copula (in a , in particolare, in cui delle Ninfe ha il valore primario di genitivo di possesso:  se è è copula nell’espressione questo luogo è comune, non si comprende perché dovrebbe cambiare in questo luogo è di tutti e perché non dovrebbe esserlo nel nostro in cui delle Ninfe è equivalente a ninfeo), mentre HIC sarebbe attributo di LOCUS in a e complemento predicativo del soggetto (sempre LOCUS), in b.

Nel secondo caso (HIC avverbio di luogo) l’unica interpretazione possibile sarebbe Qui c’è il luogo delle Ninfe.

Se, però,  non si tiene conto, per quanto riguarda la punteggiatura, del punto fermo dopo HIC, in questo secondo caso, immaginando un punto fermo dopo LOCUS, sarebbe possibile, sempre teoricamente, anche quest’altra interpretazione: Il luogo è delle Ninfe. Tu che qui hai sete …

Da un punto di vista stilistico nulla potrebbe essere obiettato, poiché l’avverbio (HIC) risulterebbe sempre collocato correttamente prima del verbo (SITIENS), come avvenuto nel primo caso, dove, però, il verbo (EST) era sottinteso.

Come dipanare questa matassa? Grazie a due cospicui indizi che poi, confermandosi a vicenda,  diventeranno inequivocabili prove:

Il primo ce lo offre la stessa grafica dell’iscrizione, dove HIC è inciso alla fine della seconda linea, dopo la prima, iI cui ruolo di rilievo è stato riservato in via esclusiva a NYMPHARUM; il secondo la scansione metrica con la sua cesura pentemimera che cade proprio dopo HIC, obbligando nella lettura a fermarsi momentaneamente proprio in quel punto. Insomma, quella cesura corrisponde proprio al punto fermo che nella trascrizione ho posto dopo HIC.

Qualche pignolo ostruzionista teso, in buona o in mala fede, a considerare questa una mia farneticazione potrebbe obiettare che il verso in questione potrebbe anche essere scandito allo stesso modo ma con due cesure (la tritemimera e l’eftemimera) secondo lo schema seguente:

Nūmphā|rūm||lŏcŭs|hīc sĭtĭ|ēns||bĭbě|lūmphă să|lūbrĭs 

Anche il più scalcinato studente di latino, quello di un tempo, gli avrebbe fatto osservare che questa lettura è un brutale, arbitrario e insensato terremoto che spezza legami grammaticali (il genitivo NYMPHARUM separato brutalmente dal soggetto LOCUS che lo regge e SITIENS, participio sostantivato con valore di complemento di vocazione, dal suo verbo BIBE) che coincidono con valori logici, cioè, in ultima analisi, semantici, convergenti verso corretti fini prima espressivi e poi interpretativi.

Alla luce di queste considerazioni rimangono praticabili solo le interpretazioni a e b e ho privilegiato, come s’è visto, b per un fatto statistico: prevalentemente negli autori classici l’aggettivo dimostrativo precede e non segue il nome di cui è attributo, per cui è più plausibile, anche in considerazione, come si è appena visto,  dei sottili strumenti messi a disposizione dall’autore del testo per aiutare il lettore a risolvere le ambiguità teoriche,  che HIC sia avverbio che precede correttamente il verbo sottinteso (EST).

Non mi dilungo sulle ascendenze classiche di nessi e singole parole, che la dicono  lunga sulla raffinatezza culturale dell’autore del distico e del committente dell’opera (potrebbero essere stati un’unica persona) e mi riprometto di farlo solo se questo post registrerà un accettabile riscontro  (si scrive per essere letti, riletti e contraddetti, non per leggersi, rileggersi e non contraddirsi …).

Se la lettura imperfetta di questa prima epigrafe registrata dal Mazzarella non ha provocato travisamenti sostanziali del suo significato, lo stesso non può dirsi della seconda, alla base del puteale, così riportata dal Mazzarella per la prima parte:

PRAESENS FONS PERENNIS INCERTUS FUIT/DIE MARTII DCCXXXXVI

tradotta in nota in La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746.

E per la seconda:

AEMANAVIT ACQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI

tradotta in nota in Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746

Per la prima parte, invece, nonostante la seconda linea sia sepolta quasi per metà (come mostra la foto successiva tratta da http://www.giannicarluccio.it/wordpress/?p=2614#more-2614) dallo sciagurato strato di cemento utilizzato probabilmente per portare l’area che circonda pozzo al piano della vicinissima fabbrica (e non per fissare i quattro sostegni della griglia protettiva, in quanto la stessa sopraelevazione si nota anche in foto più antiche, in cui la griglia è assente), la lettura corretta è:

PRAESENS FONS PERENNIS INCAEPTUS FUIT/DIE VII MARTII MDCCXXXXVI

La presente fonte perenne fu iniziata il 7 marzo 1746 (data di inizio dello scavo)

Per la seconda:

A DIE XVI AGUSTI AEMANAVIT AQUA

Dal giorno 16 agosto sgorgò l’acqua (data di conclusione dello scavo e dell’intercettazione della falda freatica).

L’errata lettura riportata dal Mazzarella, in cui  INCAEPTUS risulta sostituito con INCERTUS e VII viene omesso dopo MARTII, è sfociata nella traduzione totalmente arbitraria che ho già riportato: La presente fonte sorgiva (o perenne) fu incerta (fino al) marzo 1746. Non si capisce per quale motivo si sarebbe dovuto registrare questo inconveniente e, oltretutto, il fino a sottinteso nella traduzione avrebbe supposto un AD DIEM (alla lettera: fino ad un giorno) e non l’ablativo DIE che, insieme con VII, forma un complemento di tempo determinato, che più determinato non si può.  Quanto ad INCAEPTUS: è participio passato di incìpere per il classico inceptus: si tratta (insieme con la variante INCOEPTUS) di un normalissimo esempio di ipercorrettismo presente già nel latino medioevale e particolarmente ricorrente nei testi in latino del XVII e XVIII secolo), modellato sul classico caelum/coelum, ma ancor più giustificato dal fatto che incìpere è formato da in+coèpere e che il participio passato di coèpere è coèptus. La stessa forma di ipercorrettismo si nota in AEMANAVIT per emanavit. Qui, però, non c’è giustificazione di sorta in quanto emanare è formato dalla preposizione e=fuori+manare=sgorgare e, se nel latino medioevale s’incontra celum (per il classico coelum o caelum), cioè il dittongo risolto in e, mai s’incontra il contrario, cioè un originario e ampliato in dittongo; infatti un latino aemanare non risulta attestato neppure una volta, se non qui …

Gli estremi temporali registrati nell’epigrafe sono importantissimi, non solo perché in altre trozze, a quanto ne so, s’incontra, quando s’incontra, solo la registrazione dell’anno di realizzazione,  ma anche perché essi danno un’idea dell’impresa quasi ciclopica dello scavo di un pozzo, con i mezzi di allora: picconi, mazze, punte di ferro e zappe larghe.

Un’ultima osservazione: questa seconda iscrizione, a differenza della prima, ha un carattere che potremmo definire documentario e burocratico ed è in prosa; quando mai, d’altra parte, la burocrazia è andata a braccetto con la poesia, nonostante la rima in comune?  Eppure, essa ci descrive temporalmente con precisione  il concepimento e la nascita della trozza (il periodo di gestazione è sottinteso, perché facilmente calcolabile), mentre quella del fastigio (e sotto questo punto di vista la collocazione non è casuale) evoca i valori senza tempo (purtroppo non posso dire di ogni tempo …): il pensiero d’amore per la natura, per la vita, per il patrimonio culturale dei padri, per la bellezza (purtroppo concretamente non alla portata di tutti, ma per comprenderli non è necessario essere ricchi economicamente …) che ispirarono la sua realizzazione. Lascio al lettore giudicare l’importanza dell’una e dell’altra.

 

 

Un’architettura rurale impossibile da dimenticare: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni (II parte)

scrasceta-buona

di Marcello Gaballo

L’ingresso della villa Scrasceta è a pianta mistilinea[1] e un recente cancello a doppia anta in ferro battuto, fissato a corpose colonne in tufo[2], isola la dimora dalla pubblica via. Il portale è caratterizzato “dai notevoli effetti chiaroscurali prodotti sia dalla aggettante cornice, sovrastante da piccole lesene che sorreggono corpose basi toriche, quasi sfiancata dalla convessa piramide calcarea, sostenenti una sfera”[3].

Alcune stanze poste a sinistra dell’ingresso rimandano ad una modesta dimora per la servitù e ad una probabile rimessa per gli animali.

All’edificio principale si accede tramite un viale di una cinquantina di metri che giunge di fronte all’ingresso. Era questo fiancheggiato da busti in carparo, dapprima rimossi dai rispettivi basamenti, poi asportati da ignoti circa 30 anni fa[4]. Dovevano essere almeno otto per lato, intervallati da identici blocchi quadrangolari della medesima pietra. Così scrive a riguardo E. Mazzarella: “…Menava all’abitazione del proprietario un famoso viale con circa, ogni cinque metri, curiose statue in tufo di uomini a metà busto in atteggiamenti buffi: un portabandiera, suonatori di strumenti musicali: trombone, chitarra, mandolino, tamburo, clarinetto; altri con una botte sulle spalle, con un fucile a tracolla, con una fetta di mellone in mano, con un uccello svolazzante nella mano elevata, con un bicchiere in una mano e un orciuolo nell’altra, con una ruota tra le mani davanti al petto, in vari modi ancora. Le statue attirarono la curiosità di moltissima gente e furono dette volgarmente li pupi ti lu Scrasceta”[5].

scrasceta2

La corruzione e l’usura della pietra non hanno purtroppo concesso di riconoscere le fattezze delle insolite figure e gli strumenti da essi tenuti tra le mani. Dalle poche foto di archivio sopravvissute[6] sembra trattarsi di figure maschili orientali, a causa dei copricapi che nella maggior parte dei casi richiamano i kefiah arabi, ricadenti sulla nuca e sulle spalle. Altrettanto arduo è poter riconoscere gli strumenti musicali a corda che alcuni di essi sembrano suonare: due di essi paiono liuti arabi (ud), con la cassa armonica a mandorla, un breve manico con la paletta terminale ricurva ad angolo retto, a quattro o cinque corde[7]; un terzo sembra suonare una sorta di oboe a forma di cono (mizmar degli arabi). Più arduo è il riconoscimento dello strumento che tiene in mano la figura con le sembianze di un cinese.

pupi1

La descrizione del caratteristico prospetto principale della nostra villa è ben riportata nella citata Relazione della Soprintendenza[8]: “… Il prospetto principale che presenta un compatto paramento, a conci di pietra locale perfettamente squadrata, è sfondato al centro da profondi effetti d’ ombra che scaturiscono dalla presenza di profondi archi sovrapposti impaginati da appena accennati riquadri smussati agli angoli. A piano terra un’ arcata a sesto ribassato, dalle accentuate modanature che si avvolgono, al di sotto delle reni, in ricche volute a fogliame smosso, producenti un piacevole effetto di instabilità statica evidenziato dalla corposa trabeazione d’ imposta sostenuta, quasi a fatica, da mensole a voluta, definisce un androne rialzato dalla quasi evanescente cortina muraria in cui i vuoti delle aperture vengono rafforzati dalle cornici mistilinee”[9].

prospetto

Nello stesso androne, in corrispondenza dell’unica porta, trova posto uno scudo, sagomato secondo il gusto settecentesco, su cui doveva essere dipinto lo stemma della famiglia, sormontato da una corona con fioroni. Le ridipinture rendono assai difficile la lettura dell’elemento araldico con i due guerrieri in lotta, tipici della nobile famiglia[10]. Sembrerebbe che a seguito della scomparsa del dipinto si sia rimediato con l’applicazione di una piccola formella scolpita con l’arme, di forma rettangolare e stridente con la bellezza dello scudo, assai più ampio.

Uno degli elementi di maggiore caratterizzazione del prospetto dell’edificio è senz’altro rappresentato dall’arco mistilineo del piano nobile con la sua imponente e raffinata balaustra, che permetteva di godere della proprietà circostante. “Sostenuta da tozze mensole e ritmata dal succedersi di volute e balaustrini scolpiti a puttini”[11], conferiva particolare eleganza all’edificio, travalicando gli aspetti prettamente funzionali del sito aziendale. Certo l’insolita iconografia, con i putti che sorreggono serti di alloro o fiori, per niente richiama al contesto agreste o bucolico in cui sorge la villa, per cui non è vano ipotizzare la provenienza di quella balaustra da altri contesti. Senza trascurare la fattura, il cui stile sembra distante da quello in auge nel Settecento, richiamando invece a sculture tardo-cinquecentesche ben note in città.

particolare del balcone trafugato
particolare del balcone trafugato

In due riprese, a distanza di pochi mesi, una trentina di anni fa la balaustra fu comunque trafugata da fini intenditori, senza che nessuno abbia mai saputo l’infelice destinazione.

Stessa triste sorte è toccata alla bellissima Immacolata lapidea, “una statua devozionale di notevole fattura”[12], che trovava collocazione in una nicchia della loggia al piano nobile, questa ancora visibile, con elegante cornice modanata che mostra nella parte superiore tre teste di cherubini ed una sontuosa corona che sovrasta il tutto. Oggi restano solo delle foto d’archivio a testimoniare la bellezza dell’edificio, la cui devastazione illustra fin dove arriva l’incuria e la sfrontatezza.

Le cornici mistilinee in stucco, secondo il gusto dell’epoca, applicate attorno allo stemma, alla porta e alle due finestre del pianterreno sono riprese in maniera omogenea anche nelle porte interne del vano centrale. Quest’ultimo, a pianta rettangolare, immette in quattro ambienti circostanti e sul giardino, come ha rilevato di recente F. Fiorito[13]. Tutte le coperture dei nove vani sono coperti a volta leccese, ad eccezione del vano adibito a cucina, un tempo coperto ad incannucciata e coppi, oggi in pessimo stato. Non è dato di sapere se nell’interno vi fossero volte e pareti affrescate o dipinte, come invece avvenne per la menzionata masseria Brusca[14]. Tutti i pavimenti interni sono di cocciopesto[15] e lastricato.

 

Nardò, la trozza di Villa Scrasceta; foto di Marcello Gaballo
Nardò, la trozza di Villa Scrasceta; foto di Marcello Gaballo

Altro elemento caratterizzante della nostra residenza è senz’altro il pozzo monumentale retrostante[16], che può ritenersi un’opera scultorea a sé e che conferma la condizione agiata e il buon gusto nel commissionare la singolare scultura, che resta tra i più importanti esempi di tal genere su tutto il territorio. Purtroppo anche in questo caso non abbiamo indicazioni circa l’autore, mentre è noto l’anno di costruzione, 1746, come si rileva dall’epigrafi inferiore della vera[17].

La presenza dell’impegnativo manufatto in carparo e pietra leccese, anche perché imponente nelle dimensioni, rende convenientemente dignitoso tutto il retro della villa, lasciando supporre che fosse stato realizzato in quel posto per una precisa esigenza scenografica e non solo funzionale o di arredo, a completamento del cortile e del giardino.

F. Suppressa, nel trattare dei vari sistemi di raccolta dell’elemento vitale per l’agricoltura, lo definisce a buon motivo “straordinario esempio… inserito prospettivamente nel complesso architettonico sorto attorno alla fine del Settecento per il piacere di vivere in campagna”[18]. Lo stesso, nel riprendere E. Mazzarella[19], si sofferma sulle epigrafi: “…nel timpano sorretto da possenti colonne e avvolto da sinuose decorazioni floreali, vi è incastonata un’emblematica epigrafe in latino:

NYMPHARUM LOCUS

SITIENS BIBE

LYNPHA SALUBRIS – UBERIBUS

PULCHRAE NAIADIS

ECCE FLUIT.

Ovvero “Questo è il luogo delle Ninfe, o sitibondo, bevi. Ecco qui scorre l’acqua chiara salutifera dai seni della bella Naiade”… Al di sotto della conchiglia vi è l’epigrafe PRAESENS FONS PERENNIS INCEPTUS FUIT DIE VII MARTII DCCXXXXVI (la presente fonte sorgiva fu incerta (fino al) 7 marzo 1746) e dall’altro lato, sempre al di sotto della conchiglia, AEMANAVIT AQUA DIE XVI AUGUSTI MDCCXXXXVI (Emanò l’acqua il giorno 16 agosto 1746)”[20].

pozzo2

G. De Pascalis ritiene il pozzo “collocato nel retroprospetto in posizione perfettamente assiale con le aperture del piano terra e con l’asse di riferimento dei viali”[21].

Certamente la sua realizzazione comportò una riqualificazione della parte retrostante dell’edificio, nel cui piccolo giardino con pergolati ed agrumi, sottoposto rispetto al cortile, sono ancora visibili tre edicole ed un pozzo di servizio.

Dunque tanti elementi architettonici ed artistici che hanno saputo coniugare l’arte con la natura, superando la monotonia del paesaggio agricolo circostante, sino a farle assumere una propria identità culturale, purtroppo oggi solo trasmissibile e parzialmente visibile.

 

Gainsborough, la passeggiata
Gainsborough, la passeggiata

[1] Cfr. S. Politano, Portali e recinti di ville nelle campagne salentine, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 262-273; U. Gelli, Portali, pozzi, cisterne: esperienze di rilievo architettonico, ivi, pagg. 274-285.

[2] Su questa pietra, sul carparo e la pietra leccese, con cui sono realizzate le diverse parti della villa, la bibliografia è sterminata. Si vedano almeno: G. Marciano, Descrizione, origini e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1855; P. Cavoti, Il carparo e la pietra leccese nelle rocce salentine, Lecce 1884; C. De Giorgi, Note e ricerche sui materiali edilizi adoperati nella Provincia di Lecce, Lecce 1901, ristampa anastatica, Galatina 1981; V. G. Colaianni, Le volte leccesi, Bari 1967; F. Zezza, Le pietre da costruzione e ornamentali della Puglia. Caratteristiche sedimentologico-petrografiche, proprietà fisico-meccaniche e problemi geologico-tecnici relativi all’attività estrattiva, in «Rassegna tecnica pugliese – Continuità», anno VIII, N. 3-4, Luglio-Dicembre 1974, Bari 1974; Id., La pietra leccese, in AA.VV., La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, pagg. 155-160; M. Stella (a cura di), Le pietre da costruzione di Puglia: il tufo calcareo e la pietra leccese, Bari 1991; M. Mainardi, L’industria del cavar pietra. Le cave nel Salento, Lecce 1998; Id., Cave e Cavamonti. Documenti per una storia sociale del lavoro della pietra nella Puglia meridionale (1810/1965), Lecce 1999; D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori. Tecniche costruttive tradizionali e Magistri muratori in Terra d’Otranto dal Medioevo all’Età Moderna, Nardò 2002.

[3] Relazione della Soprintendenza, op.cit..

[4] A tal proposito si rimanda alla denuncia fatta dal circolo culturale “Nardò Nostra”, allora presieduta da chi scrive, che nel numero 7-8 (1985) del periodico locale “La voce di Nardò” chiedeva l’immediato ripristino in loco delle statue deposte dai basamenti, staccate per essere sostituite con vasi in cemento. Poco prima lo stesso giornale aveva denunciato la scomparsa di metà della balaustra.

[5] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op.cit., pagg. 397-400.

[6] Doveroso rimandare ancora una volta al ricco corredo fotografico di Michele Onorato nel citato volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò, figg. 193-205. Il fotografo, consapevole dell’importanza del luogo e quasi presagendo il triste destino che sarebbe toccato all’immobile, ha fotografato e fatto pubblicare il suo reportage, che resta fondamentale per la memoria visiva della nostra villa.

[7] “Nel IX secolo il giurista di Baghdad “ Miwardi ” utilizzava l’oud nel trattamento delle malattie, questa idea prese piede e perdurò fino al secolo XIX , l’oud vivifica il corpo, proprio perché agisce sugli umori corporali, rimettendoli in equilibrio. È considerato terapeutico, nella sua capacità di rinvigorire e dar riposo al cuore, veniva tradizionalmente suonato anche nei campi di battaglia” (http://www.etnoarabmusic.com/2011/03/08/oud-il-sultano-degli-strumenti-arabi/).

[8] Inviata dalla Soprintendenza di Bari al Ministero per i Beni Culturali il 17 febbraio 1981 (prot. 1478), a firma del Soprintendente Arch. Riccardo Mola, per essere sottoposta a tutela ai sensi della Legge n°1089 del 1/6/1939. Il vincolo per il bene fu rilasciato con D.M. del 12/6/1981.

[9] Relazione della Soprintendenza, op. cit.

[10] L’arme della famiglia è: spaccato di azzurro e di verde, e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di mercurio del medesimo, con ali di argento e coperto da un berretto di nero.

Il motto: et pace et bello (sia in pace e sia in guerra) (M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Nardò 1996).

[11] Relazione della Soprintendenza, op. cit.

[12] Idem.

[13] F. Fiorito – M. V. Mastrangelo, Villa Scrasceta a Nardò, una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile, in “Spicilegia Sallentina”, Rivista del Caffè Letterario di Nardò, n°7.

[14] In questa sopravvive un discreto dipinto settecentesco sulla volta raffigurante La morte di Adone, sul quale ho avuto modo di descrivere come “ il taglio orizzontale e ristretto del dipinto consente al pittore di portare in primissimo piano i protagonisti dell’episodio: Adone giace inerme, con la testa riversa, fra le braccia di una addolorata Venere. Altrettanto disperati Cupido e i due amorini, che tentano invano di ferire il cinghiale, le cui sembianze erano state prese dal geloso Ares, che ha appena azzannato il giovane. Sullo sfondo un paesaggio arcadico da ricollegare al monte Idalio, nell’attuale Libano, su cui si era recato a cacciare Adone. Il mito ricorda che Zeus esaudirà le preci di Afrodite, consentendo che il giovine trascorra solo una parte dell’anno nel Tartaro, potendo risalire alla luce per il restante tempo e così unirsi alla dea della primavera e dell’amore” (M. Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca…, op. cit.).

[15] “la pavimentazione con cocciopesto consisteva in un primo strato composto da tufo frantumato, tufina e calce, impastato con acqua, in un secondo strato di malta grezza e in un ultimo strato di cocciopesto. Il massetto veniva

quindi cosparso di calce liquida, battuto e lucidato con cazzuola e latte di capra” (S. Galante, Materia, forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da esperienza locale a metodologia per la conservazione, tesi di Dottorato di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici – XVIII ciclo, Università di Napoli “Federico II”).

[16] Come scrive A. Polito, trattasi di una trozza, ad estrazione manuale, mediante secchio legato ad una fune, ma con l’ausilio di una carrucola; al lemma trozza il Rohlfs: “confronta il greco antico τροχαλία2=carrucola, τροχιά3=cerchio di ruota, latino volgare *tròchia”. Rispetto al pozzo la struttura è molto più complessa e talora con pregevolissimi esiti estetici, come testimonia, per esempio, la trozza di Villa Scrasceta a Nardò.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/03/la-ngegna-forse-figlia-di-una-radice-molto-prolifica/

[17] Notevoli ci sembrano le analogie con alcune parti del bellissimo pozzo a due “vasche” ubicato nel giardino retrostante della citata villa in contrada La Riggia. La conchiglia sulla vera, le volute e gli elementi fitomorfi, la sommità dell’architrave, se non opera del medesimo autore del pozzo dello Scrasceta, possono far ritenere coeve le due singolari opere, che meritano ancora tanta attenzione da parte degli studiosi. Anche questo pozzo è stato fotografato da M. Onorato e pubblicato nel predetto volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò (fig.211).

[18] F. Suppressa, Il paesaggio dell’Arneo attraverso i segni e i luoghi dell’acqua, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/15/il-paesaggio-dellarneo-attraverso-i-segni-e-i-luoghi-dellacqua/

[19] E. Mazzarella, Nardò Sacra, op. cit., p. 399.

[20] Il pozzo è anche descritto da P. Congedo nel suo saggio Censimento di pozzi e cisterne del territorio neretino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., pagg. 289-290.

[21] G. De Pascalis, Dai trattati alle tipologie del villino rirale: modelli e simbolismi dell’abitare nel paesaggio neritino, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, op. cit., p.180.

Pubblicato su Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, Ed. Fondazione Terra d’Otranto, 2015.

 

 

Un’architettura rurale impossibile da dimenticare: lo Scrasceta. Dalle origini ai nostri giorni (I parte)

Gainsborough, la passeggiata
Gainsborough, la passeggiata

 

di Marcello Gaballo

 

Nardò, Villa Scrasceta in una foto di una ventina d’anni fa

 

 

Uno dei luoghi a cui sono più affezionati i neritini è quello noto come “Scrasceta”, che intere generazioni hanno portato stabilmente nell’animo per via di quei “pupi” regolarmente piazzati lungo il viale d’accesso e che potevano ritenersi come patrimonio della memoria collettiva. Un tesoro di cui i cittadini, a giusto motivo, potevano ritenersi gelosi e che mai avrebbero pensato potesse scomparire.

La villa, intesa come insieme di palazzo e giardini, è situata a circa tre chilometri da Nardò, lungo la strada vicinale Corano che collega il centro abitato alle marine di Torre Inserraglio e Sant’Isidoro, in quello che un tempo era detto feudo Imperiale, esente dal pagamento di decime feudali.

In posizione ideale rispetto alla viabilità, è rimasta libera dall’antropizzazione del territorio dell’ultimo cinquantennio, circondata da terreni agricoli ancora produttivi, poco distante dall’antichissima masseria di Curano.

Soggetta a vincolo con D.M. del 17/9/1981 ai sensi della L. 1089 del 1939, talvolta è stata erroneamente inserita tra le masserie del neritino, trattandosi piuttosto di dimora signorile a carattere stagionale. La Soprintendenza difatti l’ha tutelata “in quanto costituisce una pregevole testimonianza di architettura tardo-barocca e di dimora signorile legata all’ attività agricola e alle strutture socio-economiche dell’ area salentina nei secc. XVIII-XIX”[1].

Come ha scritto A. Polito, la più antica testimonianza del toponimo (in pheudo Scraiete) compare in un atto del 1376[2], la successiva (in feudo Strageti) in un atto del 1427[3], una terza (in loco nominato la Scraseida) in una visita pastorale del 1460[4]. Lo studioso fa derivare il nome da scràscia (rovo) e la cui terminazione –èta rimanda al plurale del suffisso latino –ètum, designante insieme di piante e conservatosi nell’italiano –èto.

scrasceta

Impossibile individuare il nucleo originario dell’edificio, ma un rogito notarile del 1598 la attesta come proprietà del barone neritino Francesco Sambiasi, che in tale anno vende al barone leccese Lucantonio Personè un oliveto con mille alberi e una casa lamiata qui ubicati, per 170 ducati[5].

Nel 1610 il possedimento risulta accatastato tra i beni del nobile Ottavio Massa di Nardò[6]. Diciotto anni dopo, nel 1628, è divenuta proprietà del nobile Mariano de Nestore, che potrebbe aver apportato consistenti rifacimenti ed ampliamenti, a causa della maggiore quotazione del bene . L’edificio con tutti gli annessi nel documento risulta possedere una abitazione con cisterna all’interno, un orto con forno per il pane, un frutteto, due palmenti e due pile, oltre a 22 orte di vigneto delimitate da parete a secco (…cum domo lamiata cum cisterna intus… orticello cum furno intus et cum pomario diversorum arborum et cum una quantitate di quadrelli et cum duobus palmentis et duobus pilaccis intus… ortis viginti duobus vinearum incirca, cum diversis arboribus intus insepalata circumcirca parietibus lapideis…)[7].

La tenuta, a causa dei debiti del de Nestore, viene venduta nel 1624 all’abate Marcello Massa, tutore degli eredi di suo fratello Girolamo, deceduto nel 1622, per ben 1500 ducati[8], contro i 170 certificati nel documento precedente che lo assegnava al Personè.

Per quasi un secolo i documenti finora rinvenuti tacciono sugli eventuali passaggi di proprietà e solo nel 1722 lo Scrasceta viene donato da uno dei personaggi più in vista nella città, il barone Diego Personè (1681-1743), a suo figlio Lucantonio, barone di Ogliastro, generato con Raimondina Alfarano Capece. Nell’importante atto notarile, oltre al vigneto circostante, per la prima volta si fa esplicito riferimento ad una domo lamiata et eius palatio et palmentis duabus intus eum[9]. E’ facile pensare che sia stata questa facoltosa famiglia dunque, tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, al culmine della floridezza economica, ad ampliare e a dare un nuovo assetto alla costruzione, visto che per la prima volta si fa riferimento alla realizzazione del “palacium”, annesso alla preesistente “domus lamiata”. Dunque non più una costruzione legata all’attività produttiva, ma una nuova dimora, resa agevole con opportuni miglioramenti per consentire ai proprietari di soggiornarvi in determinati periodi dell’anno.

La ristrutturazione e i possibili ampliamenti, oltre a voler dimostrare lo status dei proprietari grazie alle raffinate architetture apportate in una modesta “casina” di campagna, tengono perciò conto della praticità e funzionalità produttiva del luogo, ma puntano anche all’abbellimento della stessa.

scrasceta1

Nel clima arcadico di questi primi decenni del secolo la villeggiatura anche a Nardò diventa un piacere per l’ambiente naturale e per l’architettura di ville e giardini, lontani dagli usi noiosi del vivere cittadino[10], magari partecipando alla raccolta dell’uva e osservando i lavori dei “furisi” e delle loro donne, passeggiando nel giardino o sul viale e trovando ristoro con la fresca acqua attinta dal pozzo. La stessa presenza dei bizzarri busti lungo il viale porta ad ipotizzare la natura “di svago” della bucolica residenza, per segreti piaceri che i palazzi cittadini non consentono. In fondo era quello che stava accadendo in altri comuni di Terra d’Otranto, ma anche nelle poco distanti Villa La Riggia[11], Villa Taverna e masseria Brusca, dove il nobile medico Francesco Maria Zuccaro ampliava e abbelliva il giardino annesso al complesso masserizio, dotandolo di statue di ispirazione mitologica[12] e di fontana ornamentale, facendo scolpire profili clipeati e lo stemma familiare sul portale[13].

Tornando alle vicende patrimoniali della nostra villa, un altro rogito del 1744 conferma la proprietà a Lucantonio Personè (1704-1749), figlio del predetto Diego, coniugato con Lucrezia Scaglione, il quale in tale anno cede il tutto a suo fratello Francesco, avendone in cambio la masseria del Pugnale seu dello Scaglione, in feudo di Anfiano[14], che aveva avuto in eredità da sua madre Raimondina Alfarano Capece[15].

Questa cessione potrebbe far pensare che Lucantonio sia stato uno dei committenti della ristrutturazione, purtroppo non terminata, come rivela l’incompletezza della costruzione nella parte sinistra, come ancora si osserva. Lo stesso avrebbe però ultimato nel 1766 la cappella dedicata all’Immacolata Concezione, innestata sull’angolo destro della facciata[16], grazie all’intervento dei mastri copertinesi Ignazio Verdesca[17] e Adriano Preite[18], come riporta M. Cazzato[19].

Francesco, dopo aver acquisito la proprietà dello Scrasceta, decide di ampliare la proprietà e acquista nel 1749 altre orte quattordici e quarantali undici di vigneticontigui, con una casa a volta e due palmenti per spremere uva dentro, dal sacerdote Saverio Giaccari[20]. L’acquisto, pattuito per ducati 338 e grana 75, avviene con atto del notaio Felice Massa di Nardò, “per essere contigue ad altre del medesimo”.

Gli atti notarili di questo periodo se annotano i passaggi di proprietà purtroppo non forniscono dati utili per risalire alla ricostruzione delle parti. Nulla vieta però che parte dei lavori di ammodernamento siano stati fatti eseguire dal facoltosissimo Giuseppe, che risulta tenutario dell’immobile e dell’estensione dei vigneti nel 1773[21], come conferma un rogito dell’anno dopo[22].

Nel 1809 la dimora risulta del fratello di Giuseppe, Michele Personè[23], che lo aveva avuto in dono come da testamento del primo rogato il 31 maggio 1786[24].

Michele detiene ancora la proprietà nel 1821[25], prima di trasmetterla a suo figlio Diego che ne risulterà tenutario in un documento dell’anno successivo[26].

Diego Personè poi la vende al fratello Giuseppe, che la trasmetterà al figlio Luigi Maria (1830-1898), detto lo zoppo, da cui al figlio Giuseppe. Questi la trasmette infine a Luigi Maria (1902-2004), detto penna d’oro, che la vende a Pantaleo Fonte, i cui figli ancora la posseggono.

 

La villa prima dell’asportazione del balcone, in una foto di circa trent’anni fa (archivio privato M. Gaballo)

[1] Relazione inviata dalla Soprintendenza di Bari al Ministero per i Beni Culturali il 17 febbraio 1981 (prot. 1478), a firma del Soprintendente Arch. Riccardo Mola, per essere sottoposta a tutela ai sensi della Legge n°1089 del 1/6/1939. Il vincolo per il bene fu rilasciato con D.M. del 12/6/1981. La dimora è ubicata in catasto al Fg. 83, p.lle 84-87.

[2] A. Frascadore, Le pergamene del Monastero di Santa Chiara di Nardò 1292-1508, Società di storia patria per la Puglia, Bari 1981, pag. 48.

[3] Ibidem, pag. 84.

[4] C. G. Centonze-A. De Lorenzis-N. Caputo, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Galatina 1988, pag. 168.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/07/21/tra-rovi-e-more-selvatiche/

[5] Archivio di Stato di Lecce (d’ora in avanti A.S.L.), atti notaio Francesco Fontò di Nardò (66/1) anno 1598, cc.171r-173v.

[6] A.S.L., atti notaio Francesco Zaminga di Nardò (66/8) anno 1610, c.18r.

[7] A.S.L., atti notaio Santoro Tollemeto di Nardò (66/6) anno 1628, cc.63r-69v.

[8] Idem, c.69v.

[9] A.S.L., atti notaio Donato De Cupertinis di Nardò (66/13) anno 1722, c.67.

[10] Sul fenomeno del vivere in villa e sulla villeggiatura v. A. Costantini, Del piacere di vivere in campagna. Guida alle ville del Salento, in Guida alle ville del Salento, Galatina 1996, pagg. 9 e segg.; Civitas Neritonensis. La storia di Nardò di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, a c. di M. Gaballo, Martina Franca 2001, pagg.216-217.

[11] Sul portale di questa villa si intravedono due figure che rimandano ai busti dello Scrasceta. Anche in questo caso l’usura e la carie della pietra impediscono una lettura definita che possa far pensare alla stessa bottega. Si vedano le figg. 207-210, di Michele Onorato, nel volume Città e monastero. I segni urbani di Nardò (secc. XI-XV) a c. di B. Vetere (Galatina 1986).. Questo richiamo lo devo all’amico Paolo Giuri, che ringrazio.

[12] Particolarmente bella ed insolita per il territorio è la collezione qui presente di statue dei Continenti: Asia, Africa, Europa e America, con sembianze femminili, disposte alle spalle dei sedili semicircolari in pietra e interposte tra altrettante coppie di statue (Pomona e Vertumno, Diana e Silvano, Cerere e Bacco, Flora e Fauno). Anche qui dunque una scenografica, quasi teatrale, disposizione di statue (M. Gaballo, Una villa-masseria in agro di Nardò. Note storiche e architettoniche sulla masseria Brusca, in “Spicilegia Sallentina”, Rivista del Caffè Letterario di Nardò, n° 6).

[13] Idem.

[14] Il feudo di Anfiano è nel territorio di Cannole, confinante con quelli di Torcito e Palanzano. La masseria citata è ancora esistente, anche se ne sopravvivono i soli muri perimetrali. Dai Personè di Cannole passò ai Granafei, quindi ai Salzedo, che la ebbero sino al XIX secolo. Ringrazio l’amico Cristaino Villani per le informazioni.

[15] A.S.L., atti notaio Angelo Tommaso Maccagnano di Nardò (66/14) anno 1744, c.92v.

[16] Nella citata relazione della Soprintendenza così è descritta: “delimitata dalle ombre appena accennate della cornice, lievemente modanata, e dallo spigolo, a semicolonna incassata, ha la facciata caratterizzata dal vuoto dell’ occhialone policentrico sovrastante un semplice portale, inserito in una apertura mistilinea tompagnata, che immette in un vano coperto a volta leccese in cui si nota la presenza di un altare di dignitosa fattura”.

Mazzarella scrive che in essa vi era una tela raffigurante “la Vergine in piedi col Bambino Gesù in braccio in atto di calpestare la mezza luna ed il serpente, tra larga e pregevole cornice”, con campanile, campana e “suppellettili ottime” (E. Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di M. Gaballo, Galatina 1999, pagg. 397-400).

[17]. Originari di Copertino, si hanno notizie dei fratelli capimastro Angelantonio (Copertino 1740 ca. – notizie sino al 1806) e Ignazio.(notizie dal 1776 al 1794 ca)., Cfr. M. Cazzato, Oltre la porta, Copertino 1997, p.19; S. Galante, Materia, forma e tecniche costruttive in Terra d’Otranto. Da esperienza locale a metodologia per la conservazione, tesi di Dottorato di ricerca in Conservazione dei Beni Architettonici – XVIII ciclo, Università di Napoli “Federico II”.

[18] Famiglia di costruttori originaria di Copertino, che ebbe in Adriano (Copertino 1724-1804) l’esponente più noto. Tra gli interventi più importanti quello nel seminario di Gallipoli (1747), palazzo Colafilippi a Galatina

(1768-1772 ca.), palazzo Doxi (1775 ca.) e palazzo Romito (1770 ca.) a Gallipoli. Nel 1781 completa la

matrice di Tricase, nel 1783 realizza la parrocchiale di Soleto;, nel 1790 quella di Sternatia (cfr. M. CAZZATO-A. COSTANTINI, Grecìa Salentina, Arte, Cultura e Territorio, Galatina 1996; M. Cazzato, Oltre la porta, Copertino 1997, pagg.17-18).

[19] M. Cazzato, Oltre la porta, op. cit., p.19.

[20] P. Giuri, Dimore extraurbane a Nardò: le “Cenate” fra Barocco ed Eclettismo, in Paesaggi e sistemi di ville nel Salento, a cura di V. Cazzato, Lavello 2006, p.190.. Dei vigneti acquistati in luogo San Martino orte dieci e mezza ricadono in feudo Imperiale, quindi franche di decima, orte tre e tre quarti decimali alla Commenda di Malta, con un annuo canone di carlini dodici all’abbazia di S. Stefano di Curano, ubicata nelle immediate vicinanze (Archivio Diocesi di Nardò, Platea del Venerabile Seminario di Nardò, ms., 1801, c.202).

[21] In tale anno, con consenso del 13 marzo rilasciato dal Vescovo e dai deputati del Seminario, viene confermato il possesso al barone Giuseppe, residente a Napoli e rappresentato da suo fratello Michele, come da procura del notaio napoletano Carlo Narice del 15 ottobre 1773. Nell’atto si legge che il complesso confina per austro con la strada publica della la Via dello Scraseta o sia di Spirto. Per ponente confina con le proprie vigne di esso stesso Michele Personè; per tramontana con la strada publica dello Faulo che porta a Santo Stefano, ed anche alla massaria delli Cursari, e per Levante confina con le vigne delle fu Sig.e sorelle de’ Manieri oggi possedute dal Mag. Giuseppe de Pace (Platea del Venerabile Seminario di Nardò, op. cit., c.215)

[22] A.S.L., atti notaio Nicola Bona di Nardò (66/16) anno 1774, c.139r.

[23]ASL, Catasto Provvisorio di Nardò, vol. III, ditta 1195.

[24] P. Giuri, Dimore extraurbane a Nardò , op. cit., p. 190.

[25] A.S.L., atti notaio Policarpo Castrignanò di Nardò (66/41) anno 1821, cc.301r-306v.

[26] A.S.L., atti notaio Giuseppe Castrignanò di Nardò (66/31) anno 1822, c.61. Secondo P. Giuri (in op. cit., p.190) Diego ne entrò in possesso il 29 dicembre 1837, con atto del notaio Saetta di Nardò.

 

Pubblicato su Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso, Ed. Fondazione Terra d’Otranto, 2015.

Un rifugio stagionale salentino: la pagghiara

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Nella prima quindicina di giugno, quando l’ingrossare delle angurie e l’inturgidirsi dei fioroni annunziavano l’imminenza ti la riccòta (del raccolto), le famiglie contadine – quelle che non vivevano stabilmente sul podere – abbandonavano il paese e si trasferivano in campagna.

Era tempo di mettere a frutto il lavoro di tutta un’annata, e se di giorno la permanenza dell’intera famiglia sul campo assicurava un maggiore rendimento lavorativo, la presenza notturna s’imponeva per sventare possibili furti. Tanto più sui fondi a mezzadria, dove il colono, al danno subìto in proprio, doveva aggiungere quello di refusione al padrone, sulla cui comprensione ed eventuale abbuono raramente si poteva contare.

Non va infatti dimenticato che in sede contrattuale il colono veniva nominato, oltre che coltivatore, custode dei prodotti della terra, della cui integrità doveva perciò rendere conto al padrone, autorizzato dalla legge a rifarsi di ogni danneggiamento (furto, incendio, incuria nei tempi di raccolta), detraendone l’ammontare dall’aliquota mezzadrile o, se la superava – in caso di danno considerevole -, mettendo in conto il rimanente sulla raccolta successiva o convertendolo in prestazioni di manodopera. Un vero e proprio scatafàsciu (disastro), ossia una perdita irreparabile che precipitava la famiglia nella miseria, privandola del sostentamento invernale.

Ben pochi però avevano la fortuna di poter disporre fra i campi una casupola in muratura, e i più dovevano industriarsi a costruire con le proprie mani un rifugio stagionale, la pagghiàra  appunto, utilizzando il materiale che la campagna stessa offriva – rami d’albero, canne, strami, steli di graminacee – e al cui recupero si provvedeva sempre all’ultimo momento, in un clima di ricerca affannosa paragonabile solo al frenetico svolazzare degli uccelli intenti a racimolare paglia per le cove.

A tracciare il cerchio, necessario ad assicurare la circolarità della pagghiàra, era sempre il capofamiglia, e lo faceva servendosi di una lunga canna che sistemava a spiàsciu (obliqua), conficcandone un’estremità nel terreno e l’altra puntellandosela al petto, in modo che, ruotando su sé stesso, anche la canna – sostenuta dalle mani – avesse a ruotare. Un compasso primitivo che obbligava a una rotazione lenta, ripetuta tre volte a meglio incidere la traccia del cerchio, e durante la quale l’uomo si metteva a cantare scegliendo uno stornello prettamente estivo, quasi sempre Lu suspìru ti la riccòta (il sospiro del raccolto):

Lu ranu bbiunnéggia e llu culùmmu mpénne

jò so’ bbissùtu a ffare la riccòta

l’aucèddhri mia stà mméntinu li penne

la manu mia no ppòte stare sota.

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!…

 

Tégnu l’aucéddhri mia c’anu ccriscìre

e ppane masticàtu nn’àggiu ddare:

lu celu nn’à uardàre e bbinitìre,

la terra m’à ssintìre e mm’à iutàre…

 

Tàtte ti fare, tàtte ti fare

centu ocche anu mmangiàre

Tàtte ti fare, tàtte ti fare!

 

Il grano biondeggia e il fiorone pende, / io sono uscito per raccogliere; / i miei uccelli stanno mettendo le penne, / la mia mano non può stare ferma. // Datti da fare, datti da fare / cento bocche debbono mangiare / datti da fare, datti da fare!… // Tengo gli uccelli miei che debbono crescere / e pane masticato debbo dar loro: / il cielo ci deve guardare e benedire, / la terra mi deve sentire e mi deve aiutare… // Datti da fare, datti da fare / cento bocche  debbono mangiare / Datti da fare, datti da fare!

Canto che l’uomo interrompeva di colpo non appena il cerchio appariva interamente e correttamente tracciato: scavalcandone il segno con un piccolo salto (per superstizione qualsiasi cerchio non andava mai calpestato) si allontanava di qualche passo, per meglio guardarlo e valutarne l’ampiezza, che doveva risultare ben calibrata al numero dei componenti la famiglia; poi, se la risultanza lo soddisfaceva, annunziava trionfante: “Lu funnu ti lu panàru ete fattu” (“Il fondo del paniere è fatto”). Al che tutti i presenti, segnandosi di croce, rispondevano in  coro: “Ddiu cu nni bbiùnna” (“Dio che ci abbondi”). Un botta e risposta che lascia chiaramente intendere come nella costruzione della pagghiàra, al di là della contingente necessità di un rifugio, si innestassero componenti di ordine propiziatorio, in base ai quali l’atto stesso della edificazione si tramutava in un accampare diritti sul raccolto, anzi in un prenotarsi all’abbondanza. Se infatti la definizione “funnu ti panàru” presa da sola potrebbe apparire come semplice riporto alla forma geometrica, nell’associazione con la risposta “Ddiu cu nni bbiùnna”, tenendo presente la peculiarità di un linguaggio perennemente allusivo, non può non essere intesa nella sua ambivalenza di significato e messa automaticamente in rapporto con i desideri – chiamiamoli pure intendimenti – che erano a monte dell’azione.

Il perseguimento dell’abbondanza era un punto fermo nella parabola contadina, si inseriva di diritto nel rapporto uomo-terra-lavoro, anzi ne era la logica derivanza, facendo sì che il frutto della terra non fosse visto soltanto come soddisfazione di una necessità materiale, ma anche come conseguenza gratificante di un culto, coronamento verticale di una dedizione orientata a riattestare il fluire delle benedizioni celesti. In tale contesto il paniere veniva a porsi come il più concreto degli elementi significanti la sperata grazia di raccolto, e non è perciò azzardato ritenere la scelta della sua immagine implicata in principi di valenza magico-religiosa, quasi una verbalizzazione dell’atto propiziatorio che si intendeva compiere, e che del resto trovava riaffermazione nelle successive fasi di lavorazione.

I quattro tronchetti che, conficcati nella terra, si facevano convergere a piramide incastrandoli e legandoli fra di loro al vertice, malgrado fossero sempre massicci e quindi non rispondenti alla comparazione, venivano chiamati ìnchjuri  ti mànicu, ossia identificati con i flessibili giunchi che, nella lavorazione dei panieri, avevano la funzione di reggere l’intreccio e farsi base del manico.

Altra definizione impropria – anche questa chiaramente adottata per non tradire  l’immagine del paniere – riguardava l’intelaiatura: perché definirla  ‘nfiettatùra (intrecciatura), quando i rametti sottili con i quali si eseguiva non venivano affatto intrecciati fra di loro come nella intessitura dei panieri, ma semplicemente appoggiati e fermati con legacci ai quattro tronchetti portanti? Libera trasfigurazione, quasi licenza poetica, imposta sì da una fedeltà alle iniziali determinazioni figurative, ma da intendersi anche come necessario supporto alla progressione del concetto, appunto a quella maggiorazione di simbolo che scattava nel momento finale della lavorazione, cioè quando tutte le fòffule ti cacchiàme (mazzetti di steli d’orzo) erano state sistemate sull’intelaiatura in un’accorta sovrapposizione di scalature (atte ad assicurare lo sgrondo della pioggia) e queste a loro volta ricoperte da manate di ristu (resta) che, facendo strato, assicuravano l’impermeabilità.

Come se, nel completamento della costruzione, i termini della sottintesa impetrazione avessero subìto un processo di lievitazione, con un improvviso quanto significativo  scavalco di limiti, l’immagine del paniere veniva infatti soppiantata da quella della canìscia, ossia cestone; oggetto ancora più adatto a significare la sperata abbondanza, poiché se il paniere rappresentava il recipiente immediato del raccolto, la canìscia rappresentava l’accumularsi della provvidenza, perché capace di inglobare il contenuto di più panieri.

A proclamare, diremmo quasi a ufficializzare, questa maggiorazione di simbolo era ancora il capofamiglia il quale, covando con lo sguardo la pagghiàra appena finita – tutta d’oro nel battere del sole sopra lu ristu -, commentava soddisfatto: “Cu lla ràzzia ti Ddiu nn’imu ppruntàta la canìscia” (“Con la grazia di Dio, ci siamo preparato il cestone”). E come stesse a compiere un rito che lasciava intendere imprecisati motivi scaramantici, la inaugurava con un triplice entrare e uscire attraverso l’unica bassa apertura ad arco, ogni volta ripetendo: “Ddiu bbinitìca sta canìscia mia”, quasi a consacrarla nella sua intesa funzione. Funzione da ritenersi duplice, poiché anche in questa ultima definizione giocava l’ambivalenza del linguaggio: se oggettivamente per canìscia  s’intendeva il più grande dei recipienti di raccolta eseguiti con giunchi e canne, contemporaneamente col nome di canìscia veniva anche ironicamente definito un posto di fortuna nel quale poter dormire. Una definizione impropria che traeva spunto dall’industriosità delle giovani madri contadine, molte delle quali, durante l’estate, impegnate com’erano per intere giornate a lavorare nei campi, approntavano una culla di fortuna per i loro lattanti, coricando sul fianco una canìscia e coprendone l’imboccatura con un pezzo di stoffa, teso a mo’ di cortina. Agevolate dalla leggerezza, le donne se la potevano trascinare dietro, da albero ad albero, da solco a solco, e il piccolo, al riparo dalle mosche e soprattutto dalle vespe, tanto pericolose nei loro pungiglioni, poteva dormire pacificamente.

Considerata nella circolarità della sua forma, soprattutto vista di fronte, così sferica nell’imboccatura, la pagghiàra poteva dare, sia pure adottando delle licenze, l’idea di una canìscia coricata sul fianco, e tenendo presente la sua utilizzazione a esclusivo rifugio notturno, non si può dire sfuggisse del tutto all’appropriazione del termine. Termine che soprattutto – lo ripetiamo – si prestava a giocare sul sottinteso, cioè ad ampliare la recondita allusione all’abbondanza.

Come i due intendimenti coesistessero e quanto si intersecassero in un’unica verità esistenziale, lo si può desumere da qualche canto popolare incentrato sulla costruzione della pagghiàra .

Quasi sempre, finito il lavoro di edificazione (che del resto veniva esplicato alla svelta, in poche ore, le prime ore del mattino), si cedeva all’euforia, e nell’intendimento di comunicare a tutto il circondario l’avvenuta realizzazione si esplodeva nel canto:

La pagghiàra imu ppruntàta

a ccantàre nni mintimu:

la bbunnànzia imu chiamàta,

       mo’ cantàmu e ppoi ccugghìmu!…

 

Il capanno abbiamo approntato, / a cantare ci mettiamo: / l’abbondanza l’abbiamo chiamata, / adesso cantiamo e poi raccogliamo!…

Gli abitanti delle casupole e pagghiàre vicine, a quell’ora già tutti a lavoro nei campi, raccoglievano il messaggio. Dopo il tramonto, finito il lavoro, sarebbero tutti convenuti ad ammirare (o criticare) la pagghiàra, a salutare i nuovi arrivati e a portare lu lotu ti lu icinàtu, cioè un  simbolico dono di benvenuto, consistente in  tre cocche ti frise t’uérgiu (tre paia di ciambelline d’orzo) o una fazzolettata di pomodori o qualche spiuréddhra (mellone spurio maturato anticipatamente); intanto non facevano i sordi, e attraverso le terse sonorità della campagna filtrava la loro strofa di saluto-risposta:

Lu postu pi ddurmìre tu nci l’ài:

ci gghéte curtu pi lla stinnicchiàta

no nci pinsàre: pàssanu li uaj…

basta ca puéti inchjre la rrancàta!…

 

Il posto per dormire tu ce l’hai: /se è corto per la stiracchiata / non ci pensare: passano i guai… / basta che puoi riempire la manata!..

Strofa che voleva essere d’incoraggiamento e augurio per quel riferimento a “inchjre la rrancàta”, cioè raccogliere a piene mani.

La strofa successiva, spesso intonata da un  gruppo diverso, magari sito nell’altro versante del campo, s’intendeva rivolta alla madre di famiglia, e nasceva scherzosa, quasi a inaugurare la serie di piccole burle e ingenui scherzi che, alternativamente ricevuti e restituiti, avrebbero piacevolmente costellato di risate le sere estive:

Statte ‘ttenta a lla pagghiàra:

gghé ccanìscia e gghé ssipàle:

ci ti mpanni, la sacàra

  ti la ttruéi an capitàle

Statti attenta al capanno: è cestone ed è rifugio di serpi: / se ti addormenti, la sacàra  / te la ritrovi sul guanciale…

Allusione scherzosa solo sino a un certo punto, essendo imperniata su un pericolo reale che ad ogni estate si riproponeva in termini di gonfiatura di rilievo statistico. Lo stesso raffronto fra pagghiàra  e sipàle conferiva peso all’avvenimento, portando alla ribalta quello che, nel caso, era l’elemento a rischio del contesto ambientale, lu sipàle, appunto.

(…)

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA”, Culti Magico-Religiosi nel Salento fine Ottocento, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza 1994 (pagg. 62 – 68)

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Marcello Gaballo
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