Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (epilogo)

di Alessio Palumbo

Epilogo

Il pennino raschiava la pergamena. Don Matteo Rocca, con mosse lente, appose la firma in calce al testo scritto di fresco con quella grafia spigolosa che con l’età era andata ulteriormente peggiorando.

Don Celestino si avvicinò all’arciprete che tuttavia non lo sentì.

“Sia lodato Gesù Cristo” urlò il cantore quando il vecchio parroco ebbe riposto il pennino nel calamaio.

“Sia lodato Gesù Cristo don Celestino” fece quello sorpreso, ruotando su se stesso “Non vi aspettavo. Come state? Avete una faccia grigia! Non vi sentite ancora bene immagino. Il vostro servo mi ha detto che stavate molto male”

“Va meglio grazie. Voi tutto bene?”

“Diciamo che stavo meglio ieri in campagna, ma il vostro servo è venuto a chiamarmi stamattina per la morte del Letizia” la voce tradiva il fastidio per quella chiamata in anticipo ai propri doveri pastorali “Vedete” continuò l’arciprete “Ho appena finito di registrarlo sul libro dei morti”

E indicò il registro.

Don Celestino si avvicinò e lesse velocemente traducendo istintivamente in italiano il latino mal scritto del suo superiore

“Il giorno tredici agosto millesettecentoottanta, Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dicono”. In realtà il parroco aveva scritto “così come dice” ma poi aveva depennato e corretto.

Il cantore lo guardò e il vecchio don Matteo Rocca, pur miope e malconcio, capì il senso di quello sguardo

“Ho evitato di scrivere che siete stato voi a dirmi com’era morto” disse più per far pesare l’inusualità della faccenda che per scusarsi “e ho anche detto di essere stato io a confessarlo”

“Avete fatto bene” rispose freddo don Celestino e riprese a leggere

“…e percosso visse diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni”

Don Celestino chiuse il registro e fece per andarsene

“Avete idea di cosa sia successo?” chiese quasi distrattamente l’arciprete prima che il cantore fosse uscito “Nessuno in paese sembra saperne nulla e per evitare di suscitare curiosità ho preferito seppellirlo subito”

“Avete fatto bene” ribadì il cantore “Cos’è successo me lo ha detto in confessione, don Matteo, ma l’ho potuto assolvere”

“Bene, bene. Tornatevene a casa ora. I vostri occhi parlano per voi: state ancora male. Andate magari a stare un po’ in campagna, voi che potete”

“Accetto ben volentieri il vostro consiglio” rispose e si congedò.

Appoggiandosi al bastone rientrò in chiesa, ma non si inginocchiò neppure per salutare il sacramento. Non riusciva a non pensare a quanto successo. Avrebbe potuto raccontare tutto a don Matteo, magari sotto la garanzia del sacramento della penitenza. Del resto avrebbe dovuto chiedere l’assoluzione per il fatto di non aver né confessato né unto il Letizia. Eppure non aveva voluto farlo. Perché? Lo capì attraversando la piazza e volgendo nuovamente lo sguardo verso la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla. La camera che aveva ospitato per diciassette lunghi giorni il figlio morente.

La vicenda alla quale aveva assistito e che, per alcuni versi, aveva vissuto in prima persona, aveva poco a che fare con i sacramenti, con il divino e con la religione. Era un’assurdità un pensiero del genere nella testa di un sacerdote, ma era così. Quella storia era una faccenda solo umana, come il volto della madonna ritratta da Michele Letizia o il sorriso del suo bambino. Era la storia di un amore tra una donna già sposata, Agata Calò, moglie di Alfonso Castriota, ed un giovane uomo ribelle. Un artista che per quella donna era giunto ad uccidere il legittimo consorte venendone ferito a morte; un pittore dal talento eccelso, come altri non aveva ammirato almeno in provincia, capace di dedicare la sua prima vera ed importante opera, nonché l’ultima, all’amata, eternandone sulla tela il viso delicato, bellissimo, con gli occhi di smeraldo e le labbra pallide, circondato da un velo blu come la notte ma molto più luminoso. Lo stesso blu che Michele aveva inavvertitamente impresso, quasi una firma, sul corpo del marito di Agata. Lo stesso blu che lui, affacciandosi dalla finestra della vedova Resta e poi rimirando dalla piazza la casa dei Mauro, aveva immediatamente riconosciuto, pur senza accorgersene nell’immediato, sul parapetto della finestra della camera da letto di donna Petronilla. Quel magnifico blu brillante che ora arricchiva il velo di una stupenda madonna delle Grazie. Il resto era una cronaca come tante altre. Probabilmente, saputo dell’omicidio, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, che quella tela aveva voluto, aveva deciso di non servirsi più dell’opera del giovane pittore. E la scelta era stata talmente risoluta da portare ad interrompere tutti i lavori di aggiustamento nella chiesa della Madonna delle Grazie, il cui altare centrale avrebbe dovuto custodire il quadro in una magnifica cornice di pietra. Michele Letizia non si era sconfortato per la decisione di donna Giovanna e in diciassette giorni di agonia, nascosto nel palazzo che era stato di sua madre e di suo nonno, aveva portato a compimento la tela, dando alla vergine il volto di Agata e ponendole tra le braccia un bimbo che non avrebbero mai avuto.

Avrebbe potuto raccontare tutto ciò all’arciprete? Don Matteo Rocca non lo avrebbe capito e lo avrebbe solo condannato per le menzogne dette. No, non gli importava nulla di ciò. Solo un aspetto di quella vicenda lo faceva stare tanto male e non poteva non ammetterlo, almeno a se stesso. La sua curiosità, quella maledetta curiosità senile, inutile e dannosa, lo aveva portato a vederci chiaro, ad indagare senza fermarsi davanti a nulla, neanche fosse un magistrato, un coadiutore della corte o una spia. Per farlo si era recato di notte in piazza, aveva voluto provare le proprie intuizioni anche al costo di introdursi in casa dei Mauro impedendo così ad Agata, fuggita per le urla della vedova Resta, di rientrarvi per trascorrere gli ultimi istanti con Michele. Ecco la ragione del suo tormento. Aveva negato a Michele la pace celeste e ad Agata quella terrena.

Avvolto in quei rimorsi era intanto giunto vicino casa. Il vecchio servo sedeva sulla soglia ingobbito, le braccia appese lungo il corpo e lo sguardo fisso nel vuoto.

“Attacca il calesse alla giumenta” gli disse don Celestino scuotendolo da quella sorta di catalessi “Quest’anno in campagna andiamo con due giorni di anticipo”.

“Ogni tanto una buona notizia” commentò con poco entusiasmo il servitore.

 

Cosa c’è di falso e cosa di vero?

 

Forse conviene partire da quest’ultima categoria che accorpa la gran parte delle cose riportate nel racconto. Le fonti utilizzate per ricavare le notizie utili all’intreccio sono principalmente tre: le visite pastorali dei vescovi di Nardò redatte a fine Settecento, dalle quali ho tratto le informazioni sui luoghi sacri e sul clero; il catasto onciario del 1743, che mi ha permesso di conoscere le proprietà dei vari personaggi, le rispettive abitazioni e indirizzi; i registri dei defunti, dei battesimi e dei matrimoni che, oltre ad aver fornito lo spunto principale della vicenda, mi hanno consentito di inquadrare cronologicamente i vari personaggi coinvolti.

Innanzitutto, dunque, posso dire che sono veri i luoghi. La via di Santa Caterina, il vicinato dei Mauri, il palazzo dei D’Acugna, quello dei Frigino, la piazza principale posti in continuità l’uno con l’altro e tante volte percorsi o fiancheggiati dai protagonisti della storia erano nel Settecento tra i principali riferimenti urbani di Aradeo. Sono assolutamente vere le chiese, nelle loro intitolazioni e in tanto di ciò che si è scritto nel descriverle: la chiesa madre con i suoi altari spogli, la sagrestia lugubre e corrosa dall’umidità è motivo di critica da parte dei vescovi per tutti i secoli della sua esistenza. Il Crocifisso, la Madonna di Costantinopoli e lo Spirito Santo che, all’epoca dei fatti, erano delle piccole chiese di una comunità povera, visitate dai presuli neretini senza mai segnalare in loro nulla di eccezionale; addirittura, per l’ultima delle tre cappelle verrà sancita l’interdizione a causa del suo stato di abbandono. È vera e ancora visibile ai tempi dei fatti la chiesa della Madonna delle Grazie che le carte ci dicono avere il proprio ingresso proprio di fronte alla casa dei d’Acugna (da qui l’idea dei lavori voluti da donna Giovanna Vasquez d’Acugna e della lite svoltasi al suo interno). Sono veri e tuttora visibili, seppur con modifiche rispetto al loro aspetto settecentesco, la colonna di San Giovanni, il castello baronale e la chiesa dell’Annunziata.

In secondo luogo, sono realmente esistiti nei giorni in cui si svolge la vicenda i personaggi citati (almeno quelli aventi un nome e un cognome). Ciò vale tanto per i protagonisti quanto per quelli che potremmo definire dei comprimari. Tra questi ultimo, erano vivi in quell’estate 1780 l’arciprete Matteo Rocca, don Ippazio Greco e l’arcidiacono Blasi, che tuttavia ho descritto come morente approfittando del fatto che il registro dei defunti dell’archivio parrocchiale ci riporta il suo decesso a meno di un anno di distanza (4 aprile 1871). Per i laici, sono realmente in vita nei giorni del duello il medico De Pandis, che dal catasto onciario sappiamo abitare in un comprensorio di case nel borgo, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, ultima esponente della ricca famiglia gallipolina di cui abbiamo notizia ad Aradeo (morirà infatti l’1 maggio 1791, annorum quinquaginta duo circiter e sarà sepolta nella sua tomba privata in chiesa, in proprio monumento in hac Parochiali Ecclesia), Neviglia Gaetano, serva degli stessi d’Acugna di cui è innamorato il vecchio servitore di don Celestino e Felicia Rizzo, cameriera della nobile famiglia nonchè madre della protagonista, Agata Calò. Nell’agosto 1780 è ancora viva Anna Maria Resta, che morirà circa un anno dopo (il 7 agosto 1781): mulier quandam Petri Chiariaci (moglie del fu Pietro Chiriace), le cui proprietà abbiamo ricavato dal catasto onciario insieme alle notizie sulla sua abitazione (abita in casa propria sita nella strada del SS.mo Crocifisso). Dal registro dei defunti sappiamo che, pochi giorni prima dell’omicidio di Alfonso Castriota, il 25 luglio, perse la figlia, Iosepha Chiriaci filia quondam Petri Chiariaci et Anna Mariae Resta Terre Aradei […] aetatis sue annorum triginta sex circuite.

Tralasciando gli altri personaggi minori, veniamo infine ai veri protagonisti della storia che, è fondamentale dirlo, trae spunto da due annotazioni prese sul registro dei defunti a breve distanza l’una dall’altra:

 

Traduzione: “Il 28 di luglio 1780 – Aradeo

Alfonso Castriota della Terra di S. Pietro di Galatina sposato in questa terra di Aradeo nel giorno predetto fu colpito con un coltello da Michele Leti(ti)a della sopradetta Terra di Aradeo, così come molti dicono, e data l’assoluzione sotto condizione dal reverendo d. Celestino Giuri e da me insfrascritto Arciprete col sacro olio degli infermi corroborato, furono fatte le solite preghiere e il suo copro fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale il giorno 29 del prefetto mese, all’età di circa trentasei anni.—-Matteo Rocca Arciprete”

 

 

Traduzione: “Il 13 agosto 1780 – Aradeo

Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dice dissero e percosso visse quindici diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni—- Matteo Rocca Arciprete”

 

Tutto nasce dalla prima annotazione, compresa la scelta di affidare a don Celestino Giuri il compito di indagare. Le visite pastorali di metà Settecento ce riportano quest’ultimo come Cantore della chiesa parrocchiale. Le notizie sulla sua casa (palazziata sita nel vicinato di S. Caterina, cinque orte di terra seminativa con alberi dodici di olivi dentro loco detto Lo Rizzo […] più orte uno mezzo di vigne pastane con alberi trenta di olive loco detto li Monticelli, […] più una giumenta [..]etc…) e sulle sue proprietà le ho ricavate dal catasto onciario

Sappiamo che morì nel marzo 1790 a circa 82 anni.

Di Alfonso Castriota notizie se ne hanno poche: sfogliando il registro dei morti, ho trovato in data 29 agosto 1790 una nota sulla morte di Agata Calò, mulier Alfonsi Castrioto San Petri Galatinae filia coniugum Joannis Calò Terrae S. Petri Galatinae et quondam Feliciae Rizzo Terre Castrignani aetatis suae annorum triginta sex circiter obiit) (trad: “moglie di Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina e figlia dei coniugi Giovanni Calò della Terra da di Galatina e della fu Felicia Rizzo della Terra di Castrignano, morì all’età di trentasei anni circa”).

Infine Michele Letizia: di lui conosciamo i genitori, ovvero la madre Petronilla Mauro, discendente di una ricca famiglia del paese il cui capostipite, Domenico Mauro, può vantare a metà secolo oltre a tante proprietà, elencate nel racconto dal servitore di don Celestino, una casa propria con camere superiori e inferiori loco detto S. Annunciata Vecchia. L’Annunziata Vecchia altro non è che il nome seicentesco della chiesa del Crocifisso: da ciò la vicinanza tra la casa dei Mauro e quella della vedova Resta così utile per l’intreccio del racconto. Del padre di Michele Letizia, so soltanto che è originario della città di Alessano. Approfittando tuttavia del fatto che la famiglia Letizia di Alessano ha prodotto numerosi pittori, tra i più famosi del Salento, ho pensato di fare anche di Michele un artista. Questa connotazione come le restanti parti del racconto (la storia d’amore, la tela, i dialoghi e i pensieri) sono frutto della sola fantasia.

Qui i precedenti capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. V)

di Alessio Palumbo

Capitolo V

 

Si distese nel letto con la tunica ancora addosso. La notte non era calda, ma sentiva la fronte bollire come se avesse la febbre. Il resto del corpo era invece scosso da brividi di freddo, tanto che si gettò addosso una coperta pesante che aveva ai piedi del letto. Passò il dorso della mano sotto l’attaccatura dei capelli e lo ritrovò completamente bagnato. Cos’era quell’agitazione? Si fece un segno di croce e cominciò a sciorinare le orazioni della notte. Non aveva testa per farlo. Sentiva qualcosa dentro di sé agitarsi violentemente. Qualcosa che era iniziato chiudendo la finestra della casa della vedova Resta. Ma cosa. Provò a recuperare un po’ di calma per poter ragionare. Aveva visto qualcosa vicino alla finestra di donna Petronilla che lo aveva colpito. Qualcosa che aveva rivisto o pensato di rivedere osservando quella stessa finestra dalla piazza. E poi il racconto del servo. Anche quello lo aveva agitato. Ma perché? Perché?

All’improvviso si mise a sedere sul letto, come se qualcosa lo avesse sospinto.

“Non può essere” esclamò. La campana di San Nicola rintoccò l’ora nona della notte.

Scese dal letto, indossò le scarpe cercando al buio di allacciare le stringhe. Le mani gli tremavano e dovette tentare più volte.

“Calmo Celestino” disse a se stesso. Finalmente ci riuscì e, afferrato il bastone da passeggio, raggiunse la scala.

Scese di furia e la luce del lume che d’improvviso gli si parò di fronte ai piedi della gradinata lo fece sobbalzare e urlare.

“Papa, dove andate?” chiese il servo

“Sei tu, che ti venga un male. Mi hai fatto morire”

“Ma che vi succede. Dove andate a quest’ora di notte?”

“Non ti immischiare. Torna a riposare”

“Ma che discorsi sono? Non vi lascio andare da solo a quest’ora. Ditemi dove volete andare”

“In piazza”

“A fare che”

“Non ti interessa”

“Va bene, non mi interessa” fece comprensivo il servo “Però vi accompagno”

Senza aspettare risposta si riaffacciò nella camera, prese un oggetto, lo mise in tasca e tornò dal cantore

“Cosa hai preso?” chiese

“Niente papa. Meglio stare sicuri” e si avviò.

Percorsero l’ultimo tratto della strada di Santa Caterina, svoltarono per il vicinato dei Mauri e da lì giunsero di fronte al palazzo dei D’Acugna

“Ferma” ordinò don Celestino “Tu aspettami qui, se serve qualcosa ti chiamo”

“Va bene”

Il prete fece un’altra quindicina di passi e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, si addossò al portone. Da lì poteva vedere la parte centrale della piazza e la finestra di donna Petronilla. Rimase in attesa, in silenzio. A poca distanza il servitore lo aspettava, accovacciato su un paracarro, con il lume in mano. Ciò lo fece sentire un po’ più sereno. Tornò ad osservare la parete di destra del palazzo dei Mauro che dava sul piccolo cortile condiviso con la vedova Resta. Era una delle poche case palazziate della piazza e tenuemente avvolta dalla luce lunare spiccava sullo slargo quasi fosse una torre di avvistamento. Per strada non passava nessuno, fortunatamente: avrebbe fatto non poca fatica ad inventare un motivo logico che lo potesse spingere a stare lì a vegliare. Da lì ad un’ora o due, però, i contadini si sarebbero svegliati per andare nei fondi fuori dalle mura e subito dopo le donne si sarebbero recate in chiesa per la prima messa. Se qualcosa doveva avvenire non avrebbe potuto tardare ancora. E così fu.

D’improvviso una flebile luce rischiarò la finestra di donna Petronilla. Il cuore di don Celestino cominciò a battere velocemente percuotendo le vecchie vertebre, ma ancor di più lo fece sobbalzare l’urlo che squarciò il silenzio d’intorno.

“Giuseppa, Giuseppa mia” udì distintamente e quel grido fu come una lama gelida che incise la sua schiena. La luce alla finestra si spense.

Il cantore uscì dal portone e il servo gli fu accanto.

“Cos’è stato?”

“Dammi qui” ordinò strappandogli di mano il lume “Non ti muovere”

Sbucò nella piazza e provò a correre verso la casa dei Mauro. Le gambe lo tradirono e cadde a terra.

“Fermo” gridò volgendosi al servo, che già si era mosso verso di lui. Si alzò e riprese a correre.

Il vecchio portone del palazzo che era stato di don Domenico cigolò. Intravide una figura uscire di corsa. Nell’oscurità non riuscì a scorgerne il volto. Vide solo una lunga veste nera, forse una tunica forse una gonna, strisciare sul selciato. Raggiunse il portone e sentì a poca distanza il respiro del fuggitivo.

“Fermatevi, chi siete” riuscì ad urlare

Udì i passi bloccarsi e poi riprendere veloci, allontanandosi in fretta per la strada che dalla piazza portava alla porta del paese. Non valeva la pena seguirlo, non ce l’avrebbe fatta.

Spinse il portone dei Mauro e, come se la strada gli fosse nota, salì lo scalone in marmo che portava al piano superiore. Giuntovi, sentì il cuore battere ancora all’impazzata e il fiato mancargli.

“Calma” pensò “riprendi fiato o ci lasci la vita”. Stette pochi istanti addossato ad un muro respirando a bocca larga, poi prese il corridoio che portava alle stanze di destra e lentamente lo percorse. Le porte erano tutte chiuse, tranne l’ultima. La scostò leggermente ed entrò.

La stanza era buia, ma da una finestra parzialmente chiusa da una tenda logora penetrava la flebile luce lunare. Capì di essere nel posto giusto: era la vecchia camera da letto di donna Petronilla. Ruotò il braccio con la lampada per guardarsi intorno, rimanendo però a distanza della finestra. Nell’aria stagnava uno strano odore acido.

A terra, quasi al centro della camera, vide un paio di bacili colmi d’acqua con immerse delle strisce di stoffa bianca e una sedia; sul fondo, un letto circondato da un pesante baldacchino con quattro colonne intagliate. Addossato ad una di queste notò un lenzuolo che stranamente si manteneva alto andando poi a cadere sul pavimento come a formare una piramide bianca. Le coperte sul letto, anch’esse candide, erano arruffate. Fermò i passi e si mise in ascolto: un rantolo leggerissimo, un respiro debole ed affannoso. Riprese a camminare con un groppo alla gola che gli impediva di respirare agevolmente.

 

“Sei tornata” udì. Il cuore di don Celestino accelerò nuovamente, tanto che il cantore per reazione portò una mano sul petto, come per placarlo.

Si avvicinò alla voce e, al lume della lampada ad olio, vide il volto di un giovane. Poteva avere poco più di vent’anni e giaceva riverso in maniera scomposta sul letto. Il busto, nudo, era fasciato con bende candide chiazzate di nero all’altezza del torace. Le mani, le braccia, erano punteggiate da numerose macchie. Gli toccò la fronte, era rovente.

“Amore mio” disse il giovane “Perché sei andata via?”

“Schhhhh” fece don Celestino per non togliere al giovane l’illusione che al proprio capezzale ci fosse la donna amata e non un vecchio prete

“Muoio amore. Lo sai? Muoio, ma ce l’ho fatta. La firma, però” tacque e deglutì con sforzo “la firma è venuta male. Pazienza. Non ho più forze. Vai a dire alla tua padrona che la tela è pronta. La prima tela di un grande pittore e anche l’ultima, amore mio”

Il cantore volse lo sguardo alla piramide bianca e capì. Si avvicinò, con una mano scostò con delicatezza il lenzuolo e la luce gialla disvelò il volto di una Madonna dagli occhi verdi come lo smeraldo. Il velo che le scendeva dalla testa sulle spalle era di un blu luminoso che don Celestino non poteva non riconoscere. Osservò con attenzione il viso della Vergine, ritratto con un realismo tale che chiunque in paese avrebbe potuto ricollegare all’originale. Mai nei lunghi anni di vita aveva visto un dipinto raffigurante la Madonna delle Grazie così bello e così insolito. Come l’iconografia voleva, la vergine reggeva tra le braccia il bambinello, un putto paffuto e biondo. Il bimbo sorrideva, ma non di quei sorrisi appena accennati, che già davano l’idea della divinità, come aveva visto in tante statue e tele. Il sorriso del bambino che aveva di fronte era reale, vivo; era quello di un fanciullo che ha trovato gusto e gioia in un gioco, in un fatto strano o nella carezza dei genitori. Anche la madre, la madonna, sorrideva, pure lei in modo estremamente umano: il volto era quello di una mamma serena, che gioisce nel vedere il proprio figlio felice. La luce passò sulla parte bassa della tela. La grafia era incerta, ma ugualmente leggibile.

“Michele Letizia” scandì a bassa voce “Letizia, non Lezia”. A differenza di quanto accaduto col volto della Vergine, il nome non lo colse di sorpresa.

Lasciò ricadere il velo bianco e si avvicinò al letto. L’uomo non si lamentava più. Gli posò la mano sulla fronte e sentì che era più fresca. Prese il polso e cercò inutilmente di percepirne battiti. Lasciò cadere la mano tra le coperte disfatte. Riportò la mano sulla fronte di Michele Letizia. Con il pollice fece un piccolo segno di croce che poi tracciò anche in aria con le tre dita semiaperte. Tutto ora era estremamente chiaro, solo una cosa gli restava da capire anche se già l’aveva intuita. Si avvicinò alla finestra e scostò la tenda.

Alla luce fioca del lume cercò con ansia sul parapetto e finalmente vide la macchiava che lo imbrattava in un angolo. L’aveva vista chiudendo gli scuri della finestra della vedova Resta e poi osservando la casa dei Mauro dalla piazza. Era blu, anche se con la luce calda della lampada il colore ora appariva tramutato. Era lo stesso blu che aveva visto sul collo di Castriota e ora sul velo della Vergine dipinta.

“Giuseppa mia”

 

Il grido della vedova lo colse di sorpresa e per poco la lampada non gli sfuggì di mano.

“Vecchia pazza” esclamò lasciando cadere la tenda. Uscì rapidamente dalla stanza, scese le scale e si ritrovò in piazza. Il paese era ancora avvolto dall’oscurità e non sembrava esserci nessuno in giro. Attraversò lo spiazzo e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, incontrò il servitore che immobile lo attendeva.

“Finalmente siete tornato, papa. Dove vi eravate cacciato? Avete sentito di nuovo il grido?”

“Si ho sentito. Torniamo a casa”

“Ma posso sapere cos’è successo?”

“Oggi no. Te ne parlerò. Ora voglio solo andare a dormire. Tu prendi la mia giumenta e vai da don Matteo Rocca: digli che sto male e che deve rientrare in paese per celebrare un funerale”

“Chi è morto?”

“Michele Letizia, figlio di don Francesco Letizia e di Petronilla Mauro”

“Il figlio di donna Petronilla?” chiese sorpreso il vecchio, ma il cantore fece conto di non sentirlo e proseguì

“Digli che è morto accoltellato da Alfonso Castriota e che prima di morire l’ho confessato e unto con gli oli santi. Il corpo sta in casa della madre”

“Ma” provò a dire

“Ma le cose stanno così” tagliò corto don Celestino

Erano giunti ai piedi della scala.

“Vi accompagno?” chiese il servitore

“No. Ce la faccio da solo. Fai quello che ti ho detto e lasciami in pace”.

Con le gambe deboli, il respiro ancora pesante, salì quell’ennesima rampa. Giunto in camera sbottonò il colletto, bevve avidamente dalla brocca, espletò i bisogni corporali e si gettò sul letto. Crollò in un sonno profondo dal quale si risvegliò nel pomeriggio quando il sole già calava. Era l’ora prima.  (continua)

 

Qui i precedenti capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

di Alessio Palumbo

Capitolo III

 

Per tre giorni e tre notti il vento non smise di sferzare uomini e cose. Violenti rovesci d’acqua si riversarono sul paese ingombrando le strade con torrenti di fango. Alcune case abbandonate da decenni caddero o si lesionarono sotto la furia degli elementi. Le incannicciate furono divelte e nelle campagne persino ulivi che avevano trascorso interi secoli ben conficcati nella terra furono sradicati. Stessa sorte per le vigne che, già cariche di grappoli neri, si ritrovarono prive di qualsiasi frutto e stese al suolo come ceppi da ardere. Finalmente, la mattina del due di agosto, un sole limpido e possente, conficcato in un cielo privo di nubi per miglia e miglia, segnò la fine della buriana. Il paese si svegliò frastornato e scosso.

Don Celestino, ritemprato nel corpo e nello spirito dalla fine del maltempo, si presentò alla parrocchiale prima del consueto. In quei tre giorni, seppur a fatica, aveva svolto con la diligenza solita i doveri di uomo di chiesa, celebrando la messa del mattino e quella della sera, seppur solo per il suo servitore. Da quella mattina fino alla metà del mese, avrebbe dovuto raddoppiare i propri sforzi. L’arciprete, infatti, come ogni anno aveva abbandonato il paese per passare le prime due settimane d’agosto in campagna; l’arcidiacono Francesco de Blasi, che nella gerarchia del capitolo della parrocchiale veniva subito dopo don Matteo Rocca, era da tempo allettato e prossimo a presentare la propria anima a Cristo. Spettava a lui quindi sovrintendere alle attività degli altri sacerdoti, impartire ordinariamente i sacramenti, celebrare le funzioni principali e via elencando. Per questo, in quella mattina di ritrovata estate, si era recato in chiesa con la giumenta. Subito dopo la funzione sarebbe dovuto andare a dare disposizioni al resto del clero, poi avrebbe portato conforto ad alcuni infermi e infine avrebbe fatto una trottata dalle parti della masseria Resta, di proprietà del Capitolo parrocchiale, per scambiare due parole con i coloni e per capire l’entità dei danni causati dalla furia celeste.

Celebrò messa alla presenza di una decina di donne, alcune accompagnate dai figli che trascorsero il tempo della funzione salendo e scendendo dalla scala dell’organo. Lasciati i paramenti in sagrestia, abbandonò il tempio e nel percorrere la navata notò i numerosi fasci di fiori deposti sull’altare di San Giovanni: ringraziamento concreto delle donne del paese per la fine del maltempo. Si avvicinò alla mensa in pietra, prese un mazzo di zagare dall’odore pungente e lo portò vicino al volto inebriandosi. Ripose i fiori ed uscì. Fuori dalla chiesa di San Nicola la luce del sole lo avvolse e riscaldò.

“Vado a sbrigare le faccende della mattina” disse al servo che lo attendeva crogiolandosi sul muro di fronte al tempio dove aveva addossato il piccolo calesse.

Il vecchio afferrò le assi del biroccio e le fissò nei finimenti della cavalla. Non appena don Celestino montò, gli passò le redini e diede un leggero colpo sulle natiche della giumenta per farla partire.

“Arrivederci papa” lo salutò

Il prete sollevò il braccio e prontamente riafferrò le redini. Lentamente la giumenta si incamminò. Giunti in piazza, il calesse svoltò sulla sinistra imboccando la via che conduceva alla chiesa dell’Annunziata. Don Celestino diede mano alle briglie per accelerare la corsa dell’animale ma, nei pressi della colonna di san Giovanni, elegante simbolo dei baroni del paese, le voci di un alterco lo attrassero. Prontamente tirò a sé le redini. Alla propria destra, dalla cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, provenivano urla e strepiti, bestemmie ed imprecazioni. Un concio di tufo volò fuori dalla porta ed allora gli animi si surriscaldarono ancor di più: le voci divennero sempre più violente, le ingiurie si inasprirono.

Restò ad ascoltare, ma la furia della lite rendeva incomprensibili le parole che rimbombavano nella chiesetta. Scendere o non scendere? Con la vecchiaia era divenuto curioso, troppo forse. Decise di andare a vedere. Smontò dal calesse, legò la giumenta ad uno stallo nei pressi del palazzo baronale ed entrò nella cappella.

Santi, madonne, ostie e lo stesso padreterno affollavano il luogo sacro, ma non sotto forma di immagini o sculture. Tre muratori, bianchi di tufo, urlavano contro un colosso alto una canna, con spalle larghe a stento contenute da una camicia bianca insudiciata su di una manica da sangue; sicuramente quello del più vecchio dei tre manovali il cui volto era abbondantemente imbrattato.

“Cosa succede?” urlò il prete, ma dovette ripetere la domanda più volte prima che i quattro si accorgessero di lui e si placassero.

“Cosa succede? Come osate bestemmiare in un luogo consacrato? Bestie che altro non siete. Segnatevi”

I quattro fecero di mala voglia il segno della croce.

Don Celestino si avvicinò al colosso, che sapeva essere uno dei servi della famiglia D’Acugna, l’atrio della cui casa stava proprio di fronte all’ingresso della piccola chiesa.

“Niente papa Celestino, niente” smorzò questo

“Voglio sapere” si oppose il vecchio che sentiva inappagata la curiosità

“Questi tre pretendono soldi che non spettano loro. Affari nostri”

“Ah, carogna” scattò il muratore che, nonostante la faccia insanguinata e le dimensioni dell’avversario, non sembrava averne timore. Gli altri due, all’apparenza neppure ventenni, lo tennero fermo.

“Calma” impose il cantore “Voi che dite? Vi spettano questi soldi?”

“Certo che ci spettano. Donna Giovanna ci ha mandato a chiamare per fare dei lavori in questa chiesa”

“Ma questa chiesa non è di donna Giovanna D’Acugna” interruppe don Celestino

“Io non ne so nulla. Così ci ha detto. Dovevamo imbiancarla a calce, sistemare l’altare e farci sopra una cornice in leccese. Guardate là” disse indicando il pavimento “Abbiamo portato da Cursi tutti i blocchi per intagliarli e sistemarli”

“Siete di Cursi?” chiese desideroso di conoscere i minimi dettagli della vicenda

“Si. E ora questo” e indicò a mano aperta il colosso “dice che non se ne fa più niente e non ci paga”

“Ma se voi non avete lavorato” intervenne il servo della nobildonna

“E le giornate, il materiale, l’affitto del carro chi me li paga” riprese ad urlare il muratore

“Hanno ragione” sentenziò don Celestino

“Non vi intromettete papa” fece l’uomo dei D’Acugna con aria benevola, senza riuscire però a celare il tono minaccioso.

Don Celestino non si scompose. Conosceva chi gli stava d’avanti e, soprattutto, conosceva donna Giovanna, ricca e vanitosa: non avrebbe certo corso il rischio di vedersi rovinata la fama per quattro conci e un po’ di calce.

“Salgo a parlarne con la tua padrona” disse il prete con finta aria ingenua

“Non vi intromettete” ripeté il servo piazzandosi tra il cantore e l’ingresso della cappella dedicata alla vergine, la quale, silenziosa, osservava la scena da un tela oramai sbiadita posta sul vecchio altare “Donna Giovanna non vuole fare più i lavori”

“E vi ha detto di non risarcire i manovali? Voglio sentirmelo dire da lei”

“Ma a voi cosa interessa?”

Fece conto di non sentirlo. Continuò a fissarlo sul volto, senza aria di sfida però, ma con compassione, con una faccia, per l’appunto, da prete.

“Quanto avevate pattuito?” disse poi don Celestino rivolto al capomastro

“Trenta ducati per dieci giornate di lavoro, dieci per il materiale e due ducati per il noleggio del carro”

“Le pietre potete riportarvele?”

I tre si consultarono

“Si”

“Giornate ve ne bastano tre come risarcimento”

“Ma papa” intervenne uno dei giovani “noi abbiamo rinunciato ad altri lavori”

“Voi..” provò ad intervenire il servo dei D’Acugna

“Tacete” lo zittì il cantore e tornando a rivolgersi ai manovali “Tre giornate ve le paga donna Giovanna, le altre sette io e venite ad intonacare la mia casa di campagna e a fare piccoli aggiusti”

“Va bene” fece il capo dei tre che capì subito la vantaggiosità dell’offerta.

“Dategli undici ducati” ordinò allora il prelato rivolgendosi nuovamente al bestione che con la sua stazza continuava ad ingombrare l’ingresso del tempio “Dagli undici ducati e non dico niente alla tua padrona sul fatto che volevi intascarti la mercede di questi uomini”

Il servo trasse dalla tasca un sacchetto di velluto nero, slegò i lacci, ne cavò fuori undici grosse monete d’argento e le passò al manovale

“Sia lodato Gesù Cristo” si congedò il cantore

“Oggi e sempre sia lodato” risposero i tre e immediatamente dopo: “Papa, ma dove dobbiamo venire a fare i lavori?”

“Andate in chiesa e chiedete al sacrestano di accompagnarvi dal servitore di don Celestino Giuri. Lui vi saprà dire” ed uscì.

Per un paio di giorni non successe nulla di particolare. Furono riparati alla meglio i danni del maltempo e la vita tornò a scorrere regolare. Il caldo riprese a farsi sentire e quei pochi aradeini rimasti in paese si rintanarono nelle proprie case, grandi o piccole che fossero, venendone fuori solo alle prime ore del giorno e verso sera, quando strade e cortili si popolavano di piccoli capannelli. Per il resto della giornata i vicoli del paese restavano deserti, arroventati com’erano dalla fiamma agostana che si abbatteva senza requie sugli uomini, le bestie e tutto ciò che stava loro attorno.

Le stanze personali del cantore, poste nel piano alto della casa, erano diventate invivibili. Il sole batteva sul terrazzo e il calore già di notte poco sopportabile, durante le ore del giorno rendeva pericoloso soggiornare in quegli ambienti. Ritirarsi in campagna sarebbe servito a poco, né avrebbe potuto farlo finché l’arciprete non fosse tornato dalla villeggiatura, a meno di non volersi organizzare con un costante via vai dal paese in occasione delle messe principali e delle varie cerimonie religiose.

“Nonostante il caldo” spiegò una sera al servitore che, mosso quasi dalla disperazione per il caldo, aveva provato a riproporre l’idea di ritirarsi a Lo Rizzo “da qui all’Assunta in paese si continuerà a nascere, e quindi a battezzarsi, a sposarsi, ad ammalarsi e a morire. Dovremmo andare avanti e indietro ogni giorno. Non è cosa. Ci ho pensato e ripensato, ma non si può fare. Pensa a dover venire da Lo Rizzo al paese nelle ore più calde della giornata: non sai che è rischioso percorrere lunghi tratti sotto il sole in questa stagione?

Il servo non si era mostrato convinto ma non aveva più osato riproporre la questione. In campagna ci sarebbe andato, ma da solo, da qualche amico o parente nelle lunghe ore in cui il cantore se ne stava in chiesa.

Don Celestino, infatti, aveva preso a passare gran parte delle ore di luce nella parrocchiale, seduto in uno degli altari laterali dell’aula liturgica. Partiva da quello di San Nicola che la mattina, finita la funzione, era quello più in ombra e poi, seguendo il moto del sole, si spostava di cappella in cappella, in una mano il breviario, nell’altra una banderuola con sopra l’effige di san Giuseppe che usava per sventolarsi. Non di rado, vinto dal caldo e sopraffatto dalla lettura, si addormentava pesantemente, finché il servitore, di ritorno dalle sue gite nei campi, non lo svegliava per ricordargli che era il momento di desinare o di andare a sbrigare qualche incombenza.

In una di quelle mattine, nel silenzio assoluto in cui era immersa la chiesa, udì passi leggeri e veloci. Si affacciò dall’altare del Carmelo, dove si era da poco spostato, e vide una piccola donna procedere sicura verso di lui. Giunta che fu a pochi passi, riconobbe la vedova Maria Resta. Il marito, che si chiamava Pietro Chiariace, pur da bracciante, era riuscito a accumulare una decina di orte di terre di proprietà, in parte sue e in parte portate in dote dalla stessa Maria. Una discreta fortuna, insomma.

“Papa, qua siete?” chiese con voce stridula

“Sia lodato Gesù Cristo” la salutò il cantore

“Oggi e sempre” fece la donna e poi, senza alcuna pausa, “Mi voglio confessare” aggiunse

“Va bene. Facciamolo qui che nel confessionale c’è da morire per il caldo”

“Eh” obiettò la vedova “Ma così mi vedete in viso”

“Ma se so già chi siete” protestò il cantore

“O vi mettete nel confessionale o non se ne parla. Ma ricordatevi che se esco di qui e muoio la colpa della dannazione dell’anima mia ricadrà su voi e voi solo”

Non c’era da discutere. Appoggiandosi al bastone, che finalmente aveva preso a portare abitudinariamente, don Celestino trascinò i propri passi fino al confessionale e vi entrò. La vecchia, impaziente, gli andò dietro ed entrato che fu il prete si inginocchiò

In nomine patri et fili et spiritui sancti” esordì

“Amme”

“Avanti, confessate i vostri peccati”

“Non ne tengo peccati” esordì Maria Resta

“Questa è superbia ed è un peccato”

“E va bene, mettetelo nel conto” rispose poco preoccupata “Oltre a questo, però, peccati miei non ne ho. È l’anima di mia figlia che non riposa in pace”

“Non vi capisco Maria, parlate chiaro”

“La mia Giuseppa è morta il venticinque del mese scorso. Aveva trentacinque anni. Che fiore che era. Che fiore”

La donna si mise a singhiozzare. Don Celestino aspettò che si calmasse

“Papa Rocca le diede i conforti religiosi e tutto il resto. Dopo pochi giorni però dalla morte iniziai a sentire durante la notte voci, colpi secchi, rumori di mobili trascinati, di catene”

“Maria” provò ad intervenire il cantore “Magari il dolore…”

“Non sono pazza papa e il dolore non c’entra. All’inizio ho pensato che fosse qualcuno nelle case vicine a muovere mobili a fare rumore, ma le case vicino alla mia sono disabitate, non c’è anima viva. E poi le cose sono peggiorate dopo la tempesta”

“In che senso”

“Nel senso che rumori si sentono di meno. Niente mobili, colpi, catene ma solo lamenti. A volte si sente piangere”

La vecchia smise di parlare.

“Maria” chiamò don Celestino “Maria, proseguite”

La donna non parlava.

Il cantore uscì dal confessionale e la vide ferma, immobile, una statua di cera a fissare il vuoto.

“Maria” le urlò scuotendola con entrambe le mani.

La donna esplose in un pianto disperato, gli occhi si arrossarono e una voce lacerante, catarrosa e inquietante venne fuori dalla sua bocca.

“L’altra notte, papa, non ce l’ho fatta più. La voce piangeva, piangeva, si lamentava. Allora mi sono affacciata alla finestra. Luna non ce n’era quasi e fuori era tutto buio. Allora ho gridato “Giuseppa, Giuseppa che tieni? Perché piangi”

“Bhè” chiese il vecchio prete impressionato

“Niente. La voce è sparita e non l’ho sentita più fino a stanotte. Era l’ora sesta quando il lamento ha ripreso”

La vecchia sembrava ora essersi calmata. Lo sfogo le aveva disteso i nervi. Don Celestino allentò le mani che aveva stretto sulle scapole della donna.

“Tornate nel confessionale” disse lei cogliendo di sorpresa il sacerdote “Tornate che così non vi posso parlare” insistette.

Rassegnato, don Celestino rientrò nel suo forno di legno

“Maria” esordì “Tu dici che tu non sei sconvolta per la morta di Giuseppa, ma non ci credo”

“Papa” interruppe

“No aspetta, fammi finire. Giuseppa è morta in grazia di Dio, peccati sono sicuro non ne avesse, perché era una brava donna e anche se li avesse avuti in punto di morte ha ricevuto tutti i sacramenti”

“E allora quale anima piange e si lamenta? Mio marito? Buonanima”

“Chi ti dice che sia un’anima. Tu hai la testa e il cuore scossi. I rumori che senti possono venire da altre case, possono essere gatti in amore come ce ne sono tanti in questa stagione, può essere il vento che si infiltra dalle finestre, qualche civetta o barbagianni che ha fatto il nido dalle parti di casa tua”

La vecchia taceva

“Maria, parlate” ordinò il cantore “Non mi fate inquietare”

“Non mi convincete, papa. I rumori che sento, le voci e tutto il resto sono di un’anima”

“Facciamo così” mediò il vecchio prete “Se le prossime notti senti ancora delle voci o qualcos’altro che ti impressiona, vieni di nuovo da me, ti benedico la casa e diciamo una messa per Giuseppa e per tuo marito”

“La messa me la dice lo stesso”

“Va bene, va bene. Ora andate e cercate di riposare”

“E l’assoluzione”

“Peccati non ne avete” rise don Celestino “Lo avete detto voi stessa”

“E la superbia? Se non mi assolvete non me ne vado”

“E va bene. Ego te absolvo….” snocciolò accondiscendente

La vedova fece il segno della croce, si sollevò dall’inginocchiato e, atteso il confessore per baciargli la mano, si congedò.

“Arrivederci papa”

“Arrivederci”.

(continua)

Qui i primi due capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

 

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

di Alessio Palumbo

Capitolo II

 

Dormì per tutto il pomeriggio, ma un sonno agitato, frammentato, pieno di immagini confuse, di suoni indistinti. Rivide la smorfia di dolore sul volto del Castriota, nella testa risuonò il rumore degli zoccoli dei cavalli del governatore e la voce tonante di questo rimbombò come se fosse proprio lì, nella sua stanza. Si alzò dal letto solo per urinare e per bere l’acqua oramai calda della brocca. A metà pomeriggio decise di sgranchire un po’ le gambe che sentiva costipate e rigide. Scese dal letto con difficoltà. I muscoli erano contratti e gli facevano male, sicuramente per le corse del mattino. Si lavò velocemente nel bacile e andò nella camera accanto, separata dalla sua da una pesante tenda ingrigita. Sul grande tavolo in legno che suo padre aveva fatto costruire da un falegname di Nardò mezzo secolo prima, il servitore aveva posato un piatto di fichi nerissimi. In un altro piatto delle frise e delle cipolle.

Tastò i frutti dalla cui rossa fenditura sul fondo veniva fuori un intenso odore zuccherino. Ne sbucciò uno e poi velocemente altri tre mentre non aveva ancora finito di ingoiare il primo. Erano delle primizie a cui non riusciva a resistere.

“Eh la gola, la gola don Celestino” mormorò a se stesso

Da una nicchia del muro trasse fuori un piccolo fiasco con del vino. Lo versò e lo bevve sempre restando in piedi. A piano terra sentì passi e voci; si affacciò nella tromba delle scale.

“I fichi sono dei Monticelli o de Lo Rizzo?”

“De Lo Rizzo, papa” rispose il servitore

“Sono buoni”

“Vi porto altro?” fece il vecchio affacciandosi ai piedi della scalinata

“No, no. Vai solo da papa Rocca e digli che non sto in salute e che stasera non celebro”

“Soffrite il caldo? Volete che selli la giumenta e vi accompagni in campagna” propose

“No, no. In campagna andiamo il sedici, dopo l’Assunta. Te l’ho già detto più volte. Vai da papa Rocca, io torno a letto”

“Come volete” rispose deluso il servitore e sparì.

Tornò al tavolo, prese un altro fico, lo sbucciò e trascinando con difficoltà le gambe che sentiva rigide e pesanti, tornò a letto. Poggiò il frutto sul canterano, tolse la tunica che non aveva levato di dosso per tutta la giornata, si stese e finì di mangiare. Finalmente si addormentò e fece un sonno tutto filato fino all’indomani mattina quando la voce del servitore lo svegliò rudemente.

“Papa, papa. Neanche stamattina celebrate?”

“Si, si. Perché urli?” protestò mettendosi a sedere.

Si sentiva meglio. Il sonno lo aveva rinfrancato, le ossa non gli dolevano e sentiva i muscoli rilassati. Scese dal letto, espletò i bisogni corporali, si lavò nella tinozza e prese ad indossare la tunica. Il servitore scese a svuotare il pitale, poi risalì nella camera da letto. Con il lume poggiato al davanzale e lo sguardo rivolto a destra attese silenzioso che il padrone completasse la vestizione.

“Tu mi devi spiegare perché ogni mattina ti metti a guardare dalle parti dei D’Acugna” fece don Celestino quasi con indifferenza

“Io, papa? Io?” rispose risentito il vecchio

“Eh si. Tu” ridacchiò allusivo

“Ma che dite papa”

“Cerchi la tua bella?”

“All’età mia!”

“Neviglia, la cameriera, non ha la tua stessa età?”

“Ha tre anni più di me” rispose d’istinto il paggio

“Eh allora?”

Alla luce fioca potè osservare il viso del vecchio divenire rosso mentre lo sguardo testimoniava chiaramente che il pensiero era andato già oltre. Forse alla vecchia Neviglia che da giovane aveva fatto girare la testa a più d’uno. Chissà, magari ancora sortiva qualche effetto sul suo servitore che, ingobbito e decrepito, ora gli stava di fronte e faceva evidentemente forza a se stesso per non tornare a poggiarsi al davanzale.

“È proprio vero” mormorò il cantore “Est in canitie ridicula Venus

Il vecchio sentì la frase in latino e d’istinto fece il segno della croce

“Andiamo, andiamo” rise il sacerdote “Precedimi”

“Si, papa”.

Scesero lentamente le scale e, usciti che furono dall’archetto che delimitava la bella casa palazziata di don Celestino, furono colti da una ventata terrosa in pieno viso. La nera tunica si agitò violentemente e solo l’istinto, che spinse il cantore a portare immediatamente la mano sulla testa, impedì al tricorno di volarsene.

“O Dio mio” fece don Celestino

“Si, papa. Stanotte si è sollevata una tramontana tremenda” spiegò a voce alta il vecchio per vincere l’urlo del vento “Fuori dal paese non si può stare”

“Non me ne ero reso conto” commentò il prelato piegandosi in avanti e procedendo a fatica. Con il fazzoletto alla bocca e gli occhi serrati, il vecchio sacerdote avanzò scortato dal servitore che, come poteva, cercava di ripararlo dal vento precedendolo.

Per le strade la polvere turbinava e la tramontana ululava selvaggiamente. Le viuzze del quartiere di Santa Caterina erano ingombre di stracci, rami, vetri, embrici, assi divelte. Le poche persiane rimaste aperte sbattevano, mentre raffiche violente serpeggiavano tra i vicoli bui. La piazza era ancora in piena oscurità nonostante l’ora. Una fitta coltre di nubi mascherava la flebile luce del sole all’aurora.

“Sono andato in catalessi stanotte. Non ho sentito nulla” pensò il cantore frastornato dal rumore del vento.

I due vecchi cercarono di accelerare il passo attraversando la piazza e con non poco sforzo raggiunsero la chiesa. Ai piedi della piccola scalinata, contrastato dal vento che ora lo colpiva frontalmente, don Celestino si ritrovò a rimpiangere un bastone da passeggio. Entrarono finalmente in chiesa. L’aula era completamente vuota e buia. Il sole non era ancora spuntato al di sopra delle mura del paese e comunque le nubi avrebbero di sicuro attutito se non annullato la forza della sua luce. Nell’edificio stagnava l’odore della cera delle candele accese per la funzione della sera prima: era l’unica prova del fatto che in quel luogo era passata della vita. Il muggito cupo della borea rimbombava tra le mura.

Senza parlare, appoggiandosi alle pareti di sinistra, raggiunsero con difficoltà la sagrestia e vi entrarono. Le candele già accese permisero loro di tornare nel mondo della luce.

“Sia lodato Gesù Cristo” li accolse don Matteo Rocca

“Oggi e sempre sia lodato” risposero all’unisono, meccanicamente

“Buongiorno papa” aggiunse poi il servitore

“Ci sono novità” chiese invece don Celestino ad alta voce

“Su cosa?” rispose l’arciprete, quasi stupito

“Sul morto di ieri”

“Ah” rispose indifferente “Nessuna. Il corpo se lo sono presi quelli della Camera Baronale ma oggi ce lo ridanno per seppellirlo in chiesa”

“Ma quindi è di Aradeo, non di Galatina”

“Si, si. È originario di San Pietro in Galatina, ma abitava qui da qualche mese con la moglie che si chiama Agata Calò”

“Agata Calò” ripeté il cantore “Non la conosco”

“Nemmeno io” fece l’arciprete di rimando

“E tu?” chiese don Celestino al servitore

“Agata? Si. È la figlia di Felicia Rizzo, che sta a servizio dai D’Acugna. Ma il marito, questo Castriota, non l’ho mai visto. Si saranno sposati da poco e abiteranno in qualche terra dei signori” ipotizzò

Tacquero poi, come riscuotendosi, don Celestino si avvicinò alla grande cassapanca sul fondo della sacrestia, l’aprì, estrasse i paramenti e la richiuse.

“Vi aiuto” fece il servitore avvicinandosi

L’arciprete si congedò.

“Il funerale lo celebriamo a sedicesima ora” disse però prima di uscire, “tanto non fa caldo oggi e non ci sarà molta gente in paese con queste tempesta”

“Come volete” rispose il cantore. Diede un’ultima sistemata al cingolo e, rivolgendosi al servo, ordinò “Andiamo”

Furono di nuovo in chiesa: l’aula era ancora al buio e dai finestroni in alto non penetrava la minima luce. Non c’era nessuno, come si poteva facilmente ipotizzare: il servitore accese ugualmente le due lampade ai lati dell’altare maggiore.

Don Celestino entrò nel presbiterio, ascese i tre gradini dell’altare in pietra leccese decorato con eleganti colonnine e baciò la mensa. Il servitore si segnò, rassegnato a seguire la solita messa da solo.

Il resto della mattinata, in attesa del funerale, don Celestino la trascorse seduto su una seggiola in uno degli altari laterali, quello di san Giuseppe. Perché si stava arrovellando tanto con quel morto? In vita sua non ne aveva visti molti di ammazzati, ma neppure pochi. E allora? Forse era stata quella strana macchia sotto il collo? Che poi, a ben pensare, cosa c’era di strano in una macchia di tinta? Forse allora la concitazione del momento, la corsa, quella posa scomposta di Castriota, addossato al muro dei Francone come un sacco vuoto. Non riusciva a spiegarselo, eppure il pensiero tornava ossessivamente lì, al rione dei Mauri, agli occhi prima afflitti poi vuoti dell’ammazzato.

Passi lenti e leggeri lo distolsero. Sentì sedici rintocchi e vide l’arciprete attraversare lentamente la navata in penombra.

“Sono qui” disse don Celestino, a voce troppo bassa per essere udito

“Don Matteo attendete” urlò e finalmente il vecchio sacerdote si accorse di lui.

Gli fu accanto e insieme raggiunsero l’ingresso della chiesa. Rimasero dentro, mentre fuori l’urlo del vento sembrava aver rafforzato la propria intensità. All’improvviso la porta si spalancò. Due gendarmi entrarono portando su una lettiga il cadavere di Castriota. Dietro di loro una piccola figura, di nero vestita e coperta da un velo ugualmente nero, seppur più consunto, entrò silenziosa. Il cantore la osservò attentamente, mentre l’arciprete iniziava a snocciolare monotonamente le litanie funebri.

La donna, di sicuro Agata Calò, era di una bellezza da lasciare esterrefatto anche un vecchio sacerdote che mai aveva badato alle cose mondane, figurarsi alle soglie della morte. Non aveva mai conosciuto né visto una donna così bella in quei settant’anni che il Padre Eterno gli aveva dato da vivere. Il viso, circondato dal velo del lutto, era abbronzato e liscio. Corpose ciglia nere oscillavano pigramente su occhi di un verde cupo, profondo. Il naso, piccolo e sottile, da statua, attaccava poco sopra le labbra opache. Su quell’ovale perfetto e delicato, due grosse lacrime lasciavano il loro segno scorrendo lentamente.

In nomine patris, et filii et spiritui sancti” chiuse don Matteo Rocca.

Tutti si segnarono. Don Celestino passò l’aspersorio all’arciprete. Tre manate violente sancirono la benedizione del morto e degli astanti.

La donna si inginocchiò e abbracciò il corpo del marito avvolto dal sudario. Senza emettere un suono, un lamento, baciò la fronte con una dolcezza che ci si sarebbe aspettati da una madre verso il proprio figliolo piuttosto che da una moglie verso il marito. Da fuori provennero i rumori della pesante lapide del sepolcro che il sagrestano, aiutato dai due gendarmi, scostava sul sagrato. Rientrati, imbrigliarono il corpo con dei canapi pesanti e sollevato con leggerezza lo portarono fuori. La donna seguì i tre. Don Celestino le andò appresso, mentre il parroco ripercorreva lentamente la navata diretto verso la sagrestia.

Pur stretto tra le vie del paese, il piccolo sagrato era spazzato dal vento, mentre nuvole nere cariche di pioggia roteavano veloci sulle teste degli astanti. Il sacrestano si calò nella sepoltura e da lì diresse le manovre dei due soldati rese più difficili dal vento che faceva ondeggiare e sbattere il sudario del cadavere sospeso in aria come una vela avvolta al proprio albero. Il corpo scese lentamente fino a sparire. Passarono pochi minuti, poi la testa canuta del sacrestano spuntò nuovamente. Don Celestino osservava con attenzione la scena, stando ben attento a mantenersi addossato al portone. Agata, ritta, con le vesti schiacciate sul piccolo corpo dalla forza del vento, gli dava le spalle. A vederla così, dava l’impressione di una statua abbandonata dai suoi portatori. Il vento sembrava non aver potere su di lei, quasi fosse di metallo o marmo.

La lapide raschiò nuovamente lo spiazzo e con rumore cupo chiuse la botola. Immediatamente i due soldati presero la strada del castello baronale, mentre il sagrestano, passando accanto al sacerdote, rientrò in chiesa per il disbrigo delle altre faccende. In quel momento la statua si mosse, ruotò il capo a destra e poi a sinistra. Constata la desolazione che la circondava, si rivolse verso il tempio e qui vide don Celestino. Le lacrime ripresero a scendere una di seguito all’altra. Il cantore le appuntò i propri occhi neri, oramai quasi spenti, sul volto. Agata finalmente oscillò per una raffica più forte delle altre; sembrò quasi cadere tanto che il vecchio sacerdote fece alcuni passi verso di lei allargando le braccia, ma si fermò vedendola recuperare l’equilibrio. La donna accennò allora ad un inchino, girò su se stessa e prese la strada che, costeggiando la chiesa, portava alla porta del paese. (continua)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

di Alessio Palumbo

La storia che vado a raccontare è vera e falsa allo stesso tempo,

come del resto lo sono tante.

Quanto vi sia di reale e quanto sia frutto della fantasia,

chi avrà la pazienza di seguirne la trama

lo scoprirà solo alla fine, carte alla mano.

Per il momento posso solo dire che i fatti si svolsero ad Aradeo

tra il luglio e l’agosto di quasi due secoli e mezzo fa.

Come suol dirsi, correva l’anno 1780

Capitolo I

Oltre le mura la prima luce del giorno rischiarava le campagne più lontane; le stelle erano sparite già da un po’, mentre la luna sembrava volersi attardare ancora. Il caldo era soffocante, l’aria ferma, umida, vischiosa.

Il vecchio servitore, con i gomiti poggiati al parapetto, volse lo sguardo alla propria destra, verso le case dei Vasquez D’Acugna: le finestre erano spalancate, ma dentro era ancora buio.

“I signori dormono” mormorò

“Cosa hai detto?” chiese don Celestino Giuri, cantore della chiesa di San Nicola, appuntando l’ultimo bottone

“Niente papa Celestino. È tardi, stamattina siete più lento del solito”

“Che fretta hai. Tanto anche stamattina la messa la dirò solo per me, per te e qualche vedova insonne”

“Se vi sentisse l’arciprete”

 

Il vecchio cantore rise leggermente e diede due colpi sulla schiena ingobbita del servitore.

“Andiamo” disse “sono pronto”.

In quel momento delle urla squarciarono il silenzio che ancora avvolgeva il quartiere. Un litigio, poi altre urla prolungate.

“Che succede?” chiese don Celestino al vecchio che nel frattempo era tornato alla finestra

“Non vedo nulla”

“Scendiamo, presto” ordinò il sacerdote “Fammi strada con il lume”

“Ma…” provò ad obiettare il vecchio

“Sbrigati”

Scesero lungo la scala ripida con la velocità che l’età consentiva loro.

“Piano papa, piano”

“Ti ho detto di correre”

Sull’uscio svoltarono a destra e, al lume della lampada ad olio, dopo una decina di passi presero la strada a sinistra, verso la piazza. Percorsero pochi metri e furono nel vicinato dei Mauri. Addossato alla porta della bottega da ciabattino che era stata di Giacomo Francone, videro un corpo riverso.

Don Celestino strappò la fiamma di mano al servitore e si avvicinò all’uomo. Alle sue spalle sentiva le prime voci delle donne richiamate dalle urla.

Il cantore si inginocchiò. L’uomo respirava a fatica. Con la debole luce della lampada vide la smorfia di dolore sul viso dell’uomo. La camicia aperta era imbrattata dal sangue che veniva fuori copioso da uno squarcio sotto il cuore che l’uomo cercava inutilmente di tamponare con le mani.

“Non ti conosco” gli disse come prima cosa il prelato

“Sono Alfonso Castriota, di San Pietro in Galatina” rispose a voce bassa

“Chi è stato” incalzò

“Miche… Michele.. Le..Letia” provò a scandire, ma la voce era flebile e il respiro si strozzò in gola, soffocato da un fiotto di sangue che espulse violentemente tossendo addosso al sacerdote. Don Celestino non si scompose. Troppi ne aveva visti di malati e di morti per avere disgusto degli umori umani.

“Di Galatina anche lui?” chiese, poiché quel nome non gli ricordava nessuno

Castriota si limitò a scuotere la testa. Aprì e chiuse la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Il prete capì che la fine era vicina.

“Ti penti dei tuoi peccati?” chiese

L’uomo fece cenno di sì col capo, poi una sorta di ruggito sembrò levarsi dal suo interno, scuotendo tutto il corpo. Cercò di trattenerlo, stringendo i denti che spiccarono con il loro candore tra la barba nera e poi tacque. Alle proprie spalle il cantore sentì rumoreggiare. Segnò l’uomo sulla fronte, poi alzò la destra al cielo e lo benedisse. Le donne si segnarono e tacquero.

Nell’abbassare la mano notò sul collo uno strano segno. La luce del sole ora cominciava a rischiarare la strada. Ruotò quindi il viso di Alfonso Castriota per vedere meglio e sul collo, proprio dove terminava la barba e cominciava la pelle nuda, notò una grossa macchia di un blu intenso. Un blu brillante e acceso, come quello di una pietra preziosa o di un tessuto.

“Vado a chiamare l’arciprete e a prendere gli oli santi” disse al vecchio servitore sollevandosi “Tu aspetta qui e non farlo toccare da nessuno”.

Si fece largo tra le donne.

“Papa Celestino, chi è?”

“Papa Celestino, che ha detto? Non è di Aradeo?”

Le ignorò e si diresse verso la piazza. Altra gente accorreva in direzione opposta alla sua. Nonostante una certa dolenza nei muscoli, dovuta allo strapazzo della corsa e alla concitazione del momento, cercò di accelerare il passo. Attraversò lo spiazzo, costeggiò la cappella del Crocifisso senza neppure segnarsi, quindi tra i bassi caseggiati che delimitavano le sporche vie del paese giunse ai piedi dei tre scalini che introducevano alla chiesa di San Nicola.

“Devo decidermi ad usare un bastone” pensò.

Colmò il piccolo dislivello e, spinto il portone di legno oramai consunto dall’umidità, fu nel tempio.

 

Nell’unica navata, i raggi del sole nascente si intrecciavano sul pavimento chiazzandolo di luce. In piedi, quasi addossate alla balaustra, quattro donne attendevano l’inizio della messa.

“Papa Celestino, oggi non celebrate?” chiese una di queste, avvedendosi di lui che procedeva spedito lungo gli altari di sinistra. Il cantore non rispose ed imboccò la porta della sagrestia.

Nell’antro umido, dalle pareti chiazzate da enormi macchie verdastre che sembravano trasudare acqua, puntò sicuro ad una piccola cassa di legno rivestita. La scoperchiò e prese una chiave.

“Sia lodato Gesù Cristo”

La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa. Lasciò cadere di scatto il coperchio che chiuse rumorosamente la cassetta.

“Proprio voi cercavo” rispose riprendendosi “Ho preso la chiave degli oli santi”

La voce che lo aveva salutato venne fuori dalla penombra. L’arciprete Matteo Rocca, di pochi anni più giovane, gli si avvicinò lentamente. La vecchiaia era stata inclemente con lui. Debole di gambe, ingobbito prima del tempo e pressochè cieco, don Matteo Rocca gli andò incontro e, data la sordità incipiente, ripetè:

“Sia lodato Gesù Cristo”

“Oggi e sempre sia lodato” rispose don Celestino, alzando la voce “Sono venuto a prendere gli oli santi dall’altare”

“Chi sta morendo?”

“Un certo Alfonso Castriota. L’ho trovato poco fa dalle parti dei Mauri, coperto di sangue”

“ Oh signore mio Dio” esclamò l’arciprete segnandosi “Dobbiamo avvisare l’autorità”

“Prima dovremmo portargli il conforto dei sacramenti” obiettò il cantore

“Si, si. Allora portatelo voi, io vado ad avvisare il governatore. Questa è una faccenda degli Olivetani. Si, si” continuò don Matteo seguendo il filo di un discorso che si dipanava rapido nella sua mente e che escludeva qualsiasi interlocutore, men che meno don Celestino che ne fu rinfrancato “È di competenza della camera baronale. Le cause criminali sono loro, anche se… Forse dovrei dirlo al sindaco prima. Ma poi se il governatore viene a sapere che prima di lui ho avvisato il sindaco…No, no. Prima il Governatore, prima gli Olivetani. Anzi, per sicurezza… Biagio!” urlò, con voce vigorosa e per questo inadatta alle sue membra fragili “Biagio”.

Un giovane si presentò di corsa proprio mentre don Celestino scostava la tenda della sagrestia per andare a prelevare gli oli custoditi sull’altare.

“Biagio, vai a chiamare don Ippazio Greco. Digli di venire a celebrare messa. Poi recati dal sindaco e avvisalo da parte mia che hanno ammazzato un uomo ai Mauri”

“Si papa” fece il giovane senza porre altre domande e corse via.

Don Celestino intanto aprì la piccola custodia foderata di tessuto bianco posta sull’altare, prese le ampolle degli oli e li depose sulla mensa. Chiuse con cura la teca mentre le donne osservavano curiose i suoi movimenti.

“Papa, chi sta morendo?” bisbigliò la donna di prima che aveva riconosciuto le ampolle

“Castriota” rispose don Celestino a voce ugualmente bassa, quasi quella notizia non fosse adatta al luogo sacro

“Castriota? Non è di qua. Non ci sono Castriota ad Aradeo” sentenzio una delle quattro, piccola e tozza come una donnola

“Di Galatina”

“Ah” fecero le altre

“Ma la messa la celebrate?”

“Io no, ma chiedete all’arciprete” rispose riprendendo la propria strada. Attraversò la corta navata e uscì sul sagrato. Prese la stretta via che portava alla piazza e sboccatovi non potè non notare che il sole era ora alto sopra le mura del paese.

“Sarà un’altra giornata afosa” pensò attraversando la piazza per poi reimmettersi nella via dei Mauri “Meglio sbrigarsi e rientrare a casa quanto prima”.

Le voci della gente accorsa a curiosare lo distolsero dai pensieri. Attraversato lo spesso muro di folla, si ritrovò ai piedi del cadavere che ora, alla luce piena del sole, mostrava il volto con incisa un’espressione di dolore. Il viso era giovane, la barba e i capelli nerissimi. Il sangue imbrattava completamente la camicia e la parte alta dei pantaloni. Si inginocchiò evitando di pestare la chiazza nera, sfumata di rosso lungo i margini, che si era formata attorno al corpo. Aprì le ampolle degli oli santi, segnò il cadavere e iniziò a sciorinare le solite litanie. Gli astanti si segnarono e mugugnarono qualche prece. Quando il cantore si sollevò, aiutato dal servitore, tutti si segnarono nuovamente.

In piedi osservò attentamente la vittima e rivide quella chiazza. Netta, grumosa, all’attaccatura della testa sul collo

“Che strano” mormorò.

Intanto, dalle sue spalle, oltre la folla, venne un sordo rumore di zoccoli e poi un ordine, lanciato seccamente: “Largo”

Due gendarmi ed il governatore fecero la loro comparsa svettando dall’alto delle cavalcature. Evidentemente qualcuno li aveva avvisati. Di lì a pochi minuti spuntò a piedi, affaticata, la trista sagoma dell’arciprete.

“Il governatore”, “Papa Rocca”, “I Gendarmi” riportavano quelli più vicini alla scena a chi stava loro dietro.

Il Governatore smontò da cavallo, attese il vecchio arciprete e insieme andarono verso don Celestino.

“Lo avete trovato voi?” chiese senza salutare e rivolgendosi al cantore

“Si, stamattina”

“Sapete chi sia?” domandò il rappresentante dei baroni

“Dovrebbe essere Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina”

“Come vi dicevo” intervenne ossequioso don Matteo Rocca. Il governatore fece conto di non aver sentito

“Sapete altro?”

“Dovrebbe essere stato un certo Michele Lezia o qualcosa del genere. Purtroppo quando sono arrivato era quasi spirato e non era chiaro quel che diceva”

“Lo conoscete?”

“Michele Letia?”

“E chi altro sennò?” ribatté nervoso

“No” rispose pacatamente don Celestino

“E voi?” chiese, rivolgendosi all’altro prelato

“No eccellenza”

“Chi di voi conosce Michele Lezia?” urlò allora il governatore alla folla

Il nome passò di bocca in bocca, ma nessuno si fece avanti.

“Nessuno lo conosce? Va bene” commentò indispettito.

“Voi caricate il corpo e portatelo nella cappella di San Trifone a palazzo” ordinò ai due gendarmi che erano rimasti in sella.

Con gesto agile rimontò sul destriero e strattonando con forza le briglie lo spinse a ruotare. Colpiti i fianchi dell’animale andò via per la strada dalla quale era venuto.

“Andiamo” disse don Celestino al servitore e, facendosi largo tra la folla che ora osservava le manovre dei soldati, tornò verso casa.

Giunto ai piedi della scala che neanche un’ora prima aveva disceso con furia, congedò il paggio.

“Salgo a riposare un poco. Torna stasera”

“Vengo a portarle da mangiare tra qualche ora”

“No, no. Desinerò stasera. Ora voglio solo riposare” rispose. Afferrato il passamano di legno scuro che fiancheggiava la ripida scala, salì lentamente fino al secondo piano.

Il servitore, rimasto per strada, vide la finestra della camera da letto chiudersi lentamente e le tende di color verde oliva stendersi sulle lastre di vetro. Volse lo sguardo verso le case dei D’Acugna: donna Giovanna Vasquez d’Acugna, dal mignano del palazzo, osservava con aria annoiata il via vai di persone lungo la via.

Su un’antica epigrafe aradeina dedicata a san Nicola

di Alessio Palumbo

 

Sulla storia (o non storia, per alcuni versi) di Aradeo in molti hanno scritto. In particolare, sul ruolo di primo piano avuto da questa comunità in età medievale e (seppur in maniera limitata) moderna all’interno del «circuito» culturale e religioso greco di Terra d’Otranto restano insuperati gli studi di A. Jacob e P. Hoffmann. Quest’ultimo, nel saggio posto in chiusura dell’approfondito excursus storico fatto da Gino Pisanò sulla storia di Aradeo[1], riteneva il parlare della cultura bizantina in questo paese

“un compito stimolante ma al tempo stesso difficile, anzi disperato. Allo stato presente delle nostre conoscenze, ci imbattiamo, subito, nel silenzio delle fonti documentarie, archeologiche ed epigrafiche. Nessun affresco medievale come a Soleto o in tanti altri luoghi del Salento. Nessuna iscrizione”[2].

Tra le epigrafi oramai scomparse, una, come riportato già in un’immagine pubblicata dallo stesso Pisanò nel medesimo volume, era stata trascritta dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice nel corso della visita pastorale del 1719[3]. In quell’occasione, il presule neretino, giunto ad Aradeo e sceso di fronte alla porta urbica, era stato accolto dal clero e da numerosa popolazione, mentre le campane di tutte le chiese suonavano a festa. Da qui, in processione e con canti, il Sanfelice, “sub pallio serico rubri coloris”[4] sorretto con quattro aste dagli esponenti della nobilissima famiglia D’Acugna, era giunto nei pressi della chiesa parrocchiale dedicata a san Nicola da Myra.

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Prima pagina della Visita pastorale di mons. Antonio Sanfelice (1719) (ph A. Palumbo)

 

Dopo le rituali cerimonie, come di consueto, aveva avuto quindi inizio una sorta di ricognizione dell’edificio sacro. Nel caso della parrocchia aradeina, nonostante le non poche lodi espresse, il presule aveva ordinato l’esecuzione di manutenzioni soprattutto nel tetto e nelle finestre (ovviamente a spese dell’Università che deteneva il patronato sul tempio).

 Visitati dunque anche i sepolcri dei defunti, il coro, l’organo e la torre campanaria, mons. Antonio Sanfelice aveva annotato, quasi a titolo di curiosità storica, che la chiesa di Aradeo in passato era stata retta da clero di rito greco[5]. Subito dopo questo inciso, aveva ripreso la descrizione del tempio a partire dalle porte, la maggiore delle quali era rivolta ad occidente, mentre la minore a sud. Al di sopra di quest’ultima, il porporato aveva notato una vetustissima immagine di S. Nicola di Myra Vescovo, avente nella mano sinistra un libro contenente caratteri greci elegantemente scolpiti nella pietra.

Retro della chiesa di San Nicola ad Aradeo nei giorni della demolizione, (in alto a sinistra è possibile notare un’immagine del santo che sembra reggere con la mano sinistra un libro, così come descritto nella visita pastorale del Sanfelice) (tratto da www.arataion.it)

 

Sempre sulla soglia della medesima porta, aveva infine letto un’ulteriore iscrizione scolpita.

Ecco come appaiono ancora oggi nelle carte dell’Archivio Diocesano di Nardò le trascrizioni di queste epigrafi:

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Trascrizione delle epigrafi presenti sulla porta minore della chiesa parrocchiale di Aradeo (1719) (ph A. Palumbo)

 

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Decreta, Trascrizione delle epigrafi presenti sulla porta minore della chiesa parrocchiale di Aradeo (1719) (ph A. Palumbo) (nota 6)

 

Cosa indicavano tali residue testimonianze del passato greco della comunità aradeina? Né la visita pastorale del Sanfelice, né studiosi di epoche successive (almeno in base alle mie conoscenze) hanno mai proposto una traduzione del testo. Non avendo io una formazione utile a cimentarmi nell’impresa, ho quindi contattato docenti ed esperti che, in non pochi casi, hanno sottolineato le difficoltà di traduzione a causa delle evidenti lacune e del particolare greco utilizzato. Grazie ai consigli di alcuni di essi ed una sorta di passaparola creatosi, sono infine giunto a contattare don Michele Giannone il quale è riuscito a svelare l’arcano di un’iscrizione che, fino a pochi giorni fa, sembrava un rompicapo intraducibile.

Dopo attente ricerche, Giannone, professore presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce, ha individuato in un’antica preghiera al santo di Myra l’origine dell’epigrafe. Il testo, pur con errori di trascrizione che ne hanno reso oltremodo complessa la decifrazione, è tratto infatti dal grande vespro di san Nicola della liturgia ortodossa.

La forma corretta dell’iscrizione scolpita sul libro (ΚΑΝΩΝΑ ΤΗИΕΩϹ Κ ДΚO ΠIΟAO), è dunque ΚΑΝΟΝΑ ΠΙϹΤΕΩϹ ΚΑΙ ΕΙΚΟΝΑ ΠΡΑΟΤΗΤΟϹ[7], da tradurre con “Regola di fede e immagine di mitezza”, ossia un appellativo attribuito a san Nicola presente nelle più antiche preghiere ortodosse. Come evidenziato da Giannone, nell’epigrafe si nota la presenza di Ω al posto di Ο nella parola ΚΑΝΟΝΑ; la confusione di ΠΙ con ΤΗ e di ϹΤ con una lettera inesistente nel greco nella parola ΠΙϹΤΕΩϹ; la congiunzione ΚΑΙ abbreviata con Κ; la trascrizione di ΕΙ con un segno inesistente nel greco nella parola ΕΙΚΟΝΑ di cui manca il ΝΑ finale; la parola ΠΡΑΟΤΗΤΟϹ indicata attraverso Π iniziale e una serie confusa di vocali.

Passando alla frase riportata sulla soglia (NI…ΟΙϹ ΠΑΡΟΙΚΗϹΑϹ ΑΙϹΘΗΤΩ /… ΟΝ ΑΛΗΘΩϹ ΑΝΕΑΕΙΧΘΗϹ Μ…) la sua forma corretta è ΜΥΡΟΙϹ ΠΑΡΟΙΚΗϹΑϹ ΑΙϹΘΗΤΩϹ ΜΥΡΟΝ ΑΛΗΘΩϹ ΑΝΕΔΕΙΧΘΗϹ ΜΥΡΩΙ ΧΡΙϹΘΕΙϹ ΝΟΗΤΩΙ ΑΓΙΕ ΝΙΚΟΛΑΕ[8], da tradurre con “Dimorando sensibilmente a Mira, davvero apparisti olio profumato, unto con profumato olio spirituale, o san Nicola”. È interessante notare, come sottolineato sempre da Giannone, il gioco di parole presente nell’originale greco tra Mira, la città di cui san Nicola fu vescovo, e il termine myron che ne indica la virtù e la santità.

Nelle precedenti visite pastorali non si ha traccia di questa epigrafe, che pur rimanda, per contenuti e lessico, ad un periodo storico in cui in Aradeo vigeva il rito greco (e quindi sicuramente antecedente al XVI-XVII secolo[9]).

Dopo la prima visita di mons. Ludovico De Pennis, datata 1452, così ricca di nomi, toponimi, libri e oggetti liturgici tipici di una comunità di rito greco[10], le tracce di questo mondo erano andate gradualmente a scomparire, salvo poi riemergere inaspettatamente, quasi come «notarella» intellettuale, in una nuova relazione episcopale di inizio Settecento.

Cosa concludere da tutto ciò? In assenza (ad oggi) di notizie certe per una sua datazione, l’epigrafe si pone da un lato come un ulteriore piccolo tassello in una ricerca storica particolarmente complessa a causa della povertà delle fonti e della scomparsa di quasi tutte le tracce materiali del passato; dall’altro conferma l’antico legame che unisce san Nicola ad Aradeo pur nel mutarsi dei tempi, dei riti, delle liturgie e delle stesse sedi destinate al suo culto.

 

[1] P. Hoffmann, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di A. De Bernart, III, v. 3, Congedo, Galatina 1989, pp. 65-88; G. Pisanò, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, ivi, pp. 17 – 64.

[2] P. Hoffmann, Aspetti della cultura bizantina, cit., p. 65.

[3] Alla medesima epigrafe si fa riferimento già nella nota 36 del saggio Gli studi storici in Terra d’Otranto comparso nel 1880 su «Archivio Storico Italiano», deprecandone la scomparsa assieme alle altre testimonianze del passato greco del paesino: “Nella Chiesa Madre di Aradeo era (1718) un S. Nicola, con un libro in mano, avente l’iscrizione Κανω I vατηνῆ I ως I x…xοιοαο. E sur una porta di essa era il seguente frammento scolpito sulla pietra: Nι…οις Παροιxηςασαις τη τω ……οναληθως ανεαεχοης μ… Vedi Acta S. Visitat. Nerit. Dioec. , cit. – Esiste tuttavia la Cappella dello Spirito Santo con affreschi greci , tra i quali era la Trinità: nel 1850 scomparve tutto che vi era di antico di costruzione e di pitture sotto le solite restaurazioni (!). Vi è la Cappella di S. Nicola di Mira (Odepor.,cit.)” (Gli studi storici in Terra d’Otranto, in «Archivio Storico Italiano», tomo VI, quarta serie, 1880, p. 114). Ringrazio per questa segnalazione Sabrina Landriscina.

[4] “Sotto un pallio di seta di colore rosso” (Archivio Diocesano Nardò (=ADN), Visite pastorali mons. Sanfelice, c. 111r).

[5] “Olim à Greci Ritus Presbiteris recta fuit” (Ibidem, c. 113r)

[6] Ringrazio don Giuliano Santantonio per la possibilità accordata.

[7] La traslitterazione secondo la pronuncia erasmiana o restituta (quella in uso nei licei) è “kanona pisteōs kai eikona praotētos”; la traslitterazione secondo la pronuncia bizantina (ancora usata nella liturgia ortodossa) è “kanona pistis ke ikona praotitos”

[8] La traslitterazione secondo la pronuncia erasmiana è: “myrois paroikēsas aisthētōs myron alēthōs anedeichthēs myrō[i] christheis noētō[i] agie nikolae”; la traslitterazione secondo quella bizantina invece è “miris parikisas esthitōs miron alithōs anedichthis mirō[i] christhis noitō[i] agie nikolae

[9] Sul tema si veda il primo studio organico sull’argomento scritto da Mario Cassoni negli anni Trenta del Novecento e pubblicato a puntate su «Rinascenza Salentina» col titolo Il tramonto del rito greco in Terra d’Otranto (disponibile on line su www.emerotecadigitalesalentina.it).

[10] B. Vetere, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina 1998.

Aradeo, ieri e oggi

di Alessio Palumbo

 

Colgo con piacere l’invito del prof. Armando Polito, per partecipare “attivamente” alla sua bella iniziativa.

Il mio contributo riguarda un piccolo paese, Aradeo, che non ha (né ha mai avuto) le bellezze artistiche ed architettoniche di città come Lecce o Nardò, ma che, per di più, quel poco che aveva del proprio passato lo ha quasi completamente distrutto una cinquantina di anni fa. In questa furia modernizzatrice sono sparite chiese, palazzi, complessi a corte ed edifici vari.

A parziale consolazione di chi ha meno di sessant’anni, alcuni aradeini si sono presi la briga di recuperare le testimonianze fotografiche del passato cittadino, conservandole nel sito www.arataion.it.

Solo per darvi un’idea del cambiamento subito dal centro storico di Aradeo, vi propongo due foto: la prima è tratta da http://www.arataion.it/nel-paese/le-piazze/124-la-vecchia-piazza-del-municipio e rappresenta l’antica piazza, con alle spalle la chiesa seicentesca. Una chiesa che ha rappresentato per secoli il cuore religioso e laico del paese visto che, fino ad inizio settecento, fu utilizzata anche come “parlamento cittadino” prima che gli aradeini costruissero un classico sedile fuori dalle mura (anche questo scomparso) per sfuggire al controllo dei monaci Olivetani, loro feudatari.

aradeo

Oggi di tutto ciò non resta alcuna traccia: un cuore verde (secondo l’interpretazione data dall’allora amministrazione comunale DC) ha sostituito gli antichi edifici, come si nota dall’immagine successiva tratta da google

aradeo1

Tra la prima e la seconda foto, due anni di distruzioni sconsiderate ed ingiustificate.

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da http://www.arataion.it/nel-paese/le-chiese/177-la-demolizione-dell-antica-chiesa-madre

 

Aradeo. Hanno rubato la croce di San Nicola!

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di Alessio Palumbo

Il 6 dicembre 1881, la giornata non si presenta come delle migliori: il cielo è grigio, piove a tratti. Per gli aradeini è tuttavia un giorno speciale, ricorrendo la festa del Patrono, S. Nicola. Molti residenti e alcuni fedeli dei paesi circostanti prendono parte ai tradizionali festeggiamenti, a cominciare dalle funzioni sacre previste per il mattino e celebrate da don Francesco Stifani, trentenne sacerdote del posto. Per le strade c’è un via vai di gente che si ferma nelle taverne a bere un bicchiere di vino, a sorseggiare un caffè e a giocare a carte.

Nel pomeriggio, verso le quattro, le funzioni riprendono con la processione che percorre le strade del paese. Al rientro, intorno alle sei, don Francesco, come da tradizione, spoglia la statua del santo dagli addobbi e paramenti per consegnarli al capo deputato della festa, il signor Giovanni Blago. Quest’ultimo, intascati i preziosi ed afferrati a due mani il pastorale e la mitra, esce dalla chiesa attraversando la folla che ancora staziona nel tempio a causa della pioggia.

Giunto a casa depone mitra e pastorale su una panca, estrae l’anello dal gilet e, infilando la mano nella tasca della giacca, si accorge di non avere più la croce d’oro tempestata di pietre. Realizza immediatamente di essere stato derubato. In particolar modo ricorda che, subito dopo la svestizione della statua, due forestieri gli si sono affiancati e gli hanno chiesto se il pastorale fosse d’argento. Giunto poi vicino al portone, dovendosi fermare perché una certa Filomena Scalone si era chinata per raccogliere il berretto del figlio, ha sentito una botta all’altezza della tasca sinistra, ma non vi ha dato importanza.

Blago ritorna repentinamente in chiesa, accompagnato dal contadino Nicola Bomba e da Mariano Muscato, membro del comitato festa. Qui trova altri due compagni del comitato: il giovane possidente Felice Anghelè e il suo amico Angelo Cagia. I due hanno appena finito di raccogliere la cera delle tante candele usate nel corso della funzione e stanno per andar via. Messi a conoscenza del fatto, Anghelè e Cagia perlustrano la chiesa, nel caso la croce fosse caduta nella confusione. Non trovandola decidono, assieme a Muscato e Bomba, di mettersi sulle tracce degli sconosciuti.

Nel frattempo Blago denuncia il furto al Brigadiere dei Reali Carabinieri, Fabrizio Palazzoli, che per servizio si trova nei paraggi della chiesa. Anche gli uomini dell’Arma iniziano così a battere le strade del paese e le vie che portano ai comuni limitrofi. A sera, Anghelè e gli altri tre, percorsa la stramurale, imboccano la via per Noha e, a circa un chilometro dal paese, sentono delle voci discorrere fittamente. Fattisi incontro agli sconosciuti, questi si danno alla fuga calandosi in un canale e cercando di svignarsela per le campagne. Pur essendo una notte di luna piena, il cielo è completamente coperto e quindi la ricerca si svolge al buio. Il gruppo di inseguitori riesce tuttavia a scovare due individui che cercano di nascondersi, uno nel cavo di un albero d’olivo, l’altro tra le radici di un fico. Presi di forza, li portano in paese, consegnandoli al brigadiere. Intanto la voce del furto è corsa per le strade di Aradeo, la gente si accalca sulla piazza del Municipio. Tra la folla, una donna riconosce i fermati. Si chiama Domenica Giuri, ha 28 anni e gestisce una bettola. Al mattino i due giovani, che al brigadiere hanno detto essere ‘del basso di Bari’, sono andati a desinare da lei in compagnia di un terzo. Dopo aver ‘mangiato oltre il consueto’ i tre sono andati via senza pagare. Il brigadiere rivolta le tasche del meno giovane dei fermati, un tipo con uno sfregio sulla guancia destra, e trovate tre lire le restituisce alla Giuri. Intascati i soldi, la locandiera fa presente che i baresi ed il terzo forestiero erano stati condotti nella sua taverna da un tal Luigi Pedone, venditore ambulante di dolci. Palazzoli trattiene i due sospettati nella rivendita di caffè di Blago e, con lo stesso capo deputato, va in cerca di Pedone, trovandolo nei pressi della sua bancarella di confetture. Interrogato, Pedone dice di aver conosciuto i tre venendo ad Aradeo per la festa, di aver condiviso con loro la stalla di un certo De Tuglie e la bettola della Giuri, ma di non avere nessuna relazione con loro. Il brigadiere gli chiede di riconoscere i fermati e Pedone, recatosi al caffè di Blago, conferma la loro identità, facendo anche il nome del terzo ricercato: un certo Gaetano Spagnolo, tipografo di Lecce. Il sottoufficiale lascia andare il commerciante e porta in caserma i presunti colpevoli, per perquisirli ed interrogarli: sono Francesco Puglio e Gennaro Giacomantonio, originari di Terlizzi. Addosso non hanno tuttavia la croce.

Di fronte alle domande di Palazzoli, i due negano di essere mai stati in chiesa, non fanno il nome di Spagnolo ed iniziano a contraddirsi. Il brigadiere non può che convalidare l’arresto per avviare le indagini. Intanto i carabinieri ed alcuni aradeini sono ritornati nelle campagne sulla via di Noha per cercare con maggiore cura la croce d’oro: è tutto inutile, il gioiello è sparito.

L’indomani, 7 dicembre, i due arrestati sono portati a Galatone per essere interrogati in pretura.

Puglio è un ebanista di 23 anni, originario di Terlizzi ma da fine novembre dimorante a Lecce, dove si è trasferito in cerca di lavoro. Il giorno 5 dicembre, passando per Galatina, ha incontrato Gaetano Spagnolo e Gennaro Giacomantonio che chiacchieravano in piazza e con loro ha deciso di andare ad Aradeo per divertirsi in occasione della festa del santo patrono. Giunti in paese, hanno trovato da dormire in una locanda e il mattino seguente, dopo aver assistito alle sacre funzioni, sono andati girovagando. A mezzogiorno hanno quindi mangiato nella taverna della Giuri e poi hanno ripreso il giro fino al rientro della processione in chiesa. Qui hanno assistito alle ultime funzioni e usciti dall’edificio sono stati avvicinati dallo Spagnolo, che si sarebbe rivolto a loro dicendo: ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’.

La versione di Giacomantonio, anch’egli ebanista di cinque anni più giovane, differisce in parte da quella del compaesano. Il ragazzo dichiara di aver conosciuto Puglio e Spagnolo in una taverna di Galatina e non in piazza, inoltre non ricorda la frase pronunciata dal tipografo all’uscita della chiesa, dopo la processione. Comunque, entrambi si dichiarano innocenti, cercando di stornare i sospetti sul terzo compagno. Interrogati sul perché della fuga nelle campagne, la motivano con la paura di qualche sinistro da parte di sconosciuti del posto.

Nonostante i tentativi di discolparsi, le testimonianze contro di loro sono tuttavia incontrovertibili. In tanti li hanno visti affiancarsi al capo deputato della festa ed inoltre, il 6 dicembre, ad alcuni non è sfuggito il loro fare sospetto. Pantaleone De Tuglie, ad esempio, novantenne proprietario della stalla dove hanno alloggiato, dichiara di averli visti la mattina della festa nel bar Santoro: Giacomantonio faceva finta di giocare a carte con un terzo, probabilmente Spagnolo, mentre Puglio si guardava attorno lisciandosi i baffi. Per Giovanni Blago anche i due leccesi sono complici: mentre infatti i giovani falegnami di Terlizzi lo affiancavano, il commerciante Luigi Pedone ed il tipografo Gaetano Spagnolo complottavano in disparte. Per il capo deputato la croce, appena rubata, ‘passò tosto di mano in mano, e i primi a fuggire furono lo Spagnolo ed il Pedone‘.

Blago vuole assolutamente trovare un colpevole, per questo probabilmente accusa tutti e quattro. È lui la parte lesa di questa faccenda in quanto, come capo deputato della festa, è obbligato a rispondere del valore della croce, stimata per 229,50 lire [circa 850 euro dei nostri giorni, n.d.A.].

Alla luce delle dichiarazioni di testimoni e parte lesa, per il pretore non ci sono dubbi. Del resto gli incartamenti pervenuti da Terlizzi parlano chiaro: nonostante la giovane età, Puglio e Giacomantonio sono già considerati di ‘pessima condotta’ e sono stati più volte in galera per furto. Puglio inoltre è ammonito come ozioso, vagabondo e presunto ladro e quindi non si sarebbe potuto allontanare da Terlizzi senza il permesso delle autorità. Per i due si aprono le porte del carcere, mentre restano da chiarire le posizioni di Pedone e Spagnolo. Per la Camera di Consiglio gli elementi raccolti non sono infatti sufficienti per definire la dinamica dei fatti: viene quindi dato incarico al Giudice Istruttore di redigere un nuovo rapporto e soprattutto di prendere in considerazione le posizioni di Pedone e Spagnolo. I due vengono convocati per il 3 di gennaio presso il Tribunale di Lecce. Dalle deposizioni del commerciante e del tipografo e da accurate indagini, il giudice deduce chePedone è un onesto lavoratore, che non ha nulla a che vedere con gli altri tre. Ha avuto solo la sfortuna di imbattersi in loro recandosi ad Aradeo. Spagnolo, invece, è sicuramente coinvolto nella sparizione della croce. Anche lui, nonostante abbia appena 25 anni, ha numerosi precedenti penali per furto: la prima condanna risale al 1869, quando cioè aveva appena 13 anni, mentre gli ultimi quaranta giorni di carcere li ha scontati a giugno. La sua complicità con i due arrestati, il sue essersi dato alla fuga, come da lui stesso ammesso, sentendo arrivare gli aradeini sulla via per Noha, non depongono in suo favore. Per il giudice non ci sono dubbi e così, dopo averli rinviati a giudizio, il 3 marzo 1882 il Tribunale di Lecce condanna Gennaro Giacomantonio ad un anno di carcere, Gaetano Spagnolo a tre e Francesco Puglio a tre anni e quattro mesi(aggiungendosi la violazione dell’ammonizione). Spagnolo e Puglio ricorrono in appello.

La mattina del 6 marzo, Nicola Carallo, piccolo proprietario cinquantaseienne, si reca nel suo fondo, denominato Sciaccarea, per lavorare. Mentre sta zappando vicino ad un grosso ulivo, qualcosa si impiglia nella zappa. All’inizio pensa sia un serpente, ma tirando vede che si tratta di un laccio con appesa una croce. Immediatamente chiama il suo giovane amico Francesco Manco, che sta badando ai lavori di altri contadini in un fondo limitrofo. Manco identifica immediatamente la croce: è quella di San Nicola.

I due vanno di filato dal sindaco, Francesco Resta, per consegnare l’oggetto. Anche il primo cittadino la riconosce: ‘è d’oro, ha sette pietre, delle quali una grande e due piccole, tutte verdi nel lato maggiore, tre verdi grandi negli altri tre lati, ed un’altra pure grande, di color mele, nel centro. Questa croce è unita ad un laccio d’oro della lunghezza di un metro e centimetri sessanta circa, al quale laccio va unito un fiocco pure d’oro, e nel laccio stesso v’è un passante d’oro anche’.

Il sindaco prende quindi in custodia il monile e avvisa immediatamente il pretore, cosa che fanno anche i carabinieri con un secondo verbale. La notizia intanto passa di bocca in bocca; alcuni vanno a vedere il luogo del ritrovamento: l’albero sotto il quale è stato disseppellito il gioiello del santo è quello dove, la notte del sei dicembre, Anghelè ed i suoi avevano catturato Giacomantonio. Il caso si potrebbe dunque dire risolto, almeno per gli aradeini. Tuttavia un altro giallo si intreccia alla sparizione della croce.

Come detto, tre giorni prima del fortuito ritrovamento, Puglio e Spagnolo sono ricorsi in appello. Puglio lo ha fatto senza addurre novità alla sua posizione, sperando più che altro in uno sconto di pena. Spagnolo invece, per mezzo dell’avvocato Nicola Forleo Casalini di Lecce, ribadisce la propria estraneità al furto. A suo parere la corte ha pregiudizi nei suoi confronti a causa dei precedenti penali, ma con la sparizione della croce lui non c’entra. Ed infatti ha dei testimoni che possono dimostrare come, sin dalle tre del pomeriggio del giorno della festa (quindi molto prima dello scippo) lui abbia cercato un mezzo di trasporto per ritornare a Lecce; lo stesso Puglio, inoltre, che inizialmente gli ha attribuito la frase ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’, in un secondo interrogatorio ha ritrattato; anche il frettoloso allontanamento da Aradeo era legato ad un’istintiva paura e non a correità; infine, se fosse stato veramente coinvolto nel furto, avrebbe potuto approfittare del suo essere a piede libero per recuperare la croce, cosa che invece non ha fatto, visto che il monile è stato ritrovato. Le argomentazioni di Spagnolo sono rigettate dal Corte d’appello di Trani: la condanna è confermata per lui e per Puglio. Anche la richiesta di libertà provvisoria avanzata dal tipografo viene respinta. Non gli resta che ricorrere in Cassazione. La pronuncia del tribunale di Napoli arriva nel luglio e ribadisce la condanna a tre anni stabilita nei precedenti gradi di giudizio. La sentenza, tuttavia, non può essere notificata al tipografo ‘attesoché il ricorrente non è in carcere né legalmente in istato di libertà provvisoria’ .

Che fine ha fatto dunque Gaetano Spagnolo?

Aradeo. La truffa degli Olivetani

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di Alessio Palumbo

Aradeo è un paese pressoché privo di centro storico. Degli antichi monumenti, delle sedi dell’amministrazione civile e giudiziaria, delle vecchie dimore nobiliari e soprattutto delle numerose chiese[1] quasi nulla è rimasto, grazie soprattutto alla scellerata politica edilizia dell’ultimo secolo. Oltre a questa spiegazione legata alla storia contemporanea del paese, è necessario prenderne in considerazione un’altra, derivante dalla storia moderna. La Terra di Aradeo da fine Quattrocento fino al 1806 fu feudo di un ordine monastico (gli Olivetani) che per secoli la governò da lontano, ovvero da Galatina, sfruttandola come fosse una piccola colonia. Tale ordine non dimostrò alcun interesse ad arricchire il feudo con edifici ed opere d’arte di particolare rilievo, fatta eccezione, come vedremo, per un breve periodo intorno alla metà del Seicento, ovvero il periodo del “governatorato”.

Ad oggi, dunque, tra le testimonianze artistiche ed architettoniche più rilevanti del passato cittadino si possono segnalare la colonna dedicata a San Giovanni Battista ed il limitrofo palazzo baronale (attuale palazzo Grassi). Per ironia della sorte i simboli di uno dei momenti più bui della storia cittadina, ossia l’età della totale sottomissione di Aradeo allo strapotere feudale degli Olivetani. Una sottomissione che ebbe il suo momento di non ritorno in un determinato anno: il 1533, l’anno della “truffa”. Ma procediamo con ordine.

In età bizantina (ma anche normanna e sveva) Aradeo fu un chorion (ovvero un centro urbano con proprie mura) culturalmente attivo e vitale. Afferma Hoffmann: “Aradeo fu, a cavallo dei secoli XIII e XIV, un punto di riferimento per la coscienza nazionale dei Greci in Terra d’Otranto, sotto il duplice aspetto di fedeltà al culto bizantino e alla lingua greca, e di ritorno alla letteratura greca classica e profana”[2].

Come molte altre terre fu poi oggetto di spartizioni, cessioni ed infeudamenti. In particolare, ad inizio Quattrocento, Raimondello Orsini del Balzo donò il feudo di Aradeo al monastero ed ospedale di Santa Caterina in Galatina, allora retto dai francescani. Nel 1494 questi ultimi furono estromessi ed il controllo del monastero passò agli Olivetani. Sotto i nuovi feudatari iniziò per Aradeo un lento ma inesorabile declino.

Fino ad allora il “casale” di Aradeo aveva goduto di una notevole autonomia nei confronti dei propri signori. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Università[3] (concretizzatasi oltre che nella libertà di elezione di sindaci, uditori ed altri amministratori, soprattutto nell’operato di un vero e proprio parlamento cittadino), l’esenzione dal pagamento delle decime alla camera baronale (fatta eccezione per quelle relative al vino, grano ed orzo) ed una serie di altre franchigie avevano garantito lo sviluppo di una marcata coscienza civica e di un forte spirito libertario. Con gli Olivetani tutto ciò venne messo in discussione.

I monaci “servendosi dei loro ministri, si proposero di controllare l’Università, volendo fare riunire le assemblee non più nella chiesa maggiore del casale, ma nella «casa del ditto Monasterio» cioè nella dimora che i monaci possedeva ad Aradeo”[4]. Gli aradeini si opposero fermamente, ma siamo solo all’inizio della lenta opera di erosione delle autonomie cittadine posta in atto da quello che alcuni storici hanno definito lo “Staterello di Santa Caterina”. Ben presto, i monaci ottennero il controllo oltre che della giurisdizione civile (a loro spettante con l’infeudazione) anche di quella criminale (jus gladii) acquistandola nel 1530 dal duca di Galatina. I magistrati, prima dimoranti in Aradeo, ora iniziarono a risiedere nella stessa Galatina e anche la corte e le carceri, ben presto,  furono trasferite in questa città[5]. A queste ragioni di contrasto si aggiunsero infine dei motivi economici e fiscali: i monaci cercarono di abolire la libertà di pascolo fuori dalle mura, tentarono di imporre il pagamento dell’erbatico, cominciarono ad esigere dazi sulle strade e altri balzelli, richiesero prestazioni lavorative gratuite nelle proprie terre, ecc… Gli aradeini si opposero con decisione, ma la situazione degenerò nel 1533, annus horribilis per la storia di Aradeo.

Per capire cosa successe, dobbiamo fare un passo indietro di cinque anni. Nel 1528 un tentativo di invasione francese squassa il regno di Napoli: è la cosiddetta guerra di Lautrec. Nel corso delle operazioni belliche ad Aradeo vengono alloggiate delle truppe albanesi a spese del casale. Per far fronte a tali spese la comunità si indebita per 2.217,3 ducati con il notaio gallipolino Gabriele Nanni e per 228 ducati con Giovanni Staivario della Costa: debiti cui l’Università aradeina non può far fronte. È qui che scatta la “truffa” degli Olivetani. Nel 1533, di fronte ad un notaio leccese, i monaci si assumono l’onere del debito contratto dagli aradeini, ottenendo in cambio “la decima delle Olive, Grano, Orzo, Vene, Fructi, invernini, ed estivi, Fagioli, Dolega, Ceci, Cipolla, Agli, Zafferana, Olii, Vini, Musti, Lupini, Fichi, ed erbe, Borracana, ed altro”[6].

Con questo atto notarile gli aradeini di fatto firmarono la rinuncia alla secolare autonomia economica e fiscale nei confronti dei propri baroni. Un clamoroso gesto autolesionistico, insomma. Quando gli aradeini si accorsero dell’errore commesso era ormai troppo tardi. Dopo vani tentativi di recuperare alcune decime ed il controllo di trappeti e masserie, nel 1555, spinti dalla disperazione, decisero di intentare causa agli Olivetani.

Secondo gli storici la risoluzione dell’Università di adire alle vie legali contro i propri baroni è il sintomo di una situazione oramai insostenibile: “gli Aradeini accettarono dunque la lotta per salvaguardare il loro lavoro, per assicurarsi la libertà di commercio, per garantirsi il pieno possesso della terra e dei suoi frutti e per premunirsi dai danni provenienti dal sistema feudale. Essi inoltre agirono, perché la propria università liberamente continuasse a nominare i magistrati, perché la comunità non perdesse il possesso del demanio cittadino e perché non fosse privata di quelle franchigie economiche, che la consuetudine aveva garantite”[7]. L’avvocato nominato dall’Università giustificò la cessione delle decime come semplice donazione (e non vendita come sostenevano i monaci), causata delle incresciose conseguenze della guerra di Lautrec e, soprattutto, dall’opera di estorsione violenta posta in essere dagli abati. Gli Aradeini, quindi, “tentarono di invalidare il medesimo contratto, innanzitutto perché non avrebbe avuto le «solennità» richieste, in quanto non era stato stipulato nell’abitazione che l’ospedale galatinese possedeva nel casale, e poi perché gli olivetani, per estorcere il consenso ai contraendi, avrebbero pigliato «li homini et citatini de ditta terra et li amminaziavano che havessero fatto lo detto contenso Contracto de decime et li carceravano»”[8].

Nel processo che si svolse in territorio neutro, ossia a Parabita, i monaci ottennero che a testimoniare fossero uomini privi di proprietà immobiliari nella terra d’Aradeo, ciò al fine di evitare possibili conflitti di interesse. Nondimeno i testimoni provenienti soprattutto da Seclì, Soleto e Parabita accusarono i monaci di aver danneggiato in vario modo Aradeo, attentando alle sue tradizionali autonomie, minando la stessa economia, danneggiando la proprietà privata[9], maltrattando i cittadini, ecc. Nonostante la forza di tali testimonianze il processo si arenò, tant’è che nel 1753 la causa risultava ancora pendente presso il Sacro Regio Consiglio.

Gli Olivetani poterono quindi assoggettare completamente Aradeo. Essi misero “in atto il loro disegno: quello di ridurre le libertà amministrative e giudiziarie di Aradeo, inasprendo il sistema fiscale e attentando al piccolo Parlamento cittadino”[10]. Gli aradeini cercano di mantenere la propria autonomia politica edificando un sedile (sede del parlamento) fuori dalle mura, ma fu un successo effimero. Gli Olivetani rafforzarono il proprio controllo economico (acquistando tutti i mulini, trappeti e la gran parte della masserie[11]) e amministrativo. A tal fine, dal 1636, si avvalsero di una nuova figura: il governatore. A quest’ultimo il monastero di S.Caterina affittava, con contratto probabilmente biennale, i pieni poteri sul feudo.

Fu proprio il primo di questi governatori, padre Giovanni da Napoli, ad avviare un’eccezionale opera di rifeudalizzazione, che ebbe anche una sua veste artistica ed architettonica. La colonna di San Giovanni ed il palazzo baronale sono per l’appunto i simboli del baronaggio rampante degli Olivetani ad Aradeo. Giovanni da Napoli, infatti, “acquistò diverse abitazioni tra cui alcune dirute, che utilizzò come suolo edificatorio. Nel 1655 innalzò dalle fondamenta la nuova villa baronale, sede del governatorato olivetano, con la sala di rappresentanza, camere, magazzini, stalla, cucina, due cellari, uccelliere e una cappela. Nei pressi del medesimo stabile comprò anche diversi giardini, vigneti e altri terreni, che cinse con un muro di protezione, formando un unico grande giardino […] inoltre di fronte alla nuova sede baronale entrò in possesso di altri caseggiati, che poi fece abbattere per aprire una piazza, «et in mezzo ci hà eretto la statua di Santo Giovanne, et à torno, à fatto fare cornici di pietra di lecciso, et comprate tutte le case che s’includono in detta piazza»”[12]. Un grandioso piano di rinnovamento edilizio che portò anche all’ingrandimento del “vecchio castello” e all’innalzamento della chiesa dello Spirito Santo: un’eccezionale opera edificatoria volta a sancire il trionfo del baronaggio ecclesiastico sulla piccola e oramai completamente assoggettata università aradeina[13].

 


[1]Ad inizio cinquecento oltre alla chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola, erano presenti edifici di culto dedicati a S. Antonio (due chiese), S. Stefano, S. Giorgio, S. Angelo, S. Maria dell’«Annunciata», S. Maria e S. Salvatore. Altre chiese e cappelle si aggiunsero nei secoli a seguire.

[2] P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 65

[3] Per Università, in età medievale e moderna, si intende l’attuale “comune”

[4] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, vol. II, Galatina, Congedo, 1980, p.74

[5] Una testimonianza aradeina del 1555 riporta “comu li ditti Abate cellari et monaci voleno che il capitanio et Mastro de atti de ditta terra facciano residentia in Santo Pietro in Galatina et voleno che per qual si voglia causa tanto civile come criminale in prima instantia li homini di detta terra vadano adligati in Santo Pietro dove voleno tenere li carcerati” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f.169 r. in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 77)

[6] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 80

[7] Ivi, p. 84. La straordinarietà dell’atto del 1555 emerge anche dal modo in cui le fonti descrivono gli abitanti di Aradeo, mansueti e obbedienti ai propri signori: “li citatini et homini della ditta terra di Aradeo sonno stati et sono persone rustice, bonate, e da bene; persone che vanno alla bona et poco prattichi et experti de cautele et scritture persone obedientissime alli superiori loro che mai li contradicono a cosa alcuna” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f. 175r, in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 83).

[8] Ivi, p. 81

[9] Alcuni testimoni ad esempio accusarono i monaci di aver fatto pascolare le proprie mandrie sui terreni posseduti dagli aradeini senza risarcire i danni procurati dagli animali.

[10] G. PISANÒ, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia,  in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 46

[11] Nel 1556 edificano la Corte, probabilmente una vecchia torre bizantina, riconvertita in azienda agricola

[12] Ivi, p. 111

[13] Il termine “piccola” non è casuale, visto che nel corso del seicento la popolazione cittadina diminuì considerevolmente passando dai 105 fuochi di fine Cinquecento agli 82 del 1648 e 80 del 1669. Una tendenza di certo in linea con il generale decremento demografico del sud Italia in questi anni, ma che spicca se paragonata ai flussi demografici di altri paesi limitrofi (le cifre relative ai fuochi di Seclì nelle stesse date sono 106, 132, 145). Ciascun fuoco contava circa 4-5 individui. Dati tratti da M. A. VISCEGLIA, Territorio Feudo e Potere locale:Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1998)

A proposito di soprannomi

il palazzo ducale di Seclì
il palazzo ducale di Seclì

di Alessio Palumbo

 

Leggendo, in calce alla poesia “L’innamorato imbranato”, lo scambio di commenti tra Armando Polito e Alfredo Romano sui nomignoli legati alla provenienza cittadina, mi è tornato alla mente un episodio riguardante il mio paese d’origine: Aradeo.

Da ragazzino irrequieto ed eccessivamente vivace qual ero, non di rado mi sentivo appioppare l’appellativo di “taratiaulu”. Il fatto che fossero più persone ad utilizzare quel termine mi incuriosì e, dopo un po’ di tempo, riuscii a risalire al motivo del soprannome, chiaramente frutto dell’unione tra la parola “taraddotu” (ossia aradeino) e “tiaulu” (diavolo). Tutto ha origine dalla inveterata rivalità tra aradeini, seclioti e nevianesi.

Vuoi la vicinanza reciproca, vuoi gli stretti vincoli parentali, vuoi le dimensioni demografiche non eccezionali, sta di fatto che Aradeo, Neviano e Seclì, da secoli, sono strettamente legati tra di loro. Tempo fa, un pescatore gallipolino in vena di canzonare, venendo a conoscere le mie origini aradeine mi chiese:

“Come ve la passate negli Stati Uniti?”

“Gli Stati Uniti?” chiesi io

“Si! Aradeo, Neviano e Seclì…gli Stati Uniti del Salento”

Insomma, tre paesi federati, con una cantina sociale comune, un frantoio comune, iniziative comuni ma, soprattutto, una stazione ferroviaria in comune. Un piccolo parallelepipedo giallo, come tanti altri in Terra d’Otranto.

Come ci insegna la storia e l’esperienza comune, le convivenze non sono mai facili: a dimostrazione di ciò, si potrebbero citare le vecchie poesie di scherno reciproco tra i paesi[1]; oppure vi sarebbe bastato assistere, qualche anno fa, ai derby Aradeo-Seclì ( “li ciucci contru li cavaddhri” diceva qualcuno, ma non sto qui a specificare quale delle due squadre fosse composta da asini) per capire come la federazione non avesse per nulla sminuito le rivalità campanilistiche. Ma torniamo al casus belli, la piccola stazione: proprio questo edificio è stato motivo di accese rivalità tra i tre paesi o perlomeno così tramandano alcuni.

Immediatamente dopo la sua costruzione, sorse un problema di enorme gravità: in quale ordine piazzare i nomi dei paesi? Ovviamente nessuno avrebbe accettato di venire dopo gli altri. Seclì pretendeva il primato in quanto la stazione ricadeva nel proprio feudo. Neviano portava a proprio favore la maggiore vicinanza del centro abitato. Aradeo, infine, cercava di far valere il maggior peso demografico ed il fatto che il terreno dove era sorta la stazione fosse stato espropriato ad un aradeino. Dopo mesi di discussioni, la decisione finale fu: Seclì, Neviano e Aradeo. Un tremendo smacco per gli aradeini.

Ma la faccenda non finì qui e, proprio dagli episodi che seguirono, derivò l’appellativo di “taratiauli” ancora oggi usato da qualcuno.

Tutto si deve ad un imbianchino di Aradeo, incaricato di pitturare sulla facciata dell’edificio i tre nomi. Memore dello smacco ricevuto, l’imbianchino preparò due miscele diverse: una indelebile e l’altra con uno strano composto (si dice con fuliggine). L’aradeino rispettò l’ordine dei nomi oramai stabilito, ma utilizzò la tinta alla fuliggine solo per Seclì e Neviano e quella indelebile per Aradeo. Bastarono le piogge di pochi mesi a smascherare il trucco: la stazione passò ben presto da Stazione di Seclì, Neviano, Aradeo a Stazione di…Aradeo. Una trovata diabolica, secondo i rivali di sempre: “roba de taratiauli”  insomma.

 


[1] Gli aradeini usavano ad esempio recitare: “Ssichijatu cciti patucchi/vai alla chiesa e nu te ngianucchi/ nu te cacci lu coppulinu/ ssichijatu malandrinu”

La fascinazione nel Salento: una testimonianza

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Edward Burne-Jones, Cupido e Psiche

di Alessio Palumbo

 

Sostiene Erberto Petoia: “il fenomeno della fascinazione, del malocchio, prima di essere trattato come fenomeno psicologico, e in alcuni casi psicopatologico, va analizzato dal punto di vista antropologico, come una delle numerose credenze e superstizioni cui è involontariamente sottomesso il genere umano”[1].

Al di là delle priorità nella trattazione, quanto sostenuto da Petoia testimonia, implicitamente, la poliedricità e complessità dell’argomento. Proprio per questo la relativa letteratura è vasta e composita e, sempre per la suddetta complessità, è particolarmente difficile operare qualsiasi tentativo di sintesi esaustiva in poche righe. Ci limiteremo pertanto, nel corso di questo articolo, a esporre un caso reale, cui abbiamo assistito personalmente, più e più volte, nel corso degli anni ‘90, raffrontandolo con le teorizzazioni e le osservazioni di altri autori.

 

Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness
Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness

Il tema della fascinazione, della malia praticata per il tramite degli occhi, è estremamente diffuso nelle culture tradizionali e ha avuto, nei popoli e nei secoli, interpretazioni, pratiche e cure estremamente diverse. Allo stesso Petoia dobbiamo il tentativo di una carrellata, nel tempo e tra le culture, sul tema. Volendo tuttavia “trovare nella storia dell’umanità, come sostiene il De Martino, una prima presa di coscienza culturale del fatto che la fascinazione non ha nulla a che fare con forze magiche in senso stretto, ma con fatti che appartengono alla sfera naturale profana, bisogna risalire al pensiero greco”[2]. Precisamente al pensiero sensista ed al materialismo democriteo. Il riferimento a De Martino può essere un ottimo stimolo per raffrontare il nostro caso reale, osservato in un comune del Salento e precisamente ad Aradeo, con quanto studiato e teorizzato dal noto autore de La terra del rimorso.

 

Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)
Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)

Fino a non molti anni fa, ad Aradeo era possibile curarsi dalla fascinazione o meglio dallo spascianu[3]. Tale guarigione era operata da donne del posto, che non avevano nulla di magico, ma erano semplicemente le depositarie di un sapere tramandato, fatto di pratiche mediche, paramediche e fitoterapiche che potremmo generalmente ascrivere alla cosiddetta “medicina popolare”[4]. Queste stesse donne erano quindi deputate alla cura di varie disfunzioni e patologie, come ad esempio quelle articolari, per le quali praticavano stuppate e cuppini. Il sapere delle guaritrici aradeine era (ed è) un sapere antico, ampio, sfaccettato, che non di rado superava il confine della medicina per sfociare nella superstizione. Un sapere che tuttavia, è bene ribadirlo, non richiedeva alcuna particolare dote o predisposizione magica.

Nel caso aradeino, dunque, siamo di fronte ad una concezione “greca” della fascinazione. Essa è intesa come una sorta di fenomeno naturale, una malattia come le altre che è possibile curare con una terapia ad hoc. Ma cos’è quindi lu spascianu? Quali sono i suoi sintomi? Quali le cure? La trattazione fatta della fascinazione da De Martino in Sud e Magia ci aiuterà a definirlo, anche se spesso in contrapposizione.

da calitritradizioni.it
da calitritradizioni.it

Sosteneva l’antropologo napoletano, “il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascenatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento, di inibizione, e al tempo stesso un senso di deviazione, un esser agito da una forza altrettanto potente quanto occulta”[5]

Nulla di tutto ciò nel caso aradeino. Sebbene il fattore scatenante dello spascianu sia quello classico della fascinazione, ossia gli sguardi invidiosi, gli eccessivi complimenti e piaggerie, non si parla di alcuna forza occulta, né si riscontrano fenomeni di deviazione ed inibizione. Le cause e le conseguenze dello spascianu sono esclusivamente fisiche. Mal di testa, spossatezza e nausea ne sono i sintomi[6] tipici.

Riscontrati questi ultimi, lo spascianatu, o il sospetto tale, si presentava da una delle donne del paese in grado di curarlo. Nel caso da noi osservato la donna metteva a sedere lo spascianatu e, dopo avergli imposto la mano sulla testa e aver fatto il segno della croce con il pollice, iniziava a recitare mentalmente le formule di rito[7]. L’espressione usata per indicare la terapia era passare lu spascianu o passare lu principiu. Ecco la formula recitata dalla guaritrice aradeina e a lei insegnata da una vicina di casa da giovane:
Sant’Antoniu tenìa nu gigliu

Vene la mamma e vene lu fiju

De do occhi spascianatu

De quattru angeli ‘ccumpagnatu

Su nu monticellu hia tre pignatelle

Una rutta, una sana e una scasciata

Ne pòzzane ssire l’occhi a ci l’ha spascianata.

 

Santu Cosimu e Damianu

‘Cchiara Cristu pe la via

De ddhru sta vieni Cosimu mia?

Sta vegnu de nu malatu

Ci gghe forte spascianatu

Ne passu lu principiu alla capu

Lu malatu ne llenta la capu[8]

 

Sant’Antonio aveva un giglio

Viene la mamma e viene il figlio

Da due occhi spascianatu

Da quattro angeli accompagnato

Sopra ad un monticello c’erano tre piccole pignatte

Una rotta, una sana e una scassata

Possano venir fuori gli occhi a chi l’ha spascianata.

San Cosimo e Damiano

Incontrarono Cristo per la via

Da dove vieni Cosimo mio?

Sto venendo da un malato

Che è molto spascianatu

Gli passo il principiu in testa

Al malato non fa male più la testa

 

Come sostenuto da Petoia è palese la commistione di sacro e profano in queste credenze. “Gli aspetti religiosi che compaiono nei rituali e negli scongiuri contro il malocchio non sono quelli appartenenti alla religione tradizionale cattolica, a quella dottrinaria, ma a quella parte dei pluralismi cattolici”[9].  La formula recitata dalla donna, con i richiami a Cristo ed ai santi guaritori Cosimo e Damiano, lo dimostra chiaramente.

Già durante la pratica il diretto interessato e gli astanti potevano capire, dagli atteggiamenti della guaritrice, se si trattasse o meno di fascinazione. Ciascuna donna aveva infatti un proprio modo di “somatizzare” il malessere della persona curata con sbadigli, conati, lacrime o eruttazioni[10].

Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)
Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)

Non sempre l’intervento della donna si rivelava sufficiente ed era essa stessa ad ammetterlo, indirizzando lo spascianatu verso altre donne capaci di curarlo, quantificando il numero di mani di spascianu necessarie per la guarigione definitiva. Il tutto prima del sabato, in quanto, se lo spascianu fosse sabbaticiatu, avrebbe potuto causare anche febbre alta.

Nel congedare lo spascianatu la guaritrice raccomandava tutti i rimedi esperibili per difendersi da future fascinazioni, come ad esempio indossare un ciondolo di “fede, speranza e carità” (croce, ancora e cuore) o mettendo la “mano a fica” (pollice tra indice e medio) nel caso di eccessivi complimenti o sospette invidie.


[1] E.Petoia, Il malocchio: note storico-antropologiche,  in  A. De Spirito e I. Bellotta (a cura di) Antropologia e storia delle religioni: saggi in onore di Alfonso M. di Nola, Roma, Newton Compton, 2000, p.260

[2] Ivi, p.261

[3] Nel termine, pressoché unico nel Salento, è chiaro il riferimento al fascino.

[4] Siamo dunque estremamente lontani dalle fattucchiere galatinesi descritte da Alessandro Tommaso Arcudi alla fine del ‘600 e capaci di guarire persino col proprio sputo (A.T.Arcudi, Anatomia degl’ipocriti, Venezia, G.Alberizzi, 1699)

[5] E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2004, p.15

[6] Per altro lo stesso De Martino riporta sintomi simili  parlando di “cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento” (Ibidem)

[7]“ La rimediante comincia col tracciare col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente” (Ivi, p.16)

[8] Le due strofe devono essere ripetute in coppia per tre volte, ogni volta cominciando con un segno della croce

[9] E.Petoia, cit., p.271

[10] De Martino parla di un’immedesimazione della fattucchiera nello stato di fascinazione che comporta il prodursi dello stato oniroide che porta a sbadigliare, o la condivisione del patire, che spinge a lacrimare

Aradeo. La notte de li lazzareni

 

 

di Alessio Palumbo

 

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta

Aradeo. Un restauro contro la iattura

di Alessio Palumbo

Vi è capitato mai di desiderare profondamente qualcosa per poi, all’atto pratico, avere una gran paura per la sua realizzazione? È una sensazione strana, non semplice da descrivere, ma forse si può essere più chiari con un esempio concreto.

Il mio paese (Aradeo), come scritto da Giovanni Marchese “ha avuto, grazie a vecchi e nuovi vandali, la iattura di vedere distrutto quasi per intero il suo patrimonio storico e artistico [..] in quanto delle antiche chiese di San Nicola, SS. Crocifisso, Spirito Santo, Santa Caterina, Madonna di Costantinopoli, Madonna delle Grazie (nel palazzo D’Acugna), san Trifone […] non rimangono che sbiaditi ricordi tramandatici da antiche carte miracolosamente scampate a tale barbarie” (G.Marchese, Cento anni nella nostra storia, Galatina, Editrice-Salentina, 2009, p.10). Un paese, dunque, “artisticamente sfortunato”. Talmente iellato da non avere, in molti casi, neppure una memoria fotografica delle sue antiche bellezze. Della vecchia chiesa madre, tanto per fare un esempio, esistono solo alcune fotografie dei lavori di abbattimento oppure degli scorci da lontano.

Tra i pochi monumenti sopravvissuti alla furia devastatrice di alcune amministrazioni comunali ed al generico disinteresse degli aradeini per la propria

Aradeo. Sant’Antonio ed il prigioniero

 

 

di Alessio Palumbo

Giorni fa rileggevo con grande interesse il libro Trincee di Carlo Salsa (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982). In un passo relativo alla sua prigionia, l’ex tenente milanese scriveva: “I reclusi rimangono tutto il giorno coricati sulle brande che ingombrano le camerate basse come corsie d’ospedale per economizzare le energie succhiate alla fame. Alcuni raggomitolati come serpi, in silenzio, per reprimere i morsi delle budella: altri distesi in contemplazione, con una fissità maniaca negli occhi” (pp. 226-227).

Questo brano mi ha fatto tornare alla mente la storia di un prigioniero aradeino, raccontatami più e più volte da mia nonna. Un suo cugino, Luigi Pedone, subì la stessa sorte di Carlo Salsa, ovvero fu fatto prigioniero nel corso del 1918 e deportato in Austria, in uno di quei campi divenuti poi tristemente celebri per le condizioni di estrema indigenza in cui erano costretti a vivere i  soldati internati.

Luigi Pedone, tuttavia, trovò nella baracca un oggetto che lo aiutò ad affrontare i sei lunghi mesi di prigionia che lo attendevano: un piccolo Sant’Antonio di ceramica. La statuetta divenne il suo più caro compagno di prigionia. Avvoltala in un fazzoletto, la mise nella tasca interna della divisa. Per sei mesi la tenne lì dentro senza toglierla mai.

Molti mesi dopo la fine della guerra, Luigi riuscì a tornare ad Aradeo. Arrivato a casa, chiamò in disparte la madre di mia nonna e le donò il Sant’Antonio oramai frantumato. Donandoglielo le disse: «Durante la prigionia te l’ho conservato con tanto amore. Ora è tuo». La mia bisnonna lo riparò e poi lo regalò a mia nonna, che ancora lo conserva.

Quello appena narrato è soltanto un piccolissimo episodio, in un contesto storico infinitamente più grande. Tuttavia, anche un racconto così breve può risultare significativo per comprendere come la spersonalizzazione causata dalla guerra e il dramma fisico e morale della prigionia, potessero essere affrontati dai soldati solo con il ricordo della famiglia o con l’attaccarsi alle piccole cose che esulavano dal contesto di terrore, devastazione e morte che li circondava.

Aradeo. Una minuscola, buffa guerra di santi ed idee

di Alessio Palumbo

Scriveva Verga nella novella Guerra di santi:

Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradice fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.

Tutto ciò per l’invidia di quei del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era

Aradeo. Una minuscola, buffa guerra di santi ed idee

di Alessio Palumbo

Aradeo, festa di San Nicola

Scriveva Verga nella novella Guerra di santi:

Tutt’a un tratto, mentre San Rocco se ne andava tranquillamente per la sua strada, sotto il baldacchino, coi cani al guinzaglio, un gran numero di ceri accesi tutt’intorno, e la banda, la processione, la calca dei devoti, accadde una parapiglia, un fuggi fuggi, un casa del diavolo: preti che scappavano colle sottane per aria, trombe e clarinetti sulla faccia, donne che strillavano, il sangue a rigagnoli, e le legnate che piovevano come pere fradice fin sotto il naso di San Rocco benedetto. Accorsero il pretore, il sindaco, i carabinieri; le ossa rotte furono portate all’ospedale, i più riottosi andarono a dormire in prigione, il santo tornò in chiesa di corsa più che a passo di processione, e la festa finì come le commedie di Pulcinella.

Tutto ciò per l’invidia di quei del quartiere di San Pasquale, perché quell’anno i devoti di San Rocco avevano speso gli occhi della testa per far le cose in grande; era venuta la banda dalla città, si erano sparati più di duemila mortaretti, e c’era persino uno stendardo nuovo, tutto ricamato d’oro, che pesava più d’un quintale, dicevano, e in mezzo alla folla sembrava una «spuma d’oro» addirittura. Tutto ciò urtava maledettamente i nervi ai devoti di San Pasquale, sicché uno di loro alla fine smarrì la pazienza, e si diede a urlare, pallido dalla bile: – Viva San Pasquale! – Allora s’erano messe le legnate.

Certo andare a dire «viva San Pasquale» sul mostaccio di San Rocco in persona è una provocazione bella e buona; è come venirvi a sputare in casa, o come uno che si diverta a dar dei pizzicotti alla donna che avete sotto il braccio. In tal caso non c’è più né cristi né diavoli, e si mette sotto i piedi quel

Sant’Antonio ed il prigioniero

 

di Alessio Palumbo

Giorni fa rileggevo con grande interesse il libro Trincee di Carlo Salsa (C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Mursia, 1982). In un passo relativo alla sua prigionia, l’ex tenente milanese scriveva: “I reclusi rimangono tutto il giorno coricati sulle brande che ingombrano le camerate basse come corsie d’ospedale per economizzare le energie succhiate alla fame. Alcuni raggomitolati come serpi, in silenzio, per reprimere i morsi delle budella: altri distesi in contemplazione, con una fissità maniaca negli occhi” (pp. 226-227).

Questo brano mi ha fatto tornare alla mente la storia di un prigioniero aradeino, raccontatami più e più volte da mia nonna. Un suo cugino, Luigi Pedone, subì la stessa sorte di Carlo Salsa, ovvero fu fatto prigioniero nel corso del 1918 e deportato in Austria, in uno di quei campi divenuti poi tristemente celebri per le condizioni di estrema indigenza in cui erano costretti a vivere i  soldati internati.

Luigi Pedone, tuttavia, trovò nella baracca un oggetto che lo aiutò ad affrontare i sei lunghi mesi di prigionia che lo attendevano: un piccolo Sant’Antonio di ceramica. La statuetta divenne il suo più caro compagno di prigionia. Avvoltala in un fazzoletto, la mise nella tasca interna della divisa. Per sei mesi la tenne lì dentro senza toglierla mai.

Molti mesi dopo la fine della guerra, Luigi riuscì a tornare ad Aradeo. Arrivato a casa, chiamò in disparte la madre di mia nonna e le donò il Sant’Antonio oramai frantumato. Donandoglielo le disse: «Durante la prigionia te l’ho conservato con tanto amore. Ora è tuo». La mia bisnonna lo riparò e poi lo regalò a mia nonna, che ancora lo conserva.

Quello appena narrato è soltanto un piccolissimo episodio, in un contesto storico infinitamente più grande. Tuttavia, anche un racconto così breve può risultare significativo per comprendere come la spersonalizzazione causata dalla guerra e il dramma fisico e morale della prigionia, potessero essere affrontati dai soldati solo con il ricordo della famiglia o con l’attaccarsi alle piccole cose che esulavano dal contesto di terrore, devastazione e morte che li circondava.

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