di Salvatore Muci e Marcello Gaballo
Tra tutti i sistemi di pesca quello dei tonni è risultato sempre tra i più redditizi e perciò più praticato mediante l’ installazione di impianti, per l’ appunto detti tonnare, sistemate nei punti in cui veniva segnalato il passaggio di questi pesci “corridori”.
Tali impianti di reti fisse[1], verticalmente tese lungo la costa, spesso lunghe diverse centinaia di metri e in corrispondenza di fondali profondi anche oltre i 25 metri, comportavano investimenti in denaro di non poco conto, certamente non possibili al povero marinaio. Divenne dunque prerogativa di duchi e baroni, o perlomeno di ricchi proprietari, sino a rappresentare speciali meriti o concessioni regie alle città, tra cui, nel nostro circondario, la fidelis Gallipoli.
Già nel 1490 nel mare di pertinenza del feudo di Nardò, presso il porto della Culumena[2], si praticava la pesca del tonno ad opera di pescatori tarantini[3], con strumenti appositi. Essi, oltre le tonnine, vi pescavano sardelle, palamide, modoli, inzurri, alalonge e vope. Per tale pescato ogni tredici ne pagavano il valore di uno al baglivo, mentre al gabelliere versavano i 15 tarì mensili per la sosta della barca[4].
La città di Nardò non poteva in quel tempo possedere una tonnara, in virtù di un antico privilegio ottenuto dalla vicina città di Gallipoli sin dal 1327 da Roberto D’Angiò[5], riconfermato nel 1526 da Carlo V[6], e da un decreto della Regia Camera consegnato al Sindaco dell’Università di Gallipoli, Leonardo D’Elia, il 15 luglio 1628.
Bartolomeo Ravenna ribadiva nelle sue Memorie Istoriche della città di Gallipoli che solo la città di Gallipoli, nel tratto di mare tra S.Maria di Leuca e Taranto, poteva tenere il privilegio di una tonnara, e coi tonni ed altre specie