Melissano e la statua di Sant’Antonio di Padova

La tela seicentesca che diede origine al culto di S.Antonio di Padova a Melissano

Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano

 

di Fernando Scozzi

La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)

Melissano, la facciata dell’antica chiesa parrocchiale di S. Antonio (sec. XVII) (foto Fernando Scozzi)

 

Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.

Mons. Antonio Sanfelice che commissionò la statua di Sant’Antonio di Padova per la chiesa parrocchiale di Melissano (da fondazioneterradotranto.it)

 

L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale  ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Padua cum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).

Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.

Melissano, anni Sessanta del secolo scorso – La statua di Sant’Antonio addobbata con gli ori offerti per grazia ricevuta

 

Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.

Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.

La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)

Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.

L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)

La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.

Melissano, chiesa parrocchiale – La statua del Santo dopo il restauro del 2008 (foto R. Lanza)

 

Note

  1. I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
  2. Maura Sorrone https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/26/giovanni-antonio-colicci maestro-di-legname/
  3. “La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
  4. Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
  5. Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.

L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino
Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino

 

di Marcello Gaballo

Giovanni Greco, storico e giornalista copertinese, il 28 dicembre prossimo, alle ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, di fronte alla Cattedrale di Nardò, sarà uno dei due relatori che si alterneranno nella serata dedicata alle opere “ritrovate”, che troveranno degna collocazione nel Museo Diocesano di Nardò.

Il titolo del suo intervento è “L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto”, in considerazione che una delle opere è il Battesimo di Gesù, di recente restaurata dall’Impresa Leopizzi 1750, proveniente dalla chiesa copertinese delle Clarisse.

L’opera pittorica del frate cappuccino, Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (Copertino 1609 – 1682 ?), oltre ad apparire sintonizzata con l’atmosfera del Seicento, si ricollega al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca, di cui questo frate rimase “contaminato” nel decennio 1658-68, allorchè fu chiamato a Roma da Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per rivestire la carica di conservatore delle pitture vaticane.

Rimasto a lungo ai margini della critica, frà Angelo è stato riscoperto sul finire dell’800 dagli storici locali, che lo annoverarono tra i pittori di pregevoli dipinti.

Studi e ricerche hanno comprovato la sua presenza in diverse comunità di frati cappuccini di Terra d’Otranto, dove lasciò l’impronta della sua pittura in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento propagandistico di prestigio.

Attraverso la pittura questo frate-pittore fornì un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio di cui la Chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la fede cristiana.

Senza ombra di dubbio possiamo affermare che la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani, fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche tanto da offrire risultati pittorici decisamente fuori dei limiti di una produzione artigianale di carattere devozionale, così da dovergli riconoscere un ruolo primario nell’ambito della pittura francescana del suo secolo.

Giovanni Greco, nel suo prezioso lavoro Seicento pittorico sconosciuto: frate Angelo da Copertino (1609-1685)[1], aveva già segnalato numerosi dipinti autografi del religioso: Sant’Antonio di Padova (1636) nella chiesa dei Cappuccini di Ruffano, la prima opera a lui attribuita[2]; la Regina Martirum (1655) nella chiesa matrice di Copertino[3]; la Salus infirmorum (1682) nella chiesa Santa Maria delle Grazie di Copertino[4]; l’Immacolata (1682) nella chiesa San Francesco della Scarpa di Lecce (opera dispersa); il Perdono di Assisi (1684) nella chiesa dei Cappuccini (ora nella chiesa matrice) di Salve.

Privi di firma e data sono: il Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Cappuccini di Tricase; l’Angelo Custode, la Maddalena penitente e il Padreterno nella chiesa dei Cappuccini di Martina Franca; il Perdono di Assisi, l’Angelo Custode e San Michele Arcangelo nella chiesa dei Cappuccini di Nardò; il Perdono di Assisi nella chiesa dei Cappuccini di Alessano; il San Girolamo morente nella cattedrale di Nardò; l’Immacolata e santi nella cattedrale di Gallipoli; la Madonna del Carmine nella chiesa matrice di Melendugno; Sant’Anna e la Sacra Famiglia e la Traditio clavuum nella chiesa matrice di Galatina; San Francesco stimmatizzato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Copertino.

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)
San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Altri studi hanno assegnato al nostro cappuccino la Trinità nella chiesa di Sant’Oronzo di Campi Salentina[5]; l’Immacolata e santi e Sant’Anna e la Vergine col Bambino nella chiesa matrice di Maglie[6].

Di recente ne ha trattato ampiamente anche Stefano Tanisi, per il quale è da “considerarsi un pittore “popolare”, poiché il suo linguaggio espressivo e compositivo comunicava ai devoti illetterati un’immediata e comprensibile narrazione visiva delle storie sacre. Le immagini, in linea con le finalità dell’arte riformata e, dunque, dell’ambiente cappuccino, del quale fra’ Angelo ne è chiaramente fautore, dovevano avere chiari intenti dottrinali, rispecchiando la dignità e la santità dei modelli, in modo da suscitare nel credente atti di fede e commozione”[7].

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d'Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)
Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Lo stesso Tanisi riporta la stima nutrita per il frate dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice (Napoli 1660 – Nardò 1736), che nella visita pastorale del 1710 “rileva il dipinto con le immagini di San Francesco e le anime del Purgatorio collocato sull’altare di San Sebastiano nella matrice di Copertino, segnalando che l’opera è stata “depicta a celebre pictore frate Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit picturarum vaticani”, e che dunque il pittore, fra il 1658 e il 1668, fu nominato “conservatore delle pitture vaticane”.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)

 

Sempre Tanisi arricchisce il profilo scrivendo “nel 1719 il Sanfelice continuava a individuare e lodare diverse opere del pittore francescano: nella matrice di Casarano annota opere di fra’ Angelo, una nella cappella dello Spirito Santo, dipinta dal “celeberrimi Pictoris Cupertinensis, vulgo dicti del Capuccino”, e l’altra nella cappella delle Sante Anime del Purgatorio, che dal “celeberrimo Pictore Cupertinensi depicta est”[8].

E per concludere, lo stesso, nella sua lunga elencazione delle opere attribuite, annota il San Girolamo nella cattedrale di Nardò (sull’altare omonimo, secondo a destra), che il Sanfelice fa riportare nella visita come il dipinto sia “picta manu F. Angeli Capuccini Cupertinensis Pictoris aetate sua excellentissimi”[9].

locandina-28

[1] In “Studi in onore di Aldo de Bernart”, Galatina 1998, pp. 43-56.

[2] Firmata e datata “Fra Ang. A Cup.no pingebat 1636”.

[3] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertinus Capuccinus A.D. 8bris 1655”.

[4] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertino Ca[ppuci]nus per sua devozione pingebat 1682”.

[5] Cfr. P. A. Vetrugno, Arte e Fede nel Salento del secolo XVII: la Ss. Trinità di Frate Angelo da Copertino, in “Lu Lampiune”, a. XVI, 1, pp. 119-126.

[6] cfr. E. Panarese – M. Cazzato, Guida di Maglie, Galatina 2002, p. 128.

[7] Cfr. S. Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in “Il Delfino e la Mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, n°3 (2014).

 

[8] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale chiesa matrice di Casarano, c. 61v.

[9] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale cattedrale di Nardò, c. 59.

Auguri dal vescovo Antonio Sanfelice

antonio-sanfelice

di Giovanni De Cupertinis

 

Sono noti i rapporti tra la casa Albani e quella dei Sanfelice, in particolar modo quelli tra Giovanni Francesco Albani, meglio noto con il nome di Papa Clemente XI (1700-1721) ed il vescovo Antonio Sanfelice. Fu proprio Clemente XI a nominare Antonio Sanfelice vescovo di Nardò, che già a partire dal 1712 si portò a Roma per assolvere ai compiti assegnatigli dal pontefice Clemente XI, nominandolo prelato domestico e assistente al soglio pontificio.

Papa Clemente XI
Papa Clemente XI

 

Quelle che riportiamo di seguito sono due delle tante lettere di auguri, scritte dal Sanfelice durante il soggiorno napoletano, indirizzate al Cardinale Annibale Albani, nipote di Clemente XI, che già dal 1707 ricopriva l’incarico di presidente della Camera Apostolica e dal 1719 al 1747 la carica di camerlengo.

card-annibale-albani
Il cardinale Annibale Albani

 

Lettera al Cardinale Annibale Albani, Roma del 16 dicembre 1723

Fra tutte le creature dell’Ecc.ma Casa Albani essendo io la più obbligata, perché sempre favorita con eccesso per sola benignità non per merito proprio, mi veggo astretta à pregare il Sig.re con tutto lo spirito, che si degni concedere alla grand’anima di V. E. ogni maggiore vera felicità nell’imminenti feste Natalizie del Sig.re, ed all’Ecc.ma Casa. Averci voluto di persona passar per quest’uffizio, se averò vita spero d’esseguirlo in occasione dell’Anno Santo, in cui se con infinita passione dell’animo mio non trovarò il mio S. Pré grande zio di V. E., almeno potrò baciar la porpora di V. E. erede del suo spirito, e dell’eccellente sua virtù, e pregandola a conservarmi la sua potentis.ma protezzione le bacio divotam.te la Sagra Porpora.

D.V.E.

Napoli 16 xmbre 1723

Umili.mo Div.mo Servo Obblig.mo

Antonio Vescovo di Nardò

 

******************************************************

 

Lettera al Cardinale Annibale Albani, Roma del 19 dicembre 1716

Son tante le grazie, che hò ricevuto sempre da V.E. , e dalla sua Ecc.ma Casa, che fan penare l’animo mio pieno di gratitudine per non poter inveruna maniera corrispondere alla grandezza de beneficij. Mi resta solo di pregare il Sig.re di concedere all’uno e all’altra la condegna retribuzione come farò nell’imminenti S.te Feste Natalizie del Red.re, nelle quali istantissimamente chiederò à concederli quelle vere felicità; che da se stessa può desiderarsi, e rinovando a V.E. il tributo reverentissimo dei miei umili ossequij, e della mia inalterabile ubbidienza, profondam.te inchinato le bacio la Sacra Porpora, e resto per sempre

D.V.E.

Napoli 19 xbre 1716

Umili.mo Div.mo Servo Obblig.mo

Antonio Vescovo di Nardò

Auguri

Nardò, il Conservatorio di S. Maria della Purità, ovvero quando l’assistenza era amore e non uno squallido affare

di Armando Polito

Probabilmente tutti quelli della mia età appaiono come laudatores temporis acti (chiedo scusa a chi conosce il latino, ma sono costretto a tradurre a beneficio di tutti gli altri, che non credo numerosi …: lodatori del tempo trascorso), dinosauri nostalgici del passato al quale guardano con il telescopio, mentre utilizzano il microscopio per analizzare e poi stigmatizzare da moralisti arretrati tutto ciò che dei tempi correnti non garba loro. Non sono, però, tanto ingenuo da ritenere che la dirittura morale sia stata lo splendido, esclusivo appannaggio delle passate generazioni e che tutto oggi sia manifestazione di luridume interiore. So benissimo pure che oggi vengono alla luce con più facilità certe miserie che prima restavano nascoste, non solo quelle private, personali,  ma anche le pubbliche, istituzionali. E non basta sciacquarsi la bocca con la parola trasparenza, se essa serve solo ad alimentare, con ammiccamento degli stessi mass media, tv in primis, da una parte curiosità di tipo voyeuristico, dall’altra la stessa lotta politica che è al servizio della democrazia solo se obbedisce ai canoni dell’onestà, quella intellettuale compresa, del rispetto reciproco e della verità. Non bisogna fare di ogni erba un fascio (tante sono, per esempio, le associazioni di volontariato al di sopra di ogni sospetto, alle quali dovrebbe andare la nostra gratitudine e che avremmo il dovere di sostenere e difendere, se è necessario anche con rabbioso trasporto d’amore)  ma nemmeno concludere sconsolatamente: tanto è stato sempre così. Faccio presente che la corruzione e la furbizia sono come le malattie infettive, per le quali la profilassi è fondamentale e nei casi più gravi prevede la necessità di evitare qualsiasi contatto diretto, senza adeguata protezione, anche per medici ed infermieri, col soggetto infetto. A mio avviso questa metaforica epidemia, che in passato colpiva soggetti isolati o gruppi sparuti, nel nostro paese è diventata endemia, come attestano le cronache giornaliere, anche se ognuno di noi è innocente fino a condanna definitiva … E poi anche quest’ultima si scontra con l’incertezza che benevola e benefica aleggia sulla durata effettiva della pena inflitta. E così anche laddove va buca con la presunzione d’innocenza, si mette vergognosamente in campo la favoletta del carcere che deve rieducare e redimere. Solo che qualcuno dovrebbe spiegarci come ciò può avvenire con il sovraffollamento che già di per sé rappresenta una violazione della dignità personale. Da qui, per risolvere genialmente il problema, leggi sempre più a tutela di chi delinque e periodici decreti per sfoltire la popolazione carceraria. Io ormai sono troppo vecchio per cambiar rotta ma, se avessi qualche decennio di meno. non so se sarei in grado di non adeguarmi (non mi mancherebbe, credo, l’intelligenza per farlo senza eccessivi rischi …) all’umiliazione continua del merito, della competenza  e dell’onestà, da cui la cultura, quella autentica,  non può mai prescindere, pur negli inevitabili cambiamenti che il trascorrere del tempo, forse fortunatamente, comporta.

Per provare tutto questo, dopo aver lapidariamente ricordato l’inquietante quadro che sta emergendo a margine dell’inverecondo traffico prima e collocamento poi di migliaia di poveri cristi, senza per questo trascurare l’ospizio-lager che ogni tanto assurge al disonore della cronaca, farò un salto cronologico fino a giungere al 1710, cioé all’anno di istituzione a Nardò, da parte del suo vescovo Antonio Sanfelice, del Conservatorio di Santa Maria della Purità.


JESU CHRISTO SACRATUM VIRGINUM SPONSO/IN HONOREM VIRGINIS PURISSIMAE/ANTONIUS SANFELICIUS EPISCOPUS/A FUNDAMENTIS EREXIT/ANNO MDCCXXII2

(Consacrato a Gesù Cristo sposo delle vergini. In onore della purissima Vergine il vescovo Antonio Sanfelice lo eresse dalle fondamenta nell’anno 1722)

Il tempo coinvolge, con quello degli uomini, anche il destino di ciò (dicono …) che lo distingue dagli altri animali: la parola. E così oggi per conservatorio i vocabolari registrano i significati di (cito dal De Mauro) : 1) istituto di istruzione musicale suddiviso in vari insegnamenti (tecniche vocali e strumentali, composizione, direzione d’orchestra e sim.) di durata variabile dai 5 ai 10 anni, un tempo funzionante come collegio 2) collegio femminile tenuto da religiose; educandato 3) ricovero per poveri, anziani, donne o bambini.

Gli ultimi due significati sono registrati come obsoleti e proprio il terzo era quello che agli inizi del XVII secolo aveva il nostro.

Sulla storia della fondazione sua e dell’annessa chiesa rinvio al post di Marcello Gaballo (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/), del quale questo mio scritto vuol essere una modestissima integrazione. Essa non ci sarebbe stata se, come spesso capita, nel corso di un’altra ricerca, non mi fossi imbattuto proprio in qiella sorta di regolamento per il buon funzionamento del conservatorio, redatto dal vescovo in persona, recante il titolo Viva Giesù  Istruzzioni, e regole per le vergini del Conservatorio di Santa Maria della Purità eretto in Nardò l’anno MDCCX approvate nel sinodo diocesano del MDCCXX, stampato per i tipi di Domenico Viverito a Lecce nel 1720. Chiunque lo desideri può leggerlo integralmente all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ALEKE000268

Nel frontespizio potrebbe suscitare meraviglia prima Giesù e poi istruzzioni; e qualche insegnante allergico (probabilmente per sembrare all’avanguardia o per ignoranza …) al rispetto delle regole grammaticali  (in questo caso in particolare dell’ortografia) potrebbe essere tentato di sfruttare l’occasione per predicare la tolleranza di certe infrazioni o, peggio ancora, l’insegnante non abituato a chiedersi il perché di certi errori (reali o presunti) per dare dell’ignorante al Sanfelice o, addirittura, per mettere sarcasticamente in dubbio l’efficienza educativa (a partire dall’istruzione in senso stretto) del suo istituto. Per quanto riguarda Giesù mi limito a riportare solo due frontespizi (avrei potuto esibirne migliaia) più o meno coevi (ma Giesù è forma attestata fin dal XV secolo), in cui ho evidenziato con una sottolineatura la voce incriminata1.

Pure per istruzzioni potrei esibire migliaia di documenti, ma credo che basti il frontespizio che segue e dire che, come per Giesù siamo di fronte a quella che potrebbe essere definita, in bocca  all’insegnante di cui sopra,  non un’incriminazione ma una calunnia grammaticale2.

Subito dopo il titolo si legge una citazione tratta dalla lettera di S. Girolamo ad Eustochio, avente come tema la custodia delle vergini: Haec omnia, quae digessimus. dura videbuntur ei, qui non amat Christum (Tutto ciò che ho trattato sembrerà crudele a chi non ama Cristo). Un inno alla disciplina e al sacrificio da intonare alla luce della religiosità, concetti che oggi godono di scarso credito o, comunque, di insufficiente applicazione concreta,  nel mondo religioso (in quello istituzionale ed in quello dei credenti) come in quello laico (atei, cosiddetti, compresi); il quale difetto, sia chiaro, non è solo della religione cattolica.
Così mi piace riprodurre dal vivo, delle norme dettate per la vita comunitaria, quelle legate a gesti quotidiani di significato non religioso in senso stretto, ma che dalla sana religiosità traggono ispirazione: Le pp. 204-211 riguardano la figura dell’infermiera.

 

 

La p. 16 è occupata da un’incisione raffigurante la Madonna della Purità. Sarebbe interessante tentare di individuare il modello probabilmente seguito, anche perché mi pare una nota originale, rispetto a rappresentazioni più o meno coeve, lo sfondo costituito da un paesaggio che più terreno non poteva essere.

Lascio ad altri più competenti di me che abbiano tempo e voglia di rispondere a questa domanda ma non posso fare a meno di chiudere con una considerazioni che qualcuno riterrà materialistica. Non potevo,, cioè, non sottolineare la rarità dell’opera, della quale l’Opac registra l’esistenza di un solo esemplare custodito nella biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò, che è, poi, quello digitalizzato, come mostra l’etichetta sul dorso. La destinazione locale quasi sicuramente limitò il numero di copie stampate ma è indubbio che quest’unico esemplare sopravvissuto che si conosca di quello che sarebbe improprio chiamare opuscolo (consta di 252 pagine) è particolarmente prezioso sotto un duplice profilo, quello storico e storiografico propriamente detto e quello bibliografico-antiquario.4

____________

1 A torto, perché Iesu(m) ha dato nell’immediato Giesù come iam ha dato già, Iove(m) ha dato Giove e iustu(m) ha dato giusto. Poi in –ie– la i è scomparsa, cosa che non è potuta avvenire in ia-, io– e iu-, dove la caduta avrebbe determinato una grave alterazione del suono.

2 La z in italiano è esito per lo più di un originario gruppo latino –ti– seguito da vocale: otiu(m)>ozio. Laddove tale gruppo era preceduto dalla consonante c l’esito all’origine fu –zz-: factione(m)>fazzione; instructionem>istruzzione. E non mancano esempi, per analogia, pure di ozzio.

3 Nella trascrizione che si legge in Emilio Mazzarella, Nardò Sacra, a cura di Marcello Gaballo, Mario Congedo editore, Galatina, 1999, p. 183 risulta omesso SACRATUM ed aggiunto DOMINI.

4) Nell’inventario dei beni del vescovo Salvatore Lettieri redatto dopo la sua morte avvenuta il 6 ottobre 1839 dal notaio Policarpo Castrignanò di Nardò (66/41) in data 30 novembre 1839 a carta 1261v. tra i libri è citato genericamente e senza precisi riferimenti bibliografici (non è l’unico caso) un testo dal titolo Regole per il conservatorio di Nardò, con annessa valutazione di grana dieci. Potrebbe essere una seconda copia del nostro, ma, se tale è, è impossibile dire che fine abbia fatto.

NAUNA: sulla bontà dell’iscrizione ho qualche dubbio, su quella del vino nessuno

di Armando Polito

Nulla sapremmo dell’iscrizione, comunque andata perduta, se non ce ne avesse lasciato traccia Girolamo Marciano (Leverano, 1571-Leverano 1628) nella sua opera pubblicata postuma nel 1855.

Come si legge nel frontespizio, l’opera reca le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (Oria, 1638-Oria, 1685), ma credo, nonostante tali aggiunte formino un tutt’uno col testo originale e sia, perciò pressoché impossibile distinguere il contributo cronologicamente successivo, che tutto ciò che riguarda la nostra iscrizione sia da attribuire al Marciano anche per la maggiore vicinanza geografica di Leverano a Nardò rispetto ad Oria.

Di seguito il testo relativo tratto dalla parte dedicata a Nardò.

 

Il Marciano parla di due tavole di rame e dalla disposizione grafica del testo si direbbe che la prima ne contenesse uno enormemente più lungo. Per ora non procedo alla traduzione ed al commento, anche perché non posso passare sotto silenzio coloro che in varie epoche, dopo il Marciano, di questa iscrizione si sono occupati. Seguirò l’ordine cronologico.

il primo è una vecchia conoscenza di chi si occupa della storia di Nardò, vale a dire Pietro Pollidori (Fossacesia, 1687-Roma, 1748), al quale più di uno in tempi recenti ha rimproverato di aver prostituito il suo talento di storico nella confezione di documenti falsi allo scopo di dare prestigio alle memorie del luogo in cui volta per volta esercitava il suo servizio, in parole povere per assecondare, in modo certo non disinteressato, un deviato (e nefasto per la verità e per la storia) senso dell’orgoglio campanilistico. E tutto questo pure a Nardò, ai tempi di Giovanni Bernardino Tafuri (1695-1760) e del vescovo Antonio Sanfelice (1707-1736).

Suo è un ampio scritto pubblicato nel tomo VII della Raccolta di opuscoli filosofici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1732, pp. 410-496, recante il titolo Expositio veteris tabellae aereae, qua M. Salvius Valerius vir splendidus emporii Naunani patronus decernitur (Saggio sull’antica tavola di rame nella quale si legge Marco Salvio Valerio uomo splendido patrono della piazza commerciale di Nauna). Il saggio è preceduto da una lettera dedicatoria indirizzata all’arcivescovo Carlo Majello recante la data del 13 marzo 1725, che si conclude con l’augurio di un riscontro critico, che, a quanto ne so, non seguì, nel senso  che non ci è rimasto nessun documento in cui il Majello sembri accettare in toto o parzialmente, oppure respingere le argomentazioni del Pollidori.

L’ideale sarebbe stato riportare l’intero saggio, mentre il taglio divulgativo di questo post avrebbe reso sufficiente riportare in sintesi il pensiero del Pollidori. Ho scelto, invece, una strada intermedia perché ritengo che anche i non addetti ai lavori abbiano il diritto di conoscere le fonti originali e non solo la loro interpretazione. Riporterò, perciò, i passi più salienti con la mia traduzione a fronte e qualche nota esplicativa in calce.

 

ll saggio del Pollidori, dunque, non è il frutto di un esame autoptico ma solo uno studio della trascrizione che, secondo lui, presenta prerogative di maggiore fedeltà. A proposito di questa iscrizione si legge che essa risultava già perduta ai tempi del Mommsen (1817-1903). A questo punto tale perdita va retrodatata con certezza al  1725 e, viste le superfetazioni di cui s’è detto a proposito della trascrizione del testo, non è da escludersi che la data della sua scomparsa sia da retrodatare ancora. Rimane plausibile che la trascrizione del Marciano sia autoptica (quando essa venne rinvenuta, nel 1595, l’umanista di Leverano aveva 24 anni),

Dopo l’introduzione che abbiamo visto il Pollidori esamina il testo dell’iscrizione linea per linea, commentandone ciascuna prima di passare alla successiva. Di specifico interesse è la nota alle locuzioni EMPURII NAUNAE  (dell’emporio di Nauna) e, più avanti EMPURII NAUNITANI (dell’emporiio naunitano) perché, essendo stata l’epigrafe rinvenuta a Nardò,  si è pensato che Nauna fosse il nome del porto di Nardò e nel tempo  la si è identificata, giocoforza, con questo o quel punto della lunga costa ricadente nel territorio di Nardò, tenendo conto della presenza o meno di reperti archeologici che giustificassero, oltretutto, la funzione commerciale, per la verità già quasi scontata, direi, a meno che non si tratti di una base militare, per qualsiasi porto. Così, a parte Giovanni Alessio (Problemi di toponomastica pugliese, Cressati, Taranto,1955) che considerò Nauna, connesso con la stessa radice del greco ναῦς (leggi vaus)=nave,  come il nome messapico di Anxa, l’antico nome di Gallipoli, l’identificazione proposta ha riguardato, volta per volta, con riproposizione in qualche caso dello stesso toponimo con motivazioni più o meno diverse, le località che qui indico così come si presentano al visitatore spostandosi da Nardò fino a Porto Cesareo (che ora è un comune autonomo): S. Maria al Bagno, Frascone, S. Isidoro, Scalo di Furno). Per gli autori dell’attribuzione vedi alla fine la bibliografia.

Sorprende non poco, però, che, a quanto ne so,  nessuno di coloro che si sono occupati dell’iscrizione e di Nauna (a parte il Mommsen, ma en passant, come vedremo) hanno avuto la delicatezza di citare il Pollidori (nonostante abbia anticipato, in modo filologicamente impeccabile, molte osservazioni successive; ma tant’è, basta qualche peccatuccio perché non ti si dia retta nemmeno quando hai ragione …) sul toponimo così scrive (pp. 428-438):

 

Com’è noto, nel 1847 a Berlino presso l’Accademia delle scienze veniva istituito un comitato, guidato da Theodor Mommsen, con il compito di creare una collezione organizzata di tutte le iscrizioni latine pubblicate in passato dagli eruditi in ordine sparso. Nasceva così il C. I. L. (Corpus Inscriptionum Latinarum). Il primo volume uscì nel 1863 e mentre il Mommsen era in vita altri quattordici. La nostra fu pubblicata nel volume IX nel 1883. Di seguito il frontespizio e la relativa scheda, con il testo nella lettura del Mommsen che ancora è quella ufficiale (e resterà tale, credo, in eterno, a meno che non salti fuori all’improvviso, magari da qualche museo straniero …, l’originale).

 

Mi soffermo solo, prima di passare, finalmente, alla traduzione del testo dell’epigrafe su un solo dettaglio descrittivo che la dice lunga sull’acribia che è destinata sempre a subire duri colpi quando manca l’esame autoptico o esso, come nel nostro caso, era ed è ormai impossibile.

Il Mommsen scrive: tabula fastigiata cum foraminibus quattuor pingitur apud Marcianum (scr.) [viene descritta come una tabella terminante a punta con quattro fori [mano] scritto. Sfido chiunque a trovare conferma nel testo, che ho riportato all’inizio, del Morciano.

(Sotto i consoli Antonio Marcellino e Petronio Probino il 6 maggio, mentre il popolo dell’emporio di Nauna chiedeva per acclamazione che dovesse essere offerta a dio una tavola di bronzo incisa del patronato a Marco Sal() Valerio uomo splendido cui già da tempo secondo la voce e la volontà del medesimo popolo è stato offerto l’onore del patronato. Ciò che avvenisse di questa cosa, così della stessa cosa decisero avendo già da tempo il popolo devoto offerto pubblicamente l’onore del patronato a quel Marco Sal()= Valerio i cui immensi benefici offrì non soltanto ai cittadini del municipio ma in verità anche a noi stessi avendo sempre amato anche il nostro emporio così che, dovunque esercitò il potere, ci garantì sicuri e difesi. Per questo è necessario ricompensarlo; e così piace a tutto il popolo dell’emporio di Nauna che sia opportuno dovergli offrire una tavola di bronzo incisa affinché accetti con animo ben disposto quel che gli è stato offerto degnamente in onore dal devotissimo popolo del nostro emporio. Su decreto di Caio Giulio Secondo, del pretore Caio Id() Memio, Caio Ge(= Afrodisio, Caio Pro() degli altri)

Non meno vanti di sorta, ma, a quanto ne so, questa mia è la prima traduzione integrale dell’iscrizione. Lo stesso commento del Pollidori, d’altra parte, riguarda solo i nessi più significativi di ciascuna linea. Probabilmente chi ha tentato l’impresa si è lasciato scoraggiare dalla lezione del Mommsen che, per quanto autorevole, pone più di un problema di ordine grammaticale, D’altra parte sarebbe bastato tener conto di alcune varianti registrate dallo stesso studioso tedesco in calce al testo. Tra l’altro non sono neppure molte, anzi sono soltanto due: onor per onorem e oblatus per oblatum.

Prima che il lettore resti ubriacato da schede, citazioni, immagini, traduzioni, varianti, congetture e simili, è tempo che io riservi la sua residua sobrietà alla bottiglia di vino NAUNA che all’inizio campeggia accanto alle tavole di bronzo (naturalmente, fittizie). A questo punto qualcuno mi rinfaccerà l’intento pubblicitario del post. Ebbene, sì, lo confesso. tra me e il titolare dalla cantina neretina che lo produce è stato stipulato appena l’altro ieri in località Masserei (praticamente in casa mia …), alla presenza del notaio Se fossi fesso, ti direi chi sono (non esiste cognome più lungo e, come se non bastasse, fornito pure di virgola) un contratto che prevede a mio favore la fornitura gratuita di tale vino vita natural durante nella quantità di una bottiglia al giorno (la penale per la mancata osservanza prevede un risarcimento di tre bottiglie per ognuna non consegnata o, in alternativa, una somma pari al decuplo del prezzo corrente (che non è certo, e, onestamente, non può essere, popolare).

Anche se per ogni giorno che mi resta, appena sveglio, sarò costretto a toccarmi, mi piace pensare che il titolare, invece, per qualche tempo non si toccherà, ma si morderà le mani con cui ha firmato quel contratto, pensando che gli sarebbe costato molto meno, indipendentemente dal rispetto dei patti, rivolgersi alla migliore agenzia pubblicitaria …

Un’ultima riflessione: Nauna si legge Naùna oppure Nàuna? – Ecco il solito maniaco erudito da strapazzo; questa questione dell’accento fa il paio con “il Brexit o la Brexit?” per il quale, addirittura è stato scomodato un referendum tra i lettori (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/04/anchio-indetto-un-referendum/) – potrebbe osservare qualcuno dei pochi lettori, forse, arrivati fin qui. Nel fare presente che il referendum scade alle ore 24 di domenica 10 c. m., che non indirò un’altra consultazione, che respingo l’erudito (con i tempi che corrono è un’offesa) ma accetto, in un sussulto d’insolita umiltà il da strapazzo …), che nella ricostruzione della verità non solo storica ogni dettaglio formale (anche una virgola, un articolo, un accento) è prezioso, dico solo, a proposito di quest’ultimo dilemma, che la plausibilissima ipotesi dell’Alessio [dal greco ναῦς (leggi vàus)], ripresa poi dal Ribezzo, imporrebbe la lettura Nàuna (essendo au dittongo, come avviene per l’italiano causa), anche se l’esperienza mi dice che la pronuncia più corrente è, forse, Naùna, perché, non sapendo che au è dittongo, la parola è considerata trisillaba e nella scelta prevale una tendenza quasi istintiva legata alla maggiore musicalità di una  parola piana rispetto ad una sdrucciola.

 

BIBLIOGRAFIA  (alla fine di ogni volume citato riporto l’identificazione proposta, laddove compare, di Nauna).

Francesco Ribezzo, Nuove ricerche per il C. I. M., Roma, 1944, p.187, nota 1. (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Francesco Ribezzo, L’arcaicissima iscrizione messapica scoperta a Nardò e il suo “Portus Nauna”, in Archivio storico pugliese, V, 1952, pp. 68-77. (S. Maria al Bagno)

Mario Bernardini, Panorama archeologico dell’estremo Salento, bARI, 1955, p. 60 (S. Maria al Bagno).

Giancarlo Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Accademia dell’istituto delle scienze, Bologna, 1962, p. 91 (Scalo di Furno).

Alfredo Sanasi, Ricerche archeologico-topografiche su Neretum inetà romana, in La Zagaglia, anno VI, N. 21, 1964, pp. 36-40 (S. Maria al Bagno)

Maria Teresa Giannotta, Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle Isole Tirreniche, XII, Pisa-Roma, 1993, alla voce Nauna, pp. 314-316.

Cesare Marangio, CIL IX, 10 e il porto di Neretum, in L’Africa romana. Lo spazio marittimo del mediterraneo occidentale: geografia storica ed economia. Atti del XIV convegno di studio Sassari, 7–10 dicembre 2000, a cura di Mustapha Khanoussi, Paola Ruggeri e Cinzia Vismara, Carocci, Roma,  2002 (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Cesare Marangio, Porti e approdi della Puglia romana, in I porti del Mediterraneo in età classica, Atti del V Congresso di Topografia Antica, Roma 5-6 ottobre 2004, Rivista di topografia antica, XVI, 2006, pp. 101-128  (S. Maria al Bagno).

Rita Auriemma, Chiara Pirelli e Gabriella Rucco, Il paesaggio come museo. Archeologia della costa di Nardò, in Notiziario numismatico dello Stato. Serie “Medaglieri italiani”, n. 8, 2016, pp. 144-150  (Frascone).

 

Il ritratto “ritrovato” del monaco Antonio Sanfelice

di Armando Polito

Questo post è da considerare integrazione di un altro apparso di recente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/15/antonio-sanfelice-il-monaco-e-il-vescovo/), la cui lettura è indispensabile per comprendere quanto fra poco dirò. Sento il dovere di ringraziare anzitutto l’architetto Giovanni De Cupertinis perché da un controllo esercitato, in seguito alla sua segnalazione in un commento contenente altre preziose informazioni, è risultato presente nello stesso link da me indicato il ritratto di Antonio Sanfelice senior, che inspiegabilmente non avevo visto. Lo riproduco, chiedendo scusa per quel ritrovato che, nonostante le virgolette, potrebbe apparire sparato a mascherare una distrazione e non certo per annunziare un’eclatante scoperta,  e ne parlo perché il corredo testuale che l’accompagna  consente di fare alcune riflessioni e di attribuirgli una datazione, per quanto approssimata.

x

Dopo lo scontato, ma prezioso perché la sua assenza avrebbe posto quanto meno problemi identificativi, F(RATER) ANTONIUS SANFELICIUS ORDINIS MINORUM nella cornice dell’ovale,  si legge nel cartiglio il distico elegiaco O utinam posset pingi, ut mortalis imago/sic genus et Pietas, cuius et ingenium (Volesse il cielo che potessero essere dipinte come immagine mortale così la nobiltà e la pietà nonché il suo ingegno). I due versi recano la firma di D(ominus) Gregorius Messerius.

Scaturisce, così, per caso, come tante volte avviene anche nel campo della conoscenza, l’opportunità di parlare di un salentino illustre. Evito di sintetizzare spacciando come mia elaborazione in qualche modo originale un lavoro altrui e di seguito riproduco l’esauriente biografia che di lui scrisse Andrea Mazzarella da Cerreto, inserita nel tomo IV delle Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1817, s. p., preceduta dal ritratto, un’incisione, cosa ricorrente in questa raccolta, di Giuseppe Morghen.

x2

Gregorio Messere, nato a Torre S. Susanna (BR), dunque, visse dal 1656 al 1708 e fu maestro dell’architetto Ferdinando Sanfelice (1675-1748), che gli dedicò un’iscrizione in greco ed in latino. Passo ad esaminarla nel dettaglio dopo averla trascritta con l’aggiunta degli spiriti, degli accenti e degli iota sottoscritti che credo non mancassero nell’originale, nonché con la sostituzione dell’iniziale minuscola che si nota in ελλαδι (il contrario per altre parole in cui la maiuscola non è giustificata; tuttavia è da ritenere che l’iscrizione, com’era prassi, fosse incisa tutta in lettere maiuscole) e con la correzione di quattro errori imputabili, con le imperfezioni appena indicate, al proto: φανᾕ per φωνᾕ e ταῖς per τῆς nella seconda linea, ο per τῷ nella terza e ἀκροανης per ἀκροατὴς nella quarta.

 

Γρηγορείῳ Μεσσέρε Σαλεντίνῳ

Ἐν Ἐλλάδι φωνᾕ εἰς ἄκρον τῆς παδείας ἐληλάκοτι

Ταύτην τὴν Ἁκαδημίαν τῷ ποιήσαντι

Ὀ Φερδινάνδος Σανφελίκιος εὺγνώμων ἀκροατὴς

Τὰ Διδασκάλῳ δίδακτρον  

 

GREGORIO MESSERE SALENTINO

IN GRAECA LINGUA AD SUMMUM ERUDITIONIS PROGRESSUM

DE ACADEMIA HAC OPTIME MERITO

FERDINANDUS SANFELICIUS GRATUS AUDITOR

MAGISTRO DOCTRINAE PRAETIUM

Fornisco la traduzione letterale di entrambe le parti dell’iscrizione, anche se il significato comune è unico.

Per la greca: A Gregorio Messere salentino che con la lingua (che si parlava) in Grecia si spinse verso la vetta della cultura, a colui che creò quest’Accademia1 Ferdinando Sanfelice allievo riconoscente. Queste parole (siano) il compenso per il maestro.

Per la latina: A Gregorio Messere salentino, nella lingua greca progredito al massimo dell’erudizione, benemerito di questa accademia Ferdinando Sanfelice allievo grato al maestro come ricompensa del (suo) insegnamento.

Essendo Gregorio Messere morto nel 1708, si può agevolmente affermare che ritratto e dedica risalgono certamente a prima di tale data e, dunque,  bisognerà attendere almeno diciotto anni perché il ritratto appaia nell’edizione del 1726.  Può apparire poco e scontato, ma se il Messere non avesse firmato la sua dedica nemmeno questo sarebbe stato possibile.

Già nel post di partenza ho riportato la critica avanzata a questo ritratto dall’Onorati nella sua prefazione all’edizione del 1796, dove ne compare uno, secondo lui, più fedele: …  il ritratto posto dinnanzi alla stampa di Napoli del 1726 dee essere assolutamente capriccioso, perché di un carattere alquanto diverso …

Chiudo con la comparazione visiva  dei due ritratti, integrando così, la lacuna del post precedente e lasciando al lettore il giudizio sul giudizio dell’Onorati. Per quanto può valere il mio: credo proprio che l’Onorati abbia cercato, senza trovarlo ma sostenendo il contrario, il pelo nell’uovo, anche se lo sguardo assorto nella meditazione e nella preghiera all’immaginario collettivo poteva e può apparire  più congeniale ad un frate.

y2

 

____________________

1 L’accademia è l’Arcadia, fondata a Roma nel 1690. Il Messere qui ne è definito il creatore, nel senso che il suo nome compare tra quello dei primi soci.

Antonio Sanfelice: il monaco e il vescovo

di Armando Polito

I Sanfelice furono una delle famiglie nobili di Napoli più note e anche più titolate, contando numerosi feudi tra ducati, contee, principati e chi più ne ha più ne metta. La famiglia era ascritta al Seggio di Montagna di Napoli e godeva di privilegi anche nelle altre città del Regno di Napoli e in Francia.

Questo post riguarda due rappresentanti omonimi (vissuti in tempi diversi, uno soltanto in rapporto diretto con Nardò), la cui notorietà sembra aver resistito meglio per il vescovo che per il monaco e credo che ciò sia dipeso proprio dal maggiore o minore spessore pubblico, o, se preferite, di potere, legato ai rispettivi ruoli.

Seguirò l’ordine cronologico, anche perché, fortunatamente, mi consente di dare inizialmente rilievo proprio alla figura meno nota, un monaco appunto, e perciò considerabile, a torto come dimostrerò, meno importante rispetto alla più nota e citata, un vescovo, che, oltretutto, deve proprio alla sua posizione meno defilata, come ho detto, gli indubbi meriti che nessuno gli disconosce, appannati, tuttavia, da un eccesso di fiducia nei suoi collaboratori. Il mancato controllo, infatti, sovente sfocia nella complicità e non è possibile che con la sua cultura non si fosse accorto dell’attività truffaldina dell’abruzzese Pietro Pollidori e del discepolo di questi, il neretino Giovanni Bernardino Tafuri, in corsa a sprecare il proprio talento per confezionare testimonianze antiche che avallassero il prestigio della città di Nardò e della chiesa neretina.

Antonio Sanfelice fu un monaco francescano, erudito e letterato (dettagli tutt’altro che scontati sol perché era monaco …) la cui opera più importante è Campania, un trattato storico-geografico in latino uscito per la prima volta per i tipi di Sultzbach a Napoli nel 1541; mi sarebbe piaciuto riprodurre il frontespizio da http://pbc.gda.pl/dlibra/docmetadata?id=4589&from=&dirids=1&ver_id=&lp=1&QI=, dove il libro è integralmente leggibile, ma un maledetto plug-in che funziona solo con pc a 32 bit (il mio a 64, evidentemente, è troppo avanzato, ad onta della tanto decantata compatibilità verso il basso …) me lo ha impedito. Se qualche volenteroso volesse provarci e ci riuscisse, ce lo faccia sapere.

Se l’importanza di un libro è direttamente proporzionale al numero delle sue edizioni, bisogna ammettere che Campania godette di una grandissima considerazione vivente l’autore e per due secoli e mezzo dopo la sua morte.  Mi accingo a provarlo, non prima, però, di aver aggiunto che nello stesso anno 1541 uscì Clio divina, una raccolta di poesie religiose in latino (altre edizioni per i tipi di Amati, Napoli 1567 e in appendice alle edizioni della Campania del 1596 e degli anni successivi. Di seguito lo scarno, è il caso di dire  francescano, frontespizio tratto da https://archive.org/details/bub_gb_KIINOSR-PN0Cdove l’opera è integralmente leggibile.

 

Ritornando alla  Campania, successivamente al 1541 essa fu pubblicata da Cancer, sempre a Napoli, nel 1562; nell’immagine che segue il frontespizio, altrettanto povero quanto il precedente (immagine tratta da https://books.google.it/books?id=oXODlAyswQMC&pg=PT6&dq=antonii+sanfelicii&hl=it&sa=X&ved=0CEoQ6AEwB2oVChMI6ru1td6yyAIVxdcaCh1h8QOQ#v=onepage&q=antonii%20sanfelicii&f=false).

2

Nel 1596 un’edizione uscì per i tipi di Carlino e Pace. Il credito di cui l’opera godeva è dimostrato dal fatto che essa fu inserita da Andreas Schott, con in coda la poesia De Campano amphitheatro, nella raccolta da lui curata Italiae illustratae seu rerum urbiumque italicarum scriptores varii, In Bibliopolio Cambierano, Francoforte, 1600, dove occupa le colonne 745-784 (https://books.google.se/books?hl=it&id=E9RUAAAAcAAJ&q=sanfelice#v=onepage&q=sanfelice&f=false).

Col titolo di De origine et situ Campaniae uscì per i tipi di Maccarano a Napoli nel 1636 (con biografia di anonimo preceduta dal ritratto del nostro). Più avanti dirò perché non ho potuto riprodurlo.

Nel 1656 un’edizione col vecchio titolo Campania uscì ad Amsterdam per i tipi di Giovanni Blaeu, con aggiunte in testa una tavola della Campania Felix e la dedica a Giuseppe Sanfelice, arcivescovo di Cosenza, governatore di Fermo, Imola e Perugia e nel 1652 nunzio apostolico a Colonia; in coda l’epigramma, sempre in latino,  De Campano amphitheatro. Di seguito il frontespizio, questa volta decisamente meno francescano …, tratto da https://books.google.it/books?id=8Co3H_FET8wC&printsec=frontcover&dq=editions:n21_rlc0aLYC&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwAGoVChMI7PDn9-OyyAIVQ70aCh23pwUF#v=onepage&q&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

3

 

Del dedicatario Giuseppe Sanfelice ecco di seguito un’immagine tratta dal libro di Ferdinando Sanfelice (sento già qualcuno cominciare a parlare di parentopoli, nepotismo ed affini …) Diario dell’elezzione dell’Imperador Leopoldo I, Napoli, 1717, integralmente leggibile in  https://books.google.it/books?id=WctEc9pxGnUC&pg=PA1&lpg=PA1&dq=Diario+dell%27elezzione+dell%27Imperador+Leopoldo+I&source=bl&ots=BuayLO8v8I&sig=JbVQBw9Jaumce-gVdyyx31xdj_w&hl=it&sa=X&ved=0CCUQ6AEwAGoVChMI4v3c3tS1yAIVSWkUCh1VhAf3#v=onepage&q=Diario%20dell’elezzione%20dell’Imperador%20Leopoldo%20I&f=false.

Ancora col titolo De situ et origine Campaniae, l’opera di Antonio venne inserita al terzo posto nella parte I del tomo IX della raccolta curata da Johann Georg Graeve Antiquitatum et historiarum Italiae, Vander, Lione, 1723.  (https://books.google.it/books/ucm?vid=UCM531796946X&printsec=frontcover&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false)

Nel 1726 uscì per i tipi di Paci a Napoli Campania con le note del vescovo Antonio1. Di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=Y4UqAO-bSwIC&printsec=frontcover&dq=antonii+sanfelicii+campania&hl=it&sa=X&ved=0CDMQ6AEwBGoVChMIxpOYs9m1yAIVAvFyCh07Gg5A#v=onepage&q=antonii%20sanfelicii%20campania&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

Nel 1796 ancora Campania per i tipi di Orsini a Napoli in un’edizione con il testo originale e la traduzione di Girolamo Aquino, a cura di Nicola Onorati; di seguito il frontespizio tratto da https://books.google.it/books?id=5DhYAAAAcAAJ&pg=PR67&dq=antonius+sanfelicius&hl=it&sa=X&ved=0CEEQ6AEwBWoVChMIlbz8guayyAIVw9caCh2y8Ab_#v=onepage&q=antonius%20sanfelicius&f=false, dove l’opera è integralmente leggibile e scaricabile.

Il volume è corredato all’inizio del ritratto dell’autore che di seguito si riproduce.

Dalla didascalia apprendiamo che il nostro era soprannominato Plinio, il che conferma, secondo me, ciò che ho detto sulla considerazione di cui godeva. Interessante quanto sul ritratto riporta l’Onorati a p. XV: “Il ritratto si è ricavato da un antichissimo bassorilievo di stucco, esistente nelle case de’ Sanfelici abitate per secoli nel borgo degli Vergini; dal quale bassorilievo io son di avviso che avesse fatto disegnare il Reggente Sanfelice quello, ch’ei premise alla sua ristampa del 1636, che, sebbene sia mal disegnato, e peggio inciso (qual era lo stato delle arti allora tra di noi); pur mostra assai chiaro di venire dal detto bassorilievo, o da pittura a quello somigliante: che il ritratto posto dinnanzi alla stampa di Napoli del 1726 dee essere assolutamente capriccioso, perché di un carattere affatto diverso; né al bassorilievo, né a quello datoci dal Reggente Sanfelice per niente somigliante; dal quale, come da monumento quasi che sincrono, volendosi il novello Editore dipartire; avea l’obbligo d’indicare donde ci avesse tirato il suo, come non fece.”.

Purtroppo non posso riportare il ritratto dell’edizione del 1636, irreperibile in rete e della quale l’Opac mi segnala l’esistenza di un solo esemplare nella Biblioteca universitaria di Bologna; nessun ritratto, invece, è risultato presente nell’edizione del 1726 consultata al link già indicato.

Comunque, il ritratto dell’edizione del 1796 fu poi ripreso, anzi copiato e firmato, da Giuseppe Morghen nell’incisione a corredo della biografia del nostro, a firma del citato Onorati, inserita nel terzo tomo (integralmente leggibile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=M_xpH6MzQ20C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ved=0CFMQ6AEwCGoVChMIpb_4rNu1yAIVRtoaCh3sBgSl#v=onepage&q&f=false) di Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, 1816, da cui è tratta l’immagine che segue.

A p. XVI il curatore così si esprime, sempre a proposito dell’edizione del 1726: “Sonovi pure lunghe annotazioni fatte al testo da Monsignor Antonio Sanfelice, Vescovo di Nardò; ma lunghe tanto, che opprimono lo stesso testo, scritto con quella mirabile sobrietà, che ne forma il pregio maggiore: son poi queste annotazioni quasi tutte tolte di peso con pochissima fatica dall’Apparato di Cammillo Pellegrino”.

Una stroncatura senza appello del vescovo, dunque, per quanto riguarda questo suo intervento da letterato operato sul lavoro di un suo ascendente. E mi piace  chiudere, per rendere meno greve l’atmosfera, con l’ausilio proprio del nostro monaco e del suo De rhinocerote già citato in nota 1.

Ricordato che il nostro rinoceronte deriva dal latino rhinocerote(m), di cui il rhinocerote del titolo è il caso ablativo, che la voce latina è dal greco  ῥινόκερως/ῥινοκέρωτος (leggi rinòkeros/rinokèrotos) composto da ῥίνος (leggi rinos=naso)+κέρας (leggi keras=corno) e che la n del nostro rinoceronte probabilmente è dovuto ad influsso di elefante, non mi resta che riprodurre il testo della poesia, tradurla e commentarla. Debbo però premettere che essa fu ispirata da un distico elegiaco che lo stesso Paolo Giovio (1483 circa-1552) asserisce, nel suo libro di nota 1, posto nell’atrio del suo museo (inteso come residenza in cui gli piaceva circondarsi di opere a lui care) in cui degli affreschi illustravano la natura di alcune creature viventi. Il distico recitava: Humanos elephas retinet sub pectore sensus/Rhinoceros nunquam victus ab hoste redit (L’elefante nasconde in petto sentimenti umani/Il rinoceronte mai torna vinto dal nemico).

Ecco la poesia di Antonio, 12 esametri, in cui il rinoceronte parla in prima persona e si contrappone all’elefante.

 

Io sono il rinoceronte strappato al  nero Indo3 ; da qui, dove (sono)  il vestibolo della luce e le porte del giorno, salii su una nave dell’Esperia4, vele temerarie che osarono andare a vedere nuove terre ed un altro sole. La città (Roma) un tempo aveva assistito allo spettacolo dei nostri scontri nello spettacolo del circo e l’arena aveva presentato come (nostro) nemico l’elefante5. Questo, massa che fida nello smisurato corpo, sfoga con me le patrie ire e le eterne lotte. Ma (noi rinoceronti) siamo corazzati6 da una triplice pelle e (sono nostre) armi una forza eccezionale e un corno dall’invincibile punta. Cade lo stesso elefante; mentre una freccia si conficca nell’addome, la solerte prudenza (dell’uomo) espugna le (sue) stupide forze.

______________

1 A parte Clio divina di cui si è già detto, fu autore di componimenti in latino sparsi qua e là: Ad illustrem Paschalem Caracciolum epigramma, in Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo, Giolito de’ Ferrari, Venezia, 1567, s. p. (https://books.google.it/books?id=KctWAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=pasquale+caracciolo+la+gloria+del+cavallo&hl=it&sa=X&ved=0CCIQ6AEwAWoVChMIgfW79OK1yAIVAgwaCh0OAA01#v=onepage&q=pasquale%20caracciolo%20la%20gloria%20del%20cavallo&f=false); De rhinocerote, in Paolo Giovio, Gli elogi, Torrentino, Firenze, 1551, p. 207 (https://books.google.it/books?id=YyIBfYj26bsC&pg=PA319&dq=paolo+Giovio+gli+elogi&hl=it&sa=X&ved=0CCUQ6AEwAWoVChMI_YST4uS1yAIVhj8aCh3gEgqI#v=onepage&q=paolo%20Giovio%20gli%20elogi&f=false).

2 Vescovo di Nardò dal 1707 fino al 1736, anno della morte), fratello maggiore di Ferdinando (Napoli, 1675 – Napoli, 1748), architetto,  uno dei maggiori esponenti del barocco napoletano.

Ritratto del vescovo; dipinto di proprietà privata (immagine tratta da http://www.europeana.eu/portal/record/08504/23F03A0A2021CC373FBB1DD775168392F56AA434.html?start=1&query=antonio+sanfelice&startPage=1&qt=false&rows=24)

Ritratto dell’architetto; immagine tratta da wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Ferdinando_Sanfelice), dove si legge Probabile ritratto del Solimena. Non so se l’estensore della scheda, o chi prima di lui, sia stato condizionato nell’attribuzione, per quanto probabile, dal fatto che l’architetto fu suo allievo o da motivazioni di carattere stilistico, ma, ad ogni buon conto, avrebbe fatto meglio a farci sapere da dove l’immagine è stata tratta; lo stesso rilievo  va fatto per l’immagine che si vede tal quale (cambia solo la didascalia che, in corsivo, appare evidentemente aggiunta a mano: Ferdinando San Felice/Architetto Napolitano contro FERDINANDUS SANFELICIUS/PATRITIUS NEAPOLITANUS/AETATE SUAE LX) in http://www.nobili-napoletani.it/sanfelice.htm

Sul vescovo vedi:  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/Marta Battaglini, I paramenti sacri del vescovo Antonio Sanfelice descritti nella visita pastorale del 1719, Congedo, Galatina, 1989; ; AA. VV., Un vescovo, una città. Antonio Sanfelice e Nardò (a cura di Maria Teresa Tamblè e Benedetto Vetere) Negroamaro, s. l.,  2012 (estratto degli atti del convegno del 9-10 dicembre 2002); sul vescovo e sull’architetto vedi Antonio e Fernando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Congedo, Galatina, 2003; sull’architetto: Mario Cazzato, Un inedito di Ferdinando Sanfelice, in Nardò nostra, Studi in memoria di don Salvatore Leonardo (a cura di Marcello Gaballo e Giovanni De Cupertinis), Congedo, Galatina, 2000.

3 Si sente l’eco del niger Indus di Marziale, Epigrammi, VII, 29.

4 Esperia è dal greco Ἐσπερία (leggi Esperìa)=terra occidentale, da ἐσπέρα (leggi espèra)=sera, regione del tramonto, ovest. Non credo sia casuale la contrapposizione, pur messa in bocca al coccodrillo, tra l’oriente e l’occidente, in cui l’alba e il tramonto diventano metafora della vita e della morte …

5 Nel 1514 un elefante bianco (chiamato Annone, in onore del generale di Annibale) giunse a Roma, dono del re del Portogallo al papa Leone X per la sua incoronazione. Dopo due anni lo stesso re donò allo stesso papa un rinoceronte. Quest’ultimo fu più fortunato perché perì per il naufragio nel golfo di La Spezia della nave che lo trasportava, al contrario di Annone che morì di angina due anni dopo il suo arrivo nella capitale. Ho definito il rinoceronte più fortunato dell’elefante perché la morte gli risparmiò la convivenza con l’uomo, profondamente convinto come sono  che nessun essere vivente, neppure un albero, debba essere eradicato e trapiantato senza la sua volontà, se non per il suo bene o per cause di forza maggiore, condizioni che, nella fattispecie, come in tante altre vicende dei nostri giorni, non mi sembrano assolutamente ricorrere. Vedi anche la nota precedente.

6 Traduco così loricamur, prima persona plurale dell’indicativo presente attivo del verbo loricare, non attestato nel latino classico ma in quello medioevale (e con entrambi  il nostro monaco giocava in casa …) , nel quale, oltretutto, loricati (participio passato di loricare) erano chiamati (cito dal glossario del Du Cange) Monachi sanctiorisas vitae, qui pro mortificatione, ut vocant, loricam ferream jugiter ad cutem induebant, nec pro quavis necessitate deponebant. Hos inter eminuit S. Dominicus cognomento Loricatus, a lorica ferrea quam per annos 15 ad carnem detulit (I monaci di vita più santa, che per mortificazione, come la chiamano, indossavano continuamente a fior di pelle una corazza di ferro e non se ne liberavano di fronte a qualsiasi necessità. Tra di loro eccelse S. Domenico detto il loricato, dalla corazza ferrea che per 15 anni indossò a contatto con la pelle).

 

30 novembre 2013. Un francobollo delle Poste Italiane celebra la Cattedrale di Nardò

Ancora un francobollo per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò. Questa volta delle Poste Italiane

 

 Cattedrale nardo lecce[1]

 

 

di Marcello Gaballo

 

 

Ed anche le Poste Italiane per la prima volta nella storia della filatelia onorano la città di Nardò e la sua Cattedrale emettendo un francobollo del valore di 70 centesimi, che si aggiunge ai cinque emessi dalle Poste Vaticane il 7 novembre scorso.

L’emissione, autorizzata dal Ministero dello Sviluppo Economico, è di oggi, 30 novembre, accompagnata da un annullo speciale, da una cartolina e da un bollettino illustrativo, tutti stampati a ricordo del pluri-festeggiato sesto centenario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

L’anniversario è stato solennemente celebrato l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa  la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi e dal quale è stato tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” riportato sui valori bollati.

Il francobollo ordinario, del valore di 0,70 €, è uno dei cinque emessi nello stesso giorno, tutti appartenenti alla serie tematica “il Patrimonio artistico e culturale italiano”, dedicati alla Mole Antonelliana in Torino, alle mura rinascimentali di Lucca, al sito archeologico di Alba Fucene (L’Aquila) e al complesso monumentale di Santa Sofia in Benevento.

Stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, è in calcografia, su carta bianca, patinata neutra, autoadesiva, non fluorescente; grammatura 90g/mq; il supporto è carta bianca, autoadesiva Kraft, monosiliconata da 80 g/mq; l’adesivo è del tipo acrilico ad acqua, distribuito in quantità di 20 g/mq (secco). Il formato carta è di mm. 40×48, mentre il formato stampa è di mm. 36×44. Il formato tracciatura è di mm. 47×54. La dentellatura è 11 effettuata con fustellatura, ad un colore.

I fogli sono di ventotto esemplari, per un valore di € 19,60.

La leggenda per il nostro è CATTEDRALE, NARDò, oltre la scritta ITALIA.

Il bozzetto del francobollo è di Rita Fardini. Il testo riportato sul bollettino illustrativo è a firma di Mons. Luigi Luperto.

La vignetta raffigura la facciata della Cattedrale, alta 21 metri, eretta dal vescovo Antonio Sanfelice su disegno del fratello, il celebre architetto napoletano Ferdinando.

Completata nel 1725, è rivolta a occidente e presenta tre portali, di cui il mediano è più alto, posti in corrispondenza delle tre navate.

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice
La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Come si legge nel recente volume di Giuliano Santantonio Ecclesia Mater “è ripartita in tre ordini. L’ordine inferiore presenta sei lesene in carparo con le loro basi, tra le quali sono inserite le tre porte in modo tale che ai lati della porta maggiore vi sono due lesene accoppiate per parte, alle quali seguono rispettivamente le due porte laterali affiancate ciascuna da una lesena semplice. Sulle porte minori vi sono due finestre circolari con vetri che consentono di illuminare le navate laterali. Sulle lesene vi sono capitelli scolpiti e una cornice marcapiano composita che corre orizzontalmente da un estremo all’altro, sopra la quale si eleva il secondo ordine della fabbrica, al centro del quale tra due lesene si apre una finestra quadrangolare più grande con vetri, da cui entra luce in tutta la basilica. Agli estremi laterali, sui due plinti che reggevano due statue di marmo, è riprodotto lo stemma del vescovo Sanfelice. Al di sopra della grande finestra centrale vi è un’altra finestra ovoidale a vetro assai più piccola, che all’epoca serviva per illuminare la parte soprastante il soffitto a lacunari della chiesa. Anche le lesene del secondo ordine sono munite di capitelli e sostengono un’altra cornice orizzontale, che separa questa parte della fabbrica dal fastigio. Tutto il prospetto ha forma quasi piramidale. In alto al centro vi è lo stemma del papa Benedetto XIII e ai due lati estremi del frontone vi sono i simboli araldici dei papi Clemente XI e Alessandro VII, mentre al centro della cornice superiore, sopra un plinto, si elevava la statua marmorea dell’Assunta. Le porte erano in noce, dipinte. Al di sopra della porta maggiore vi era un’epigrafe su lastra di marmo:

D.O.M.

CATHEDRALEM BASILICAM

IN HONOREM

DEIPARAE IN COELUM ASSUMPTAE DICATAM

VETUSTATE AC TERRAEMOTU LABENTEM

ANTONIUS SANFELICIUS EPISCOPUS

A FUNDAMENTIS RESTITUIT

NOVAMQUE FACIEM ADIECIT ET ARAM

ANNO SALUTIS MDCCXXV”.

 

L’annullo speciale è stato realizzato da Filatelia di Poste Italiane.

copia-di-cattedrale-centenario

Il francobollo e i prodotti filatelici correlati saranno posti in vendita oggi, sabato 30 novembre 2013, nell’Ufficio postale centrale di Nardò (Corso Garibaldi) (orario ufficio) e nel pomeriggio dello stesso giorno, dalle 16 alle 19, nel locale ubicato all’inizio di Corso Galliano.

 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/06/cinque-francobolli-per-ricordare-il-sesto-centenario-della-cattedrale-di-nardo-e-della-civitas-neritonensis/

Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò

Nardò, Cattedrale, busto argenteo di san Gregorio Armeno

di Marcello Gaballo

In altri post si è accennato al reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente rubato negli anni ’80. Oggetto di maggiore venerazione, almeno in questi anni, è il busto del Santo, portato processionalmente la sera del 19 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno riscoprendo il culto del santo.

Bisogna dare atto che i recenti comitati cittadini si stanno impegnando da qualche anno a incrementare la devozione al santo, con festeggiamenti che senz’altro il popolo gradisce e sostiene con i propri contributi volontari.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita del SS. Sacramento
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sorelle delle confraternita del SS. Sacramento e confraternita delle Anime Sante del Purgatorio

 

Nardò, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita di San Giuseppe

 

L’inclemenza del tempo e le troppe feste cittadine oscurano il giusto tributo che dovrebbe rendersi al santo patrono, ma si spera in una crescente sensibilità per onorare al meglio una delle più antiche devozioni, attestata fin dalla fine del XVI secolo.

Mi piace in questa nota riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò, visto che si continua ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, spesso datato con incertezza.

particolare del busto neritino di San Gregorio Armeno
particolare del busto neritino di San Gregorio Armeno
particolare del busto neritino di San Gregorio Armeno
particolare del busto neritino di San Gregorio Armeno

 

Anche in questo caso la ricerca premiò e una serie di atti notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestano che l’opera fu realizzata a Napoli nel 1717, come si evince anche dall’iscrizione posta sulla stessa.

A distanza di un anno il busto richiese un intervento di restauro e in un atto del notaio neritino Emanuele Bovino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice:

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batta Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batta have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales.

ancora un particolare del prezioso busto
ancora un particolare del prezioso busto

 

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Nella donazione infine si includevano duecento “stare di oglio, per farcene lo stucco della nostra Cattedrale, alla quale doniamo anche il cornicione di legno venuto da Napoli”.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Don Gino Di Gesù porta in processione la reliquia del braccio

 

Una successiva e definitiva conferma di tanta generosità la conferma ancora un atto notarile che viene stilato alla morte del vescovo Antonio, quando, nel 1736, fu redatto l’inventario dei beni da esso lasciati  alla Chiesa neritina, conservati nell’episcopio e nella tesoreria della cattedrale.

Stralcio quanto già pubblicato a suo tempo in Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il pastore e l’ architetto a Nardò nei primi del Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi, Galatina 2003:

Die nona mensis Januarii 1736. Neriti.

E continuandosi il notamento et inventario sudetto con l’ assistenza de deputati e con l’ intervento de testimonii sottoscritti si procedè ad annotarsi et inventariarsi li beni riposti nell’ appartamento piccolo.

Prima camera: una porta con maschiatura e chiave e maschiatura di dentro.

Una carta con l’ effiggie di tutti i Pontefici con cornice d’ apeto.

Carte francesi sopra tela senza cornici n° 18 e sei paesini con cornici.

Un braccio d’ argento con la reliquia di S. Francesco di Sales calato in sacrestia consignato al Rev. Sig. Abb. D. Giuseppe Corbino Tesoriero.

Una statua di argento a mezzo busto di S. Gregorio Armeno protettore e […] vi manca un po’ di rame indorata, et à man sinistra vi manca un po’ di argento, con il piede indorato dentro una cassa, con l’ imprese di detto Ill.mo Sanfelice, e due vite di ferro per vitare la statua sopra detto piede; et una cassa con due maschiature e chiavi in dove stava riposta la detta statua e braccio, calate in sacrestia e consignate al detto Sig. Tesoriere.

E l’ inventario continua con l’ elencazione degli altri argenti conservati nella prima stanza:

Un paglietto di argento per l’ altare maggiore[1] con la sua cassa e maschiatura e chiave, sulla quale vi mancano ventidue vite piccole seu chiodetti et in […] vi manca un po’ di argento, calato in sacrestia e consignato al detto Sig. Tesoriero.

Un baldacchino di argento fatto dal medesimo per esporre il SS.mo con la sua veste, cui mancano 30 chiodetti.

Sei candilieri grandi di argento per l’ altare maggiore fatti dalla B.M. di detto Vescovo, calati in sacrestia e consignati al detto Sig. Tesoriero.

Due ciarroni di argento dal medesimo per fiori che si mettono su l’ orlo dell’ altare maggiore sù le teste de’ cherubini; in uno vi mancano tre chiodetti e nell’ altro quattro con le loro vesti; calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Due reliquarii grandi di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi è l’ insigne reliquia delle fascie del S. Bambino, e nell’ altra de pallio […] et veste della Beata Vergine, sulli quali mancano due chiodetti d’ argento, calati in sacrestia e consignati al detto.

Sei altri reliquarii più piccoli di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi sono e reliquie di tutti SS. Apostoli; in un altro de Martiri; in un altro de Confessori; in un altro de Vergini; in un altro de Dottori della Chiesa e nell’ altro de Santi Abbati, in cinque de’ quali vi mancano alcuni pezzotti di argento nelli finimenti, quali si sono calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Una pisside grande nuova di argento con la sua veste ricamata fatta dal medesimo, calata in sacrestia e consignata al detto Tesoriere.

Sei candilieri grandi inargentati per ogni giorno per il gradino dell’ altare maggiore e sei craste dell’ istessa maniera fatte dal medesimo, e sei fiori seu frasche di carta inargentata fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Sei fiori di seta di diversi colori, due grandi e quattro piccoli e due splendori argentati fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Conclude la processione il busto del Santo portato “a spalla” da fedeli

 

[1] Si tratta del bellissimo paliotto argenteo del 1723, fatto realizzare a Napoli da Giovambattista D’ Aura, per l’ altare maggiore della Cattedrale di Nardò e che in circostanze recenti è stato esposto alla visione dei fedeli. E’ conservato nel Museo Diocesano.

Il conservatorio della Purità a Nardò e il vescovo Antonio Sanfelice

di Marcello Gaballo

 

 Nardò

 

L’ edificio del Conservatorio e dell’ annessa chiesa di S. Maria della Purità fu pensato, voluto realizzato da monsignor Antonio Sanfelice, napoletano, XXIV vescovo della diocesi, in carica dal 2/11/1707 sino al 1/1/1736, data della sua morte.

Di nobili natali e molto agiato economicamente, la nomina avuta da Clemente XI a vescovo della diocesi di Nardò fu accettata con rassegnazione

…Perchè quando in castigo della nostra povera diocesi fossimo eletti Vescovo di questa Chiesa, trovammo l’ Episcopio non solo spogliato, ma ridotto in istato che ebbimo da far porte, finestre e le chiavi medesime delle porte…

Nonostante l’ estremo disagio in cui versava la chiesa locale il Sanfelice si adoperò con ogni modo per ridarle lustro e onore, attingendo molto spesso al patrimonio personale e della sua famiglia.
A meno di un anno dalla sua nomina, speso per rimediare allo stretto necessario per l’ episcopio, concepì il disegno di realizzare una struttura in grado di ospitare le fanciulle in pericolo:
il quale havendo dal principio del suo presulato fondato un Conservatorio di sacre vergini in questa città di Nardò sotto il titolo di S. Maria della Purità  

per havere un luogo sicuro cui potesse tanto Sua Signoria Ill.ma, quanto i suoi successori custodire e dar refuggio à quelle povere vergini che potessero pericolare, tanto della città quanto della diocesi di Nardò…

La struttura fu realizzata e terminata nel 1710, facendo venire a sue spese da Meldola nella Romagna la madre suor Paula Maria della Volontà di Dio, con due altre sue compagne,

al fine di far tenere dalle vestite dell’ habito religgioso la scuola pubblica per istruttione delle zitelle, specialmente di questa città nelli rudimenti della fede e vita christiana, quanto in lavori proportionati à donne, e perchè si imbevessero di buone massime e fossero educate christianamente, come ha veduto pratticare con infinito frutto in molte città, di Napoli e di Italia…

La struttura per il suo funzionamento fu dotata di rendite personali del vescovo, col santo indendimento di spogliarci in vivo di quel che abbiamo per vivere secondo la legge del nostro stato, benchè siamo miserabili, e per ogni caso manchevoli

oltre a fornirlo delle

elimosine, che questuando Sua Signoria Ill.ma per la città e Diocesi à conseguito, e quel di più che da tempo in tempo ha donato al medesimo Conservatorio, et ha procurato
 

Per il grande amore che have portato e porta al detto Venerabile Conservatorio, stante il medesimo è stato fondato dal medesimo et alla bo(na) me(moria) della Vergine della Purità, have deliberato nella sua mente di donare quo titulo di donatione irevocabiliter frà vivi al detto Ven. Conservatorio… alcuni debiti del marchese di Oria: dovendo conseguire somme considerevoli alla povertà di nostra Chiesa non alle ricchezze, dal Sig. Marchese d’ Oyra, così per i danni fatti a Noi, seu alla nostra Chiesa…le doniamo al Venerabile Conservatorio di S. Maria della Purità eretto in questa nostra città in tempo nostro

la masseria di Donna Menga coi suoi beni:
 

applicare al Conservatorio tutta la dote della masseria di Donna Menga consistente in animali, carri ed altri utensili… costringendo le Religiose ed altre fanciulle del suddetto Conservatorio à vivere secondo la Regola da noi fatta, e purchè si mantenghino per sempre nello stato di Conservatorio…

e diversi altri beni come:
 

il calice inferiore che abbiamo col piede indorato, con i corporali, palle, tovaglie della nostra cappella e tutte le tovaglie dà mano, che non sono d’ orletto, e de corporali noi intendiamo del più nobile con miglior merletto fatto tutto d’ un pezzo, riservandocene l’ uso durante la nostra vita delli utensili sudetti.

e persino:
 

il proprio nostro letto, fornito di matarazzo, lenzuole e coverta, che potrà servire per qualche povero infermo, non permettendo con povertà delli infermi d’ ammalarsene l’ altre sane.
 

Inoltre, scrive sempre il vescovo nel suo testamento del 1725:

doniamo e vogliamo che restino incamerate le poche robbe che si descriveranno appresso, cioè tutti i quadri a olio, che sono nelli appartamenti inferiori, con immagini di alcuni Santi, del Sommo Pontefice […], nostro insigne benefattore, con cornice intagliata e dorata, di molti signori Cardinali, le sedie di corame e di paglia, i due grandi cantarani (cassapanche) d’ oliva e pero, tutti i baulli, carte forastiere messe in telaro ò che pendono dà bastoni, il quadro della SS.ma Visitazione di Nostra Signora, giorno della nostra nascita, fatta dipingere in Roma, destinato da noi per la cappella superiore dell’ Episcopio secondo il nostro disegno, cioè che dovrà venire sopra il secretario della nostra S. Basilica, e vicino le stanze che decidiamo di fabricare sopra il nuovo Archivio. Doniamo tutti gli altri letti à nostri successori, seu l’ incameriamo descritti in un inventario solenne prima che andassimo in Roma per difesa della nostra S. Chiesa. Doniamo tutti i nostri libri, che ò ci sono stati donati ò abbiamo comprato in Roma, ò che aspettiamo da Napoli

Il tutto…

sperando dal Signore la restituzione delle migliaia di scudi, che hà speso la nostra Casa dà che son Vescovo e di quel che di robba di casa ho donato… perchè non essendoci approfittati di un carlino della robba di nostra Chiesa, anzi come habbiamo dato alla Chiesa di proprio, il Signore ce lo renderà centuplicato secondo la sua divina promessa.

Per il buon funzionamento del luogo pio il presule aveva…

dato le regole varie ordinazioni sin dal principio della fondatione, fra le quali che non possa mai eriggersi in monastero claustrale, essendocene a sufficienza in detta città, necessitando à Vescovi un luogo senza clausura per i sudetti motivi di dar refuggio a pericolante vergini di questa città e diocesi

Realizzato il Conservatorio, dunque, fu necessario erigervi una chiesa accanto per comodità delle sue ospiti. Avviata nel 1719, su progetto dell’architetto Ferdinando Sanfelice, la chiesa fu infatti portata a termine nel 1722, come si evince dall’epigrafe incisa sull’architrave del portale.

Quindi con l’ intendimento

che stimiamo più utile à Vescovi per avervi un luogo di refugio per povere vergini pericolanti in occasione di bisogno; e questa è la nostra precisa volontà e per questo abbiamo stabilito nella nostra città di Nardò questa nuova casa pia

Al Conservatorio si aggiunse poi l’ opera pia disposta da Francesco Saverio Vernaleone .
Riconosciuta Ente Morale e Giuridico con R. Decreto del 5/8/1920, fu amministrata fino al 1937 dalla Congregazione di Carità, poi dall’ E.C.A., fino al giugno 1978, quindi sottoposta alla disciplina delle II. PP. A.B, così come avvenne per diverse altre opere e legati trasformate in titoli di Stato.
Nel 1985 il Consiglio di amministrazione racchiuse in un unico statuto il regolamento delle due distinte opere pie, le uniche rimaste, e cambiò le denominazioni, Orfanotrofio Femminile Vernaleone e Opera Pia Conservatorio in una unica: Istituto femminile Vernaleone.


Così avvenne la cancellazione della chiara volontà del vescovo Sanfelice, che a sue spese aveva realizzato quel bene
che ancora oggi può vedersi tra le Vie Sambiasi e San Giovanni, che mai come IPAB era stato trasferito per competenza al Comune di Nardò.

Con delibera del 31/1/2000 (n° 7/2000) il Consiglio Comunale di Nardò ha dichiarato l’estinzione dell’Istituzione così trasformata e la contemporanea attribuzione in proprietà al Comune di Nardò del patrimonio dell’ Ente, tra cui lo stabile di cui sopra.

La delibera faceva seguito a quella del 26/10/99 del Consiglio di Amministrazione del Vernaleone, nella quale si prendeva atto dell’ impossibilità a proseguire gli scopi statutari, evidenziando che le spese di gestione ordinaria non venivano coperte dagli introiti, ultimamente rappresentati esclusivamente da quelli rinvenienti da alcuni progetti attivati con l’ Amministrazione Comunale di Nardò, venendo a mancare i minori da ospitare come in precedenza, per una nuova volontà politica della provincia e dei Comuni di affidare i minori con difficoltà non più alle Istituzioni, ma alle famiglie.

Ci piace concludere con quanto mons. Sanfelice scrisse nel suo citato testamento del 1725 a proposito della sua creazione, il Conservatorio di S.Maria della Purità:

…e ci rimettiamo alla carità di quei che ne averranno cura; et à nostri successori di farci fare quei suffragii per l’ anima nostra, che ad essi parerà, lasciandolo à loro arbitrio.

Santi patroni e filantropi nel “cielo” ligneo della Cattedrale di Nardò

di Paolo Giuri

Ricostruendo le vicende del restauro ottocentesco della cattedrale di Nardò sono emersi, contestualmente alle discussioni tecniche e metodologiche, momenti di intima religiosità che aiutano a focalizzare ulteriormente l’attività pastorale di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1888-1908).

Nel 1892 lo stato di conservazione della cattedrale neretina indusse il vescovo ad escludere qualsiasi ipotesi di conservazione a favore di una nuova costruzione su progetto di Filippo e Gennaro Bacile di Castiglione.

L’ultimo rilevante intervento, curato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice (1725) durante il vescovato del fratello Antonio (1708-1736), era stato finalizzato al consolidamento della navata principale, alla realizzazione della facciata e all’adeguamento stilistico dell’edificio, avendo cura di preservare rispettosamente la memoria architettonica[1].

Di fatto, nel corso dei lavori preparatori alla demolizione, su insistenza di Ricciardi e dell’ing. Antonio Tafuri, furono eseguiti alcuni saggi conoscitivi ed inaspettatamente apparvero tracce più antiche.

Ricciardi, persona dotata di una singolare coscienza conservativa[2], non esitò a richiedere l’intervento del competente Ministero della Pubblica Istruzione, nonostante la forte opposizione di alcune rappresentanze cittadine e del progettista. Avvenne cosi l’incontro tra il lungimirante prelato e Giacomo Boni[3], Ispettore presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, incaricato di recarsi a Nardò per esaminare e relazionare sulle inattese scoperte.

navata centrale della cattedrale di Nardò (ph P. Giuri)

Boni osservò accuratamente l’edificio e giudicò la Cattedrale come «l’anello di congiunzione tra le due forme di architettura, la greca e la saracena, che hanno popolato di monumenti le provincie meridionali; essa è pure un prezioso monumento, nobile e severo nella linea, grandiosamente semplice, dei suoi pilastri e delle sue arcate»[4], la cui alterazione non si poteva tollerare.

Con il consenso ministeriale si procedette all’eliminazione delle superfetazioni e lungo la navata maggiore vennero alla luce alcuni dipinti murali trecenteschi, i pilastri e semicolonne con archi a sesto acuto (lato nord) e a tutto sesto (lato sud), l’arco trionfale, le antiche finestre e il tetto a capriate, sino ad allora occultato dal soffitto a cassettoni voluto dal vescovo Orazio Fortunato (1678-1707).

L’ispettore ministeriale fu tra i primi ad osservare attentamente le trentaquattro incavallature e a rilevare le decorazioni policrome e le iscrizioni a grandi lettere gotiche sul lato di alcune travi-catene; i riferimenti espliciti al Principe di Taranto Roberto d’Angiò e all’abate Bartolomeo consentirono a Boni di datare la realizzazione tra il 1332 (anno in cui Roberto assunse il principato) e il 1351 (anno di morte dell’abate), periodo storico confermato anche dai caratteri dell’iscrizione[5].

L’importanza dei rinvenimenti indusse il vescovo ad accantonare il progetto Bacile e ad assegnare all’ing. Antonio Tafuri il compito di redigerne un altro, attenendosi alle prescrizioni di Boni filtrate dall’istituzione ministeriale.

Come azione preliminare, al fine di garantire la staticità architettonica, furono sostituiti i pilastri in pietra leccese a sostegno degli archi a tutto sesto (lato sud della navata maggiore), «schiacciati e deviati» rispetto ai corrispondenti in carparo «solidi e ben conservati» (lato nord)[6]. Seguirono numerosi altri lavori per i quali rimando alla specifica letteratura, ad eccezione dell’intervento per le capriate della navata maggiore, il cui rifacimento fu necessario soprattutto per il pessimo stato di conservazione delle catene, «guaste e tarlate nei punti di appoggio alla muratura»[7].

L’interesse per questa fase di lavori prescinde dalle disamine tecnico-costruttive e si sofferma sulla singolare valenza religiosa e devozionale documentata da una inedita cronaca. Boni, per conto del Ministero, acquistò da Venezia 127 metri cubi di legno di larice (243 travi di cui 190 nuove acquistate dalla ditta Lazzaris e 53 provenienti dai restauri del Palazzo Ducale veneziano), mentre da Taranto pervennero le trentaquattro travi-catene (di metri 10.20) di pick-pine fornite dalla ditta Luigi Blasi e C.

Rimosse le travi policrome[8], il 13 agosto del 1895 si procedette alla messa in opera e il vescovo Ricciardi, come riferisce il documento citato, «accompagnato dal suo Capitolo e Clero, si faceva ad inaugurare la copertura del tetto della nave maggiore della Chiesa con la Benedizione della prima capriata»[9].

Iniziò, dunque, una speciale funzione religiosa solennemente allietata:

«Difatti dopo il canto del Laudate pueri Dominum, del Nisi Dominus custodierit civitatem, del Lauda Jerusalem Dominum, s’intonò l’Ave Maris Stella e si benedisse la capriata dedicandola alla Vergine Santa Maria titolare Assunta in Cielo. E quando l’abile manovra dei carpentieri tarantini sollevava tutta armata ed intera la capriata, si sciolse il Cantico del Magnificat alla Vergine al suono di tutte le campane della Città.

Colla copertura del tempio si fanno voti affinché si abbrevi il tempo che priva la Città della sua Cattedrale, e che si inauguri al più presto la solenne sua destinazione al Culto colla Consacrazione.

Le altre capriate saranno dedicate con questo motto; la seconda: Sancte Michael Arcangele defende nos in praelio; la terza: Sancte pater Gregori esto memor nostra; la quarta: Sancte Antoni ora pro nobis; la quinta: Sancte Sebastiane ora pro nobis; la sesta Sancte Joseph a Cupertino ora pro nobis; la settima: Sancte Joannes Elemosynari ora; l’ottava: Sancte Roche ora; la nona: Sancte Georgi ora; la decima Sancte Quintine ora; l’undecima: Sancte Leuci Martyr ora; la duodecima: Sancte Paule Apostoli; la tredicesima: Sancte Nicolae ora; la quattordicesima: Sancte Martine; santi questi protettori della Città e luoghi della Diocesi.

Le altre venti capriate si avranno il nome delle famiglie benefattrici della Cattedrale, con i nomi celesti del principale di famiglia: quindi la decima quinta capriata avrà il nome: O Emmanuel Salvator noster; la decima sesta Sancta Marianna ora pro nobis; la decima settima Sancte Aloysi ora pro nobis; la decima ottava: Sancte Raymonde ora pro nobis; la decima nona Sancte Ferdinande ora pro nobis; i quali titoli o nomi celestiali corrispondono alle rispettive famiglie di questa cospicua e nobilissima Città di Nardò, cioè alle benemerite famiglie De Pandi-Dellabate, Tafuri, Vaglio, Personè.

Quando si salì la prima capriata, incominciando dall’ingresso maggiore a man destra, si pose una deca di piombo legata con fettuccia celeste, con suggello dall’impronta dello stemma di Monsig. Ricciardi contenente l’effigie del Sacro Cuore di Gesù, della Vergine Santa Immacolata, di S. Giuseppe Patriarca e S. Michele, di S. Benedetto e del Sommo Pontefice regnante Leone XIII.

La Vergine Santa come assistette Monsig. Ricciardi nel salvare dall’ultima rovina già decretata questo suo tempio normanno, così lo compisca a Suo onore e gloria»[10].

Il documento non è datato o firmato, ma quasi certamente il redattore fu testimone dell’evento e «al suono di tutte le campane della Città» condivise con i fedeli neretini la contentezza per l’approssimarsi della fine dei lavori poiché sin dal 1892 la chiesa era stata interdetta al culto e le lungaggini dovute alla scelta delle metodologie appropriate e alle difficoltà economiche avevano accresciuto il desiderio della riapertura.

annullo postale centenario della dedicazione della cattefrale di Nardò (coll. priv.)

La dedica alla Vergine Assunta, titolare della chiesa cattedrale sin dalla fondazione, rinsaldava la devozione della cittadinanza e del clero diocesano due giorni prima della celebrazione ufficiale (15 agosto)[11]; l’intitolazione al patrono civico e ai due compatroni s. Michele e s. Antonio da Padova[12] rinnovava l’invocazione alla santa protezione suggellata dalla presenza simbolica degli altri patroni diocesani riuniti sotto lo stesso cielo ligneo[13].

Con gli eponimi santi sarebbero stati ricordati ed onorati anche i rappresentanti delle famiglie benefattrici che sostennero il completamento del restauro: i fratelli De Pandi-Dell’Abate commissionarono il pavimento e il restauro della cappella di s. Marina, la nobildonna Clementina Personè offrì il nuovo organo e la famiglia Vaglio la balaustra del presbiterio[14].

La deposizione della teca con le sante figure è il documento tangibile a ricordo dell’evento e per una inaspettata similitudine riporta all’antica tradizione di riporre l’effige di un santo, quella del protettore cittadino o al quale si è votati, sulla sommità di un edificio al termine della costruzione come segno di ringraziamento e richiesta di protezione[15].

L’invocazione finale schiude al lettore l’intima preghiera del cronista affinché la santa intercessione, guida e sostegno spirituale per il vescovo, possa sostenere il compimento dell’opera, la cui riconsacrazione (27 maggio del 1900) culminò con la celebrazione pittorica del Maccari nel catino absidale[16].

La cerimonia rientra, dunque, nel processo di evangelizzazione avviato dal vescovo al fine di infondere una pratica religiosa ed una partecipazione cristiana «fortemente sentiti e vissuti senza cedimenti a manifestazioni formali ed esteriori che immiseriscano e svuotino di significato e contenuto spirituale il sentimento religioso»[17].

Non di rado l’intransigenza religiosa coincise con una azione di restaurazione culturale e di recupero della coscienza identitaria, quale presupposto indispensabile per una migliore cultura conservativa. L’acceso confronto sui temi della tutela e della conservazione che il vescovo Ricciardi promosse in città con il conforto di Giacomo Boni fu la conseguenza positiva del nuovo clima intellettuale a sostegno del recupero dei beni culturali[18].


[1] G.B. Tafuri, Dell’origine sito ed antichità della Città di Nardò. Libri due brevemente descritti da Gio. Bernardino Tafuri in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli 1848, 501-508, E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, Galatina 1982, 67-84; cfr. M.V. Mastrangelo, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”, in «Spicilegia sallentina», 2 (2007), 69-76. Per la storia della cattedrale si veda pure B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’Abazia Benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico critico, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1980, I, 199-254; C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già Chiesa Abbaziale di S. Maria Assunta). Nardò, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1985, II, 2, 433-440.

[2] Per il profilo biografico si veda G. Falconieri, Discorso commemorativo di S.E.Rev.ma Mons. Giuseppe Ricciardi per la traslazione della salma nella Cattedrale di Nardò, in «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò», 1 (1955), 61-74; O.P. Confessore, Zelo pastorale e attività civile di Mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1889-1908), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVI (1972), 436-471; C. Rizzo, L’Episcopato di Mons. Giuseppe Ricciardi (1888-1908), in A. Cappello, B. Lacerenza, a cura di, La Cattedrale di Nardò e l’Arte Sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001, 57-64.

[3] Per il profilo biografico si veda E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, Milano 1932, 2 voll.;E. Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), fasc. 1-2, 3-34, 193-224.

[4] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 204

[5] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 219-220.

[6] A. Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, 19.

[7] Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 30.

[8] Il vescovo e Boni si preoccuparono sin dai primi momenti della loro conservazione e fu proposto di impiegarle per la copertura di una sala dell’episcopio e poi per la sacrestia. Ma, nonostante l’approvazione dei progetti dell’arch. Ettore Bernich da parte del Consiglio Superiore di Belle Arti, l’intervento non fu eseguito ed ignota rimane la sorte delle antiche travi la cui esistenza è documentata nel 1936 quando furono ispezionate dai funzionari della Soprintendenza (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 13). Fortunatamente l’arch. Pier Olinto Armanini e il pittore Primo Panciroli copiarono in parte le decorazioni policrome per riprodurle sulle nuove travature (cf C. Boito, G. Ricciardi, G. Moretti, In memoria di P. O. Armanini. La Cattedrale di Nardò. La Cascina Pozzobonello in Milano, Milano 1898; P. Panciroli, Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò, Roma 1904).

Per lo studio iconografico e iconologico delle decorazioni si veda C. Gelao, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi,  «I quaderni dell’Amministrazione provinciale», n. 9, Bari, s.d.; M. Gaballo, Per Visibilia ad Invisibilia. Un bestiario sulle antiche travi, in M. Gaballo – F. Danieli, Il mistero dei segni, Galatina 2007, 21-63. Tuttora nella cattedrale neretina sono visibili solo dodici travi antiche che coprono la volta del presbiterio, mentre una è depositata presso il vicino Seminario (cf M.V. Mastrangelo, La distrutta travatura della Basilica Cattedrale di Nardò. Note tecniche, in Gaballo – Danieli, Il mistero dei segni, cit., 65-72).

[9] A.S.C.N. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Nardò), B. 14, s.d.

[10] Ivi.

[11] Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 508

[12] Sant’Antonio di Padova fu il primo protettore della città poi detronizzato in un periodo non definito da s. Michele Arcangelo. L’origine di questo patronato fu chiarita da G.B. Tafuri: «essendo decaduta la città dal diritto viver cristiano, un giorno verso il mezzodì oscurata l’aria, con tuoni e fulmini diedesi a divedere il cielo irato, e da certe nubi distaccavansi alcuni globi di fuoco, i quali facevan mostra di cascare sopra della città. Atterriti i Neretini di si spaventevole veduta invocaron con fiducia l’aiuto dell’Arcangelo S. Michele. Incontanente si vide quel potentissimo principe Angelico frapporsi fra quelle fiamme, e trattenerle, e dopo poco spazio di tempo il cielo si fece sereno».

I Neretini a ricordo dell’evento fecero coniare una moneta e lo dichiararono protettore della città (Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 346-347). Nel IX secolo il patronato civico passò a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono traslate a Nardò nella seconda metà del VIII sec.. Il coinvolgimento devozionale per il santo Illuminatore subì un forte rinnovamento con il processo di evangelizzazione post-tridentina (mons. Cesare Bovio curò la conservazione della reliquia del braccio in un teca d’argento) e proseguì con i vescovati di Luigi De Franchis (dichiarazione della festa dedicata al Santo il 1 ottobre), Girolamo de Franchis (dedicazione di un altare della cattedrale), Orazio Fortunato (la costruzione del cappellone di San Gregorio sul lato sud della cattedrale e il reliquiario d’argento dorato a braccio) e mons. Antonio Sanfelice (nel 1717 donò alla città il prezioso busto reliquiario). L’intervento salvifico dalla distruzione del terremoto del 20 febbraio del 1743, palesato dal movimento della statua del santo posta sul Sedile della piazza, rappresentò il definitivo suggello del forte legame tra il santo armeno e la città (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 118-120; M. R. Tamblè. Il culto di San Gregorio Armeno a Nardò, in 20 febbraio 1743-1993. 250° Anniversario, 10-14; B. Vetere, Il patronato civico di S. Gregorio Armeno, in «Neretum», 1 (2002), 7-16).

[13] Alliste: San Quintino; Aradeo: San Nicola di Myra; Casarano: San Giovanni Elemosiniere; Copertino: San Sebastiano (solo dall’Ottocento San Giuseppe da Copertino); Felline: San Leucio Martire; Galatone: San Sebastiano; Matino: San Giorgio (dal Novecento, compatrona Madonna del Carmine); Melissano: Sant’Antonio di Padova; Nardò: San Gregorio Armeno (compatroni San Michele Arcangelo e Sant’Antonio di Padova); Neviano: San Michele Arcangelo (compatrona Madonna della Neve); Parabita: San Sebastiano (compatrono San Rocco e solo dal Novecento patrona Madonna della Coltura); Racale: San Sebastiano; Seclì: San Paolo Apostolo; Taviano: San Martino di Tours (ringrazio don Francesco Danieli per le notizie sui santi patroni). Per la cronistoria della Diocesi di Nardò, di Gallipoli e poi di Nardò-Gallipoli (dal 1986) si veda F. Danieli, Nardò-Gallipoli, in S. Palese – L.M. de Palma (a cura di),  Storia delle Chiese di Puglia, Bari 2008, 251-270.

[14] Cf Falconieri, Discorso commemorativo, cit., 68-69; Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 98-111.

[15] Il rito si concludeva profanamente con il “capocanale”, un banchetto di ringraziamento per tutti gli operai che avevano partecipato all’impresa (M. Congedo, Il Capocanale, in «Apulia», IV (dicembre 2005).

[16] Cf A. Cappello – B. Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001.

[17] Confessore, Zelo pastorale e attività, cit., 443.

[18] P. Giuri, Alcuni contributi alla storia del restauro del patrimonio storico-artistico nel Salento, in R. Poso(a cura di), Riconoscere un patrimonio. Storia e critica dell’attività di conservazione del patrimonio storico-artistico in Italia meridionale (1750-1950), Atti del Seminario di studi (Lecce, 17-19 novembre 2006), Galatina 2007, 169.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Un busto di San Gregorio Armeno tra i tesori della cattedrale di Nardò

Nardò, Cattedrale, busto argenteo di san Gregorio Armeno

di Marcello Gaballo

Nel precedente post si è accennato al reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente rubato negli anni ’80. Oggetto di maggiore venerazione, almeno in questi anni, è il busto del Santo, portato processionalmente la mattina del 20 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno riscoprendo il culto del santo.

Bisogna dare atto che il neo-costituito comitato cittadino si sta impegnando da qualche anno a incrementare la devozione al santo, con festeggiamenti che senz’altro il popolo gradisce e finanzia.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita del SS. Sacramento
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sorelle delle confraternita del SS. Sacramento e confraternita delle Anime Sante del Purgatorio
Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Sodali delle confraternita di San Giuseppe

L’inclemenza del tempo e le troppe feste cittadine oscurano il giusto tributo che dovrebbe rendersi al santo patrono, ma si spera in una crescente sensibilità per onorare al meglio una delle più antiche devozioni.

Mi piace in questa nota riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò, visto che si continua ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, spesso datato con incertezza.

Anche in questo caso la ricerca premiò e una serie di atti notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestano che l’opera fu realizzata a Napoli nel 1717, come si evince anche dall’iscrizione posta sulla stessa.

A distanza di un anno il busto richiese un intervento di restauro e in un atto del notaio neritino Emanuele Bovino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice:

Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batta Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batta have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…

Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.

Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales.

Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Nella donazione infine si includevano duecento “stare di oglio, per farcene lo stucco della nostra Cattedrale, alla quale doniamo anche il cornicione di legno venuto da Napoli”.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Don Gino Di Gesù porta in processione la reliquia del braccio

Una successiva e definitiva conferma di tanta generosità la conferma ancora un atto notarile che viene stilato alla morte del vescovo Antonio, quando, nel 1736, fu redatto l’inventario dei beni da esso lasciati  alla Chiesa neritina, conservati nell’episcopio e nella tesoreria della cattedrale.

Stralcio quanto già pubblicato a suo tempo in Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il pastore e l’ architetto a Nardò nei primi del Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi, Galatina 2003:

Die nona mensis Januarii 1736. Neriti.

E continuandosi il notamento et inventario sudetto con l’ assistenza de deputati e con l’ intervento de testimonii sottoscritti si procedè ad annotarsi et inventariarsi li beni riposti nell’ appartamento piccolo.

Prima camera: una porta con maschiatura e chiave e maschiatura di dentro.

Una carta con l’ effiggie di tutti i Pontefici con cornice d’ apeto.

Carte francesi sopra tela senza cornici n° 18 e sei paesini con cornici.

Un braccio d’ argento con la reliquia di S. Francesco di Sales calato in sacrestia consignato al Rev. Sig. Abb. D. Giuseppe Corbino Tesoriero.

Una statua di argento a mezzo busto di S. Gregorio Armeno protettore e […] vi manca un po’ di rame indorata, et à man sinistra vi manca un po’ di argento, con il piede indorato dentro una cassa, con l’ imprese di detto Ill.mo Sanfelice, e due vite di ferro per vitare la statua sopra detto piede; et una cassa con due maschiature e chiavi in dove stava riposta la detta statua e braccio, calate in sacrestia e consignate al detto Sig. Tesoriere.

E l’ inventario continua con l’ elencazione degli altri argenti conservati nella prima stanza:

Un paglietto di argento per l’ altare maggiore[1] con la sua cassa e maschiatura e chiave, sulla quale vi mancano ventidue vite piccole seu chiodetti et in […] vi manca un po’ di argento, calato in sacrestia e consignato al detto Sig. Tesoriero.

Un baldacchino di argento fatto dal medesimo per esporre il SS.mo con la sua veste, cui mancano 30 chiodetti.

Sei candilieri grandi di argento per l’ altare maggiore fatti dalla B.M. di detto Vescovo, calati in sacrestia e consignati al detto Sig. Tesoriero.

Due ciarroni di argento dal medesimo per fiori che si mettono su l’ orlo dell’ altare maggiore sù le teste de’ cherubini; in uno vi mancano tre chiodetti e nell’ altro quattro con le loro vesti; calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Due reliquarii grandi di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi è l’ insigne reliquia delle fascie del S. Bambino, e nell’ altra de pallio […] et veste della Beata Vergine, sulli quali mancano due chiodetti d’ argento, calati in sacrestia e consignati al detto.

Sei altri reliquarii più piccoli di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi sono e reliquie di tutti SS. Apostoli; in un altro de Martiri; in un altro de Confessori; in un altro de Vergini; in un altro de Dottori della Chiesa e nell’ altro de Santi Abbati, in cinque de’ quali vi mancano alcuni pezzotti di argento nelli finimenti, quali si sono calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.

Una pisside grande nuova di argento con la sua veste ricamata fatta dal medesimo, calata in sacrestia e consignata al detto Tesoriere.

Sei candilieri grandi inargentati per ogni giorno per il gradino dell’ altare maggiore e sei craste dell’ istessa maniera fatte dal medesimo, e sei fiori seu frasche di carta inargentata fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Sei fiori di seta di diversi colori, due grandi e quattro piccoli e due splendori argentati fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.

Nardò, 20 febbraio 2010, processione in onore del santo. Conclude la processione il busto del Santo portato “a spalla” da fedeli

[1] Si tratta del bellissimo paliotto argenteo del 1723, fatto realizzare a Napoli da Giovambattista D’ Aura, per l’ altare maggiore della Cattedrale di Nardò e che in circostanze recenti è stato esposto alla visione dei fedeli.

Correva l’anno di grazia 1725…

di Giuseppe Massari

Come tutti sanno, o dovrebbero sapere, i lavori di ristrutturazione interna e della sistemazione della facciata esterna centrale della chiesa cattedrale di Nardò, nel 1725, durante l’episcopato di mons. Antonio Sanfelice, ebbero un impulso notevole, grazie anche all’apporto del fratello del presule, Ferdinando.

particolare della cattedrale di Nardò

Non va dimenticato che in quell’anno, nel pieno dei lavori, era in corso il Giubileo, indetto da Benedetto XIII, nel 1724, a soli pochi mesi dalla sua elezione al Soglio pontificio, con la Bolla “Redemptor et Dominus noster”.

Questa singolare coincidenza fa supporre che lo stemma dell’Orsini, poiché il regnante pontefice apparteneva a quel nobile casato, posto nella zona più alta del sacro edificio, sia stato posizionato per immortalare nei secoli il grande evento giubilare. Per ricordare il santo pontefice e la sua intensa, anche se breve,  azione pastorale, da supremo capo della Chiesa universale.

il cardinale Vincenzo Orsini, poi Benedetto XIII

Infatti, il suo pontificato ebbe inizio il 29 maggio 1724 e si concluse, a compimento della giornata terrena, il 21 febbraio 1730, vigilia del mercoledì delle ceneri.

Ad onor del vero, per correttezza d’informazione, va precisato che la riproduzione del blasone papale, sia pure provvisto di tiara, segno del potere temporale e delle chiavi simbolo della regalità divina, è parziale. Possiamo dire che punta all’elemento essenziale, così come avviene, di

Libri/ Antonio e Ferdinando Sanfelice

“Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento”
 

a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Lavello (Potenza), Congedo Editore-Galatina, 2003. 315×220 mm., 152 pagine, con 119 tra rilievi e fotografie b/n di Raffaele Puce. Supplemento I della collana “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò e Gallipoli”. 20 Euro.

Prefazione di B. Lacerenza, preside dell’Istituto Statale d’Arte. Contributi di S. Bove Balestra, A. Campo, R. Casciaro, G. De Cupertinis, D. Falconieri, M. Gaballo, L. Galante, V. Manca, F. Musumeci, P. Peri, F. Rizzo

Davvero fortunata ed interessante la serie di volumi curati dall’Istituto Statale d’Arte di Nardò. Il primo riguardava la chiesa ed il convento dell’Incoronata, il secondo la cattedrale di Nardò e le pitture di Cesare Maccari nel coro dello stesso edificio. Ora la scuola ha lavorato per un superbo progetto, l’analisi delle opere dell’architetto Ferdinando Sanfelice (Napoli, 1675-1748) in città, in concomitanza con l’episcopato del fratello Antonio (Napoli, 1660-Nardò, 1707), XXIV vescovo della diocesi di Nardò, in carica per circa trent’anni.

Questo volume, ben curato e con illustrazioni di effetto, illustra l’operato e l’attività pastorale dei due fratelli che cambiarono lo spirito e l’arte a Nardò nei primi decenni del Settecento.

Ben inseriti nel contesto napoletano (la loro famiglia era tra le più in vista nella capitale del regno), trasferirono a Nardò stuoli di maestranze e capolavori dei più grandi artisti napoletani, tra i quali opere di Olivieri, De Matteis, Luca Giordano e Francesco Solimena, maestro ed amico di Ferdinando.

All’elenco delle opere artistiche tuttora esistenti in città si affianca lo studio più approfondito della chiesa del Conservatorio, che Antonio volle realizzare per le fanciulle ospiti nell’istituzione e per conservare i suoi resti mortali.

Progetti, rilievi, studio di particolari eseguiti dagli studenti della scuola ed esauriente documentazione fotografica ne fanno un testo importante.

Non è da meno la ricerca archivistica, che vanta la riproduzione dei disegni dell’architetto conservati nel museo napoletano di Capodimonte e la pubblicazione integrale dell’inedito testamento del vescovo, ritrovato negli atti notarili dell’archivio di Stato di Lecce.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!