Antonio Mingolla, tra sguardi, corporeità e leggerezza

Antonio Mingolla, Equilibrio

 

di Alessio Palumbo

 

Trattandosi della prima intervista per il sito della Fondazione Terra d’Otranto, le chiediamo di presentarsi ai nostri lettori. Ci dia qualche nota biografica, ma soprattutto ci parli del suo percorso artistico.

Sono nato a Brindisi il 10 marzo 1983 ed ho studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; appassionato cultore della nostra storia, sono stato co-fondatore del Gruppo Archeo Brindisi, collaborando a numerosi progetti per lo studio e la salvaguardia del patrimonio storico ed artistico della mia città e del suo territorio.

Nonostante la giovane età, ho già nel mio pregresso numerose mostre personali e diverse collettive d’arte. Oggi vivo in Veneto e insegno discipline pittoriche in un istituto superiore.

Per ciò che attiene il mio percorso artistico, in un primo periodo ho realizzato soprattutto architetture dipinte e paesaggi urbani tutti molto dettagliati. Tanto rigore e precisione geometrica, che sembrava sottintendere tranquillità, poneva in risalto l’inconsapevole assenza della figura umana.

Durante il soggiorno a Venezia, bellissima città che mi ha fortemente segnato nel carattere e nelle vedute personali, ho avviato una sorta di seconda fase: ho rivisto e maturato diverse tecniche, concentrandomi sulle figure e particolarmente sui volti e sul fisico, sforzandomi di cogliere ed evidenziare la differenza tra la corporeità dell’uomo e la leggerezza della sua psiche.

Il risultato di tale percorso sono state le varie mostre tenute in numerose città come Lecce, Milano, Pechino e, ultima in ordine di tempo, Venezia, presso la Carriòn Gallery.

paesaggio architettonico

 

Ritratto

 

studio per un personaggio del fumetto. Olio su carta

 

senza tempo. olio e foglia oro su tela.

 

Soffermiamoci per un momento sulla produzione artistica. La prima impressione che si ha osservando le sue opere è quella di trovarsi di fronte ad un affascinante gioco temporale: soggetti appartenenti al passato, volti e corpi da arte classica, rinascimentale o barocca, ma con tracce di attualità

Tecnicamente mi ritengo legato al passato, ma le tematiche, i corpi e gli sguardi sono decisamente attuali, anche perché sono ispirato dalle persone che incontro casualmente o volutamente. Mi sforzo di ritrarre il loro pensiero, tentando di fermare il loro inconscio che cerco di percepire dallo sguardo e dalla mimica facciale, tendendo ad un surrealismo che è slegato dagli schemi classici. Magari poi gioco con i sentimenti percepiti, specie se il soggetto ed il suo sguardo lo consentono, altalenando tra la sua fisicità, che carico di pensieri, il tempo e lo spazio, evidenziando contrapposizioni e ambivalenze e soprattutto la malinconia e la gioia.

Il rapporto tra peso e leggerezza è un altro tema da me molto avvertito da quando sono a Venezia, città lagunare caratterizzata dalla mole dei suoi palazzi sontuosi che apparentemente galleggiano sull’acqua: un’eccezionale metafora della fragilità umana impostata su apparenze spesso inconsistenti se non vane.

Tobiolo, olio su tela.

 

Tritone, olio e foglia oro

 

Veniamo ora ai soggetti delle sue ultimissime opere, ossia i dogi veneziani. I motivi di questa scelta? Un omaggio alla “patria d’elezione”?

Una bella prova, che è felicemente capitata nel mio percorso artistico. I ritratti dei dogi mi sono stati commissionati dall’hotel Antico Doge di Venezia, grazie alla segnalazione loro pervenuta dalla professoressa dell’Accademia di Belle Arti Francesca di Gioia, cui va la mia gratitudine e riconoscenza.

Pur se dura prova, ho subito accolto la proposta con entusiasmo, dando inizio ad una quadreria di ritratti di alcuni dogi della Serenissima. Ovviamente la rassegna è parziale, vista la lunga serie dei celebri personaggi.

A conferma di quanto le ho detto, gli sguardi sono il punto di forza dei personaggi ritratti, per ognuno dei quali ho voluto ricercare una interazione con chi li osserva, che non è più semplice spettatore ma protagonista anch’egli. Tenga presente che per alcuni dogi ritratti sono ricorso a modelli reali, i cui nomi ovviamente qui non rivelerò; sono tuttavia certo che essi vi si riconosceranno, magari ricusando quelle tinteggiature rosseggianti che ho pastellato intorno ai loro volti, per astrarli dalla contemporaneità e per conferire loro la sacralità che conviene ad eterni personaggi che hanno scritto la storia della Serenissima.

Pur nelle loro pose ieratiche, consapevoli del ruolo importante ricoperto, paludati negli sfarzosi abiti del tempo in cui vissero, ecco che attraverso gli occhi si rivelano comuni mortali, magari fragili, malinconici, paurosi. Buona parte dei soggetti da me ritratti, come può notare, li ho voluti raffigurare in età giovanile, racchiudendo in ognuno di essi l’inconsapevolezza ed il mistero della vita che sta loro davanti, con le sue mille sorprese, belle o brutte che siano, ma comunque meritevole di essere vissuta.

Il ritratto del Doge Ottone Orseolo, olio su tela.

 

Ritratto del Doge Pietro Candiano, olio su tela.

 

Alla base di questa eccezionale abilità realizzativa c’è, presumibilmente, l’esempio e l’insegnamento dei grandi “maestri”. C’è qualche pittore al quale fa uno speciale riferimento?

Non ho una particolare predilezione per un pittore, ma tecnicamente mi sono ispirato a quelli del passato a me tanto cari e che ho particolarmente studiato e continuo ad osservare. Dei nomi? Tiziano, Tintoretto, Jacopo Palma il Giovane, Caravaggio, etc.

 

Un’ultima domanda a chiusura di questo nostro primo incontro: ha già pensato alla prossima fase della sua vita artistica?

Vivo al presente, giorno per giorno cercando di migliorarmi sempre più e mi auguro che le mie opere arrivino nel cuore di chi le osserva.

 

bozza per un dipinto sulla tauromachia.

Brindisi. Un teatro antico o contemporaneo?

di Danny Vitale e Antonio Mingolla*

Dalle foto aeree risalenti alla costruzione del Collegio Navale “Nicolò Tommaseo”, prospiciente lo specchio d’acqua del seno di ponente del porto interno di Brindisi, si può notare una costruzione che in molti hanno definito essere un teatro. Il Gruppo Archeo Brindisi ha effettuato alcune ricerche raccogliendo testimonianze contrastanti. Pertanto non potendo affermare con certezza l’esistenza, nè tantomeno negarla, si limita a riportare una serie di dati senza prendere alcuna posizione in merito.

Il teatro durante la costruzione del Collegio Navale

L’8 settembre del 1934 Benito Mussolini con il primo colpo di piccone diede simbolicamente inizio ai lavori di costruzione del Collegio che si conclusero il 5 dicembre 1937, giorno dell’inaugurazione.

La costruzione fu progettata da Gaetano Minnucci, uno fra i più importanti architetti dello stile Razionalista italiano, corrente architettonica che, partendo dal Futurismo, si sviluppò negli anni venti e trenta del XX secolo.
Tanti invece sono i dubbi riguardo alle origini del vicino teatro.
Alcuni studiosi ritengono che i fascisti abbiano voluto realizzare un teatro secondo un modello romano, altri invece sostengono che possa invece risalire persino all’epoca romana.

Andando indietro nel tempo, in un’antica planimetria spagnola della città risalente al 1739, il luogo dove sorgeva il teatro veniva chiamato “Punta de la rena” (punta della “sabbia” oppure punta dell’arena?).
Probabilmente agli inizi del XIX secolo il teatro faceva parte di una villa già in parte diruta. In essa vi dimorò per qualche tempo il viaggiatore francese Antoine L. Castellan, come racconta lo stesso autore.

Verso la fine dell’800 fu costruita una bellissima villa in stile Eclettico di proprietà della nota e benestante famiglia Dionisi. Da alcuni documenti inerenti la costruzione della villa, non risulta alcuna esistenza del teatro ma, dalle foto aeree, si può notare il tipico richiamo della forma a semicerchio proprio dove sorgeva il teatro in questione.


Veduta aerea prima della costruzione del Collegio Navale (in rosso l’area a forma di semicerchio)

Durante il periodo fascista Villa Dionisi venne demolita per far spazio alla

Anonimi e desueti paracarri nel centro storico di Brindisi…

di Antonio Mingolla*

Percorrendo alcune vie del centro storico di Brindisi solo pochi osservatori più attenti possono notare la presenza di massicci blocchi di pietra, solitamente in marmo, aventi la funzione, fino a diversi anni fa, di proteggere gli angoli e i margini dei palazzi dai carri che percorrevano queste antiche vie, chiamate nel medioevo ruè. Ma quasi nessuno è a conoscenza che questi blocchi affondano le proprie origini in tempi molto più remoti. Infatti in molti casi si tratta di antichi resti romani.
Fra i tanti si possono riconoscere cippi marmorei e rocchi di colonne, a volte scanalati, come ad esempio quello che si trova sull’angolo di un palazzo dei primi del ‘900 di Via Villanova, sul quale si nota il foro centrale, tipico dei rocchi che formano il fusto delle colonne.

In altre parti della città possiamo notare altri rocchi , questa volta completamente lisci, come ad esempio quello che si trova ad angolo tra via Montenegro e il Lungomare Regina Margherita, oppure l’altro posto all’angolo della chiesa Medievale di Sant’Anna.
Altri paracarri sono cippi marmorei, come quello esposto nel cortile del Museo Archeologico Provinciale “Francesco Ribezzo” di Brindisi, sul quale vi sono delle iscrizioni latine.
Un tempo, ben lontano dal consumismo odierno, i materiali “pregiati”, come il marmo, proveniente solitamente dall’oriente, non erano cosi facili da reperire. Proprio per questo motivo nel medioevo molti edifici furono costruiti riutilizzando i materiali provenienti da resti romani.
Pertanto non c’è da meravigliarsi se fra un blocco e l’altro di molti monumenti medioevali brindisini si intravedono marmi romani.
E’ un esempio di reimpiego il Tempio di San Giovanni al Sepolcro, dove si possono ammirare elementi architettonici – decorativi come: capitelli, colonne, trabeazioni ecc. , di epoca romana. Per la realizzazione di uno dei leoni stilofori posti all’ingresso fu usato un cippo marmoreo. Nella parte posteriore del leone, infatti, si può notare una parte di epigrafe in latino.
Anche alcuni resti marmorei dell’abbazia di Sant’Andrea, ora custoditi nel museo, mostrano segni di riutilizzo, come ad esempio un capitello in stile romanico realizzato su un epigrafe romana visibile nella parte posteriore. Come noto, nel 1485, quando venne distrutta l’abbazia di Sant’Andrea dell’isola per costruire il castello Alfonsino, molti elementi decorativi marmorei di epoca romana, riutilizzati nel medioevo per la costruzione dell’eremo, vennero trasportati in città. Questi furono reimpiegati ancora una volta per edificare la chiesa del Carmine (distrutta nel XVIII secolo) che si trovava sull’omonima via.
Altri reperti sono ancora visibili, come parte di un architrave decorato con foglie di acanto spinoso inglobato nel Calvario, il grande blocco di marmo che giace al margine di porta Mesagne, un tempo con funzione di paracarro dell’ arco stesso, probabile base per un leone stiloforo messo a guardia del portone di ingresso della chiesa di San’Andrea.

Piccole riflessioni scaturite dal mio peregrinare tra vicoli e stradine della parte più antica di Brindisi. Resti di antiche colonne che un tempo sorreggevano il tetto di templi o sontuose dimore che forse hanno avuto l’onore di ospitare illustri personaggi: Giulio Cesare, Pompeo, Ottaviano, Marcantonio,Virgilio, Orazio, Traiano, Cicerone, Lenio Flacco, Marco Pacuvio… non lo sapremo mai con certezza.

*Gruppo Archeologico Brindisino

Un murales nel centro storico di Copertino

Copertino (Lecce), Via Regina Margherita, Maria d’Enghien parte con il suo esercito per difendere Taranto dall’assedio di Ladislao re di Napoli, dipinto su muro realizzato dal professor Franco Contini e dai suoi allievi Antonio Mingolla, Giovanni Perdicchia e Stefano Tanisi, studenti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (11/9/2006).

La scena rappresenta un momento preciso della vita di Maria d’Enghien, principessa di Taranto, contessa di Lecce e Copertino. Morto il 17 gennaio 1406 il marito Raimondo del Balzo Orsini, n’è occultata la notizia affinchè re Ladislao non affretti gli apparecchi di guerra e non trovi il principato di Taranto indifeso. Maria chiama a raccolta i suoi alleati tra i quali spiccano i Sanseverino duchi di Venosa e si trasferisce a Taranto, capitale del feudo e centro della resistenza, portando con sé i quattro figliuoli: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele.

Bellissima nella sua armatura d’argento, ornata di gioie, con la sola presenza effondeva coraggio alle truppe che più volte seppero vincere l’assedio. Vicino a lei il rettore dei frati Minori, per l’elezione del quale Raimondo, suo marito, aveva ottenuto la concessione da Bonifacio IX, e Gabriele Capitignano, uomo di corte della principessa.

Nelle mani di quest’ultimo, re Ladislao dopo circa un anno pose la proposta d’amore per la sua signora. Capendo di non poterla vincere con le armi, il re provò a colpirla nell’ambizione e orgoglio.

Maria non seppe resistere all’offerta della corona di regina di Napoli, di Sicilia, di Gerusalemme, di Ungheria e di altri stati. Rimandò al re il fedele Capitignano con la comunicazione che accettava. Il matrimonio fu celebrato il 23 aprile 1407 nella cappella del castello di Taranto.

I personaggi raffigurati, da sinistra a destra di chi guarda, sono: Maria, Caterina, Giovanni Antonio e Gabriele del Balzo Orsini, con la loro madre Maria d’Enghien; il rettore dei frati Minori; Gabriele Capitignano; il duca di Venosa Sanseverino. Si notino le armi dei Del Balzo (sulla bandiera), dei Del Balzo-Orsini-D’Enghien e Sanseverino (sugli scudi).

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