Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (II parte)

Pubblichiamo i brani conclusivi dell’Introduzione alla Messapographia sive Historia Messapiae

 

di Domenico Urgesi

Le fonti di Diego

[…]

Le fonti basilari di Diego sono anzitutto quelle classiche: gli storici greci, Erodoto, Strabone, Pausania, da lui citati sia direttamente che attraverso le riletture umanistiche; allo stesso modo si avvale di Plinio, Virgilio e Festo. Copiosi sono i richiami da autori umanistici; Leandro Alberti e Gabriele Barrio sono suoi punti di riferimento, specialmente nel libro I della Historia Messapiae, come anche Lamberto Ortensio e Biondo Flavio. Non mancano Pontano, Facio, Sabellico, D’Alessandro, anche se in maniera un po’ defilata.

Le fonti della classicità greca e latina ricorrono specialmente nei primi due Libri. Notevole, per la trattazione dell’epoca romana, sembra anche il ricorso alla Historia Augusta, altra opera enciclopedica i cui estensori sono citati e/o parafrasati.

Continui e insistenti i riferimenti agli umanisti salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo il cui Liber de Situ Iapygiae (1558) viene citato molto spesso oltre che parafrasato; nei suoi confronti, il nostro riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa, attestata anche dal corografo Abrahamus Ortelius, che ne stampa un brano nella carta geografica della Apulia quae olim Iapygia inserita nel supplemento (1573) all’atlante Theatrum Orbis Terrarum, pubblicato più volte ad Anversa a partire dal 1570; è lo stesso brano che Diego commenta nella parte iniziale del suo ms., quella dedicata alla descrizione naturalistica della Iapygia. All’autorevolezza corografica dello stesso Ortelius, Diego si richiama più volte.

Un posto speciale occupa Virgilio[1], sulla scia della lettura fattane da umanisti quali Biondo Flavio e Lamberto Ortensio, ma soprattutto da Auctores di età romana imperiale come Servio Mario Onorato, privilegiato mentore di Diego, di Giunio Valerio Probo, e di Ambrogio Teodosio Macrobio (il quale aveva contribuito a rendere l’opera virgiliana enciclopedica e a diffonderla enormemente). Molto verosimilmente, questi autori che avevano fatto di Virgilio uno dei massimi “sapienti” dello scibile umano mitologico, storico, religioso e filosofico, agli occhi di Diego legittimano la validità storica della mitologia classica. Accanto ad essi, però, non è da sottovalutare l’influenza dell’umanista Natale Conti, la cui Mythologiae sive explicationes fabularum libri X ebbe numerose edizioni tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600[2]. Sembra mutuata proprio dal Conti, ampiamente citato da Diego, il suo forte richiamo alla mitologia; come per l’umanista, i miti pagani sono completamente assorbiti da Diego all’interno della sua assoluta fede cristiana, alla quale sono ricondotti.

Epifanio Ferdinando

 

Tra i Salentini, oltre al De Ferrariis, molto citato è l’amico e collega del padre Epifanio, Girolamo Marciano (1571-1628); sono anche conosciuti e citati, elencandoli qui in ordine cronologico, Antonello Coniger (XV-XVI sec.), Quinto Mario Corrado (1508-1575) e Iacopo Antonio Ferrari (1507-1588), come pure Giovan Battista Casmirio (XVI sec.) e Giulio Cesare Infantino (1581-1636), la cui opera (a noi nota come Lecce sacra) è citata come “Sacrarum Lupiarum”. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio.

Ad eccezione della Lecce sacra, pubblicata nel 1634, le opere di Marciano, Coniger, Casmirio e Ferrari, rimasero inedite per lungo tempo; ma, evidentemente, Diego ne possedeva (o, almeno, ne aveva letto) i manoscritti circolanti al suo tempo. L’elenco in ordine cronologico può essere utile: la cronaca del Coniger (Recoglimento de più scartafi de certe cronache moderneet antiche de più coseet rinuate le cose socesse in questa Provincia de Terra d’Otranto), databile al 1512, circolò manoscritta fino al 1700; la lettera del Corrado (Ad Cives Uritanos Oratio) è datata al 1561; la Epistola apologetica del Casmirio[3], databile al 1567, è stata pubblicata solo recentemente[4], ma circolava ms. ai tempi dell’autore; l’Apologia paradossica della città di Lecce del Ferrari (opera ultimata nel 1586[5] ma, benché pubblicata soltanto nel 1707 in Lecce, anch’essa era nota ai contemporanei essendo circolata ms.); la già citata opera (s.d., ma ante 1628) del Moricino (1558-1628), ms. ben noto ai tempi dei Ferdinando e che troverà solo nel 1674 la necessità di essere pubblicata (ma plagiata) dal Della Monaca; la Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto[6] (s.d., ma ante 1628) del Marciano, anch’essa circolata ms. ai suoi tempi. Sul Marciano, in particolare, bisogna rilevare che questo autore è continuamente citato e parafrasato da Diego, a volte esplicitamente, ma più spesso implicitamente.

Innumerevoli i richiami, quasi sempre espliciti, a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia, Pandolfo Collenuccio, dalle cui opere Diego attinge notizie e considerazioni in continuazione; meno citati Tommaso Costo e Angelo Di Costanzo. In un’ottica comparativa, alla luce delle notevoli differenze ideologiche e di impostazione storiografica, nonché della loro differente dipendenza dal loro specifico contesto politico, sarebbe da approfondire quanto di codesti Auctores Diego condividesse, e fino a qual punto. Anche perché Collenuccio, Di Costanzo, Costo, Summonte, Freccia, ecc., sono i capostipiti di varie tendenze (filo-angioina, filo-aragonese, antispagnola) che saranno proposte tra XV e XVIII secolo, sulla cui fortuna utilissime sono le considerazioni di autorevoli studiosi quali Aurelio Musi[7] e Antonio Lerra[8] (che qui accenniamo solamente).

Peraltro, un altro illustre studioso, Angelantonio Spagnoletti, sottolinea che «… la ricostruzione della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale…»[9].

Questi autorevoli studiosi hanno, dunque, messo in evidenza il trasferimento agli storici-cronisti-storiografi locali di temi e modelli afferenti ai capostipiti napoletani, quali l’insistenza sui miti di fondazione di origine greco-romana, il tema della fedeltà, la dinamica del potere locale, il peso dell’agiografia, l’emergenza dell’antispagnolismo[10].

Troviamo questi temi in Diego Ferdinando, ma in una miscela del tutto particolare, in cui non sembra prevalere nessuna delle tendenze citate; insistente è, invece, il tema delle origini (incentrato sui Messapi) insieme a quello agiografico (incentrato su S. Eleuterio). La dinamica del potere è accennata nel ricordo della vicenda del pallio, ma soprattutto nel richiamo meticoloso ai privilegi[11] che Mesagne aveva ereditato dai sovrani angioino-durazzeschi, puntualmente elencati da Diego, teso a rivendicare alla propria patria l’antico status di città demaniale.

Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, il Venerabile Beda, S. Epifanio, Henschenius, ma soprattutto S. Agostino (il Doctor Gratiae), un epigono del quale, il monaco agostiniano Jacopo Filippo Foresti alias Eremitano, occupa un posto privilegiato nella narrazione del Ferdinando. Ma occorre aggiungere anche un’altra considerazione, più generale e complessiva: dalla narrazione di Diego emerge una Puglia incessantemente battuta da eserciti stranieri e da sciagure naturali; una narrazione che sembra ricalcare l’impianto degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, altro suo Auctor prediletto; considerazione che emerge da un sommario confronto tra l’intitolazione di alcuni capitoli del Baronio e di Diego e che meriterebbe, forse, un maggiore approfondimento. Il Martirologio del Baronio (presumibilmente nell’edizione del 1620), in particolare, fu la sua fonte privilegiata per attestare il martirio di S. Eleuterio a Mesagne; e Diego gli rimase fedele anche dopo la revisione fattane nel 1630 da Urbano VIII. Bisogna, però, notare che il Martirologio Urbaniano non chiuse definitivamente la questione del martirio di S. Eleuterio; tant’è che, ancora nel 1660, troviamo affermata, sebbene in maniera critica, la versione del martirio mesagnese in un Martirologio Agostiniano[12].

[…]

Altro autore utilizzato da Diego fu Cieco da Forlì, alias Cristoforo Scanello, autore di una Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Iapigia divisa in tre parti, cioè di Terra di Otranto, Terra di Bari et Puglia Piana, stampata a Venezia nel 1575. La cronaca pugliese dello Scanello ebbe notevole successo, ma fu ritenuta poco autorevole già dagli studiosi dei secoli seguenti; la sua credibilità fu definitivamente demolita nel 1892 da Ludovico Pepe[13].

[…]

Per il periodo angioino-aragonese e quello del Viceregno, Diego si avvale del Summonte, del Giovine, di Paolo di Tarsia, di Paolo Giovio ed altri (compreso il Mannarino), ma soprattutto dei protocolli notarili, dei Tavolari, del “libro dei privilegi[14], conservato in Archivio” come dice lo stesso Diego (ossia il cosidetto “Libro Rosso”), dai quali trae e mette in risalto i numerosi e preziosi diritti concessi specialmente dagli Angioini, dai Durazzeschi e poi da Ferrante e suoi successori.

Nei due capitoli finora ignoti (Sepulchra ed Inscriptiones), i riferimenti sono soprattutto a Luciano di Samosata e ai Manuzio, Paolo e Aldo il Giovane. Nel capitolo sulle epigrafi mesagnesi, Diego espone quelle tramandate sia dal padre Epifanio che da lui viste, e si cimenta nella interpretazione del loro significato, anche per spiegare le incongruenze tra alcune versioni. In verità, alcune epigrafi erano state già pubblicate da Aldo il giovane, sulla base di comunicazioni inviate ai Manuzio da Quinto Mario Corrado (e da Giovanni Antonio Paglia), molto prima che se ne occupassero sia Epifanio che Diego Ferdinando. La vicenda ingenerò un po’ di confusione, poi perpetuata fino a Diego; un nostro supplemento di indagine[15] ha consentito di ricostruirne in parte i contorni (ma ne diamo un accenno nel relativo commento a pié di pagina, nella traduzione).

Uno sguardo particolare merita la polemica insistente (ma espressa cortesemente) che Diego propone nei confronti di Giovanni Maria Moricino[16], l’autore dell’opera Dell’Antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino, filosofo e medico dell’istessa città, descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604. Una copia di tale opera, di cui l’originale fu disperso, è custodita in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi: ms. D/12, trascrizione datata al 1761. Essa fu pubblicata nel 1674 dal plagiario Andrea Della Monaca col titolo Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi.

Il Moricino era un medico e filosofo discendente da famiglia veneta, nato nel 1558, morto nel 1628; nel periodo 1604-1605 ricoprì la carica di Sindaco a Brindisi, mentre nel 1613 vi risultava Auditore[17]. Oltre che a Brindisi, visse anche in Mesagne, dove insegnò retorica, logica e geometria a Epifanio Ferdinando; molto probabile, quindi, che una copia del ms. del Moricino fosse stata nelle disponibilità della famiglia Ferdinando. Evidentemente, per poterlo contestare, Diego ne leggeva il manoscritto; e, ad onor del vero, in molti casi ne riconosceva la piena validità. Perché, allora, questa polemica? Quasi certamente, la possiamo capire leggendo ciò che Moricino scrive a carta 16v del suo citato ms.:

[…] Nel che non posso fare di non ridere la vana pretendenza di coloro che pretendono Misagne, picciola Terricciola distante da Brindisi otto miglia, esser Messapia Regia de’ Re Messeni e Capo de Salentini…

[…]

Il contenuto dell’opera

Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.

Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa[18]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.

Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì[19], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia[20]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.

In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.

Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600.

[…]

Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia.

[…]

Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi[21]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato[22].

L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.

 

Diego Ferdinando e il Patronato di S. Eleuterio

Tali impostazioni risultano oggi plasticamente erronee; ma non erano assolutamente errate per Diego, e neanche per i suoi contemporanei, se è vero che nei documenti notarili ed ecclesiastici del suo tempo, Mesagne veniva indicata come Messapia (e ciò, in verità, fin dalla metà circa del ‘500). E Messapia veniva, pure, indicata la città nella epigrafe[23] incisa sul frontone del primo ordine della Chiesa Matrice riedificata, che reca la data del 1653. E le statue di S. Eleuterio, con Anzia e Corebo, erano e sono scolpite sul portale maggiore di detta chiesa (ma con un S. Eleuterio stranamente simile alla classica iconografia di S. Oronzo). Se, oggi, l’apologia di S. Eleuterio non ha più alcun senso, non era così nella mentalità (1655) dell’autore mesagnese; ma non era così, evidentemente, anche per i fedeli mesagnesi. Messapia e S. Eleuterio erano strettamente vincolati a costituire la base identitaria dei mesagnesi, come avvenuto in molte altre città salentine[24]. Erano così vincolati, che le statue dei tre Santi furono poste sul portale maggiore, affianco alla epigrafe inneggiante a Messapia, col Santo Eleuterio centrale e imponente, nonostante che la nuova chiesa, appena riedificata, fosse stata intitolata ad Ognissanti, mentre prima era intitolata ai tre Santi, come dice lo stesso Diego in questo ms., e come sarà poi ricordato (nel 1744) dall’Arciprete Moranza (vedi appresso).

Sul culto mesagnese di S. Eleuterio vi sono precedenti studi, ai quali rinviamo[25]. Ma questa, finora ignorata, insistenza di Diego sul presunto martirio mesagnese di S. Eleuterio apre nuovi squarci. Il legame che Diego stabilisce tra la Città ed il “suo” martire sembra ricondurre all’importanza della “parentela” col santo martire, dalla quale deriverebbe una concittadinanza (ossia parentela col sacro)[26] che da sola sarebbe bastata a dare sicurezza e preminenza alla città di Mesagne.

[…]

Da alcune carte nell’Archivio Capitolare di Mesagne, anzi, possiamo forse capire le motivazioni più profonde alla base della lunga dissertazione su S. Eleuterio. Sappiamo che Diego, divenuto sacerdote dopo la morte della consorte, fu accolto nel Capitolo nel 1648[27]. Mentre la nuova chiesa era in costruzione (essendo crollata il 31 gennaio 1649), fu perorata – su iniziativa della Civica Università – l’attribuzione effettiva del patronato alla Madonna del Carmine. Cosicché il 30 aprile 1651, il Capitolo della Chiesa Collegiata, «come in virtù del decreto et Bolla di Papa Urbano di felice memoria», preso atto che la Civica Università di Mesagne aveva «pigliato ed accettato ad Avvocata et Protettrice la gloriosa Vergine Santa Maria del Carmine acciò a suo tempo se ne celebri et solennizzi la festa in conformità di quello che s’ordina nelli detti Decreti pontifici», diede il proprio «consenso a quanto da detta Università era stato conchiuso […] nemine discrepante [corsivo nostro]»[28]. […]

Peraltro, rispetto ad altre Conclusioni Capitolari, questa sembra piuttosto sbrigativa, e il Capitolo, dal numero dei partecipanti – per essere un evento eccezionale – non sembra neanche molto affollato: solo una trentina sui circa 50 titolari. Sembrerebbe quasi che i religiosi capitolari non fossero molto entusiasti. Comunque, tra i Preti, Canonici e Presbiteri partecipanti a detta riunione del Capitolo mancava proprio Diego Ferdinando. Sorge il dubbio che la sua assenza non fosse casuale; che, cioè, Diego non condividesse l’operazione e non avesse partecipato per “motivi di opportunità”.

[…]

Tale dubbio è corroborato da un’altra Conclusione capitolare[29], in cui risulta che, nel mese di aprile del 1660, nel Capitolo (presenti, questa volta, oltre 50 religiosi) si discusse, fra l’altro, una precedente proposta di Diego, che fu accolta:

[il R.do Bartolomeo Leonardo Sasso…] Inoltre propone che il Dr. Fisico D. Diego Ferdinando per rinovare la venerazione de’ Nostri S(an)ti Eleuterio, Corebbo et Antea ne havea fatto fare un Quadro Grande, e desiderava che detto R.do capitolo gli concedesse una cappella per collocarlo, offerendo ducati 100 di capitale a detto Capitolo con obligo di messe e desiderava ancora che l’istesso R.do Capitolo insieme con l’Univ.(ersi)tà comparissero nella Sagra Congregazione in Roma per ottenere che detti s(an)ti ci siano concessi per Compadroni con la Beatissima vergine del Carmine e da tutti parimente fu concluso che citra preiudicium dell’altre concessioni di cappelle che si faranno per essere detto Sig. D. Diego benemerito di Capitali si concedesse detta Cappella [— —] se gli darà l’assenzo di Mons. Ill.mo Arcivescovo e che per l’avvenire non s’intenda con ciò fatto pregiudizio nelle concessioni che si faranno con sì poca somma e gli fu concessa la Cappella all’incontro di quella dov’è collocato il Quadro del S.(acro) Monte che è la 3a à man dritta in ord(in)e nell’entrare dalla Porta Magg(io)re della Chiesa et andare al Presbiterio e che si supplicasse in Roma per ottenere la d(ett)a Compadronanza a spese del med(esi)mo Sig. D. Diego.

Con questa decisione, dunque, fu accolta l’istanza di Diego di dedicare un altare a S. Eleuterio, come anche quella di chiedere alla sacra Congregazione dei Riti che Eleuterio, Antea e Corebo fossero elevati a Compatroni della Città, insieme con la Madonna del Carmine. Curiosamente, però, – sia detto per inciso – una precedente Conclusione Capitolare del 1658 ci informa che il Capitolo aveva accettato anche la nuova proposta dell’Università di proporre S. Oronzo quale protettore di Mesagne[30]. […]

Quanto all’istanza di Diego, non sappiamo se, e come, si sviluppò la perorazione della Compadronanza, ma l’altare di S. Eleuterio fu effettivamente realizzato, come risulta dalla Santa Visita svolta dall’Arcivescovo di Brindisi Francesco d’Estrada[31], che lo ispezionò il 18 ottobre 1660. Esso risulta pure nell’elenco degli altari dichiarati dall’Arciprete Antonio Moranza nel 1744, nella sua relazione consegnata all’Arcivescovo Antonino Sersale durante la Santa Visita[32]:

[…] L’altare di S. Eleuterio martire è della famiglia Ferdinandi, oggi ne tiene possesso il di loro erede il reverendo D. Diego cantore Baccone che ha il pensiero di provederlo di sacre suppellettili.

[…]

Tirando le somme, possiamo affermare che, per Diego Ferdinando, la magnificenza di Mesagne è soprattutto fondata sia sulle antiche (ma pretese) glorie messapiche che su quelle, religiose, dei proto-martiri Eleuterio, Antia e Corebo. Diego ritrova tali glorie nelle fonti letterarie, nei monumenti, nei documenti; i quali tutti attestano, nella sua concezione, che la magnificenza di Mesagne risaliva a ben prima della vendita della Terra di Misagne ai baroni (Beltrano nel 1522, Albricci nel 1591, De Angelis nel 1646). Sembra proprio questo il filo conduttore di tutta l’opera, sebbene non esplicitamente dichiarato.

[…] In conclusione, questa Historia Messapiae è una vera e propria miniera; scavandola ne possono venir fuori sassi, scorie, ma anche molti gioielli (e sono tanti). A tal proposito, segnalo soltanto alcuni brani interessanti:

Un gioco dei fanciulli con le monete

[carta 23r] «… Da ciò l’antica usanza dei fanciulli, ed il gioco di lanciare in alto i denari, e di presagire la sorte scegliendo o “testa” o “Nave”, genera in noi non poca fiducia nell’antichità. La moneta così contrassegnata, [come dice] Macrobio nel primo libro, capitolo 7 dei Saturnali, anche oggi è avvertita nel gioco dei dadi, quando i fanciulli, gettando in alto i denari, esclamano “Testa” o “Nave” in un gioco [che è] testimone dell’antichità».

L’Artopticus: La “frisa” ai tempi di Diego

[95v] «… quello che noi [chiamiamo] Arton, gli stessi Romani lo denominano Pane. Da ciò Artopta in Plinio nel libro 18, cap. 11, o Artopta in Plauto, [vocabolo] con cui chiamavano la donna fornaia, o il vasellame in cui veniva cotto il pane abbrustolito detto Artopticus».

La Vuttisciana

[carta 135v] «Da ciò [gli eruditi] sembrano spiegare la ragione di quella parola [vedi in appresso Vuttisciana], di cui ci serviamo non solo in Messapia, ma in tutta la Regione; vale a dire il giorno in cui non ci asteniamo per nulla dalle attività, poiché Giano, sia che fosse istruito da Saturno che accolse come ospite, oppure che fosse animato dal suo stesso genio e dalla [sua] saggezza, fu promotore dell’[attività] di piantare e seminare, e coltivare i campi {la ragione}, ed insegnò gli altri lavori per il vantaggio degli uomini, e per la coltivazione della terra. Perciò il giorno, in cui si fanno tutte queste cose, veniva chiamato Vuttisciana, vale a dire, “giorno di Giano”, o “ritratto [la personificazione] di Giano”.»

Il primo stemma di Mesagne

[carta 136v] «Inoltre, si vedrà l’effigie del Sole posta tra le spighe di frumento e scolpita su una pietra quadrata in una delle torri che, dal lato Meridionale, racchiudono le mura della nostra Città; e le spighe, poste sotto il Sole da entrambe le parti, che – si pensa – [siano] tra gli antichi simboli di Messapia [Mesagne], vogliono significare che anticamente i Messapi adoravano il Sole.»

Il castello Orsiniano di Mesagne

[205v] «Giovanni Antonio del Balzo Orsini […] A Mesagne, in verità, presso cui era solito recarsi spesso per via dell’aria più salubre e per diletto, costruì una Fortezza o grande Torre nei pressi del Castello vecchio [Castrum vetus] …».

[167v] «E, da una cerchia più grande, forse di tre miglia (da cui prima era recinta) fu ristretta ad una di un miglio, trincerata da fossati, mura, torri e munita di una Fortezza nel lato Boreale ed occidentale. Di questa Fortezza (che era chiamata Castello Vecchio [vetus Castrum]), la parte boreale, subìta la forza del tempo, crollò, ed il Principe dell’Avetrana volle abbattere negli anni passati <1630> la parte occidentale, in verità provvista di archi e fornici…».

Le distruzioni di Mesagne

[117r] «Soprattutto le Città di Messapia [Mesagne] e di Oria, che [si trovano] in mezzo all’Istmo tra Brindisi e Taranto, furono prese con la forza da Annibale e nel contempo date alle fiamme» [nel 212-211 a.C.];

[152v] Totila nel 547;

[166r] I Saraceni nel 914;

[239r-240r] I Francesi nel 1528-29.

Il contributo dei Mesagnesi alla difesa di Otranto dai Turchi, nel 1480

[222v] «Durante questa guerra, inoltre, che fu combattutta {da parte loro} contro i Turchi per riconquistare Otranto, i Cittadini di Mesagne pagarono cento fanti col pubblico denaro; e per i Viveri dell’Esercito inviarono molti moggi di farina, botti di vino e moltissimi animali, come leggiamo in alcune lettere Regie, che i Mesagnesi conservano. In esse, come dicono, il Re ordinò che i Cittadini di Mesagne non venissero afflitti da pagamenti straordinari, poiché [avevano dato] tutte queste cose di cui sopra …. [4 puntini di sospensione] <si vedano le lettere Regie in Archivio e se ne riportino esempi>».

Da rilevare, infine, il ricorso frequente all’etimologia (latina e greca), tanto per rafforzare i concetti espressi e/o argomentarli più compiutamente (emblematico il caso testé accennato di vuttisciana), quanto – invece – per escludere o confutare ipotesi e interpretazioni ritenute erronee. Ancora una volta, il nostro si avvale, per quelle che considera vere e proprie dimostrazioni, della letteratura specifica accreditata ai suoi tempi, tra cui Isidoro di Siviglia e Aldo Manuzio il Giovane (oltre che della propria vastissima erudizione). Sono spunti suggestivi, ovviamente; ma anche su questo specifico aspetto dell’opera di Diego Ferdinando, non c’è che da auspicare l’attenzione e il giudizio degli specialisti.

[…]

 

Note

[1] Sulla ricezione di Virgilio in ambito meridionale, cfr. almeno F. Tateo, Virgilio nella cultura umanistica del Mezzogiorno d’Italia, in Atti del Convegno Virgiliano di Brindisi nel bimillenario della morte (Brindisi 15-18 ottobre 1981), Università di Perugia 1983.

[2] Cfr. almeno, V. Costa, Natale Conti e la divulgazione della mitologia classica in Europa tra Cinquecento e Seicento, in Ricerche di antichità e tradizione classica (a c. di E. Lanzillotta), Tored 2004, pp. 257sgg.

[3] Ms. D/8 in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).

[4] Iohannis Baptistae Casmirii, Epistola apologetica ad Quintum Marium Corradum, (a cura di R. Sernicola), edizioni Edisai, 2017.

[5] A. Laporta, Introduzione, in I. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino, Capone 1977, p. XIV.

[6] Ms. D/3, in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).

[7] A. Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 13 sgg.

[8] A. Lerra, Un genere di lunga durata. Le descrizioni del Regno di Napoli, ivi, pp. 27 sgg.

[9] A. Spagnoletti, Ceti dirigenti e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2001, p. 37.

[10] Vedi soprattutto Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza…, cit., p. 20.

[11] Alcuni si sono fortunatamente salvati e si possono apprezzare in Storia e fonti scritte: Mesagne tra i secoli XV e XVIII: Documenti della Biblioteca Comunale «Ugo Granafei» (a c. di F. Magistrale, M. Cannataro, P. Cordasco, C. Drago, C. Gattagrisi, S. Magistrale), Fasano, Schena Editore, 2001.

[12] Vedi Martyrologium Romanum Illustratum Sive Tabulae Ecclesiasticae Geographicis tabulis et notis historicis explicatae…, Authore RP Augustino Lubin Augustiniano…, Lutetiae Parisiorum…, 1660, p. 180.

[13] L. Pepe, Il Cieco da Forli, cronista e poeta del secolo XVI, Napoli, Tip. dell’Accademia reale delle scienze, 1892.

[14] Il rif. è alla raccolta dei documenti, ovvero Libro Rosso, in cui erano trascritte le concessioni, esenzioni, etc., statuite dai Regnanti in favore delle città demaniali. Quello di Lecce, ad esempio, fu pubblicato da Pier Fausto Palumbo in due volumi, nel 1997 e ‘98. Quello di Mesagne, invece, fu disperso, o distrutto, e non ha avuto la fortuna di essere tramandato.

[15] D. Urgesi, Epigrafi latine da Mesagne nelle opere di Aldo Manuzio il giovane, in corso di stampa.

[16] Il medico-filosofo G. M. Moricino (1560-1628) era stato, per tre anni, insegnante di Epifanio Ferdinando per le materie di Retorica, Logica e Geometria. Vedi Profilo, Vie, piazze, vichi e corti…, cit., p. 243; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Rist. An. Bologna, Forni, 1972 dell’ed. Lecce, Pietro Micheli, 1674.

Per la sua bio-bibliografia, cfr. anzitutto Biblioteca Napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini per tutto l’anno 1678. Opera del Dottor Nicolo Toppi Patritio di Chieti, in Napoli, appresso Antonio Bulifon All’insegna della Sirena, 1678, p. 349. Inoltre, cfr. almeno E. Pedio, Il manoscritto di Giovanni Maria Moricino e la Storia di Brindisi del P. della Monaca, in «Rivista Storica Salentina», VI, 1904, pp. 364-74; Dizionario biografico degli uomini illustri [ma chiari] di Terra d’Otranto, cit., pp. 375-76; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima …, cit; G. Jacovelli, Medici letterati brindisini tra 1500 e 1600, in «Brundisii Res», XV (1983), pp. 40-42.

[17] P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1529-1787 (a cura di R. Jurlaro), Brindisi, Ed. Amici della «A. De Leo», 1978, p. 75 e p. 87.

[18] F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando.

[19] F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza…, cit., pp. 69 sgg.

[20] Ivi, pp. 87-93.

[21] Sull’argomento, vedi anzitutto M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 199 sgg., con la sua ampia bibliografia.

[22] Segnaliamo che una prima, fertile, incursione in codesto campo fu compiuta da Luigi greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano 2000.

[23] Emendata dagli errori del lapicida, così recita: IN HONOREM SANCTORUM OMNIUM COLLAPSUM MESSAPIA RESTITUIT MDCLIII.

[24] Cfr., in proposito, M. Spedicato, L’identità plurima: i santi patroni nel Salento moderno e contemporaneo, in «L’Idomeneo» n. 10 (2008), pp. 145 sgg.; Id., Santi patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo, Galatina 2009, pp. 9-18.

[25] F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia al principio del secolo VII (an. 604), vol. I, Faenza 1927; G. Antonucci, Il martirio di S. Eleuterio, in Curiosità storiche mesagnesi, Bergamo 1929; L. Scoditti, S. Eleuterio e Mesagne (datt.), 1957; D. Urgesi, Una correzione all’iconografia mesagnese: Eleuterio, Anzia e Corebo non furono martirizzati a Mesagne, in Studi Salentini, LXX (1993).

[26] Interessanti, in merito, le considerazioni di F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 102.

[27] Cfr., per tutti, Profilo, Vie, Piazze…, cit., p. 95.

[28] Archivio Capitolare di Mesagne, Conclusioni Capitolari, Cartella R/2, anno 1651, 30 aprile; v. anche A. C. Leopardi, Il Carmine nella realtà mesagnese, Bari 1979, pp. 70-71; e T. Cavallo, Il Santuario della Vergine SS. del Carmelo e i Padri Carmelitani nella storia di Mesagne, Fasano 1992, p. 74.

[29] A. C. M., Conclusioni Capitolari, ivi, anno 1660, 10 aprile.

[30] Ivi, anno 1658, 6 ottobre.

[31] L. Greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. III: L’architettura sacra nella storia e nell’arte, Fasano 2001, p. 273.

[32] Ivi, p. 296.

 

Per la prima parte leggi qui:

Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (I parte)

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1670) e Giovanni dello Presta (1683-1765), il suo insegnante di lettere in difficoltà con l’aritmetica

di Armando Polito

Ciò che sto per presentare potrebbe pure apparire come una testimonianza di narcisismo particolarmente diffusa nei secoli passati, se non fosse che essa, tuttavia, permane nei nostri giorni sotto le forme della dedica, della prefazione e della postfazione (queste due ultime, addirittura, non raramente multiple). La prima, la dedica, magari era solo un po’ più sfacciata di oggi, perché sbattuta in faccia già a partire dal frontespizio. E da questa comincio. Nel 1727 usciva  per i tipi di Oronzo Chiriatti a Lecce un’edizione del De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis alias Galateo (1444-1517) curata da Giovanni Bernardino Tafuri e  dedicata a Giovanni Nicastro, vescovo di Claudiopoli.

La dedica annunciata nel frontespizio ha il suo svolgimento nelle cinque pagine iniziali, cui seguono nella successiva due imprimatur. Inizia, poi, quella che oggi chiameremmo prefazione e che all’epoca consisteva per lo più in componimenti, naturalmente anche loro elogiativi, in latino (esametri o distici elegiaci). Essa consta di un componimento di Ignazio Maria Como (sul quale sorvolerò per non tediare il lettore ed anche perché non è funzionale a quanto fra poco vedremo), cui segue la pagina che riproduco, aggiungendo, come ho fatto per il frontespizio la traduzione e qualche nota di commento.

a Inizia la parte, per così dire, enigmistica dell’elogio in cui 69, 113 e 69 dovrebbero essere  i totali risultanti dalla somma del posto che ciascuna lettera che compone ogni parola ha nell’alfabeto. Dico dovrebbero perché i conti non tornano: infatti, se 69 nasce correttamente  da 10+15+1+14+14+5+19 e 44 da 1+11+2+1+7+5+17, lo stesso non è per 69, in quanto  la somma di 18+1+6+19+16+19+17 è 96 e il totale di 69+113+96 è 278. A questo punto il creatore del giochetto dev’essersi distratto (o ha barato), per cui, invece di segnare 96, ha segnato l’inverso, cioè 69 e poi, operando la somma di 69+113+69 ha ricavato il totale definitivo di 251. La matematica, probabilmente, non doveva essere il cavallo di battaglia del nostro enigmista perché nella seconda parte, se 16 nasce correttamente da 5+3+3+5, lo stesso non può dirsi per 93, in quanto 17+13+10+20+5+12+17 dà 94, mentre corretti sono 44 (da 1+11+2+1+7+5+17) e 98 (da 14+16+9+13+16+19+11).

Il totale corretto (16+94+44+98) è 252. il 251 che si legge è figlio del 93 invece di 94, errore indotto, anche qui non so dire quanto in buona fede, dalla necessità che la somma fosse 251, cioè uguale a quella della prima parte, a sua volta, come abbiamo visto, figlia di errore. Probabilmente l’intera frase piaceva troppo e non sarebbe stato facile cambiarla in un’altra di senso compiuto (e che anche aritmeticamente fosse corretta), dal momentio che tradotta suona così: GIOVANNI BERNARDINO TAFURI, ECCO CHI RISOLVE I DUBBI DEI PREDECESSORI (il riferimento è alle difficoltà incontrate dai precedenti commentatori dell’opera del Galateo).

E il giochetto piacque tanto all’autore che pensò bene di incastonare la seconda parte dell’anagramma nel componimento in distici elegiaci che viene subito dopo. Così apprendiamo che l’autore di entrambi  è Giovanni dello Presta precettore del Tafuri.

b Epiteto di Atena, dea greca della guerra, ma anche della sapienza e delle arti.

 

Non tutto il male viene per nuocere, perché, se l’inserimento di quanto appena esaminato fu un atto narcisistico1, senza di esso, tuttavia, non avremmo conosciuto il nome di chi seguì il Tafuri negli studi letterari e nulla di lui ci sarebbe pervenuto. Provvide poi un discendente di Bernardino a fornirci qualche altro dato. Si legge in  Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 494, dopo altri nomi di autori che diedero lustro a Nardò: Giovanni dello Presta. Nacque a 22 novembre 1683, e morì agli 11 di marzo 1765. Fu prete, e di poi eletto canonico della chiesa cattedrale di Nardò da monsignor Sanfelice. Fu maestro di lettere amene nel Seminario Diocesano della stessa città di Nardò. ________

1 Ridimensionato, però, dal fatto che l’anagramma e l’epigramma non compaiono nella successiva edizione inserita in Angelo Calogerà (a cura di), Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, Zane, Venezia, 1732, tomo VII, pp. 35-205.

 

La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (2/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

Riprendiamo la descrizione del nostro manufatto. Al di fuori della cornice in cui è incastonata la personificazione della Terra d’Otranto ad intervalli regolari e simmetrici compaiono coppie di nomi in cartiglio ed immagini di monumenti e di stemmi cittadini in medaglioni. Cominciamo dalle coppie di nomi, di seguito presentati in dettaglio in rapporto alla loro posizione nell’arazzo. Ogni coppia, poi, sarà accompagnata dalla relativa scheda.

ENNIO/PALMIERI

Quinto Ennio (Rudie, 239 a. C.- Roma, 169 a. C.). Poeta e drammaturgo, delle sue opere ci rimangono solo i titoli ed alcuni frammenti.

Palmieri. Famiglia che vanta molti illustri esponenti: Alessandro e Bernardino (XII secolo, di Ostuni, giuresconsulti); Francesco Maria (XVII-XVIII secolo, di Lecce, architetto e scultore); Giuseppe (1720-1793, di Martignano, economista; Nicola (XVIII secolo, di Merine, numismatico); Oronzo (XVII secolo, di San Pietro in Lama, teologo e poeta); Pasquale (XVII secolo, di Lecce, poeta); Saverio (1764-1839, di Lecce, agronomo). Candidati ad essere accoppiati col poeta Ennio sembrerebbero Oronzo e Pasquale, la cui produzione, però, si riduce per il primo ad un Epigramma latino e per il secondo ad alcuni alcuni componimenti celebrativi inseriti, insieme con quelli di altri,  in due raccolte. Qui, perciò, molto probabilmente il citato è Giuseppe, l’economista, autore di diverse pubblicazioni. Fu nel tempo Amministratore Generale delle Dogane in Terra d’Otranto, Consigliere di Stato, Soprintendente Generale delle Dogane del Regno e, infine, Direttore del Consiglio delle Reali Finanze. A lui nel 1865 fu intitolato quello che era stato il primo liceo di Terra d’Otranto.

 

STRABONE/DE FERRARIS 

Strabone (I secolo a. C.- I secolo d. C.), geografo e storico greco. La presenza del suo nome è giustificata non solo dalla sua fama ma, forse soprattutto, dal fatto che la Terra d’Otranto o, meglio, i suoi antenati toponomastici (Iapigia in primis), hanno ampio spazio nella sua opera (Geographica), elemento sufficiente per giustificare il gemellaggio con il De Ferraris e il suo De situ Iapygiae.. 

Antonio De Ferraris (1444-1517), medico e letterato di Galatone (perciò più noto col nome di Galateo). La sua opera più nota è il De situ Iapygiae uscito a Basilea  per i tipi di Perna nel 1553.

 

LEO/MILIZIA

Leo. Nonostante l’assenza di DE (presente, invece, in DE FERRARIS), non può essere che Annibale De Leo (1739-1814) di S. Vito dei Normanni. Letterato, arcivescovo di Brindisi collaborò all’istituzione in questa città della biblioteca che oggi porta il suo nome.

Milizia. Problema già posto da PALMIERI e che si riproporrà con ZIMARA e VINCENTI. La scelta teoricamente andrebbe operata tra Domenico (1680-1760, medico), Lucio (XVI-XVII secolo, letterato) e Francesco (1725-1798, teorico dell’architettura,storico e critico d’arte), tutti di Oria. Se dovessimo applicare il criterio già usato (e quale, sennò?) il Vincenti dell’arazzo sarebbe indiscutibilmente Francesco.

 

ZIMARA/RIBERA

Zimara. Probabilmente si tratta di Marcantonio (XV/XVI secolo), medico e filosofo di Galatina,autore di una serie sterminata di pubblicazioni, e non di Teofilo (1515-1589) suo figlio, anche lui di Galatina, studioso di lettere e scienze, ma autore meno prolifico del padre.

Ribera. Giuseppe de Ribera,   alias lo Spagnoletto. Nell’arazzo l’accoppiamento con lo stemma di Gallipoli mostra (e come poteva essere altrimenti …) l’adesione al gruppo di coloro che sostennero l’origine gallipolina del pittore; il primo fu Bernardo De Dominici in Vite dei pittori, scultori ed architetti napoletani, Tipografia Trani, Napoli, 1844 (la biografia del De Ribera occupa le pp. 111-146) seguito dai salentini  Ettore Vernole in Un canto gallipolino su Giuseppe Ribera, in Archivio storico pugliese, XIX (1966), n. 1-4, pp. 334-341 (corregge alcuni dettagli anagrafici del De Dominici ma propende, sia pure non con certezza assoluta, per l’origina gallipolina). Sul fronte opposto coloro (il primo fu Joachim von Sandrart, contemporaneo del De Ribera) che sostengono esser nato il nostro a Xativa, in Spagna. Forse è superfluo dire che gli scrittori salentini di memorie patrie (e tra questi il gallipolino Bartolomeo Ravenna in Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836) hanno tutti sposato concordemente la tesi delle origini gallipoline. Chissà, perciò, che rabbia avrebbero provato oggi nel vedere citata  in rete (anche nell’Enciclopedia Treccani) e anche su libri a stampa) come città natale del De Ribera non Gallipoli ma Xativa.

 

AMMIRATO/VINCENTI

Scipione Ammirato (1531-1601), di Lecce, storico, autore di numerosissime pubblicazioni.

Vincenti. Qui si porrebbe, in forma ancora più esasperata, lo stesso problema posto da PALMIERI e ZIMARA, per cui risulterebbe  abbastanza imbarazzante la scelta tra: Andrea (XVII-XVIII secolo, di un paese, non noto, della provincia di Lecce, pittore, discepolo di Luca Giordano; Antonio (XVIII secolo, di Ostuni, archivista e bravissimo restauratore di pergamene); Francesco (XVIII secolo, di Gemini, teologo della cattedrale di Ugento; Lelio (XVII secolo, di Tricase, medico e filosofo, autore di numerose pubblicazioni. Siccome queste ultime hanno un peso notevole anche nell’immaginario collettivo, molto probabilmente il Vincenti ricordato nell’arazzo è proprio Lelio.

 

PAESIELLO/ARCHITA  

Giovanni Paisiello (1741-1816), di Taranto, musicista. Sul PAESIELLO dell’arazzo, invece di PAISIELLO, vedi la serie in sei puntate in http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/14/quando-paisiello-diventava-simpaticamente-paesiello-e-non-solo-ma-eravamo-ancora-un-paese-serio-16/; alle testimonianze lì esibite si aggiunge quest’altra, senz’altro più ufficiale e che renderebbe ancora più grave il fenomeno, anche se non nuovo per altri nomi, lì stigmatizzato.

Archita. (V-IV secolo a. C.), di Taranto, filosofo, matematico e politico, amico di Platone. Delle sue opere ci restano solo frammenti. Il suo accoppiamento col Paisiello molto probabilmente è dovuto, oltre alla comune città natale, anche al fatto che, come tutti i pitagorici, si occupò anche di acustica, enunciando regole per la composizione delle scale in dati intervalli.

 

Ogni cartiglio, come s’è visto, contiene due cognomi.  Ci saremmo aspettato che l’accoppiamento (soprattutto laddove le rispettive cronologie sono molto distanti) contenesse il riferimento ad un dettaglio che nello stesso tempo qualificasse i due personaggi e ne costituisse il comune denominatore. Di questo, quando è avvenuto, abbiamo dato puntuale giustificazione nelle schede.

L’assenza del nome accanto al cognome per gli autori più recenti può essere interpretata in due modi: 1) il nome è da considerarsi superfluo quando, come s’è documentato, la famiglia annovera più discendenti ma il riferimento va fatto giocoforza al più famoso; 2) quando la scelta diventa problematica, non è da escludere che il riferimento coinvolga l’intero casato e il suo prestigio considerato anche cronologicamente. Il sospetto, però, è che l’intenzione celebrativa era proprio quella ambigua derivante dalla fusione delle due ipotesi prospettate; insomma, il classico prendere due piccioni con una fava,anzi, con un solo nome, anzi con il solo cognome. Da notare, può darsi pure che sia un caso, come la serie onomastica si apre e si chiude col nome dei due personaggi più antichi (Ennio e Archita).

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/29/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-1-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

 

 

Il Galateo e i brucolachi

di Armando Polito

Il Galateo del titolo non è l’opera di monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e neppure quel complesso di norme di buone maniere che, come nome comune, da esso trae origine. Si tratta, invece, dello pseudonimo, tratto dal centro (Galatone) in cui nacque, del più famoso umanista salentino: Antonio De Ferrariis (1444-1517).

La parte finale del De situ Iapygiae, pubblicato postumo per i tipi di Pietro Perna a Berna nel 1558, Antonio rivolge la sua attenzione al territorio neretino e da par suo dà un colpo decisivo a a quella che ritiene  interpretazione superstiziosa e fasulla dei due fenomeni dei Fuochi fatui1 e della Fata Morgana2 osservati frequentemente nel territorio del Salento.

Riproduco di seguito dell’editio princeps il frontespizio e la parte che ci interessa di p. 117 evidenziata dalla sottolineatura, certo di fare cosa gradita ai bibliofili, ai quali segnalo che l’opera è integralmente scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/objdownload?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE003363&teca=MagTeca%20-%20ICCU&resource=img&mode=all.

Prima di procedere alla traduzione è d’obbligo una nota di natura filologica relativa proprio alla strana parola (brucolachi) che compare nel titolo di questo post. In questa prima edizione compare Brocolarum, come si può leggere più chiaramente nel dettaglio che segue.

non nativo, cioè dell’autore, ma di trascrizione da manoscritto più che di stampa) per Brocolacum, genitivo plurale, che, come vedremo, appare come trascrizione dal greco. L’errore si perpetuò per lungo tempo nelle edizioni successive, di seguito documentate.

Maccarani, Napoli, 1624

p. 90

 

Chiriatti, Lecce, 1727

Di questa edizione curata dal neretino Giovanni Bernardino Tafuri non posso fornire il dettaglio che ci interessa, ma posso assicurare che continua il Brocolarum delle precedenti edizioni, perché esso permane nell’edizione, a cura dello stesso Tafuri, inserita nella collana curata da Angelo Calogerà appresso indicata.

Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo VII, Zane, Venezia, 1722

  1. 194

 

Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Ricciardi, Napoli, 1735

 

colonna 620

 

Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851

p. 89

A p. IV dello stesso volume Michele Tafuri così si esprime sull’edizione leccese del 1727 curata dall’antenato.

Da notare l’errata indicazione del tomo della raccolta del Calogerà (VII e non IX).

 

La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867

p. 93

 

Abbiamo la conferma che il Brocolarum sopravvisse fino al 1867. Non so a quale editore è da ascrivere il merito di averlo corretto per primo in Brocolacum. Bisognerebbe passare in rassegna tutte le edizioni del De situ Iapygiae successive al 1851, ricerca, purtroppo, non fattibile, com’è noto,  in rete con testi anche relativamente recenti, ferma restando la mia impressione che in questi ultimi anni il processo di digitalizzazione del patrimonio librario ha subito un rallentamento, probabilmente per motivi di ordine non solo burocratico ma anche finanziario.

Dopo questa lunga parentesi, che lascio volentieri aperta ad ogni integrazione altrui, ecco la traduzione del brano da cui tutto è partito.

Simile è la favola dei brucolachi, che invase tutto l’oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente di  notte come globi di fiamme sono solite sorvolare i sepolcri, apparire a persone note ed amici, nutrirsi di animali, succhiare il sangue ai fanciulli ed ucciderli, tornare poi nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture, squarto il cadavere, ne estrae il cuore e lobrucia e getta la cenere ai quattro venti, cioè verso le quattro regioni del mondo e crede che così la maledizione cessi. E se la favola è quella, tuttavia ci offre l’esempio di quanto invisi ed esecrabili siano a tutti coloro che vissero malamente, e vivendo e da morti. Simile è anche la favola di Ermontino di Clazomene citata da Plinioe da Seneca sul sepolcro incantato. Nè mancarono nei tempi antichi simili sciocchezze e illusioni dei sensi umani.

Stando alla descrizione, a parte il tratto iniziale che sembra riguardare i fuochi fatui, il resto evoca il vampirismo, per cui il brucolachi della traduzione è sinonimo di vampiri, voce con cui è reso in tutte le traduzioni meno e più recenti.

Un comune destino sembra unire dal punto di vista etimologico la voce vampiro e quella relativa al suo antenato, il brucolaco. La loro origine, infatti, è incerta. In particolare per la prima l’ipotesi più accreditata è che derivi dal serbo-croato vampir. E per brucolaco? L’attestazione più antica che sono riuscito a trovare è in una relazione di viaggio del 1717..

Alle p. 131-133 si legge quanto di seguito riproduco.

(Vedemmo una scena ben differente e ben tragica nella stessa isola in occasione di uno di questi morti che si crede ritornino in vita dopo il loro seppellimento. Colui del quale mi accingo a raccontare la storia era un cittadino di Micono5 per natura di cattivo umore e lamentoso; questo è un dettaglio da sottolineare in rapporto a pari soggetti. Fu ucciso in campagna, non si sa da chi e come. Due giorni dopo che era stato sepolto in una cappella della città, corse la voce che lo si vedeva la notte passeggiare a gran passi, che veniva nelle case a rovesciare mobili, spegnere lampade, abbracciare le persone alle spalle e fare mille piccoli tipi di dispetti. Lì per lì successe che se ne rise ma l’affare divenne serio quando le persone più sensibili cominciarono ad avere compassione: i papi stessi convenivano sul fatto e senza dubbio che essi avessero le loro ragioni. Non si mancò di far dire delle messe: nel frattempo il cittadino continuava la sua piccola vita senza correggersi. Dopo parecchie assemblee degli ottimati della città, dei preti e dei religiosi giunsero alla conclusione che bisognava, seguendo un non so quale antico cerimoniale, attendere nove giorni dopo il seppellimento. Il decimo giorno si disse una messa nella cappella dov’era il corpo al fine di scacciare il demonio che si credeva esservisi rinserrato. Il suo corpo fu riesumato dopo la messa e si decise di dovergli strappare il cuore. Il macellaio della città, assai vecchio e poco esperto, cominciò ad aprire il ventre invece del petto: frugò a lungo tra le interiora senza trovarvi ciò che cercava; alla fine qualcuno l’avvertì che doveva bucare il diaframma. Il cuore fu strappato tra l’ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere nel frattempo puzzava tanto che si fu obbligati a bruciare dell’incenso; ma il fumo misto alle esalazioni del cadavere non fece che aumentarne la puzza e cominciò a riscaldare il cervello di questa povera gente. La loro immaginazione colpita dallo spettacolo si riempì di visioni. Ci si azzardò a dire che il fumo denso usciva da quel corpo: noi non osiamo dire che era quello dell’incenso. Non si credeva esserci che brucolachi nella cappella e nella piazza che è sul davanti: è questo il nome che si da a questi pretesi resuscitanti. La voce si diffuse nelle strade come attraverso ululati e questo nome sembrava essere fatto per far tremare la volta della cappella. Parecchi dei presenti assicuravano che il sangue di questo malvagio era molto vermiglio, il macellaio giurava che il corpo era ancora tutto caldo; da questo si concludeva che il morto aveva il gran torto di non esser morto bene o, per meglio dire, di essersi lasciato rianimare dal diavolo; è precisamente l’idea che hanno di un brucolaco. Si faceva allora risuonare questo nome in maniera incredibile. Entrò in quel tempo una folla di persone che affermavano ad alta voce che essi non erano ben sicuri che quel corpo fosse diventato rigido quando lo si portò dalla campagna in chiesa per seppellirlo e che di conseguenza era un vero brucolaco; questo era lì il ritornello.)

In margine a p. 131  si legge la nota che riproduco ingrandita.

 

Al Vroucolacas iniziale seguono le varianti greche, cioè Βρουκόλακος (leggi Breucòlacos), Βρουκόλακας (leggi Brucòlacas), Βουρκολάκας (leggi Burcolàcas. Subito dopo vien ripetuto Βρουκόλακας per introdurre la definizione: Spettro composto da un corpo morto e da un demone. C’è chi crede che  Βρουκόλακος significa carogna. Βρούκος (leggi Brucos) o Βοῦρκος (leggi Burcos) è questo limo così puzzolente che marcisce sul fondo dei vecchi pozzi, poiché Λάκκος (leggi Laccos) significa fossa.

La nota mi appare preziosa almeno quanto il testo principale  perché costituisce, a quanto ne so, il primo ed ultimo tentativo di ricostruire l’etimo di questa voce misteriosa. L’ipotesi del De Tournefort trova conforto, ma secondo me trae pure origine dalla conoscenza e consultazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis di Charles Du Cange uscito per i tipi di Anissonios, Joan. Posuel & Cl. Rigaud a Lione nel 168 (due volumi)..

Di seguito la parte iniziale delle schede relative rispettivamente dalle olonne 222 e  783 del primo volume.

(Βορκα, βορκος limo, non qualsiasi ma quello che macerato  in acqua già putrescente e mana una pessima fetore. Così l’Allacci nel libro sulle opinioni dei Greci al numero 12)

(Λάκκος [leggi lakkos], per i Greci è la fossa. Presso i medici però viene inteso come la parte del collo che chiamano σφαγλώ [leggi sfaglò), i Latini iugulum. Ipato in un manoscritto sulle parti del corpo umano: σφαγή, ὁ λάκκος τοῦ τραχήλου [gola, la fossa del collo]. Presso lo stesso ἰνίον [leggi inìon; significa nuca] viene spiegato come ὀπισθόλακκος [leggi opistòlaccos; alla lettera fossa che sta dietro], occipite. Λάκκος è pure il pozzo. Glosse manoscritte ai racconti di Gabria: πρός φρέαρ, εἱς λάκκον [verso il pozzo, verso la fossa])

Sembrebbe che l’etimo del nome della spaventosa creatura sia stato trovato, per cui brucolaco alla lettera significherebbe limo della fossa. Sarebbe così privilegiato il dettaglio del fetore che domina alla fine del racconto del Tournefort.

Faccio notare che il primo significato medico di Λάκκος (gola) riportato dal Du Cange evoca suggestivamente il dettaglio del corpo delle vittime dei vampiri ma mal si accorda (anzi, non si accorda proprio) con la prima parte Βορκα (limo puzzolente) e che le altre due varianti registrate nella relazione di viaggio (Βρουκόλακος e Βρουκόλακας) presentano rispetto a Βορκα la metatesi di –ρ-. Non crea, invece, problemi lo scempiamento dell’originario  -κκ- di Λάκκος dal momento che lo stesso glossario registra il derivato λακάζω (leggi lacazo) col significato di seppellire.

Fermo restanto il fatto che la nostra parola appare senz’ombra di dubbio composta, quali potrebbero essere le voci componenti alternative?. Per la prima parte metterei in campo la radice del verbo βρὐκω (leggi briùco), che siggnifica mordere e per la seconda la radice del verbo λακίζω (leggi lachìzo) che significa lacerare, uccidere.

 

Pur nell’incetezza delle sue componenti, credo di poter affermare che il brocolacum del Galateo è la trascrizione del greco  Βρουκολάκων (leggi brucolàcon) genitivo plurale di Βρουκόλακος, con conservazione dunque, della desinenza del genitivo greco

Rimane (per chi ci crede …) il fascino misterioso di questa creatura, ma anche la certezza che più di due secoli prima del De Tournefort del brucolaco aveva scritto il  salentino Galateo e che lo scetticismo da umanista del salentino (dopo tanta fatica mi si perdoni un pizzico di campanilismo …) anticipava quello da illuminista del francese.

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1  Per Fuoco fatuo s’intende il fenomeno costituito da fugaci fiammelle, per lo più bluastre che un tempo si potevano osservare nei cimiteri e in luoghi paludosi. Le mutate condizioni ambientali ed igieniche lo hanno fatto pressochè scomparire, come, con  il cambiamento di quelle culturali e più specificamente sociali, è avvenuto per il tarantismo.

2 il fenomeno della Fata Morgana, volgarmente detto miraggio, è un’illusione ottica dovuta alla rifrazione di immagini lontane in particolari condizioni atmosferiche. Non escluderei, visti i cambiamenti climatici in corso, la loro scomparsa o evoluzione …

3 Plinio, Naturalis historia, VII, 73: Reperimus inter exempla Hermontini Clazomenii animam relicto corpore errare solitam, vagamque e longiquo multa annuntiare, reperimus inter exempla hermotimi clazomenii animam relicto corpore errare solitam vagamque e longinquo multa adnuntiare, quae nisi a praesente nosci non possent, corpore interim semianimi, donec cremato eo inimici, qui Cantharidae vocabantur, remeanti animae veluti vaginam ademerint.  (Troviamo tra gli esempi che l’anima di Ermontino di Clazomene, lasciato il corpo, era solita errare e dopo aver reduce da paesi lontani dare molte notizie che non potevano essere conosciute se non da chi era tato presente, mentre il corpo frattanto restava semianimato, finchè i nemici, che si chiamavano Cantaridi, dopo averlo cremato, non sottrassero come una sorta di guaina all’anima che tornava)

Faccio notare un altro errore, anche questo perdurante nelle edizioni successive documentate per Brocolarum,  presente nell’editio pronceps, dove si legge Hermotini per Hermontini. Per quanto riguarda Seneca al momento non sono in grado di dire a quale sua opera il Galateo si riferisce. Anche per questo non dispero dell’aiuto di qualche volenteroso lettore.

Antonio Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo emette vagiti, ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha da poco finito di consumare la sua frugale cena. È fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito. Con la scienza medica Galateo cura i primi, con la filosofia si occupa dei secondi. Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio per scrivere una lunga lettera. È indirizzata al marchese di Nardò e conclude con queste parole: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora del tutto iniziata.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

galateo

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha appena finito di consumare la sua frugale cena, fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito.

Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio e scrive una lunga lettera indirizzata al marchese di Nardò per concludere quanto segue: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora iniziata.

Antonio De Ferrariis Galateo. Convegno di Studi

Convegno di studi

Antonio De Ferrariis Galateo
L’Erasmo di Terra d’Otranto
a cinquecento anni dalla morte
(1517-2017)
 
che si terrà a Lecce presso l’ex Monastero degli Olivetani nella Sala Chirico.
I lavori inizieranno giovedì 31 maggio prossimo alle ore 16,30 con l’indirizzo di saluto del Magnifico Rettore dell’Università del Salento Vincenzo Zara e proseguiranno come da programma allegato suddiviso in tre sessioni fino al 1 giugno.
Scarica qui il programma:

Alimini: appunti per una storia del toponimo

di Armando Polito

immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg
immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Laghi_Alimini#/media/File:Laghi_Alimini_Otranto.jpg

 

 

Per la serie quandoque bonus dormitat Homerus, dopo quanto ebbi occasione di rilevare a proposito di una proposta etimologica del grande Rohlfs (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/23/quando-il-rohlfs-inciampo-in-un-sassolino-del-salento/), mi permetto oggi, per quanto indegno di Omero, del Rohlfs e di chi sto per nominare,  di ricordare la proposta etimologica che di Alimini fece Giacomo Arditi (1815-1891) nella sua Corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento tipografico “Scipione Ammirato”, Lecce, 1879-1885. Riproduco  da p. 301 la parte di testo che ci interessa e la relativa nota.

L’Arditi sembra mettere in campo un Λιμυις. Visto che non c’è ombra d’accento debbo rinunciare alla mia consueta lettura/trascrizione per chi non conosce il greco. Tuttavia, qualsiasi accento si ipotizzi, la voce in greco non esiste. Ipotizzando, invece, un errore di stampa (-υ– per –ο-) potremmo pensare in teoria ad una lettura Λίμοις (Lìmois) o Λιμοῖς ( Limòis). Ho detto in teoria perché in pratica Λίμοις non esiste e Λιμοῖς potrebbe essere solo dativo plurale del nome comune λιμός (leggi limòs), che significa fame. Ora, a parte il fatto che non si capisce che origine abbiano la A–  e il –ni– di Alimini, nemmeno λιμός potrebbe essere messo in campo perché in questo caso non si capisce come un dativo, per giunta plurale, per giunta di un nome astratto (anche se i suoi sintomi sono, eccome, concreti …), possa aver dato vita ad un toponimo. D’altra parte neppure l’ipotesi di uno scambio, sempre per errore di stampa, di -ν- con -u- porterebbe a nulla perché anche Λιμvις (qualunque sia l’accento) in greco non esiste.

Tuttavia, prima di prendercela con l’Arditi, non trascuriamo la nota 1, anche se tutto lascerebbe presagire il gioco dello scaricabarile o della fiducia cieca …

Galat. cit. oper. si riferisce al De situ Iapygiae di Antonio de Ferrariis alias Galateo (circa metà del XV secolo-1517), opera uscita postuma per la prima volta a Basilea per i tipi di Perna nel 1558.

Marciano, cit. oper. si riferisce a Descrizione, origine e successi della Provincia d’Otranto, di Girolamo Marciano (1571-1628), uscita postuma con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1638-1685) per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Procedo al controllo e riproduco di seguito dall’edizione citata del Galateo il brano che ci interessa; per facilitare la comprensione di quanto dirò, prima della traduzione fornirò la trascrizione.

 

 

 

 

 

In ora Ionii, quarto ab urbe lapide lacus est piscosus, cymbis tantum piscatoriis nabilis, quem incolae afhuc Graecè λίμνην nominant; seu ut Galenus ait, Limnothalassan (ita enim ille appellat lacus qui in mare fluunt,  refluunt).

Lungo la riva dello Ionio a quattro miglia dalla città vi è un lago pescoso, navigabile solo da barche da pesca, che gli abitanti ora chiamano con nome greco λίμνην, oppure, come dice Galeno, Limnotalassan (così infatti egli chiama i laghi che affluiscono in mare e ne rifluiscono).

Intanto c’è da dire che nel Galateo non si trova Λιμοις ma λίμνην, accusativo di λίμνη, che significa acqua stagnante, palude, lago. La voce è legata al verbo λείβω (leggi lèibo), che significa stillare, versare, spandere , con cui è connesso a sua volta il latino libare che significa versare o spargere a terra o su un altare latte, vino e simili in onore degli dei o dei defunti oppure assaggiare oppure sfiorare leggermente, oppure, per traslato, conoscere superficialmente, oppure diminuire, intaccare. L’originaria valenza religiosa di libare, già traballante in latino, è scomparsa completamente nell’analoga voce italiana sinonimo di brindare, per non parlare del significato assunto da libagioni e da illibata, che oggi potrebbe definirre la donna che ha avuto contemporaneamente una decina di relazioni … Parenti stretti  di λίμνη sono λείμαξ (leggi lèimax), che significa prato, e λειμών (leggi leimòn)=luogo irriguo, prateria, con cui è connesso il latino limum=fanghiglia, da cui l’italiano limo , mentre limaccioso è da limaccio, a sua volta dal latino tardo limaceu(m), forma aggettivale dal citato limum. Per completare il commento aggiungo che Limnothalassan è trascrizione del greco  λιμνοθάλασσαv (leggi limnothàlassa), accusativo di λιμνοθάλασσα, composto dal già noto λίμνη+θάλασσα che significa mare.

Passo ora al Marciano col dettaglio di p. 198; lo riproduco più estesamente di quanto sarebbe necessario perché contiene una notizia interessante anche nel riferimento storico che la correda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ora è chiaro che dal punto di vista etimologico fa testo il Galateo, travisato, non riesco a capire per quale motivo, dall’Arditi; tuttavia il della Limini del Marciano è prezioso per l’Alimini attuale, perché costituisce la fase intermedia, come vedremo. Limini, infatti è da λίμνη con epentesi di una –i– per ragioni eufoniche. Ancora più vicino a λίμνη per la terminazione in –e si presenta il toponimo Lìmene (nel dettaglio che segue evidenziato in rosso) della carta del Mercatore del 1589.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una sorta di italianizzazione nella desinenza, invece, si nota nel Lìmina che si legge nella carta aragonese della quale mi sono occupato in diverse puntate (per la nostra zona vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nelle carte del secolo XVII si legge: la limine nel Bulifon

 

 

 

 

La Limina nell’Hondius e nel Magini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Limmene nel Castaldi

 

 

 

 

Andando avanti nel tempo: La Limana nel De Rossi (1714)

 

 

 

 

Gli Alimeni nell’atlante di Rizzi-Zannone (1789-1808)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A questo punto, col frettoloso processo di ricostruzione cui ho dato vita, non mi è stato possibile stabilire, per l’esiguità del materiale esaminato, la data di nascita precisa dell’attuale Alimini, anche se essa è presumibilmente da collocarsi verso la metà del XVIII secolo.

Ma dirà il lettore, come si è passati dal limne del Galateo ad Alimini?

Ecco la trafila completa: limne>lìmene (la già nominata epentesi di –e– per motivi eufonici)>la Lìmene>l’Alìmene (agglutinazione della –a dell’articolo1). A questo punto il nome è diventato Alimene e, siccome i laghi che compongono lo specchio d’acqua sono due, l’Alìmine è diventato prima Gli Alìmeni e poi gli attuali (ma il processo, come dimostra la storia, non è destinato ad interrompersi) Alìmini o Laghi Alìmini.

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1 Fenomeni del genere appaiono di origine popolare, perché nascono da un fraintendimento che conduce ad un’errata grafia, la quale poi finisce per imporsi con l’uso, che nella lingua è sovrano, forse troppo sovrano per i miei gusti . Un esempio simile ad Alimini è quello di la radio>l’aradaio>aradio. Tuttavia non mancano casi in cui, al contrario,  la forma corretta si è conservata nella voce dialettale e la scorretta si è imposta nella lingua nazionale, sia pure con la complicità, forse, nell’esempio che farò, di un incrocio con altra parola. All’italiano lastrico corrisponde il salentino àstricu, che è dal latino medievale astracu(m), a sua volta dal greco ὄστρακον (leggi òstracon) che significa coccio, conchiglia (il pensiero corre, giustamente, al cocciopesto). Lastrico nasce proprio dall’incorporazione dell’articolo (l’astrico>lastrico) con lo zampino, forse, di lastra.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, l’antico proverbio e la propaganda augustea

di Nazareno Valente

Degli altri colleghi storici Tucidide faceva di tutta un’erba un fascio considerandoli dei semplici logografi («λογογράφοι»), vale a dire narratori che miravano al diletto degli ascoltatori e non certo alla verità1 con l’unico intento, pertanto, di produrre belle storie da declamare in pubblico, senza preoccuparsi della loro fondatezza. Sebbene non l’affermasse esplicitamente, egli ci metteva nel mucchio persino Erodoto, che pure aveva limitato al massimo i facili abbellimenti dovuti a fantasiosi interventi divini, ma che probabilmente non s’era emancipato dalla consuetudine di leggere le proprie storie nelle pubbliche piazze. E, che così fosse, se ne ha una prova evidente in un passo in cui lo storico di Alicarnasso parla della Scizia.

Ce lo possiamo infatti immaginare a Thurii, sua città d’adozione2, che s’affacciava sulla costa occidentale del golfo di Taranto, mentre cerca di spiegare ai suoi concittadini una particolarità dell’estrema propaggine della Scizia e che, per semplificare, utilizza come esempio l’Attica. Poi, temendo che quest’ultima contrada non sia molto conosciuta a chi l’ascolta, ritiene utile ricorrere ad un altro esempio («δὲ ἄλλως δηλώσω») che ha il pregio di non porre problemi interpretativi ai Turini, ovverosia la terra della Iapigia in cui abitano a stretto contatto di gomito i loro più acerrimi nemici (i Tarantini) ed i loro tradizionali alleati (i Brindisini). O, per dirla con le stesse parole di Erodoto, la penisola che inizia dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος3»).

Un passo stringato che non necessitava di ulteriori specificazioni, perché i Turini conoscevano perfettamente le due città ma al tempo stesso denso di significati, meritevoli di una descrizione a sé stante, se il nostro scopo non fosse circoscritto a decifrare un antico proverbio. In questa sede pare pertanto utile soffermarsi solo sugli aspetti funzionali alla nostra specifica trattazione.

Si può così rilevare che, quantunque entrambe le cittadine abbiano un porto rinomato, la sola Brindisi ne risulta di fatto caratterizzata, quasi che il porto fosse un’entità distinta dalla città. Erodoto specifica poi che si tratta di λιμήν che, in senso tecnico, è il termine portuale corrispondente al portus latino, con cui è definibile «uno specchio d’acqua chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi possano rimanere sicure in caso di traversia4» e quindi con il requisito essenziale di costituire un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi o di inattività invernali. Aspetto quest’ultimo di apprezzabile rilievo, considerato che a quel tempo si navigava quasi esclusivamente nelle belle stagioni.

In definitiva un porto d’eccellenza sin dal periodo classico dell’antichità greca e, pur tuttavia, nulla in confronto alla fama che acquisirà successivamente quando, a seguito della conquista romana, nella seconda metà del III secolo a.C. Brindisi diverrà colonia di diritto latino. Una fama che rivivrà negli scritti successivi pure nelle fasi di declino della città, così come avvenne nel De situ Iapygiae del Galateo.

Siamo all’inizio del XVI secolo, negli anni in cui l’impero ottomano, pur rivolgendo le sue attenzioni ad oriente, fa comunque sentire la propria nefasta presenza ad occidente, con rapide e feroci scorrerie che mettono in un stato di continua soggezione le città costiere. In assenza d’un governo forte, per i porti del basso adriatico l’unica difesa possibile è quella di precludere gli accessi alle rade, ed è per questo che il canale di collegamento al porto interno di Brindisi viene più volte ostruito, tanto che gli storici discutendo tra di loro lo qualificano «volgarmente… ciccato5». Eppure il Galateo6 giudica Brindisi città insigne «inclyta urbs» ed il suo porto famosissimo in tutto il mondo («toto terrarum orbe notissimus») tant’è che dà per coniato il proverbio: «tres esse in orbe portus: Iunii, Iulii et Brundusii», all’apparenza facile da tradurre ma dal significato alquanto oscuro (figura n. 1).

nazareno1

Letteralmente potremmo tradurlo così: “tre sono i porti al mondo: Giunio, Giulio e Brindisi” e non ci sarebbero problemi, qualora ai tre nomi corrispondessero altrettanti porti noti dell’antichità; cosa che, invece, sicuramente non è nel caso di Giunio. Osservato però che Iunius e Iulius sono anche i nomi dei mesi rispettivamente di giugno e di luglio, potremmo adottare quest’altra traduzione: “tre sono i porti al mondo: giugno, luglio e Brindisi”, che mostra l’ulteriore difetto di comparare entità tra loro inconfrontabili.

A tutta prima, quest’ultima soluzione pare la meno soddisfacente, ciò malgrado, i principali cronisti brindisini del XVII secolo la danno per sicura.

Secondo il Moricino, il porto di Brindisi viene comparato ai mesi di giugno e luglio «quasi che a dispetto della natura del mare tale sia quel Porto in ogni stagione, quale suol essere in tutto nelle Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio7».

E, sulla stessa lunghezza d’onda, gli fa eco il Della Monaca: «Quasi ch’à dispetto della naturalezza del mare tal sia quel Porto in ogni staggione, qual essere suole in tutto il tempo il Mare nelle bonaccie di quei mesi Giugno e, Luglio8».

In definitiva, come a dire che nel porto di Brindisi le navi sono sempre al sicuro, al pari di quando solcano il mare nelle bonacce dei mesi di giugno e luglio.

Un’interpretazione già di per sé in contrasto con la mentalità pratica degli antichi romani, poco inclini a fantasticherie così ardite in cui si confrontano i periodi migliori per navigare con i luoghi più idonei ad ospitare i navigli, e che in aggiunta non tiene conto di agosto, vale a dire del mese più favorevole per affrontare il mare. Vanno poi ricordate le consuetudini di quei tempi, che erano strettamente coerenti con le possibilità tecniche dell’epoca.

Come già in parte riportato, tranne rare eccezioni, si prendeva il mare solo nelle belle stagioni mentre in quelle cattive si trovava un buon porto dove ricoverare le navi. Le difese naturali o artificiali del portus erano infatti essenziali per proteggerle da eventuali mareggiate che potevano avere effetti devastanti su imbarcazioni la cui stazza era contenuta. A scanso di equivoci, esse venivano tirate a secco ed a volte protette pure da palizzate e fossati, per cui la bonaccia o la buona stagione non erano condizioni strettamente essenziali per la loro salvaguardia. Al contrario erano proprio le burrasche dei mesi estivi ad essere potenzialmente pericolose in quanto, sopraggiungendo improvvise e inaspettate, potevano comportare effetti disastrosi sulle galee ferme in rade non sufficientemente protette, tant’è che Svetonio9 riferisce come la flotta di Augusto fosse stata distrutta per ben due volte dalla tempesta, e non durante la brutta stagione ma per l’appunto nel bel mezzo dell’estate.

L’ingegnoso collegamento tra mesi dell’anno e porti fornisce perciò una chiave di lettura suggestiva – probabilmente conveniente a stimolare la fantasia e l’adattabilità dei social, dove in effetti impazza sino a trovare ospitalità in un godibile sketch satirico in cui un’analoga esegesi è fornita nientemeno che da Cesare Ottaviano Augusto10 – ma al tempo stesso improbabile. Certo è che essa non trova accoglimento al di fuori del ristretto ambito locale e, di conseguenza, conviene piuttosto considerare l’ipotesi più scontata, vale a dire che Iunius e Iulius siano molto più banalmente dei porti che non si è stati in grado di individuare.

Il Galateo scrisse il De situ Iapygiae in un periodo imprecisato tra il 1508 ed il 1511 ma non era più in vita quando il suo manoscritto fu stampato nel 1558, grazie al marchese di Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio che se ne accollò le spese. In quegli anni non esistevano porti con il nome di Giunio e di Giulio però, ai patiti di antichità romane quest’ultimo toponimo avrebbe potuto dire qualcosa. Del porto Giulio aveva infatti riferito Svetonio nella parte dedicata a Cesare Ottaviano Augusto della sua “Vita dei Cesari”, quando menziona l’inaugurazione presso Baia di un «portum Iulium» creato artificialmente facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno («inmisso in Lucrinum et Avernum lacum mari11»). La struttura portuale rendeva infatti comunicanti tra loro i laghi d’Averno e Lucrino, e quest’ultimo lago con il mare, previo taglio del cordone di sabbia che li separava (figura n. 2).

nazareno2

Voluto da Vipsanio Agrippa, amico e fedele collaboratore di Augusto, per contrastare le scorrerie sul Tirreno della flotta di Sesto Pompeo, il portus Iulius (o portus Iulii) iniziò ad operare nel 37 a.C. nei pressi del vecchio e rinomato porto di Puteoli, nell’ampia area dei Campi Flegrei, che venne così soppiantato da questo nuovo doppio bacino portuale. Si ipotizza che inizialmente avesse prevalenti funzioni militari, essendo stato preventivato l’allestimento d’un arsenale e di strutture idonee per addestrare gli schiavi liberati per inquadrarli tra i rematori, ma che in seguito divenne però scalo commerciale d’una certa importanza. In ogni caso, ricoprì un ruolo strategico di rilievo, se Agrippa decise di intitolarlo al futuro Augusto che, come conseguenza dell’adozione da parte di Cesare, aveva appunto modificato il proprio nome da Octavius a Iulius, e se altri storici lo citarono diffusamente nei loro scritti. Il porto meritò anche una menzione poetica da parte di Virgilio12 che l’elenca («Iulia… unda») tra le laboriose opere («operumque laborem») compiute dalla mano dell’uomo.

Come il porto di Brindisi, anche quello Giulio visse i suoi anni di gloria in concomitanza con l’impero romano e declinò con esso; solo che non si riprese mai più. Anzi scomparve addirittura dalla faccia della terra, a causa dei fenomeni naturali che investirono la regione flegrea modificandone la struttura morfologica. Dapprima, tra l’VIII ed il X secolo, fenomeni bradisismici fecero sì che il mare sommergesse il Lucrino che poi finì quasi per sparire nel 1538, a seguito dei movimenti tellurici che crearono in quel sito il Monte Nuovo.

Al tempo di Moricino e Della Monaca, il porto Giulio non esisteva pertanto più, e non ne era rimasta traccia, se non nelle fonti letterarie antiche. Solo i ritrovamenti archeologici del secolo scorso lo posero nuovamente in luce.

Non c’è quindi dubbio alcuno che lo “Iulii” del Galateo identifichi il porto Giulio, e non il mese di luglio come ipotizzato dai cronisti brindisini; di conseguenza anche Iunii è di sicuro un porto, e non un mese del nostro calendario. Il problema però in questo caso è che non c’è indizio, né possibile accenno nelle fonti letterarie, che diano modo di individuare una città portuale con un tale nome. Il che appare strano, se esso era così famoso da diventare proverbiale.

L’unica ipotesi formulabile appare a questo punto che il passo sia errato; cosa plausibile, considerate le lamentele espresse a volte «ai lettori» dai curatori delle opere del Galateo per le «grandissime difficoltà» incontrate nella traduzione «per la scorrezione dei testi13».

Partendo pertanto dal presupposto che il Galateo (o qualche copista) ne abbia riportato in maniera imprecisa il nome, occorre cercare la città portuale, a quel tempo rinomata, la cui denominazione abbia maggiore assonanza con Iunii. Essendo le località di tal genere in numero limitato, la ricerca riconduce inequivocabilmente al portus Lunae che, tenendosi alla sinistra dell’allora ampia foce del fiume Magra, si affacciava ad est dell’attuale golfo di La Spezia, e che, in antichità aveva goduto di buona fama meritando pure le attenzioni del grande Ennio14 che invitava a visitarlo, perché ne valeva la pena («Lunai portus, est operae. cognoscite, cives»).

Naturale come quello brindisino, il porto di Luna fu probabilmente motivo di contesa tra gli Etruschi ed i Liguri, prima di giustificare le mire dei romani che, con questo scalo, ritennero di poter controllare le rotte dell’alto Tirreno.

La deduzione nel 177 a.C. d’una colonia di diritto romano (civium romanorum) nella città di Luna fu perciò un passo del tutto conseguente (figura n. 3). Tuttavia, il successivo declino della potenza cartaginese creò una situazione di diffusa tranquillità nella zona, che finì per limitare l’importanza della base militare lunense. Solo in periodo augusteo il porto riacquisì rinomanza, quando fu potenziato e trasformato a scalo commerciale per sfruttare appieno le potenzialità delle vicine cave di marmo il cui candore affascinava Roma e tutte le città italiane. Ed è proprio di questo periodo la descrizione più particolareggiata che le fonti letterarie ci hanno conservato.

Nazareno3

Strabone15 ci informa infatti che la città di Luna non è grande mentre il porto è parecchio grande e assai bello, comprendendo più rade, tutte profonde («ὁ δὲ λιμὴν μέγιστός τε καὶ κάλλιστος, ἐν αὑτῷ περιέχων πλείους λιμένας ἀγχιβαθεῖς πάντας»), circondate da alte montagne dove ci sono cave di marmo bianco («μέταλλα δὲ λίθου λευκοῦ») utilizzato per gli edifici più insigni costruiti a Roma e nelle altre città.

Durante la stesura del De situ Iapygiae, il porto di Luna era però da secoli scomparso: il graduale interrimento, causato dai frammenti depositati dal Magra, l’avevano infatti reso paludoso e malarico, sino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarlo per spostarsi nell’entroterra. Così non c’è da stupirsi troppo se, tra una copia e l’altra del passo implicato, la del tutto sconosciuta Lunae possa essere stata sostituita da Iunii, magari proprio perché termine ritenuto più in armonia con Iulii, anch’esso non più riconosciuto come scalo portuale.

Comunque siano andate le cose, la stesura originale del proverbio doveva essere la seguente: «tres esse in orbe portus: Lunae, Iulii et Brundusii» stabilendo in definitiva che i porti di Luna, di Giulio e di Brindisi erano gli unici al mondo degni d’essere considerati tali.

Questo almeno nella forma; nella sostanza il messaggio che si voleva veicolare era però forse ben altro.

La citazione del prezioso marmo bianco lunense riportata da Strabone fa infatti venire alla mente il noto passo in cui Svetonio16 riferisce che Augusto si vantava senza sottintesi di lasciare di marmo la città di Roma che aveva ricevuto di mattoni («marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset»), facendoci così comprendere che la riorganizzazione del porto di Luna, e la conseguente notevole attività commerciale che vi era confluita, rientrava a pieno titolo nelle politiche economiche di ampio respiro che il princeps andava attuando. Lo stesso può dirsi a maggior ragione per il porto Giulio, creato praticamente dal nulla e che, come già riportato, Agrippa gli aveva persino intitolato perché ne rimanesse perenne memoria. Queste due imponenti iniziative rientravano pertanto, a dirla come il già citato verso di Virgilio, tra le «operumque laborem», vale a dire tra le opere esemplari che Augusto aveva compiuto per creare consenso. Il che fa sorgere il fondato sospetto che il proverbio facesse parte della minuziosa propaganda avviata da Mecenate, una specie di ministro della cultura e dell’informazione del governo augusteo, e che sia stato pertanto coniato ad arte per valorizzare i progetti portuali avviati in quel periodo.

In questa ottica anche la presenza nell’adagio del porto di Brindisi assume un significato diverso e ben più caratterizzante della sua del tutto ovvia notorietà.

Occorre infatti ricordare che il portus Brundusii rappresentava soprattutto una mirabile dimostrazione di opera compiuta dalla natura, come emerge ad esempio nei passi di Strabone17, quando lo qualifica porto spontaneo di grande pregio («εὐλίμενον»), oppure di Lucano18, quando lo descrive dotato di tutte quelle caratteristiche genuine che lo rendono approdo talmente sicuro che le imbarcazioni possono essere assicurate anche con una semplice tremula fune («ut tremulo starent contentae fune carinae»).

Nel proverbio il porto brindisino pare quindi piuttosto utilizzato come modello con cui confrontare i porti realizzati per mano dell’uomo.

A questo punto sembra evidente che, se nella forma il testo del proverbio stabiliva una semplice elencazione di porti importanti, nella sostanza intendeva far percepire che le attività promosse da Augusto sugli approdi portuali erano equiparabili alle migliori opere create dalla natura. In pratica, gli interventi compiuti per fare di Luna lo scalo commerciale che consentiva di sostituire nelle città al mattone il marmo e quelli eseguiti per realizzare dal nulla un bacino artificiale di sicuro ricovero, come avvenuto con il porto Giulio, erano paragonati all’approdo brindisino, ritenuto per l’appunto il portus per eccellenza.

Nella realtà, quindi, un riconoscimento di gran lunga superiore al banale accostamento alle «Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio» celebrato con convinta immaginazione dai cronisti brindisini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 21, 1.

2 Erodoto era nato ad Alicarnasso ma, avendo partecipato alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, ne acquisì la cittadinanza.

3 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

4 G. Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell’itinerarium Antonini, in Studi Italiani di Filologia Classica, N.S. XL, 1-2, pp. 225-254, Felice Le Monnier, Firenze, 1968, p. 241.

5 G. Antonini, La Lucania, Forni Editore, Sala Bolognese, 1984, ristampa dell’edizione Tomberli, 1794, p. 188.

6 Galateo, De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae, 1558, p. 63.

7 G.M. moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi, manoscritto ms_D12, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 14v.

8 A. della monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, p. 30.

9 Svetonio (I secolo a.C.), Vita dei Cesari – Augusto, II 16, 1.

10 Tindilo: satira brindisina, Cesare Augusto imperatore, Brindisi, 2016.

11 Svetonio, cit., II 16, 2.

12 Virgilio (I secolo a.C.), Georgiche, II 154-163.

13 La Iapigia e varii opuscoli di Antonio de Ferrariis detto il Galateo, (collana diretta da Salvatore Grande), Tipografia Garibaldi, Lecce 1867, vol. I, p. I.

14 Ennio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Annali I, in persio (I secolo d.C.), Satire VI 9.

15 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, V 2, 5.

16 Svetonio, cit., II 28,5.

17 Strabone, cit., VI 3, 6.

18 Lucano (I secolo d.C.), Farsaglia, II 608-621.

Un maestro neretino del XV secolo nel ricordo di un suo allievo (1/2)

di Armando Polito

Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro

(Leonardo da Vinci, codice Foster III)

È noto quasi a tutti che Socrate non ci ha lasciato opere di sorta ma in compenso ci è possibile conoscere il suo pensiero attraverso quelle dei suoi discepoli, Platone primo tra tutti. Non succede spesso che il maestro lasci in qualche suo allievo un’impronta così viva da spingerlo a ricordarlo espressamente, magari anche in modo fugace , come nel nostro caso.

Il maestro è il neretino Francesco Securo, l’allievo il mantovano Pietro Pomponazzi, campo comune del loro sapere è la filosofia.

Prima di entrare nel punto centrale del tema credo opportuno dire qualcosa sui due. Su Francesco Securo riporto in ordine cronologico  e in immagini (tratte dal testo reperibile al link volta per volta segnalato in nota e con a fronte la traduzione degli eventuali passi non in italiano), le più significative testimonianze, dicendo subito che quelle da lui cronologicamente più lontane poco aggiungono alle più antiche, che quel poco non è sempre suffragato dall’esibizione di fonti documentarie e che oggi è quasi impossibile, a meno di fortunati ritrovamenti, operare un controllo.

Antonio De Ferrariis detto Il Galateo, De situ Iapygiae (L’opera, terminata già intorno al 1520, fu pubblicata postuma per i tipi del Perna a Basilea nel 1553; il dettaglio sottostante è tratto dalla ristampa del 15581):

Leandro Alberti (1479-1552 circa), Descrittione di tutta l’Italia, Giaccarelli, Bologna, 15502, p. 214r:

 

Antonio Senese Lusitano, Bibliotheca Ordinis Fratrum Praedicatorum …, Nivellio, Parigi, 15853, pp. 81-82:

Quel claruit (fu illustre) del brano appena letto fa credere, almeno secondo l’autore, che Francesco raggiunse la fama nel 1490, cioè dieci anni dopo la morte, se accettiamo il 1480 tramandato dall’Alberti, subito dopo se optiamo per il 1489 riportato dagli altri.

Michele Pio, Della nobile et generosa progenie del P. S. Domenico in Italia, Cochi, Bologna, 16154, p. 382:

 

Ambrogio Del Giudice (detto Altamura), Bibliothecae Dominicane, Tinassi, Roma, 16775, p. 182 (anno 1455) e pp. 204-205 (anno 1480):

 

Niccolò Toppi (1607-1681), Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 16786, pp. 94 e 343:

Un Fra’ Felice da Castelfranco fu autore di una breve cronaca dell’ordine domenicano fino al 1565 ed è plausibile che si tratti di quello citato  dal Toppi. Non è chiaro, però, se è pure opera sua l’additione ad Antonium Sabellum in cui si fa l’elenco di alcuni illustri discepoli del Securo, sui quali mi pare opportuno riportare qualche notizia.

Domenico Crimani (1461-1523) non scrisse alcuna opera, ma è ricordato come un raffinato collezionista di sculture, pitture e manoscritti oggi in gran parte nella Biblioteca Marciana a Venezia.

Tommaso de Vio (1469-1534), detto, dalla città di nascita, il cardinal Caetano o Gaetano  fu autore abbastanza prolifico: In librum Job commentarii, Commentaria in III libros Aristotelis De anima, Commentaria super tractatum De ente et essentia Thomae de Aquino, De nominum analogia, Jentacula N.T., In Porphyrii Isagogen ad Praedicamenta Aristotelis, De conceptu entis.

Gaspare Contareno (1483-1542), più comunemente Gaspare Contarini, è cronologicamente incompatibile: come faceva, nato nel 1483, a seguire le lezioni del Securo che, come ci informa l’Alberti, era morto nel 1480? L’incongruenza si perpetua anche in Giovanni degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere Degli scrittori viniziani, Occhi, Venezia, 1754, tomo II7, dove a p. 189 s’include il Contarini tra gli allievi del Securo con citazione in nota del Toppi.

Antonio Pircimano in realtà è Antonio Pizzamano, che fu vescovo di Feltre dal 1504 al 1512, autore di parecchie pubblicazioni: In Divi Thomae Aquinatis vitam praefatio, Vita del Venerabile Sacerdote D. Ludovico Ricci Vicentino, De intellectu et intelligibili, De dimensionibus interminatis, De quaerenda solitudine et periculo vitae solitariae, Opuscula sancti Thome.

Fra’ Geronimo di Monopoli, essendo il meno titolato,  ha riscosso fin dal primo momento la mia simpatia, ma ogni tentativo di sapere qualcosa su di lui è miseramente naufragato.

Luigi Tasselli, Antichità di Leuca, Micheli, Lecce, 16938, p. 531:

Il Cardinale Gaetano è il Tommaso De Vio già citato dal Toppi. Francesco Ferrariense è Francesco Silvestri di Ferrara (1474-1528), famoso teologo e filosofo tomista; la sua opera maggiore è In libros S. Thomae Aquinatis contra gentes commentaria, uscita a Venezia per i tipi di Giunta nel 1524 che fu ripubblicata in un numero impressionante di edizioni prima e dopo la sua morte e per volontà di Leone XIII fu inclusa nell’edizione che da lui ebbe il nome di leonina a fianco del testo di San Tommaso. Altre opere: Adnotationes in libros posteriorum Aristotelis, Eredi Scoti, Venezia, 1517, Apologia de convenientia institutorum Romanae ecclesiae cum evangelica libertate, Viani, Venezia, 1525, In tres libros de anima, uscito postumo nel 1535 a Venezia per i tipi di Ballarino.

Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II9, parte II, pp. 321-325:

Giambattista Lezzi10, in AA. VV., Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1826, Tomo XI:

Nella nota a della pagina iniziale della sua biografia, che riporto in dettaglio per comodità del lettore, il Lezzi attribuisce all’Altamura ciò che quest’ultimo mai scrisse:

Per la serie Anche le virgole nel loro piccolo sono importanti  lo dimostra eloquentemente il dettaglio della pagina dell’Altamura già riportata:

Come il lettore noterà, ex Baronibus de Sancto Blasio à puero grammaticen doctus è racchiuso tra due virgole, il che lega indissolubilmente doctus a ex Baronibus e non ad ortus. L’interpretazione del Lezzi sarebbe stata valida se dopo Baronibus ci fosse stata una virgola.

In compenso la biografia del Lezzi reca in testa il ritratto del Securo eseguito da Guglielmo Morghen (1758- 1833). Sarebbe interessante sapere se in qualche modo l’incisore entrò in contatto, se non con la statua ricordata dal Toppi, almeno con l’affresco voluto dal vescovo Salvio11 secondo quanto affermato dal Tafuri12 e da lui ripreso dal Lezzi. Purtroppo del destino della statua non si sa nulla e del ritratto non c’è traccia nel palazzo vescovile.

Nonostante alcuni degli autori qui riportati sostengano l’esistenza di opere a stampa del Securo, peraltro senza riportarne gli estremi editoriali, e Giambattista Lezzi affermi il contrario, del neretino ho trovato l’incunabolo di una summa teologica tomistica, che presenterò in altra occasione.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/22/un-maestro-neretino-del-xv-secolo-nel-ricordo-di-un-suo-allievo-22/

_____________

1 https://books.google.it/books?id=SmLBPZvkHPsC&pg=PA122&dq=de+situ+iapygiae&hl=it&sa=X&ei=dM2fVZy0B8n_UuLOv5AL&ved=0CDMQ6AEwAw#v=onepage&q=de%20situ%20iapygiae&f=false

2 https://books.google.it/books?id=rCm1TS1GFOMC&pg=RA8-PA379&dq=Descrittione+di+tutta+Italia,+nella+quale+si+contiene+il+sito+di+essa&hl=it&sa=X&ei=OY6fVeP2G4G6sQG5mbXwDg&ved=0CDcQ6AEwBA#v=onepage&q=Descrittione%20di%20tutta%20Italia%2C%20nella%20quale%20si%20contiene%20il%20sito%20di%20essa&f=false

3 https://books.google.it/books?id=fMT1USCck1kC&pg=RA1-PA34&lpg=RA1-PA34&dq=lusitani+bibliotheca+fratrum+praedicatorum&source=bl&ots=WIWQxh-eED&sig=F4KCgYARbP-oSWu_9WMu7-r-MVA&hl=it&sa=X&ei=zfqfVbGFMYXyUJHoh9AG&ved=0CDMQ6AEwAg#v=onepage&q=claruit&f=false

4 https://books.google.it/books?id=2JHxEH1ljfkC&printsec=frontcover&dq=michele+pio&hl=it&sa=X&ei=kCOiVe30GorYU8zok7gN&ved=0CDYQ6AEwBA#v=snippet&q=nard%C3%B2&f=false

4 https://books.google.it/books?id=8RBEAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

5 https://books.google.it/books?id=kVmQuIYy5JkC&printsec=frontcover&dq=ambrosius+altamura&hl=it&sa=X&ei=RyqiVc2rNsesUaukh-AG&ved=0CCcQ6AEwAQ#v=onepage&q=ambrosius%20altamura&f=false

6 https://books.google.it/books?id=dwqHjGEGHmcC&pg=PA195&dq=antonio+pizzamano&hl=it&sa=X&ei=I6qfVf6OCsG-UqyzgbgL&ved=0CCMQ6AEwAQ#v=onepage&q=antonio%20pizzamano&f=false

7 https://books.google.it/books?hl=it&id=Th4hAQAAMAAJ&q=lll#v=onepage&q=lll&f=false

8 https://books.google.it/books?hl=it&id=n5YKJvt0_noC&q=jkk#v=onepage&q=jkk&f=false

9 https://books.google.it/books?id=6bNLAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:lhRjZBX2xbUC&hl=it&sa=X&ved=0CCYQ6AEwAWoVChMIjevc1rraxgIVgls-Ch2oGwAr#v=onepage&q&f=false

10 Su di lui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/02/regolamentazione-dei-senza-fissa-dimora-nel-regno-di-napoli-secondo-la-testimonianza-di-giovanni-bernardino-manieri-di-nardo/; nel manoscritto ivi menzionato è assente la biografia del Securo.

11 Sull’alta considerazione che Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, ebbe di Francesco Securo ecco quanto si legge in Sebastiano Pauli, Della vita di Ambrogio Salvio, Stamperia arcivescovile, Benevento, 1716 (https://archive.org/details/dellavitadelvene00paol), p. 8:

12 Ribadito pure dal suo discendente Michele nella nota 1 all’opera di Giovanni Bernardino Ragionamento storico recitato nell’apertura dell’Accademia degl’Infimi rinnovati di Nardò,  in Opere di Angelo, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Beranardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 68, nota che riporto integralmente da https://books.google.it/books?id=IVFhPm_DxnMC&pg=PA61&dq=tafuri+ragionamento+istorico&hl=it&sa=X&ei=th-iVbv2DseAUYuKjoAM&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=tafuri%20ragionamento%20istorico&f=false

 

 

 

Il Galateo va bene, ma poi De Ferrariis o De Ferraris o De Ferrari?

di Armando Polito

 

Chi, e a Nardò sono in parecchi, ha un cognome in cui compare la preposizione latina De e poi una seconda parola terminante in is potrebbe avere un qualche interesse a leggere questo post in cui non è da ravvisare un’allusione alla sua scarsa educazione. Infatti il Galateo del titolo è solo lo pseudonimo di Antonio De Ferrariis, il famoso umanista di Galatone al quale recentemente ho dedicato la mia attenzione sfruttando una poesia del neretino Francesco Castrignanò.

Perciò proprio su quel De e sul successivo segmento saranno indirizzate le mie riflessioni.

Cognomi come De Ferrariis (e, quindi, trascrivendo per Nardò dall’elenco telefonico 2013-2014, De Bellis, De Benedittis, De Bonis, De Cupertinis, De Franchis, De Laurentis, De Lorensis, De Lorenzis, De Magistris, De Matteis, De Pascalis, De Riccardis, De Rinaldis, De Rubertis, De Santis e De Vitis) sono un nesso latino (preposizione de+ablativo plurale) che nella buona vecchia analisi logica si chiama complemento di origine.

Ne prendo uno a caso (ma l’osservazione vale per tutti): De Benedittis alla lettera va tradotto discendente dai Benedetti; quest’ultima parola l’ho scritta con l’iniziale maiuscola perché siamo già nella fase in cui la voce è diventata nome proprio o parte del cognome. E nella fase precedente? Molto probabilmente la voce valeva come soprannome, come è successo per quasi tutti gli altri cognomi, compreso il mio; e da un primo benedictus si è passati al Benedictus capostipite della serie di Benedicti che, in ricordo dell’avo comune, hanno assunto il cognome De Benedittis. Non sempre, perciò, a mio avviso, il De tradisce, come si è soliti affermare, un’origine nobiliare, anche se non è da escludere che questa patente sia subentrata col tempo.

In parecchi casi, poi, il cognome ha subito una traduzione: si ha così (per continuare col nostro esempio e ricordare chi non sta facendo dormire, più di Ruby Rubacuori, sonni tranquilli a qualcuno …) accanto a De Benedittis (e alla forma ancora più fedele all’originale latino: De Benedictis) De Benedetti che andrebbe scritto più correttamente De’ Benedetti [(della famiglia) dei Benedetti], ma non è il caso di scandalizzarsi perché da lui, poi, è nato Debenedetti. E qui entra in campo il livello culturale e … acustico di chi a suo tempo era addetto all’anagrafe …

Per farla completa spezzo una lancia in favore di chi potrebbe sentirsi menomato (!) perché la seconda parte del suo cognome è in ablativo sì, ma singolare:  (sempre per Nardò) De Braco, De Carlo, De Florio, De Razza, etc. etc.; io non mi angustierei più di tanto perché tutto è opinabile e il fatto che sia prevalente il ricordo diretto del capostipite (al singolare) può significare che la sua memoria si è conservata meno dissimulata da quello della famiglia (al plurale).

Torno ora al nostro Galateo e mi chiedo quale sia la grafia più esatta: De Ferrariis, De Ferraris o De Ferrari?

La prima è quella cronologicamente più antica, mentre la seconda ha cominciato ad alternarsi con essa a partire dal XVIII secolo. Tra le edizioni contemporanee (nella foto una targata BiblioBazaar del 13 novembre 2008) non mancano grafie esilaranti esibite in copertina (da notare non tanto il nome tradotto Antonio de Ferrari quanto, poco prima, Antonio de Ferariis).

 

Comunque sia, il problema non è recente, come dimostra la soluzione “artigianale” adottata nell’edizione leccese (1867-1868) di alcune opere in tre volumi, dei quali riproduco di seguito il frontespizio:

 

 

Il lettore noterà come (si direbbe successivamente alla stampa, perciò ho definito artigianale la soluzione) due parentesi tonde consentono di passare dal cognome latino (De Ferrariis) alla sua traduzione in italiano (De Ferrari).

Ho detto prima che la variante più antica è De Ferrariis e credo che questa sia la forma più corretta non solo perché il tempo, com’è facile intuire, favorisce in questo campo la trasformazione e sovente l’errore ma per motivi strettamente filologici: ferrariis, infatti, è ablativo plurale di ferrarius=fabbro e, per quanto detto all’inizio, ciò fa pensare che originariamente la famiglia del Galateo potesse essere dedita alla lavorazione del ferro.

La forma De Ferraris presenta la contrazione delle originarie due –i– in una sola. Tale fenomeno è assolutamente normale quando non c’è possibilità di equivoco. Per esempio: filis in latino è ablativo plurale di filus (=filo) e perciò non consente che filiis (ablativo plurale di filius=figlio) sia scritto filis. Nel nostro caso non c’è possibilità di equivoco perché, tutt’al più, potremmo ipotizzare, sulla scorta del dialettale firraru, un latino parlato ferrarus che sempre fabbro significherebbe.

De Ferrari (ripeto: più correttamente andrebbe scritto De’ Ferrari, ma a Nardò nessuno si sognerebbe di scrivere, per esempio, De’ Filippi o De’ Giorgi o De’ Mitri o De’ Rossi) è la forma italianizzata.

A voi la scelta …

Un umanista di Galatone nel ricordo di un poeta di Nardò

di Armando Polito

Continua la serie di poesie di Francesco Castrignanò tratte da Cose nosce (1909), la cui lettura ho iniziato da qualche post a questa parte. Il titolo di quella di oggi è Lu Calateu. L’iniziale maiuscola della seconda parola ci fa capire che il tema non riguarda le buone maniere, cosa che facilmente ci saremmo aspettato da un poeta dialettale, ma Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, cioè il figlio di Galatone per eccellenza. La composizione celebra  compiutamente e degnamente una grande personalità attraverso il ricordo non enfatico dell’essenziale e nella lingua del popolo che ben risponde all’istanza divulgativa mai assente nelle poesie del Castrignanò dedicate a personaggi reali.

Galatone; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15217
Galatone; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15217

 

 

Lecce; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15188
Lecce; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15188

 

Galatone; targhe apposte sul prospetto (fito successiva) della casa natale al civico 111 della via intitolata all’umanista.
Galatone; targhe apposte sul prospetto (fito successiva) della casa natale al civico 111 della via intitolata all’umanista.

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1 Non credo che si mbrazzò stia per si mbrazzara (si abbracciarono) per esigenze metriche o per concordanza al singolare col secondo presunto soggetto; credo, invece, che il soggetto sottinteso sia il Galateo e che l’intero verso significhi il Galateo fuse nel suo abbraccio terra e cielo con l’aiuto di Dio.

2 Forma aggettivale sostantivata da mascìa (magia).

3 Da babbare, per il cui etimo vedi vedi la nota 1 del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/02/quando-unagenda-vale-come-e-piu-di-un-libro/

4 Efficacissimo enjembement in cui la struttura metrica (che imporrebbe nella lettura una pausa dopo arte) finisce per prevalere su quella logica (che imporrebbe una lettura continua  arte sua) esaltando il significato dell’aggettivo possessivo.

5 Dallo spagnolo buscar.

6 Lo ricorda lo stesso Galateo alla fine del suo De situ Iapygiae scritto tra il 1506 ed il 1511 e pubblicato per i tipi di Pietro Perna a Basilea nel 1558: Hic et ego prima literarum fundamenta hausi. Galatana me genuit, haec urbs  educavit et fovit, et literis instituit. Hic Aquevivus tuus, imo et meus Bellisarius, magni Aquevivi frater, dominator. Neque ero ingratus, si ut initium descriptionis Tarento, sic et finem Nerito tribuero. Hoc exigit locorum ratio et conviviorum magistri semper aliquid, quod maxime delectet, in finem reservant, sic: Neritum longae finis chartaeque viaeque. (Qui [a Nardò] pure io attinsi i primi fondamenti delle lettere. Galatone mi dette i natali, questa città (Nardò) mi educò e nutrì e preparò alle lettere. Qui signoreggia il mio e il tuo [riferito a Giovan Battista Spinelli, conte di Cariati e funzionario del viceregno di Napoli, cui il libro è dedicato] Belisario Acquaviva, fratello del grande Acquaviva. Né sarò ingrato se dedicherò l’inizio della descrizione a Taranto come la fine a Nardò. Lo esige il rispetto dei luoghi  e i direttori dei conviti riservano sempre alla fine qualcosa che faccia enormemente piacere: così Nardò [fu] la fine del lungo cammino  e della lunga trattazione).

E col ricordo di Nardò, condensato nel verso  Neritum longae finis chartaeque viaeque (è un esametro), il Galateo concludeva la sua opera più nota.

Nelle foto in che seguono nell’ordine: il frontespizio originale (l’opera è scaricabile dal link http://books.google.it/books?id=TipTAAAAcAAJ&pg=PA113&dq=neritino&hl=it&sa=X&ei=cc3SUebqN4fV4QT–oGYBA&ved=0CFQQ6AEwBjha#v=onepage&q=neritino&f=false) e una riproduzione moderna dell’edizione di Basilea, volume realizzato in modo artigianale,  con materiali come la carta per la compagine e la pergamena per la legatura, dello stesso periodo dell’originale. Prezzo: € 400. Lascio immaginare quanto possa valere una copia originale originale … 

 

http://www.salentostores.it/vedi_vetrina.php?vedi=prodotto&link_azienda=Codex&codice_prodotto=20120711221852
http://www.salentostores.it/vedi_vetrina.php?vedi=prodotto&link_azienda=Codex&codice_prodotto=20120711221852

 

7 Di questa forma di miraggio il Galateo per primo diede la spiegazione scientifica. Vedi sull’argomento:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/il-marciano-e-la-fata-morgana/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/

 

 

 

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (I parte)

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

Recentemente, ho riletto l’opuscolo “Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)” [Estratto da «Japigia», Rivista Storica di Archeologia, Storia e Arte; Anno II, 1931 – IX (Fascicolo II) – Società Editrice Tipografica, Bari] di Salvatore Panareo (Maglie 1872 – Roma 1961), storico, folclorista, linguista e poeta dialettale che, per molti anni insegnò Storia al Capece di Maglie, poi fu preside nei Licei di Agrigento (1922-3), Molfetta (1923-6) e nella stessa Maglie (1926-37), dove fu preside anche del Tecnico Commerciale e dell’Istituto Magistrale.

Gli scritti di S. Panareo sono molti conosciuti in Salento, e il suo nome non sfugge a chi si interessa di storia salentina in quanto collaborò con diverse riviste, fra cui «Maglie Giovane», «Japigia», «Rinascenza salentina», «Archivio per le tradizioni popolari», «Archivio storico pugliese», «Rivista Storica Salentina» (di cui fu direttore nel 1922-3). Panareo fu autore anche di diversi saggi, dei quali ecco alcuni titoli: “Fonetica del dialetto di Maglie in Terra d’Otranto” (1903), “Dileggi e scherni fra paesi dell’estremo Salento” (1905), “Puglia” (Torino 1926), “Il Comune di Maglie dal1901 in poi” (1948). Ancora oggi il suo nome e la sua memoria sono presenti nella Biblioteca comunale di Maglie, dove un importante fondo è intestato al suo nome, perché prevalentemente composto dai libri provenienti dalla sua biblioteca privata.

Ma veniamo al testo. Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle relazioni dei memorialisti del tempo e grazie anche agli studiosi che si sono interessati e continuano a interessarsi di quell’evento. Ricordo qui solo gli studiosi antichi.

Antonio De Ferraris detto il Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), riconosciuto grande umanista salentino, scrisse “Il Liber De Situ Japigiae” (1512-1513), fonte certa e probante, all’interno della quale, sia pure in modo breve e sintetizzato, fa riferimento alla guerra di Otranto. Donato Moro (Galatina 1924-1997), che delle vicende otrantine fu grande cultore per

Se non è plagio ditemi voi cos’é…

di Armando Polito

Nel post a firma di Fabrizio Suppressa dal titolo Il Marciano e la “Fata Morgana” si dava particolare rilievo al razionalismo con cui il leveranese Girolamo Marciano (1571-1628) in un suo scritto pubblicato postumo per la prima volta a Napoli nel 1855 affrontava il fenomeno del miraggio che va sotto il nome di Fata Morgana.

Il mio intervento non è ispirato da una sorta di campanilismo dovuto al fatto che, essendo di Nardò, sono terrritorialmente più vicino a Galatone che a Leverano, ma solo dalla doverosa necessità di dare a Cesare quel che è di Cesare.

Il brano che riproduco in basso è del galatonese Antonio De Ferrariis detto, proprio per il luogo di nascita, il Galateo; esso fa parte del De situ Japigiae scritto tra il 1506 e il 1511 e pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1558. Lascio al lettore trarre le conclusioni dopo la lettura comparata del suo brano (la traduzione, in corsivo, dall’originale latino è mia) e di quello del Marciano citato nel post all’inizio ricordato, non trascurando, naturalmente, la scarna cronologia che dei due autori ho riportato:

Neritini agri paludes noxiae non sunt; nullas enim, aut paucas, et innoxias tollunt auras. Aestate omnia sicca sunt, nihil limosi et gravis, aut palustris humoris relinquitur; sed tantum, quantum campos reddat pinguiores. in his paludibus, ut et in campis Mandurii, et Galesi, et Cupertini phasmata quaedam videntur, quas mutationes, aut mutata dicunt vulgus, nescio, quas striges, aut lamias, aut, ut Neapoli, Ianarias, et (ut Graeci dicunt) Nereides, fabulantur. Mirum est, totum orbem invasit, et in miseras erravit fabula gentes; nullo certo auctore, nulla ratione, nullo experimento unusquisque credit quae neque vidit, neque vera sunt, stamus alienis, et indoctissimorum hominum testimoniis; puerilibus larvis, anilibus credimus commentis, et plus fidei auribus, quam oculis adhibemus; nemo oculatus testis est, omnes ab aliis se audisse fatentur. Quantis tenebris involvitur humanum genus ad mendacia natum, cui semper invisa est veritas! Quanta caligo detinet humanos animos, alioqui rationales, et divinos, ut non ab re quis credere possit, omnia humana simillima esse, his quae dicemus phantasmatis! Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, seu potius veneficas medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas verti, et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare quae ibi agantur, choreas per paludes ducere, et daemonibus congredi; ingredi, et egredi per clausa ostia, et foramina, pueros necare, et nescio, quae alia deliramenta, et quod maxime mireris sunt in hac re gravissimae Pontificum censurae. Similis est Brocolarum fabula, quae totum Orientem cepit. Aiunt eorum, qui scelestem vitam egerunt, animas, tamquam flammarum globos noctu e sepulcris evolare solitas, notis, et amicis apparere, animalibus vesci, pueros sugere, ac necare, deinde in sepulcra reverti. Superstitiosa gens sepulcra effodit, ac scisso cadavere, detractum cor exurit, atque in quatuor ventos, hoc est in quatuor mundi plagas cinerem projicit; sic cessare pestem credit; et si fabula ea sit, exemplum tamen praebet nobis, quam invisi sint, et execrabiles omnibus ii, qui male vixerunt, et viventes, et mortui. Similis est et Hermontini Clazomenii apud Plinium fabula, et apud Senecam, de sepulcro incantato. Nec defuerunt antiquis temporibus hae vanitates, et illusiones sensuum humanorum; cum semel mens decepta fuerit, et mendaciis persuasa, sensus quoque falli necesse est; quibus deceptis, mens quoque delirat. Magna est inter sensus, mentemque affinitas; quandoque ipsa sola mens, seu (ut dicunt) solae virtutes interiores operibus exteriorum sensuum funguntur. Exemplum est somniantium, qui opera exercent vigilantium. Et Galeno teste, delirus quidam tibicinas videbat in angulo domus; et baculus in aqua videtur fractus, et cancellatis digitis et elevato altero oculo una res, duae apparent, et duae lineae parallelae videntur sensui concurrere, cum nunquam concurrant. Ipse etiam Lactantius, qui plus elocutioni, quam eruditioni studuit, negavit terram ubique posse habitari. Hunc vulgaris et Lactantium error apparentia decepit. Sicut negare sensum propter rationem, rationis est indigere; sic et ratione non persuaderi propter aliquam apparentiam stultum est. Tunc enim res bene cedit, cum ratio apparentibus attestatur, et apparentia ratione; cum haec duo sibi invicem non consentiunt, omnia falsa, omnia erronea sunt. Sed nos ad eadem Phantasmata revertamur. Videbis quandoque urbes, et castella, et turres, quandoque pecudes, et boves versicolores, et aliarum rerum species, seu idola, ubi nulla est urbs, nullum pecus, ne dumi quidem. Mihi voluptati interdum fuit videre haec ludicra, hos lusus naturae. Haec non diu permanent sed ut vapores, in quibus apparent, de uno in alim locum, et de una forma in aliam permutantur, unde fortasse mutata nominantur; aut quoniam his apparentibus, caelum de serenitate in pluviam mutari solet. Hoc accidit mane, coelo silente, incipiente ac leviter spirante (ut solet) Austro. Nam ut in fine est vehementissimus Auster, sic in principio levissimus, et cum calidus sit, elevat tenues nebulas, quae, ut speculum, referunt imagines urbium, pecorum, et aliarum rerum; et ut vapores, sic et species illae moventur: ut est videre in speculis motis, atque agitatis, in quibus, res ipsae moveri videntur. Et quoniam res recte occurrunt vaporibus, recte videntur, ut et umbra, quae opponitur corpori luminoso. Quae vero transverse, ac reflexe rerum species suscipiunt, in his res quoque ipsas reflexas videmus. Sic et in aqua videmus culmina montium, et tectorum in inferiori parte; fit enim ut quae aquae suoperficiei propinquiora sunt, ut fundamenta a nostris visibus sint longinqua; culminum vero tectorum, quae ab aqua sunt remotiora, imagines ad nos magis accedunt; ideo, et inferiora videntur. Sic etiam et nobis in clausa domo existentibus, parvo per rimulas ingrediente lumine, omnia transverse videntur, ut hominum capita deorsum, pedes sursum; lineae enim umbrarum non recte procedunt, sed transponuntur, atque in medio intersecantur. Hoc idem in speculis concavis accidit ut superior pars speculi infimam partem rei visae, inferior superiorem reddat. Haec, quae dixi, phasmata deludunt saepe obtutum viatorum, qui dum se prope urbemesse existimant, longissime absunt. Visae sunt etiam in hoc tractu in aere species hominum equis insidentium, et pedibus ambulantium. Sic et Scriptores litteris mandavere, visas fuisse in caelo armatas acies, et hae, ut puto, species erant earum rerum, quae longe aberant, atque ab eo loco, in quo species visae sunt, videri minime poterant. Sic et denarium in fundo vasis non videmus, at si idem vas aqua impleatur, videmus non denarium, sed illius imaginem in summo aquae, quod aeri contiguum est; superficies enim aquae, superficiei aeris proportionatur. Sed an illa imagines subiectae sint in speculo, an in aeris extrema parte, alia quaestio est. Ait Aristoteles: color est extremitas perspicui in corpore terminato. Quandoque figurae nubium sunt quae navium, et velorum simulacra reddunt, ubi nulla est classis. Haec phantasmata non solum inexpertos fefellerunt. Non diu est quo tota ora, quae est ab Hydrunto ad Garganum montem, una et eadem hora ante ortum solis vidit classem ab Orientis parte velificantem; creditum est Turcarum illam fuisse, et antequam phasma, seu illa delusio albicante aurora detegeretur, variae huc atque illuc literae scriptae sunt, ac missi nuntii de adventuingentis classis. Hoc fortasse modo, aut altero, quem diximus, ut credo, a Lilybaeo vidit, nescio quis, classem e portu Carthaginis exeuntem.

Le paludi dell’agro neritino sono innocue; infatti non emanano esalazioni se non poche e non dannose. In estate tutto è asciutto, nulla resta di limaccioso, di fastidioso, di palustre, ma solo quel poco che basta a rendere più fertili i campi. In queste paludi, come nei campi di Manduria, di galeso e di Copertino si vedono certi fantasmi che il popolo chiama mutazioni o mutate; non so di quali streghe parli o lamie o, come a Napoli, scianare, e (come dicono i Greci) Nereidi. È strano, la favola ha invaso tutto il mondo e si è diffusa tra le povere popolazioni. Senza alcun autore, senza nessun motivo,  senza averlo sperimentato ciascuno crede a ciò che non ha visto e che non è vero, restiamo ancorati alle testimonianze di estranei e di persone ignorantissime, crediamo a larve puerili, a storie da vecchie, e diamo più fiducia agli orecchi che agli occhi. Nessuno è testimone oculare, tutti dicono di averlo sentito da altri. Da quante tenebre è avviluppato il genere umano, nato per la menzogna, al quale la verità è sempre odiosa! Quanta nebbia opprime gli animi umani, pur dotati di ragione e divini, sicché non partendo dalla realtà qualcuno potrebbe credere che tutti i fatti umani sono molto simili a questi fantasmi dei quali parleremo! C’è chi crede che certe donne malefiche, o, piuttosto, venefiche, untesi di certi medicamenti, di notte assumono vari aspetti di animali e vagano, o, piuttosto, volano per regioni lontane, e riferiscono ciò che si fa e che improvvisano danze per le paludi e si accoppiano con i demoni; entrano ed escono attraverso le porte chiuse e i pertugi, ammazzano bambini e non so quali altre follie; e parrà strano che questo accada nonostante le pesantissime censure dei Pontefici. Simile è la favola dei vampiri, che invase tutto l’Oriente. Dicono che le anime di coloro che condussero una vita scellerata sono solite di notte volar via dai sepolcri come globi di fiamme, appaiono a persone conoscioute e ad amici, si cibano di animali, succhiano il sangue dei fanciulli e li uccidono, poi ritornano nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture e dopo aver squarciato il cadavere ne estrae il cuore, lo bruciae ne getta la cenere ai quattro venti, cioè alle quattro regioni del mondo. Crede che in questo modo cessi quel flagello; e se quella è una favola, ci dà tuttavia un esempio di come siano a tutti odiosi ed esecrabili coloro che hanno vissuto male, da vivi e da morti. Simile è presso Plinio e Seneca la favola del sepolcro incantato di Ermotino di Clazomene. Nè mancarono in tempi antichi questi vaneggiamenti e illusioni dei sensi umani. Quando una sola volta la mente sia stata ingannata e persusa dalle menzogne, è fatale che anche i sensi siano ingannati; dopo che essi sono stati ingannati anche la mente delira. Grande è l’affinità tra i sensi e la mente; talora la sola mente o (come dicono) le sole virtà interiori assolvono alle funzioni dei sensi esterni. Un esempio è quello dei sonnambuli che compiono le azioni degli svegli. E secondo la testimonianza di Galeno uno in delirio vedeva delle flautiste in un angolo della casa; e un bastone in acqua sembra spezzato e, disposte le dita a grata, sollevato un occhio, appaiono due cose invece di una e due linee parallele sembrano alla vista convergere pur non incontrandosi mai. Lo stesso Lattanzio che si imprgnò più nell’elocuzione che nell’erudizione negò che la terra potesse essere abitata ovunque. Un errore comune e da lattanti lo ingannò con l’apparenza. Come negare l’esperieza sensoriale a causa della ragione è mancare di ragione, così è da stolti non credere alla ragione a causa di un’apparenza.  Allora le cose vanno bene, quando la ragione è comprovata dalle cose che appaiono e l’apparenza dalla ragione; quando loro due non vanno reciprocamente d’accordo tutto è erroneo. Ma torniamo ai medesimi fantasmi. Vedai talora città e castelli e torri, talora armenti e buoi variopinti, e parvenze di altre cose, o immagini, dove non c’è nessuna città, nessun armento, neppure cespugli. Per me fu un divertimento vedere talora questi spettacoli, questi giochi della natura. Essi non durano a lungo e, come i vapori nei quali appaiono, mutano da un posto all’altro, da una forma all’altra, perciò forse sono detti mutate, oppure poiché quando essi appaiono il cielo da sereno suole mutare in piovoso. Ciò succede di mattina, quando l’aria è calma, mentre inizia a spirare leggermente  (come suole) l’Austro. Infatti esso come alla fine è violentissimo così all’inizio è leggerisiimo,  ed essendo caldo solleva tenui nubi che, come uno specchio, riproducono le immagini di città, di animali e di altre cose; e come i vapori così anche quelle immagini si muovono come è possibile vedere  in specchi mossi e agitati, nei quali le stesse cose sembrano muoversi. E poiché gli oggetti si presentano diritti ai vapori, appaiono diritti, come pure l’ombra che si oppone ad un corpo luminoso. Quelli che di traverso e di riflesso assumono l’aspetto delle cose, in essi vediamo pure le stesse cose riflesse. Così anche in acqua vediamo le cime dei monti e dei tetti nella parte inferiore: succede infatti che quelle cose che sono più vicine alla superficie dell’acqua, come le fodamenta, sono lontanre alla nostra vista. Le immagini delle cime dei tetti, che sono più lontani dall’acqua, si avvicinano di più a noi, sicché appaiono come più basse. Così pure le cose ci appaiono di traversi quando ci troviamo in una casa chiusa con una piccola luce che entra attraverso le fessure, come le teste deglu uomini in giù, i piedi in sù; infatti le linee delle ombre non procedono diritte ma deviano e s’intersecano in mezzo. La stessa cosa succede negli specchi concavi, sicché la parte superiore dello specchio riproduce la parte più bassa della cosa vista, l’inferiore quella più bassa. I fantasmi di cui ho detto spesso ingannano la vista dei viandanti, i quali mentre credono di esssere vicino alla città ne sono lontanissimi. Furono visti anche in questo tratto in aria immagini di uomini a cavallo e procedenti a piedi. Così anche gli scrittori tramandarono che si videro in cielo schiere armate e queste, come credo, erano immagini di quelle cose che erano molto distanti e che non potevano minimamente essere scorte da quel luogo in cui le loro parvenze furono viste. Così anche non vediamo una moneta sul fondo di un vaso, ma se riempiamo lo stesso vaso di acqua vediamo non la moneta ma la sua immagine sulla superficie dell’acqua che è vicina all’aria; infatti la superficie dell’acqua si equilibria con quella dell’aria.  Ma se quelle immagini abbiano origine in uno specchio o nella parte estrema dell’aria è un’altra questione. Dice Aristotele: il colore è l’estremità di ciò che si vede in un corpo che abbia dei confini. Talora forme di nubi sono quelle che mostrano sembianze di navi e di vele dove non c’è nessuna flotta. Questi fantasmi non hanno ingannato solo gli inesperti. Non è da molto tempo che tutta la costa che va da Otranto fino al monte Gargano vide nella sola e medesima ora prima del sorgere del sole una flotta che procedeva a vele spiegate dalla parte dell’Oriente; si credette che fosse una di quelle turche e prima che il fantasma o quell’illusione si dileguasse sul far dell’aurora furono scritte qua e là varie lettere e furono mandati messaggeri per annunziare l’arrivo di una grande flotta. Forse in questo modo o nell’altro che abbiamo detto, come credo, non so chi vide dal Lilibeo una flotta che usciva dal porto di Cartagine.

E, dopo aver parafrasato (per usare un eufemismo…) il testo del Galateo, il nostro filosofo leveranese ha pure la spudoratezza di citarlo (riporto da pag. 202 dell’edizione citata in testa): “Onde Antonio Galateo nel suo libretto De situ Japygiae dice che nel suo tempo in una medesima ora si vede qui ed in Levante, o per tutto quel tratto c’è tra Otranto ed il monte Gargano, velificare un’armata che fu creduta del Turco”.

Con particolare piacere noto, perciò, che Pompeo Sarnelli, già al seguito del cardinale Orsini (poi papa col nome di Benedetto XIII), vescovo di Bisceglie dal 1692 al 1724, nell’epistola 9 (in Lettere ecclesiastiche di Monsignor Pompeo Sarnelli vescovo di Biseglia, tomo VIII, Bortoli, Venezia, 1716, pagg. 19-21) indirizzata ad un interlocutore certamente importante ma di difficile identificazione, dal momento che tutte le lettere sono indirizzate ad una S. V. senza altra indicazione, per metterlo al corrente di certe credenze popolari riporta per intero, correttamente citandone l’autore, il brano del Galateo.

Il fenomeno che ho stigmatizzato è, come si vede, antico. La mia speranza è che esso, frequentissimo anche ai giorni nostri, venga ridimensionato dalle fantastiche possibilità, che la rete offre, di un controllo relativamente rapido. Certo, bisogna avere tempo e, soprattutto, voglia; ma questa è un’altra questione…

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