Per la storia feudale di Alliste e Felline

di Luciano Antonazzo

 

Le vicende feudali di Alliste e Felline sono andate quasi sempre di pari passo, essendo stati i loro territori assoggettati molto spesso ad uno stesso Signore fino all’eversione del feudalesimo.

La cronologia della successione dei loro feudatari risulta chiara e lineare fino a quando entrambi i feudi pervennero in testa di Don Francesco Pignatelli[1]. A questi succedette, nella seconda metà del XVII secolo, Bartolomeo de Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, ma non era chiaro come ciò fosse avvenuto. I successivi passaggi attraverso i quali le stesse terre passarono poi in possesso degli Scategni che le detennero fino all’eversione del feudalesimo, sono a loro volta abbastanza confusi e non chiaramente delineati nei tempi e nei modi.

A fare chiarezza su come il passaggio del loro possesso pervenne a Don Bartolomeo de Capua e da questi al marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, avvenuto nel 1691, contribuisce un atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis di Napoli concernente una convenzione stipulata il 30 ottobre 1702 tra Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, contessa di Conversano[2], e Don Paolo Serafini, procuratore del marchese di Ugento Don Nicola d’Amore. Per i passaggi successivi si riporta quanto esposto ne La saga dei d’Amore, marchesi di Ugento, principi di Ruffano, marchesi di S. Mango[3].

Nel suddetto documento del notaio de Conciliis, Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, vedova del conte Don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona sr. († 2 gennaio 1691)[4] e balia e tutrice del figlio Giulio Antonio jr. nato postumo al padre, riferisce che nei capitoli matrimoniali per il matrimonio da contrarsi con Don Cosimo Acquaviva d’Aragona, alla suocera Donna Maria Caterina de Capua[5], contessa di Noci, da Don Bartolomeo de Capua erano stati assegnati in dote 40.000 ducati e per essi la tenuta del feudo di Nicotera[6].

Proseguì Donna Dorotea dicendo che “qualmente gli anni passati essendono dedotte nel S. R. C. le Terre d’Alliste, e Fellino, una con li feudi di Tariano, Verito, e Sinisgalli esecute ad instanza de creditori contro D. Francesco Pignatello Cugnetti Duca d’Alliste, e le medesime Terre, e feudi apprezzate dal Tavolario eletto, et esposte come venali[7], prima che si trovasse un compratore, tra Donna Maria de Capua e don Bartolomeo, mediante albarano (del 1668) si era convenuto che questi dovesse in nome e per conto di lei, comprare i due feudi per 36.000 ducati e che tale somma (quantunque il principe avesse sborsato di più o di meno) sarebbe stata scomputata dai 40.000 dovutile per dote. Conseguentemente, promise Donna Maria che gli avrebbe rilasciato il possesso di Nicotera.

In osservanza dell’albarano, il principe Bartolomeo, mediante il duca di Mignano (Ce), suo parente[8], comprò i due feudi e ne fu immesso nel possesso in attesa del Regio Assenso. Donna Maria però ritornò sulla sua decisione e rifiutò di prendersi i due feudi e restituire la tenuta di Nicotera, sicché Don Bartolomeo fu costretto qualche anno dopo ad adire le vie legali. I giudici sentenziarono che Donna Maria era obbligata al rispetto di quanto contenuto nell’albarano, ma ella fece ricorso opponendo diverse “proposte di nullità”. Pendente la discussione sulle pretese cause di nullità dell’albarano, Donna Maria decedette nominando suo erede universale il figlio Giulio Antonio Acquaviva sr., anche in virtù della rinuncia fatta in favore di quest’ultimo dal fratello Don Domenico.

Fra Don Bartolomeo e Don Giulio Antonio, per dirimere la questione inerente ai due feudi, fu stipulato un atto di concordia col quale si demandò il tutto alla valutazione e decisione degli avvocati Don Serafino Biscardi e Don Nicolò Caravita, da entrambi scelti come “amichevoli compositori”. Fu deciso che Don Giulio dovesse riprendersi i feudi di Alliste e Felline e restituire Nicotera a Don Bartolomeo.

Don Giulio Antonio restituì Nicotera e prese possesso di Alliste e Felline insieme ai suffeudi, ma si trovò ad essere molestato dai creditori della sua famiglia, a cominciare dal cognato Don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragona duca d’Atri e dagli eredi di Geronimo e Vincenzo Barra. Questi erano ricorsi al S. R. C. ed avevano ottenuto che in danno di Don Giulio Antonio si vendesse il ducato di Nardò e che nel frattempo lo stesso venisse affittato. Il conte di Conversano allora ricorse all’“espediente” di mettere a disposizione dei creditori i feudi di Alliste e Felline coi suoi suffeudi, ed al loro acquisto rese disponibile il marchese di Ugento Don Nicola d’Amore.

Stemma ducale della Casata Acquaviva

 

Intervenne però la morte dello stesso conte Don Giulio Antonio e fu dichiarato suo erede il figlio postumo Don Giulio Antonio jr.  al quale furono assegnati come tutori e balii la madre Donna Dorotea e suo fratello Don Giovanni Geronimo (1663-1709). Questi, per evitarsi nuove liti, spese e dispendi di denaro, in specie per evitarsi un nuovo apprezzo che si sarebbe dovuto fare per i due feudi, con l’intervento “del Sig. Commissario, Avvocati, Procuratori, Tabulario, Mastro d’Atti, Scrivano, Soldati et altre subastazioni e deritti stimorno con la loro matura prudenza essere utile, et espediente all’interesse del minore vendere dette terre, e feudi volontariamente, precedente decreto di expedit”, al  marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, “una con tutti loro Corpi, Intrate, giurisdizioni, gagii, emolumenti et Intiero Stato, e dell’istesso modo, e forma, e con quelli medesimi corpi che sub verbo Signater se descriveano, contenevano et erano stati apprezzati primo loco, e venduti dal detto S. C. al detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo per l’intermezza persona del detto Duca di Migniano, e che dal detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo dell’istesso modo, e forma, et sub verbo Signater erano stati ceduti al detto quondam Illustre Conte Don Giulio seniore”.

E questo per il prezzo di 33.000 ducati dei quali subito se ne dovessero dare 3.000 a Don Felice Basurto, duca di Alliste (come somma dovutagli a complimento del credito vantato sull’eredità e sui beni dei precedenti conti di Conversano)[9] ed altri 25.000 da pagarsi ai tutori per far fronte ai creditori dopo aver ottenuto dal S. R. C. il decreto d’ expedit alla loro vendita. Dalla sua immissione nel possesso dei due feudi e fino all’ottenimento di detto decreto, Don Nicola era tenuto a pagare sui 25.000 ducati l’interesse del 4,5 %. I restanti ducati 5.000 a complemento del prezzo si convenne che sarebbero stati pagati all’ottenimento del Regio Assenso e che nel frattempo Don Nicola era tenuto a corrispondere lo stesso interesse del 4,5 %.

Fu stabilito ancora che “la spesa del Reale Assenso impetrando la dovesse pagare, e sborsare tutta intiera, e di suo proprio denaro esso Ill. odierno Sig. Conte, et à riguardo all’altra spesa, e deritti occorrendi qui in Napoli per l’esecutoria al detto Reale Assenso accapato[10] se dovesse fare à spese comuni”. Fu inoltre precisato che se nel frattempo fosse stato costretto Don Nicola a pagare qualche relevio, o qualsiasi altra nuova tassa pretesa dalla Regia Camera, tale somma l’avrebbe scomputata dai 5.000 ducati.

Dallo stesso atto notarile risulta che Don Nicola prese possesso dei feudi nel 1693[11] e che adempì ai suoi obblighi versando per intero i 28.000 ducati e nel 1694 ducati 606.3 a complimento dei ducati 900 maturati complessivamente fino a quella data per interessi. Don Nicola per potersi intestare i due feudi rimase in attesa che i curatori di Don Giulio Antonio Acquaviva jr. chiedessero per quest’ultimo il regio Assenso alla successione al padre nei due feudi e conseguentemente quello per la loro vendita in suo favore, ma sorsero degli ostacoli imprevisti. Dato che si trattava di feudi nuovi acquistati e pervenuti al piccolo conte nato postumo al padre, sorse il dubbio se nei beni feudali poteva aversi successione in favore di questi e non piuttosto dello zio Don Domenico come più prossimo in grado di Don Giulio Antonio sr. defunto senza successori legittimi.

Accanto a questi dubbi si valutò anche il caso di un eventuale diniego dell’Assenso Regio, evento per cui “sarebbero rimaste dette Terre, e feudi sottoposte all’articolo di caducità, e devolutione à prò del Regio Fisco”, con la conseguenza che il piccolo conte sarebbe stato costretto a risarcire col suo patrimonio Don Nicola per il prezzo dei feudi già quasi interamente pagato, per tutte le spese e i per tutti i danni patiti, assieme agli interessi.

Per scongiurare questi rischi, gli avvocati e i procuratori delle parti escogitarono l’escamotage per cui si sarebbe dovuto far figurare l’acquisto all’asta dei due feudi non in testa del Principe Don Bartolomeo, ma del di lui primogenito ed erede Don Giovan Battista de Capua, “con stipularne le dovute cautele con il Regio Incantatore, e sopra di quelle ottenersi il Regio Assenso, e che poi dal medesimo Principe Don Giovanni Battista si dovessero vendere le dette terre al detto Ill. marchese, e delegarsi il prezzo a beneficio di detto odierno Sig. Contino in soddisfattione di parte delli ducati 40.000 dotali della detta quondam Ill. Duchessa Donna Maria”. Così avvenne con l’avallo del Regio Commissario Don Pietro Fusco ed il Regio Incantatore del S. C. potette ratificare il tutto e procedere ad una nuova vendita di dette terre in favore del marchese di Ugento per atto dello stesso notaio de Conciliis[12].

Ma necessitava ancora il Regio Assenso in favore del principe Giovanni Battista che però non potette ottenerlo in quanto, per sopravvenuta condanna in qualche altro giudizio, fu “dichiarato foriudicato, e come tale reputato morto civile”. Ragion per cui venne dichiarato suo erede universale e nei beni feudali suo figlio primogenito Don Bartolomeo. La vendita dei due feudi fu quindi fatta figurare in testa di Don Brtolomeo jr.  ed il 3 aprile 1702 fu finalmente concesso il Regio Assenso che dalla Regia Camera fu notificato a Don Nicola assieme all’elenco di alcune pendenze fiscali poste a carico del compratore e specificatamente:

 

  • Che per il jus delle piazze e della bagliva dei due feudi non vi era concessione, “ma come usurpati si doveva à prò del Regio Fisco il prezzo, una con la tassa de preterito[13] decorsa e tassarsi per l’avvenire
  • Che si doveva costringere il possessore a restituire gli annui ducati dieci percepiti per ciascun feudo come strenna, o offerta, e che se ne dovesse astenere per il futuro.
  • Che per le decime dovute al barone nemmeno vi era concessione, e che come usurpate se ne dovesse pagare il prezzo al Regio Fisco assieme a quanto percepito dai precedenti possessori.
  • Che il relevio presentato da Giovanni Luigi Coppola per le entrate feudali “iuxta la significatoria spedita nell’anno 1608” non era stato soddisfatto per intero e che il nuovo barone era tenuto a sanare assieme agli interessi.
  • Che per la morte di Don Francesco Pignatelli, nel possesso dei due feudi era succeduta la sorella Donna Anna Maria, contessa di Mesagne, ma che questa non aveva pagato il relevio, “che si doveva duplicato, ò sempio[14] con l’interesse ad elettione del Regio Fisco”.
  • Che si dovevano “anco doppi, ò sempji con l’interesse ad elettione del Regio Fisco” tutti gli altri relevii per morte dei successori alla contessa Donna Anna Maria, come dal mandato dell’Attuario della Regia Camera Don Giuseppe Nicolò Fiore.

 

Don Nicola con i suoi avvocati e procuratori, dopo aver prodotto “alcuni discarichi adverso detti corpi di resulda fiscale” per transigere tutte dette pretese somme offrì al Regio Fisco 1.000 ducati e per il diritto di piazza e bagliva si disse disposto a pagare per il futuro 4 ducati annui, offerta che fu complessivamente accettata dai funzionari del Regio Fisco.

Dallo stesso atto notarile risulta che a conclusione di detta transazione sorsero nuovi contrasti con gli eredi Barra che pretendevano il pagamento dei restanti 5.000 ducati a loro assegnati dal tribunale; Don Nicola produsse allora documentazione di tutte le spese da lui sopportate, anche di quelle per ottenere il Regio Assenso che sarebbero dovute ricadere in testa del conte di Conversano e che erano da defalcarsi dai 5.000 ducati residuo del prezzo dei due feudi. Alla fine tutti i contrasti furono sopiti con ulteriori accordi tra le parti, compreso quello per cui Don Nicola si impegnò a consegnare altri 1000 ducati a Don Felice Basurto per il suo credito verso i precedenti conti di Conversano, per cui il prezzo effettivamente pagato per i due feudi fu di 34.000 ducati[15].

L’atto di convenzione e transazione in questione necessitava ovviamente della ratifica di Don Nicola, ratifica che era da farsi con altro atto di pubblico notaio entro due mesi.  Don Nicola però non fece in tempo a ratificarlo perché improvvisamente decedette il 24 novembre del 1702.  A ratificarlo fu allora la sua vedova, Donna Camilla d’Amore, con atto del notaio Francesco Carida del 5 febbraio successivo.

Donna Camilla d’Amore era figlia del secondo marchese di Ugento, Don Giuseppe, e di Donna Anna Maria Basurto (nata in Felline nel 1659 da Don Francesco Basurto, duca di Alliste, e Donna Antonia Beltrano dei conti di Mesagne). Aveva sposato nel 1697 Don Nicola in seguito ad accordi di famiglia tesi alla ricomposizione degli aspri contrasti sorti dal fatto che Don Giuseppe, per ottemperare al fedecommesso disposto dal capostipite Don Pietro Giacomo, aveva nominato suo erede lo stesso Don Nicola, suo cugino[16].

Donna Camilla, che quando il marito decedette fu nominata curatrice e balia del figlio Domenico nato il 28 marzo del 1702[17], ebbe per sorella Donna Antonia e ad entrambe, allora in età pupillare, Don Giuseppe nel suo testamento del dicembre del 1690 aveva assegnato 22.000 ducati, ignaro che la moglie fosse nuovamente gravida. La piccola Antonia però decedette qualche mese dopo il padre e nel luglio del 1691 Donna Anna Basurto diede alla luce la sua terzogenita alla quale fu posto il nome della sfortunata sorella defunta. I 22.000 ducati destinati a questa vennero quindi assegnati all’ultima nata che a sua volta sposò il congiunto marchese di S. Mango, Don Giacomo d’Amore, discendente da Don Giovanni Battista d’Amore, fratello del primo marchese di Ugento Don Carlo. Donna Camilla s’apprestò quindi ad amministrare i beni del figlio dichiarato dalla Gran Corte della Vicaria erede ab intestato del padre.  Lo fece in piena autonomia, senza curarsi dei vincoli e dei gravami che insistevano sull’eredità del marito in virtù del fedecommesso e del moltiplico.

La sua gestione però procurò al figlio notevoli danni finanziari che portarono ad uno strepitoso processo che vide la sua conclusione solo con un laudo, o arbitrato, nel 1729.

Per quanto concerne specificamente i feudi di Alliste e Felline, Donna Camilla nel 1715, di propria iniziativa, alla sorella Donna Antonia, come sua quota sull’eredità paterna assegnò ben 50.000 ducati al posto dei 22.000 spettantile e per essi 2.250 ducati l’anno. Non disponendo di denaro le assegnò per 1.700 ducati annui la tenuta dei due feudi; ed altrettanti ducati assegnò nel 1716 a sé stessa in occasione del suo secondo matrimonio col principe di Pado, Andrea Serra[18]. Don Domenico per mantenere fede all’impegno della madre confermò alla zia la tenuta di detti feudi anche se non facevano parte dell’eredità di Don Giuseppe essendo stati comprati dal padre Don Nicola.

Don Domenico premorì alla madre nel 1754 e la zia Antonia due anni dopo chiese che le venissero intestati i feudi di Alliste e Felline, ma non essendosi rinvenuto nei Regi Quinternioni l’assenso all’accordo tra lei e il defunto marchese, la sua richiesta trovò l’opposizione del Regio Fisco.

Don Domenico alla sua morte nominò per testamento sua erede la madre, ma la stessa, per le conseguenze dell’esito del laudo del 1729[19] e in ottemperanza del fedecommesso primogeniale, fu costretta a cedere il feudo di Ugento assieme al titolo al congiunto Don Domenico d’Amore, solo nominalmente principe di Ruffano. Il nuovo marchese di Ugento, avanzò legittime pretese anche sui due feudi di Alliste e Felline in quanto il loro valore doveva reintegrare i beni vincolati al fedecommesso ma che erano stati venduti da Donna Camilla. Ma poiché il marchese di S. Mango aveva a sua volta avanzato aspettative sullo stesso fedecommesso, la questione fu concordemente accantonata ed i due feudi rimasero in godimento di Donna Antonia. Poco tempo dopo ella, con atto del notaio napoletano Don Giovanni Pisacane, donò al figlio Francesco il suo credito sull’eredità paterna, e per quello la tenuta dei due feudi, con la facoltà di chiudere le pendenze esistenti col Regio Fisco.

Questa cessione-donazione ottenne il Regio Assenso il 28 aprile del 1763, previo pagamento di 2.500 ducati di relevio ed in conseguenza di ciò, il 10 luglio del 1772, i due feudi dal Regio Fisco vennero intestati a Don Francesco d’Amore, marchese di S. Mango[20]. Questi poi, il 2 gennaio 1777, con atto del notaio Andrea Cavaliere, per 59.000 ducati si disfece dei due feudi cedendoli ai fratelli Nicola e Domenico Oliva di Monasterace (RC) che non ebbero un buon rapporto con gli abitanti di Alliste e Felline, soprattutto per via della loro pretesa “di decimare su tutto[21], ragion per cui decisero di rivendere i due feudi ed acquistarne altri in Calabria.

Li vendettero a Don Francesco Maria d’Amore, fratello di Don Domenico per conto del quale amministrava il feudo di Ugento. Acquistò i due feudi con atto del notaio Pasquale Cerrito di Torre Paduli del 2 dicembre 1778[22], subentrando ai fratelli Oliva alle stesse condizioni per cui questi avevano comprato i due feudi il cui prezzo non era stato ancora interamente pagato.  Don Francesco Maria però non fu in grado di far fronte agli impegni presi ed i fratelli Oliva, col consenso del marchese di S. Mango, gli fecero subentrare Lorenzo e Onofrio Scategni che acquistarono i due feudi il 13 dicembre del 1779 e ne mantennero il possesso fino all’eversione del feudalesimo.

 

Note

[1] Francesco Pignatelli era figlio di Camillo e di una non meglio precisata dama della famiglia Cognetti. Sposò Giulia Beltrano, figlia di Ferdinando conte di Mesagne e di Donna Camilla Acquaviva dei duchi di Nardò. Nel 1648 ottenne il titolo di duca di Alliste, titolo che alla propria morte (1660) senza figli passò alla sorella Anna Maria e ai suoi discendenti. Anna Maria Pignatelli nel 1613 aveva sposato Alfonso Basurto († 1624) e in seconde nozze sposò Don Ferdinando Beltrane, conte di Mesagne e vedovo di Camilla Acquaviva.

[2] Dorotea Acquaviva d’Aragona (7/1/1666? – † 3/12/1714) era figlia di Giosia (1631-1679) e Francesca Caracciolo (1646-1715) unitisi in matrimonio nel 1662. Nel 1686 sposò Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona.

[3] L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore – Marchesi di Ugento, Principi di Ruffano, Marchesi di S. Mango, Congedo Editore, Galatina 2011.

[4] Giulio Antonio era figlio di Cosimo († a Ostuni il 6/7/1665 in un duello contro Petraccone Caracciolo, duca di Martina) e Maria Caterina de Capua (29/5/1626 – † 2/2/1691). Nel 1690, essendo scoppiata la peste a Conversano, cercò riparo a Napoli. Venne posto in quarantena nell’isola di Nisida dove morì.

[5] Donna Maria Caterina de Capua era figlia di Giovanni Fabrizio (1604-1645) principe della Riccia e di Margherita Ruffo (26/6/1607- ?) dei conti di Sinopoli.

[6]Don Bartolomeo era fratello minore di Donna Maria Caterina e fu lui a dotarla quando si sposò nel 1646, un anno dopo la morte del padre. Nei capitoli matrimoniali egli assegnò alla sorella 50.000 ducati, 10.000 dei quali “dovevano provenire dal Monte dei Giunti”, fondato nel 1585 da venticinque famiglie nobile napoletane (De Capua, Pignatelli, Caetani d’Aragona, ecc.) al fine di fornire di dote le figlie degli stessi fondatori e dei loro discendenti maschi. Per i restanti 40.000 ducati si impegnò a versarle fino alla loro liquidazione 2.300 ducati l’anno e per quelli la tenuta del feudo di Nicotera. [V.: G. SODANO, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna – Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche (secoli XV-XVIII)], Alfredo Guida Editore, Napoli 2012, pp. 157-158.

[7] I feudi di Alliste e Felline, coi suffeudi di Tariano, Verito e Sinisgallo furono apprezzati nel 1665 dal Regio Tavolario Pietro Apuzzo (o d’Apuzzo). Nella sentenza n. 90 del 18 luglio 1810 emanata dalla Commissione Feudale si trova che lo stesso Tavolario per Alliste e Felline aveva redatto altri due apprezzi, rispettivamente il 24 agosto 1661 e l’11 luglio 1663 (v.: Commissione feudale, Napoli 1810, p. 682).

[8] Si trattava di Giovan Battista di Capua, figlio di Francesco Antonio (1619-1676) e Anna di Capua (1620-1686) e marito di Beatrice Muscettola.

[9] Don Felice Basurto (1653-ca. 1727) era nipote di Alfonso e figlio di Francesco e di Antonia Beltrano dei duchi di Mesagne. Sposò Candida Brancaccio figlia di Carlo, principe di Ruffano, e Teresa d’Amore (zia di Don Nicola d’Amore) e risulta che nel 1691, dopo un lungo processo, gli venne riconosciuta la titolarità su una quota del feudo di Alliste. Non si conoscono i termini di questo processo, ma in questo documento del notaio Biagio Domenico de Conciliis è precisato che il suo credito era stato riconosciuto dai balii e tutori di Don Giulio Cesare jr. con atto del notaio Aversana di Napoli. Per quanto concerne il pagamento da farsi in favore di Don Felice Basurto, verosimilmente vi fu una compensazione col credito che Don Nicola vantava verso lo stesso duca, come risulta da un atto del notaio Francesco Carida di Ugento del 30 aprile 1704. In questo atto Donna Candida Brancaccio afferma che quando nel 1694 (leggi 1695) il marito Don Felice acquistò sub asta il feudo di Racale per ducati 53.390,9 utilizzò i 20.000 ducati che gli erano stati dati a mutuo al 4% nel 1692 da Don Nicola nel d’Amore con atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis.

[10] Da accapare = condurre a termine, conseguire.

[11] L’atto di acquisto fu stipulato con Don Bartolomeo sr. il 6 novembre 1693 presso il notaio Biagio de Conciliis di Napoli.

[12] L’atto di vendita (fittizio) tra Don Giovanni Battista e Don Nicola fu stipulato il 9 maggio 1699 (v.: L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore …, cit. p. 46).

[13] Per l’addietro.

[14] Semplice. Quando nella successione nel feudo non si provvedeva a pagare il dovuto relevio, dal Regio Fisco veniva spedita lettera di significatoria con la quale si imponeva al nuovo titolare del feudo di pagare a breve quanto dovuto sotto pena di essere costretto a pagare il doppio.

[15] Agli eredi Barra fu riconosciuto un credito verso Don Nicola di ducati 1.350, somma che Donna Camilla pagò mediante un censo acceso con tale Don Luciano Silverio (v.: ARCHIVIO di STATO DI LECCE, Scritture delle Università e feudi (poi Comuni) di Terra d’Otranto – Alliste, fascc. 4/1 [1735]), 4/2 [1736]).

[16] Don Pietro Giacomo aveva fondato un fedecommesso primogeniale stabilendo che le sue sostanze (ascendenti a ca. 150.000 ducati) dovessero essere investite per 20 anni in acquisto di altre entrate e che dopo tale periodo al moltiplico così prodotto dovessero subentrare i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito. In caso di mancanza di discendenza per linea maschile della linea del suo erede primogenito Don Carlo (1o marchese di Ugento) dovessero subentrare i primogeniti maschi della linea collaterale. Solo in caso di assoluta mancanza di discendenti maschi dispose che subentrassero le femmine. L’interruzione della linea maschile dell’erede si ebbe proprio con Don Giuseppe che procreò e gli sopravvissero due figlie.

[17] Fu nominata anche curatrice e balia della figlia Elena nata postuma al padre e che divenne monaca col nome di suor Vittoria nel convento dei Santi Pietro e Sebastiano di Napoli.

[18] ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Processi antichi, Pandetta corrente n. 5217, vol. XVI, fasc.926, Post compromissum patrimonij Ill. Marchionis Uxenti, cc. 28v-29r.

[19] Nel laudo Donna Camilla era stata riconosciuta erede del padre, ma per entrare in possesso del feudo di Ugento avrebbe dovuto risarcire il figlio pagandogli oltre 57.000 ducati, cosa che non fu in grado di fare per cui Ugento rimase in testa a Don Domenico.

[20] E. RICCA, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, parte prima, pp. 354-355.

[21] ASLe, Sez. Not., not. G. V. Arnò, 105/8, Taviano 30 dicembre 1783.

[22] ASLe, Sez. Not., not. P. Cerrito, 107/3, Torrepaduli 2 gennaio 1777.

Il castello di Ugento e le decorazioni pittoriche che ornano le sue volte (seconda parte)

La “sciarada estetica” dei d’Amore nel salone del castello di Ugento (seconda e ultima parte)

di Daniela De Lorenzis

Ugento, palazzo d’Amore, particolare degli affreschi sulla volta del salone (Venere e Cupido), (foto A. Bonzani)

… Cultura, tenore di vita e intento autocelebrativo dei nuovi insediati si evincono dalla lettura degli affreschi che ornano le volte del palazzo, ma soprattutto da quelli presenti nel salone ubicato nell’“Appartamento antico”.

In questo ambiente, «la lamia gaveda dipinta a fresco»[i] esibisce una complessa impalcatura iconografica, interessante non tanto per la resa pittorica piuttosto modesta (fatta eccezione per gli stemmi che presentano una fattura meno approssimativa)[ii], quanto per i significati che sottende: è evidente, da una parte, l’intento di celebrare la lucida politica matrimoniale dei d’Amore – volta a evitare l’estinzione del casato, ma anche un eccessivo frazionamento dei beni patrimoniali – dall’altra di rendere in chiave mitica un tributo alla virtus della stirpe, o di singoli membri, quali dispensatori di benessere e prosperità per il feudo.

Al centro della volta campeggiano le figure di Mercurio, Venere, Cupido e, probabilmente, Giove[iii], fra loro collegate dallo svolazzo di un lungo e sinuoso drappo rosso, simbolo della natura passionale dell’Amore.

Il leit-motiv che informa le decorazioni pittoriche sembrerebbe essere dunque il tema amoroso con evidente allusione al cognome d’Amore, ma anche alle vicende familiari dei marchesi[iv]: negli stessi anni in cui sono realizzati gli affreschi, infatti, Francesco e Nicola d’Amore impalmano rispettivamente Anna Maria Basurto e Camilla d’Amore, ossia la vedova e la figlia del defunto marchese Giuseppe d’Amore, erede del maggiorato.

Gli affreschi del salone celebrano dunque queste doppie nozze, avvenute tra il 1695 e il 1697, ma i cui capitoli matrimoniali erano stati stipulati già nel 1691.

Non è un caso, del resto, che i due stemmi della famiglia al centro della volta sono posti in asse con le raffigurazioni mitologiche che sono per eccellenza l’esaltazione dell’amore, proponendo in successione le figure di Venere e Cupido, del primo stemma dei d’Amore sul quale Venere depone una corona, del secondo stemma dei d’Amore sul quale Cupido depone un’altra corona e, infine, di Venere e Adone.

La sequenza autorizza pertanto a ritenere che ci si trovi di fronte a una sorta di sciarada estetica non solo allusiva al cognome della famiglia, ma volta

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