Dialetti salentini: saccufàe

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.altovastese.it/fauna-2/il-rigogolo-una-delle-specie-piu-belle-avifauna-italiana/

 

Dimmi come mangi e ti dirò chi sei: non so quanto il popolare detto sia attendibile, ma è un dato di fatto che, sostituendo come con cosa, il campanilismo ha avuto a disposizione mille occasioni per lo sfottò, se non per la denigrazione. Per il Salento basterebbe ricordare i nomignoli degli abitanti di alcuni paesi, che riporto di seguito in ordine alfabetico. Probabilmente l’elenco non è completo e confido nell’aiuto dei lettori per le doverose integrazioni e intanto chiedo scusa se per brevità rinvio con le relative note a miei lavori precedenti.

ANDRANO mangia-brufichi1

COPERTINO e STERNATIA mangia-ciucci2

DEPRESSA mangia-brunitte3

LECCE e MANDURIA mangia-cani

LEQUILE mangia-racàli4

MIGGIANO mangia-mijiu e mangia-paparine5

MONTESARDO mangia-fucazze6

RUFFANO mangia-friseddhe7

SAN CESARIO mangia-pasuli8

SAN MICHELE mangia-peri cu ttuttu lu zzippu9

TAURISANO mangia-culummi10

TUTINO mangia-pipirussi11

Come si nota, la trascrizione in italiano non pone problemi, anche per l’assoluta coincidenza del primo componente (mangia). Una volta tanto, però, debbo dire che al mondo delle bestie è stato riservato l’onore prestigioso della derivazione dal greco, pur essendo vero che nel nome che sto per fare non c’è, una volta tanto, nessun intento denigratorio. Si tratta del nome dialettale del rigogolo a Nardò chiamato saccufàe. La prima tentazione è di supporre che l’uccello in questione, facendp concorrenza alla gazza notoriamente ladra, sottragga fave da qualche sacco. Basta, però, tener conto delle altre varianti salentine, che riporto di seguito, per rendersi conto di aver pensato male, come al solito, della povera bestiola.

saccufàe (oltre Nardò,San Cesario e Novoli)

saccufày (Carmiano, Lecce, Novoli, San Pietro Vernotico

nsaccufài (Vernole)

sicofào (Soleto e Zollino)

sicufàu (Aradeo, Carpignano, Galatone. Galatina, Neviano, Seclì, Sogliano Cavour, Francavilla Fontana)

sicufài (Otranto)

ficofàu (Galatina, Nardò)

fucufài (Nardò)

cusufài (Casarano, Santa Cesarea Terme, Gagliano, Gallipoli, Minervino, Maglie, Muro Leccese, Otranto, Patù, Spongano, Maruggio)

cusufàu (Castro, Cursi, Leuca)

cusufà (San Giorgio sotto Taranto)

cusufàe (Sava)

cusufès (Palagiano)

cusefà (Massafra, Montemesola)

Illuminante è l’assenza della doppia c del presunto sacco in molte delle varianti, ma soprattutto in quelle usate nella Grecia salentina (Carpignano, Sogliano Cavour, Soleto e Zollino), Sono tutte dal greco συκοφάγος (leggi siucofàgos), composto da σῦκον (leggi siùcon), che significa fico e dal tema φαγ- (leggi fag-) dell’aoristo di ἐσθίω (leggi esthìo), che significa mangiare.

La voce è attestata nel lessico di Esichio (V secolo d. C.) al lemma κραδοφάγος:

κραδοφάγος· συκοφάγος, ἰσχαδοφάγος. σημαίνει δὲ καὶ τὸν ἀγροῖκον

(mangiatore di foglie di fico, mangiatore di fichi secchi, designa anche il campagnolo).

Penso non sfugga a nessuno la valenza spregiativa di quanto riportato da Esichio. Solo che per un curioso volere del destino ciò che nell’autore greco era riferito all’uomo, saccufàe, invece, coinvolge un animale e tradisce nei suoi confronti tutta la rabbia dell’uomo in tempi in cui i fichi avevano nell’economia contadina un’importanza primaria. Ma lo spirito antico di συκοφάγος sopravvive proprio in quei nomignoli,pur italiani, riportati all’inizio.

Come già successo per piromaca12 in epoca moderna la voce greca sarà ripresa dal latino scientifico Sycophagus designante un genere in alcuni trattati di ornitologia, sostituto, poi, con Ficedula da Ulisse Aldovrandi (1522-1606) nel suo trattato di ornitologia13. L’Aldovrandi mediò Ficedula da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, X, 44. Nel naturalista latino nessun elemento descrittivo sembrerebbe ricondurre al saccufàe, nonostante alcuni commentatori identifichino la specie pliniana con quella del beccafico sulla scorta di ficedula spiegata come composta da ficus=fico+la radice del verbo edere=mangiare. Per alcuni, però, questa è solo una paretimologia.

Per completezza, infine, non posso non ricordare la consacrazione letteraria della voce (sia pure riferita ad un animale diverso dall’uccello) ad opera di già da François Rabelais (1493-1553) nel suo âne sycophage (asino mangia-fichi) nel capitolo XVII del IV de La vie de Gargantua et de Pantagruel.

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1 Per bruficu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/21/fin-da-teofrasto-e-plinio-e-nota-la-caprificazione-vero-prodigio-della-natura/

2 Ciucci corrisponde all’italiano ciuchi.

3 Brunitta è la ghianda di una specie di elece nana (Quercus coccifera). La voce è deformazione del greco πρῖνος (leggi prinos)=quercia spinosa.

4 Racale è il ranocchio.  La voce è per aferesi dalla variante cracale in uso in altre zone del Salento, di chiarissima origine onomatopeica.

5 Per paparina vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/28/tra-le-verdure-piu-gustate-dai-salentini-li-paparine/

6 Focacce.

7 Per friseddha vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

8 Fagioli.

9 Mangia-pere con tutto il peduncolo. Zippu è, come l’italiano zeppa, dal longobardo zippa=estremità appuntita.

10 Fioroni. Per culumbu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/11/09/il-professore-ladro-di-culumbi/

11 Peperoni. Mentre l’italiano peperone è dal latino piper (=pepe) con aggiunta di un suffisso accrescitivo, pipirussu (a Nardò peperussu) è composto da pepe+rosso, con riferimento anche al colore della varietà più diffusa, oltre cne fin contrapposizione col pepe proriamente detto, notoriamente nero.

12 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/23/dialetti-salentini-pirumafu/

13 https://books.google.it/books?id=51sWLpp3oOUC&pg=PA756&dq=FICEDULAE&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj87qvWgMjgAhXRC-wKHchpCtAQ6AEIKjAA#v=onepage&q=FICEDULAE&f=false (pp. 758-759).

Uomini e bestie nella tradizione popolare salentina di fine Ottocento

 
Giovanni Fattori, Bovi bianchi al carro (1867-1870)

 

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

UOMINI E BESTIE NEL VINCOLO DI UNA TERRA RIARSA, INESAUSTA NELL’ASSORBIRE TANTO IL SUDORE DELL’UOMO CHE LAVORAVA DI ZAPPA, QUANTO QUELLO DEL BOVE CHE TIRAVA L’ARATRO.

 IL BRINDISI ALLA VACCA NELL’ARCAICA SIMBOLOGIA TAURINA

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

 

(…) Che il contadino amasse l’asina più della propria moglie era un luogo comune, assumibile come diagramma significativo del rapporto in termini di profitto (maggiore resa = maggiore cura) ma che non spiega l’insieme contraddittorio dei comportamenti – o sentimenti che dir si voglia –, rimandando pertanto a una qualche ragione primaria più ampia nella capacità dell’inglobo. E poiché risalire a monte nel riflesso di un popolo già di per sé contrassegnato da retaggi arcaici porta  inevitabilmente a un recupero di echi ancestrali, ci ritroviamo di fronte quel retroterra di miti e culti panici le cui radici, come altrove abbiamo notato, continuavano a interagire, sia pure camuffate nel ruolo ambiguo delle leggende spesso tramutate in credenze. Non si era certo più a livello di numinoso naturalistico, nel cui contesto anche le bestie potevano avere ruolo deifico, ma se il superamento del politeismo agreste in teoria era valso a neutralizzare i reverenziali timori suscitati dalle misteriose forze della natura, in pratica il contadino dell’Ottocento continuava a esserne soggiogato, per cui lo stesso rapporto con le bestie ne usciva caratterizzato da un’indecifrata  soggezione traducibile in senso di colpa, quasi usurpazione di un potere che nel riverbero di moralità archetipiche poteva apparire come passibile di punizione.

 

Nel passaggio al monoteismo, quelle che erano forme deificate si erano infatti convertite in scansioni di sacralità della natura, formando sì un corpo unitario ma non assolvendo ad un obbligo di prevalenze nel rispetto, né tanto meno azzerando quel ricorso al cultuale vissuto come stato di inermità di fronte al mistero creativo. Un disarmo tanto più avvertibile a livello di classe contadina, il cui stato di asservimento creava pareggiatura di sorti nel vincolo di una terra riarsa, inesausta nell’assorbire tanto il sudore dell’uomo che lavorava di zappa, quanto quello del bove che tirava l’aratro.

Nell’insieme della visione bucolica era infatti impossibile stabilire delle separazioni fra presenza umana e presenza animale, poiché il giorno nasceva, dilagava e moriva traendo vitalità da un’unica orchestrazione, il cui crescendo non concedeva spazio agli assoli: la voce dell’uomo trovava complementarietà nel muggito del bove o nel raglio dell’asino, l’affannato tramestio dei passi si rispecchiava nell’affaticato zoccolare dei cavalli, lo stornellare delle ragazze si intrecciava al belare delle capre, e il pianto dei bambini era dolente contrappunto al lamento degli agnelli. E se dosatura c’era in tanto coinvolgimento di vita e di lavoro, non era certo a favore dell’uomo: per aggiogare un puledro si aspettava che i suoi garretti fossero ben saldi e con scrupolo se ne misurava a palmi il garrese, ma per incatenare i fanciulli alla zappa non ci si dava tempo, per cui il loro passaggio da fiore a frutto era estremamente rapido, e a pausa preparatoria c’era solo un rassegnato sospiro di rinuncia all’infanzia.

 

Nel quotidiano assenso al sacrificio, l’uomo e la bestia faticavano assieme, con la differenza però che quest’ultima aveva nel padrone un protettore vigile che la valutava e compativa negli sforzi, concedendole pause di riposo durante le quali spesso lui continuava a lavorare, sia pure soltanto falciando erba fresca da offrirle come boccata di ristoro. Pur covando le sue paure di miseria e dibattendosi nelle ristrettezze, questi si preoccupava di non farle mancare il pugno di biada, giungendo financo all’affettuosa attenzione di versarle nel pastone di crusca un bicchiere di vino; un gesto che rasentava l’atto oblatorio, tenendo presente come nell’ambito contadino il vino assurgesse a simbolo celebrativo, tanto da porsi come sigillo nella saldatura delle amicizie, dei comparatici, dei fidanzamenti, che venivano resi di pubblica ragione solo dopo che i due futuri consuoceri si erano offerti reciprocamente un bicchiere di vino, unurànnuse cu nna mbiùta e nnu brìnnisi (onorandosi con una bevuta e un brindisi), il cui usuale testo si articolava in forma propiziatoria:

     Miéru, sangu ti la terra, mbéu a ssanitate òscia! La cuntintezza ti lu osce cu bbessa ti nchianàta e mmai ti scisa, erde ti màsciu ‘ndacquàtu ti lu celu!

 (Vino, sangue della terra, bevo alla salute vostra! La contentezza di oggi sia sempre in salita e mai in discesa, sia verde di maggio innaffiato dal cielo!).

Anche le bestie si avevano il loro brindisi, e ciò accadeva al tempo delle messi, quando un bovino – meglio ancora se vacca – occasionalmente si trovava a transitare ai margini di un campo in mietitura: pur nella spirale dell’urgenza che caratterizzava quei giorni di raccolta, mietitori e mannellatori sospendevano il lavoro, affollandosi attorno all’animale e gareggiando a chi per primo gli offriva una spiga, a chi più a lungo poteva posargli la mano sulla groppa. A dare alla scena più netto crisma celebrativo ci pensava il capogruppo il quale, dopo aver bevuto a uno dei mmìli (anforette di terracotta) che i lavoranti si portavano dietro pieni di acqua corretta col vino – mistura che si diceva frenasse la sudorazione -, di questa se ne versava un poco nel cavo della mano e, invitando i presenti “mmusàti, mmusàti a lli mmìli” (“sorseggiate, sorseggiate alle anfore”), la offriva alla leccata della bestia, pronunciando la frase d’occasione: “Nui mbìmu a ssanitàte tua e tune lecca a bbunnànzia nòscia!” (“Noi beviamo alla tua salute e tu lecca alla nostra abbondanza!”).

Questa chiara volontà di stabilire una reciprocità di favori, in sostanza privilegiava la bestia, riconoscendole se non le mitiche funzioni tutelari, quanto meno facoltà propiziatorie, in uno spontaneo rinverdirsi dell’arcaica simbologia taurina che vedeva appunto nell’abbinamento terra-vacca la connotazione della fertilità, ossia il principio perfettivo del regno naturale. Fra le due figure archetipiche, l’inserimento dell’uomo aveva ruolo contraddittorio, perché se da una parte questi istintualmente si riconosceva suddito della natura – dalla quale dipendeva in tutto e per tutto -, dall’altra se ne era fatto virtualmente padrone, imponendo le sue regole nella coltivazione e, quel che più incideva psicologicamente, asservendo le bestie ai propri interessi. Di qui il latente senso di colpa nei loro confronti e il costante desiderio di attestare una sanatoria, bilanciando l’imposto servizio con un volontario rispetto. Un senso di compensazione al quale si veniva spronati fin dalla più tenera età e a prevalente cura delle madri, che pur di abituare un figlio a non avere paura delle bestie – soprattutto di quelle provviste di corna -, e nell’intento di orientarlo appunto verso un dominio temperato dall’amore, spesso gli raccontavano che a portarlo a casa, in fasce, era stata una vacca, descrivendo con quanta cura durante il trasporto lo aveva nannarisciàtu intra’a nnu facciulittòne mpisu a nnaca a lli corne (ninnato dentro un fazzolettone appeso alle corna a mo’ di cuna). “Quannu ccuéntri nna acca chiamala nunna” (“Quando incontri una vacca chiamala madrina”) gli ricordavano, e tutte le volte che era possibile si premuravano di farlo salire in groppa incitandolo: “Ncarìzzala, ncarìzzala, ca ti stà cchiàma patrùnu” (“Accarezzala, accarezzala, ché ti sta chiamando padrone”).

     Se al momento del brindisi sul campo in mietitura c’era una donna con il proprio bambino, questa non si lasciava sfuggire l’occasione: chiedendo pirméssu ti ‘nsiddhràta (permesso di insellata), sistemava il suo piccolo a cavalcioni sulla groppa della bestia, non prima però di aver affidato alle sue mani due o tre spighe frettolosamente intrecciate a cerchietto, raccomandandogli di appenderle alle sue corna a mo’ di regalo. Un gesto che, pur se nella spontaneità della proposizione non poteva essere scisso dalle ansie suddette, in sostanza svelava un riemergere di pregnanze ancestrali, identificabili tanto nel cerchio di spighe – esplicito di deificazione nei culti primordiali – quanto nell’atto stesso dell’insellata, valevole come simbolica intronizzazione.

Continuando a orbitare nel mitico, ossia concedendo a questo funzioni di sotterraneo suggeritore, se ne può trarre la conclusione che alla base del comportamento materno ci fosse un interesse propiziatorio, tenendo presente che la ricchezza dei re mitici si configurava appunto in dovizia di armenti e le loro stesse qualità di uomini coraggiosi, virili, potenti, venivano riassunte nell’immagine stereotipata di provetti cavalcatori, vuoi di destrieri vuoi di giovenche

     Nel leggendario nostrano le giovenche reali erano tutte jànche comu latte mpena muntu (bianche come latte appena munto) e a ogni vigilia di novilunio convenivano in massa a rretu a lla mparitàta ti lu parajsu tirréstre (dietro al muro di cinta del paradiso terrestre), dal cui cancello, a mezzanotte in punto, usciva lu rre Ddavìdde (il re Davide) il quale, essendo il re pastore per eccellenza e quindi ntinnénnuse ti uéi (intendendosene di buoi), le passava in rassegna, a ognuna misurando le corna finché, stabilito quale era la falcatura più bella, se ne impadroniva per tramutarla in luna nuova.

 

Da “TRE SANTI E UNA CAMPAGNA, Culti magico-religiosi  nel Salento fine Ottocento”, con la collaborazione di Nino Pensabene, Laterza, Bari, 1994, pagg. 150-153

Quando un’agonia si protraeva oltre i tre giorni, se ne forzava la conclusione posando sul petto dell’agonizzante il pesante giogo dei buoi

LA CIVILTA’ CONTADINA NEL SALENTO FINE OTTOCENTO

 

LA MORTE PER GIOGO

 (LU SCIU’)

 

Per affrettarne la morte posavano sul petto degli agonizzanti il pesante giogo che si metteva ai buoi durante l’aratura. Rimedio barbaro adottato non in virtù di un principio eutanasico, ma nella superstiziosa credenza che a trattenere l’anima nel corpo fosse il diavolo. A furia di gravare, l’agonizzante moriva per soffocamento.

 

 

di Giulietta Livraghi Verdesca Zain

(…) Al lettore può sembrare inverosimile, ma all’epoca, quando un’agonia si protraeva oltre i tre giorni, se ne forzava la conclusione posando sul petto del povero agonizzante il pesante giogo che si metteva ai buoi durante l’aratura; rimedio barbaro adottato non in virtù di un principio eutanasico (ché anzi la morte avveniva per soffocamento), ma nella superstiziosa credenza che a trattenere l’anima nel corpo fosse il diavolo, e questo al fine di farla spazientire, disperare e quindi impossessarsene.

Intànnu lu fiézzu ti lu sciù [1] (Fiutando la puzza del giogo), oggetto a lui familiare in quanto se ne serviva per piagare la groppa dei buoi – rei di vantare corna non asservite al male perché accarezzate dalla Madonna, tornite da S. Giuseppe e benedette da Gesù Bambino [2] -, il diavolo si incuriosiva e, desideroso di vedere se nella stanza c’era anche un bue sul quale infierire, usciva dalla bocca spalancata del moribondo guadagnando la sponda del letto per meglio guardarsi attorno.

Immaginandolo in questa perlustrazione, al fine di trattenerlo il più a lungo possibile e dare così all’anima maggiore tempo di fuggire dal corpo e rifugiarsi nelle braccia di Dio, le donne, subito dopo aver sistemato lu sciù, si sparpagliavano per la stanza, inscenando la farsa di una loro complicità: mentre la più furba, girata contro il muro, raccoglieva le mani a imbuto sulla bocca emettendo suoni che simulavano muggiti, le altre facevano segni con gli occhi e con l’indice verso il basso del letto, intendendo così suggerire che il bue vi si era nascosto sotto. Un’abbindolata che voleva essere doppia, giacché sotto il letto, al posto del fantomatico bue, c’era una scopa,

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