La frisella.Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere

 
ph Angelo Arcobelli

L’Eccellenza sulla tavola dei salentini: la  friseddha

di Massimo Vaglio

Friseddhe, sarebbe questa l’esatta denominazione di questa sorta di pani biscottati, che in epoca più recente nella foga italianizzatrice del lessico sono stati riappellati anche frise e friselle. La prima delle due denominazioni posticce per quanto usata e abusata, è sicuramente una forzatura linguistica. Più giustificabile l’uso del termine frisella, che trova una ratio nel sollevare i non salentini dal difficile e spesso impossibile impegno di pronunciare il ddhr, suono cacuminale (invertito), caratteristico dell’idioma salentino, la cui  verifica di una perfetta pronuncia è più efficace di un test del D.N.A., infatti per pronunciare alla perfezione questo suono bisogna arcuare all’indietro la lingua ripiegandola su se stessa, un’operazione che richiede un allenamento sin dalla primissima infanzia. Oscura la loro origine, probabilmente erano il cibo dei navigatori e dei soldati, qualcuno le vuole originarie della Grecia da dove sarebbero giunte al seguito dei navigatori che pare le usassero come gallette. Sono delle ciambelle senza buco, di farina di grano, o di orzo, cotte intere, poi spaccate e lasciate biscottare nel forno a legna.

Se la loro origine è remota quanto incerta, la loro diffusione su larga scala è invece certa, ed è iniziata quando, meno di un secolo fa, con il declino del latifondo, fu incoraggiato nel Salento la costituzione di piccoli poderi dati in beneficio o a riscatto e detti appunto beneficati o binificati. Su questi spesso aridi poderi, i conduttori oltre a coltivare e creare frutteti e oliveti edificavano delle precarie costruzioni a secco trulliformi, i furnieddhi, con tipologie e grandezza variabili a seconda del numero dei componenti della famiglia e del materiale litico rinvenibile sul luogo. In queste costruzioni, i contadini passavano insieme al nucleo familiare, tutta la stagione estiva, lavorando spesso, per un’economia di stretta sopravvivenza e con l’ambito scopo di procacciare le provviste per l’inverno.

La lontananza dai paesi, la precarietà dei mezzi di trasporto e la carenza delle suppellettili e delle strutture necessarie per preparare e cuocere il pane, imposero presto la necessità di trovare un’alternativa, alternativa offerta appunto, dalle mai dimenticate friseddhe, che potevano essere preparate e conservate per mesi nelle “capàse”, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua.

Per le friselle di grano duro e di orzo viene tradizionalmente utilizzato il lievito madre, in ragione di 200-220 grammi per ogni chilo di farina, l’impasto viene allungato lavorandolo sul tavoliere quindi diviso in tratti ognuno dei quali viene a sua volta allungato e riunito a cerchio in modo da formare delle ciambelle senza buco dal diametro oscillante  tra gli 8  e i 15 cm.

Queste, dopo essere state lasciate a lievitare, vengono sottoposte ad una prima cottura in forno di pietra, alla pompeiana, alimentato, secondo tradizione  con ramaglia d’olivo. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale.

Questa operazione deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata, oggi i moderni panifici hanno a disposizione un’ingegnosa macchina appositamente brevettata. Un tempo, ed ancora oggi nella lavorazione casalinga o su piccola scala si effettua con l’ausilio di uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso, nei vecchi forni che cocevano le friselle conto terzi, sovente si utilizzava un filo di balla di paglia (non zincato) ben teso ai bordi di un canestro di canna.

Le friselle, una volta spaccate si differenziano in friseddhre te sutta e friseddhre te susu, immediatamente distinguibili fra loro poiché la prima appare più schiacciata e dura per il contatto avuto con la chianca del forno ovvero con il piano di cottura. La friseddhra te susu, invece, più bella esteticamente, conserva ancora una mezza forma toroidale.

Per una perfetta riuscita queste devono essere spaccate appena sfornate, e poste subito a biscottare, un eccessivo ritardo in questa sequenza provoca la riuscita di fiseddhe ‘mpitruddhate, dure, che si imbibiscono d’acqua con difficoltà e in modo non omogeneo o nnuticuse, cioè che si deglutiscono con difficoltà.

La biscottatura può essere effettuata direttamente nel forno, dopo ovviamente averlo lasciato scendere di temperatura, oppure, nel caso di forni, per così dire, più professionali in una sorta di duomo, ossia un’ampia camera realizzata sopra i forni medesimi.

Dalle friselle, in tempi più recenti, sono state derivate le cosiddette friselline, queste si realizzano utilizzando farina di grano tenero di tipo 0 o 00 e vengono lievitate con lievito di birra; spesso nell’impasto viene fatta rientrare anche una piccola quantità d’olio di frantoio che dona loro un piacevole sapore e un’invitante fragranza.

ph Marcello Gaballo

Uso delle friseddhe

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali ricchi di criddhu o riddhu, che sarebbero i semi ancora avvolti nella loro gelatinosa placenta, cospargerle di origano salentino (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Ciononostante, la riuscita non è sempre garantita poiché, sembrerà strano, ma anche nell’espletazione di queste semplicissime operazioni si possono commettere degli errori ottenendo un risultato insoddisfacente. Facile infatti dire bagnare, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua.

Tutte le metodiche elencate, ed altre che potrebbero aggiungersi sono implacabilmente errate e portano il più delle volte a portare in tavola un prodotto simile ad un pappone informe.

Vi dettiamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento. In questo modo la frisella si manterrà soda e consistente per tutto il tempo necessario a consumarla senza gonfiarsi, provare per credere.

Qualche volta vengono arricchite con altri condimenti come: rucola, peperoni, peperoncini, capperi, caruselle, finocchio marino sott’aceto…in questo caso, in alcuni paesi, vengono denominate friseddhe ’ncapunate.

Sull’argomento rimandiamo ad altri contributi pubblicati su questo sito:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/13/la-frisella-regina-delle-tavole-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/13/indovinello-neretino/

 

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