Per la storia feudale di Alliste e Felline

di Luciano Antonazzo

 

Le vicende feudali di Alliste e Felline sono andate quasi sempre di pari passo, essendo stati i loro territori assoggettati molto spesso ad uno stesso Signore fino all’eversione del feudalesimo.

La cronologia della successione dei loro feudatari risulta chiara e lineare fino a quando entrambi i feudi pervennero in testa di Don Francesco Pignatelli[1]. A questi succedette, nella seconda metà del XVII secolo, Bartolomeo de Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, ma non era chiaro come ciò fosse avvenuto. I successivi passaggi attraverso i quali le stesse terre passarono poi in possesso degli Scategni che le detennero fino all’eversione del feudalesimo, sono a loro volta abbastanza confusi e non chiaramente delineati nei tempi e nei modi.

A fare chiarezza su come il passaggio del loro possesso pervenne a Don Bartolomeo de Capua e da questi al marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, avvenuto nel 1691, contribuisce un atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis di Napoli concernente una convenzione stipulata il 30 ottobre 1702 tra Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, contessa di Conversano[2], e Don Paolo Serafini, procuratore del marchese di Ugento Don Nicola d’Amore. Per i passaggi successivi si riporta quanto esposto ne La saga dei d’Amore, marchesi di Ugento, principi di Ruffano, marchesi di S. Mango[3].

Nel suddetto documento del notaio de Conciliis, Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, vedova del conte Don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona sr. († 2 gennaio 1691)[4] e balia e tutrice del figlio Giulio Antonio jr. nato postumo al padre, riferisce che nei capitoli matrimoniali per il matrimonio da contrarsi con Don Cosimo Acquaviva d’Aragona, alla suocera Donna Maria Caterina de Capua[5], contessa di Noci, da Don Bartolomeo de Capua erano stati assegnati in dote 40.000 ducati e per essi la tenuta del feudo di Nicotera[6].

Proseguì Donna Dorotea dicendo che “qualmente gli anni passati essendono dedotte nel S. R. C. le Terre d’Alliste, e Fellino, una con li feudi di Tariano, Verito, e Sinisgalli esecute ad instanza de creditori contro D. Francesco Pignatello Cugnetti Duca d’Alliste, e le medesime Terre, e feudi apprezzate dal Tavolario eletto, et esposte come venali[7], prima che si trovasse un compratore, tra Donna Maria de Capua e don Bartolomeo, mediante albarano (del 1668) si era convenuto che questi dovesse in nome e per conto di lei, comprare i due feudi per 36.000 ducati e che tale somma (quantunque il principe avesse sborsato di più o di meno) sarebbe stata scomputata dai 40.000 dovutile per dote. Conseguentemente, promise Donna Maria che gli avrebbe rilasciato il possesso di Nicotera.

In osservanza dell’albarano, il principe Bartolomeo, mediante il duca di Mignano (Ce), suo parente[8], comprò i due feudi e ne fu immesso nel possesso in attesa del Regio Assenso. Donna Maria però ritornò sulla sua decisione e rifiutò di prendersi i due feudi e restituire la tenuta di Nicotera, sicché Don Bartolomeo fu costretto qualche anno dopo ad adire le vie legali. I giudici sentenziarono che Donna Maria era obbligata al rispetto di quanto contenuto nell’albarano, ma ella fece ricorso opponendo diverse “proposte di nullità”. Pendente la discussione sulle pretese cause di nullità dell’albarano, Donna Maria decedette nominando suo erede universale il figlio Giulio Antonio Acquaviva sr., anche in virtù della rinuncia fatta in favore di quest’ultimo dal fratello Don Domenico.

Fra Don Bartolomeo e Don Giulio Antonio, per dirimere la questione inerente ai due feudi, fu stipulato un atto di concordia col quale si demandò il tutto alla valutazione e decisione degli avvocati Don Serafino Biscardi e Don Nicolò Caravita, da entrambi scelti come “amichevoli compositori”. Fu deciso che Don Giulio dovesse riprendersi i feudi di Alliste e Felline e restituire Nicotera a Don Bartolomeo.

Don Giulio Antonio restituì Nicotera e prese possesso di Alliste e Felline insieme ai suffeudi, ma si trovò ad essere molestato dai creditori della sua famiglia, a cominciare dal cognato Don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragona duca d’Atri e dagli eredi di Geronimo e Vincenzo Barra. Questi erano ricorsi al S. R. C. ed avevano ottenuto che in danno di Don Giulio Antonio si vendesse il ducato di Nardò e che nel frattempo lo stesso venisse affittato. Il conte di Conversano allora ricorse all’“espediente” di mettere a disposizione dei creditori i feudi di Alliste e Felline coi suoi suffeudi, ed al loro acquisto rese disponibile il marchese di Ugento Don Nicola d’Amore.

Stemma ducale della Casata Acquaviva

 

Intervenne però la morte dello stesso conte Don Giulio Antonio e fu dichiarato suo erede il figlio postumo Don Giulio Antonio jr.  al quale furono assegnati come tutori e balii la madre Donna Dorotea e suo fratello Don Giovanni Geronimo (1663-1709). Questi, per evitarsi nuove liti, spese e dispendi di denaro, in specie per evitarsi un nuovo apprezzo che si sarebbe dovuto fare per i due feudi, con l’intervento “del Sig. Commissario, Avvocati, Procuratori, Tabulario, Mastro d’Atti, Scrivano, Soldati et altre subastazioni e deritti stimorno con la loro matura prudenza essere utile, et espediente all’interesse del minore vendere dette terre, e feudi volontariamente, precedente decreto di expedit”, al  marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, “una con tutti loro Corpi, Intrate, giurisdizioni, gagii, emolumenti et Intiero Stato, e dell’istesso modo, e forma, e con quelli medesimi corpi che sub verbo Signater se descriveano, contenevano et erano stati apprezzati primo loco, e venduti dal detto S. C. al detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo per l’intermezza persona del detto Duca di Migniano, e che dal detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo dell’istesso modo, e forma, et sub verbo Signater erano stati ceduti al detto quondam Illustre Conte Don Giulio seniore”.

E questo per il prezzo di 33.000 ducati dei quali subito se ne dovessero dare 3.000 a Don Felice Basurto, duca di Alliste (come somma dovutagli a complimento del credito vantato sull’eredità e sui beni dei precedenti conti di Conversano)[9] ed altri 25.000 da pagarsi ai tutori per far fronte ai creditori dopo aver ottenuto dal S. R. C. il decreto d’ expedit alla loro vendita. Dalla sua immissione nel possesso dei due feudi e fino all’ottenimento di detto decreto, Don Nicola era tenuto a pagare sui 25.000 ducati l’interesse del 4,5 %. I restanti ducati 5.000 a complemento del prezzo si convenne che sarebbero stati pagati all’ottenimento del Regio Assenso e che nel frattempo Don Nicola era tenuto a corrispondere lo stesso interesse del 4,5 %.

Fu stabilito ancora che “la spesa del Reale Assenso impetrando la dovesse pagare, e sborsare tutta intiera, e di suo proprio denaro esso Ill. odierno Sig. Conte, et à riguardo all’altra spesa, e deritti occorrendi qui in Napoli per l’esecutoria al detto Reale Assenso accapato[10] se dovesse fare à spese comuni”. Fu inoltre precisato che se nel frattempo fosse stato costretto Don Nicola a pagare qualche relevio, o qualsiasi altra nuova tassa pretesa dalla Regia Camera, tale somma l’avrebbe scomputata dai 5.000 ducati.

Dallo stesso atto notarile risulta che Don Nicola prese possesso dei feudi nel 1693[11] e che adempì ai suoi obblighi versando per intero i 28.000 ducati e nel 1694 ducati 606.3 a complimento dei ducati 900 maturati complessivamente fino a quella data per interessi. Don Nicola per potersi intestare i due feudi rimase in attesa che i curatori di Don Giulio Antonio Acquaviva jr. chiedessero per quest’ultimo il regio Assenso alla successione al padre nei due feudi e conseguentemente quello per la loro vendita in suo favore, ma sorsero degli ostacoli imprevisti. Dato che si trattava di feudi nuovi acquistati e pervenuti al piccolo conte nato postumo al padre, sorse il dubbio se nei beni feudali poteva aversi successione in favore di questi e non piuttosto dello zio Don Domenico come più prossimo in grado di Don Giulio Antonio sr. defunto senza successori legittimi.

Accanto a questi dubbi si valutò anche il caso di un eventuale diniego dell’Assenso Regio, evento per cui “sarebbero rimaste dette Terre, e feudi sottoposte all’articolo di caducità, e devolutione à prò del Regio Fisco”, con la conseguenza che il piccolo conte sarebbe stato costretto a risarcire col suo patrimonio Don Nicola per il prezzo dei feudi già quasi interamente pagato, per tutte le spese e i per tutti i danni patiti, assieme agli interessi.

Per scongiurare questi rischi, gli avvocati e i procuratori delle parti escogitarono l’escamotage per cui si sarebbe dovuto far figurare l’acquisto all’asta dei due feudi non in testa del Principe Don Bartolomeo, ma del di lui primogenito ed erede Don Giovan Battista de Capua, “con stipularne le dovute cautele con il Regio Incantatore, e sopra di quelle ottenersi il Regio Assenso, e che poi dal medesimo Principe Don Giovanni Battista si dovessero vendere le dette terre al detto Ill. marchese, e delegarsi il prezzo a beneficio di detto odierno Sig. Contino in soddisfattione di parte delli ducati 40.000 dotali della detta quondam Ill. Duchessa Donna Maria”. Così avvenne con l’avallo del Regio Commissario Don Pietro Fusco ed il Regio Incantatore del S. C. potette ratificare il tutto e procedere ad una nuova vendita di dette terre in favore del marchese di Ugento per atto dello stesso notaio de Conciliis[12].

Ma necessitava ancora il Regio Assenso in favore del principe Giovanni Battista che però non potette ottenerlo in quanto, per sopravvenuta condanna in qualche altro giudizio, fu “dichiarato foriudicato, e come tale reputato morto civile”. Ragion per cui venne dichiarato suo erede universale e nei beni feudali suo figlio primogenito Don Bartolomeo. La vendita dei due feudi fu quindi fatta figurare in testa di Don Brtolomeo jr.  ed il 3 aprile 1702 fu finalmente concesso il Regio Assenso che dalla Regia Camera fu notificato a Don Nicola assieme all’elenco di alcune pendenze fiscali poste a carico del compratore e specificatamente:

 

  • Che per il jus delle piazze e della bagliva dei due feudi non vi era concessione, “ma come usurpati si doveva à prò del Regio Fisco il prezzo, una con la tassa de preterito[13] decorsa e tassarsi per l’avvenire
  • Che si doveva costringere il possessore a restituire gli annui ducati dieci percepiti per ciascun feudo come strenna, o offerta, e che se ne dovesse astenere per il futuro.
  • Che per le decime dovute al barone nemmeno vi era concessione, e che come usurpate se ne dovesse pagare il prezzo al Regio Fisco assieme a quanto percepito dai precedenti possessori.
  • Che il relevio presentato da Giovanni Luigi Coppola per le entrate feudali “iuxta la significatoria spedita nell’anno 1608” non era stato soddisfatto per intero e che il nuovo barone era tenuto a sanare assieme agli interessi.
  • Che per la morte di Don Francesco Pignatelli, nel possesso dei due feudi era succeduta la sorella Donna Anna Maria, contessa di Mesagne, ma che questa non aveva pagato il relevio, “che si doveva duplicato, ò sempio[14] con l’interesse ad elettione del Regio Fisco”.
  • Che si dovevano “anco doppi, ò sempji con l’interesse ad elettione del Regio Fisco” tutti gli altri relevii per morte dei successori alla contessa Donna Anna Maria, come dal mandato dell’Attuario della Regia Camera Don Giuseppe Nicolò Fiore.

 

Don Nicola con i suoi avvocati e procuratori, dopo aver prodotto “alcuni discarichi adverso detti corpi di resulda fiscale” per transigere tutte dette pretese somme offrì al Regio Fisco 1.000 ducati e per il diritto di piazza e bagliva si disse disposto a pagare per il futuro 4 ducati annui, offerta che fu complessivamente accettata dai funzionari del Regio Fisco.

Dallo stesso atto notarile risulta che a conclusione di detta transazione sorsero nuovi contrasti con gli eredi Barra che pretendevano il pagamento dei restanti 5.000 ducati a loro assegnati dal tribunale; Don Nicola produsse allora documentazione di tutte le spese da lui sopportate, anche di quelle per ottenere il Regio Assenso che sarebbero dovute ricadere in testa del conte di Conversano e che erano da defalcarsi dai 5.000 ducati residuo del prezzo dei due feudi. Alla fine tutti i contrasti furono sopiti con ulteriori accordi tra le parti, compreso quello per cui Don Nicola si impegnò a consegnare altri 1000 ducati a Don Felice Basurto per il suo credito verso i precedenti conti di Conversano, per cui il prezzo effettivamente pagato per i due feudi fu di 34.000 ducati[15].

L’atto di convenzione e transazione in questione necessitava ovviamente della ratifica di Don Nicola, ratifica che era da farsi con altro atto di pubblico notaio entro due mesi.  Don Nicola però non fece in tempo a ratificarlo perché improvvisamente decedette il 24 novembre del 1702.  A ratificarlo fu allora la sua vedova, Donna Camilla d’Amore, con atto del notaio Francesco Carida del 5 febbraio successivo.

Donna Camilla d’Amore era figlia del secondo marchese di Ugento, Don Giuseppe, e di Donna Anna Maria Basurto (nata in Felline nel 1659 da Don Francesco Basurto, duca di Alliste, e Donna Antonia Beltrano dei conti di Mesagne). Aveva sposato nel 1697 Don Nicola in seguito ad accordi di famiglia tesi alla ricomposizione degli aspri contrasti sorti dal fatto che Don Giuseppe, per ottemperare al fedecommesso disposto dal capostipite Don Pietro Giacomo, aveva nominato suo erede lo stesso Don Nicola, suo cugino[16].

Donna Camilla, che quando il marito decedette fu nominata curatrice e balia del figlio Domenico nato il 28 marzo del 1702[17], ebbe per sorella Donna Antonia e ad entrambe, allora in età pupillare, Don Giuseppe nel suo testamento del dicembre del 1690 aveva assegnato 22.000 ducati, ignaro che la moglie fosse nuovamente gravida. La piccola Antonia però decedette qualche mese dopo il padre e nel luglio del 1691 Donna Anna Basurto diede alla luce la sua terzogenita alla quale fu posto il nome della sfortunata sorella defunta. I 22.000 ducati destinati a questa vennero quindi assegnati all’ultima nata che a sua volta sposò il congiunto marchese di S. Mango, Don Giacomo d’Amore, discendente da Don Giovanni Battista d’Amore, fratello del primo marchese di Ugento Don Carlo. Donna Camilla s’apprestò quindi ad amministrare i beni del figlio dichiarato dalla Gran Corte della Vicaria erede ab intestato del padre.  Lo fece in piena autonomia, senza curarsi dei vincoli e dei gravami che insistevano sull’eredità del marito in virtù del fedecommesso e del moltiplico.

La sua gestione però procurò al figlio notevoli danni finanziari che portarono ad uno strepitoso processo che vide la sua conclusione solo con un laudo, o arbitrato, nel 1729.

Per quanto concerne specificamente i feudi di Alliste e Felline, Donna Camilla nel 1715, di propria iniziativa, alla sorella Donna Antonia, come sua quota sull’eredità paterna assegnò ben 50.000 ducati al posto dei 22.000 spettantile e per essi 2.250 ducati l’anno. Non disponendo di denaro le assegnò per 1.700 ducati annui la tenuta dei due feudi; ed altrettanti ducati assegnò nel 1716 a sé stessa in occasione del suo secondo matrimonio col principe di Pado, Andrea Serra[18]. Don Domenico per mantenere fede all’impegno della madre confermò alla zia la tenuta di detti feudi anche se non facevano parte dell’eredità di Don Giuseppe essendo stati comprati dal padre Don Nicola.

Don Domenico premorì alla madre nel 1754 e la zia Antonia due anni dopo chiese che le venissero intestati i feudi di Alliste e Felline, ma non essendosi rinvenuto nei Regi Quinternioni l’assenso all’accordo tra lei e il defunto marchese, la sua richiesta trovò l’opposizione del Regio Fisco.

Don Domenico alla sua morte nominò per testamento sua erede la madre, ma la stessa, per le conseguenze dell’esito del laudo del 1729[19] e in ottemperanza del fedecommesso primogeniale, fu costretta a cedere il feudo di Ugento assieme al titolo al congiunto Don Domenico d’Amore, solo nominalmente principe di Ruffano. Il nuovo marchese di Ugento, avanzò legittime pretese anche sui due feudi di Alliste e Felline in quanto il loro valore doveva reintegrare i beni vincolati al fedecommesso ma che erano stati venduti da Donna Camilla. Ma poiché il marchese di S. Mango aveva a sua volta avanzato aspettative sullo stesso fedecommesso, la questione fu concordemente accantonata ed i due feudi rimasero in godimento di Donna Antonia. Poco tempo dopo ella, con atto del notaio napoletano Don Giovanni Pisacane, donò al figlio Francesco il suo credito sull’eredità paterna, e per quello la tenuta dei due feudi, con la facoltà di chiudere le pendenze esistenti col Regio Fisco.

Questa cessione-donazione ottenne il Regio Assenso il 28 aprile del 1763, previo pagamento di 2.500 ducati di relevio ed in conseguenza di ciò, il 10 luglio del 1772, i due feudi dal Regio Fisco vennero intestati a Don Francesco d’Amore, marchese di S. Mango[20]. Questi poi, il 2 gennaio 1777, con atto del notaio Andrea Cavaliere, per 59.000 ducati si disfece dei due feudi cedendoli ai fratelli Nicola e Domenico Oliva di Monasterace (RC) che non ebbero un buon rapporto con gli abitanti di Alliste e Felline, soprattutto per via della loro pretesa “di decimare su tutto[21], ragion per cui decisero di rivendere i due feudi ed acquistarne altri in Calabria.

Li vendettero a Don Francesco Maria d’Amore, fratello di Don Domenico per conto del quale amministrava il feudo di Ugento. Acquistò i due feudi con atto del notaio Pasquale Cerrito di Torre Paduli del 2 dicembre 1778[22], subentrando ai fratelli Oliva alle stesse condizioni per cui questi avevano comprato i due feudi il cui prezzo non era stato ancora interamente pagato.  Don Francesco Maria però non fu in grado di far fronte agli impegni presi ed i fratelli Oliva, col consenso del marchese di S. Mango, gli fecero subentrare Lorenzo e Onofrio Scategni che acquistarono i due feudi il 13 dicembre del 1779 e ne mantennero il possesso fino all’eversione del feudalesimo.

 

Note

[1] Francesco Pignatelli era figlio di Camillo e di una non meglio precisata dama della famiglia Cognetti. Sposò Giulia Beltrano, figlia di Ferdinando conte di Mesagne e di Donna Camilla Acquaviva dei duchi di Nardò. Nel 1648 ottenne il titolo di duca di Alliste, titolo che alla propria morte (1660) senza figli passò alla sorella Anna Maria e ai suoi discendenti. Anna Maria Pignatelli nel 1613 aveva sposato Alfonso Basurto († 1624) e in seconde nozze sposò Don Ferdinando Beltrane, conte di Mesagne e vedovo di Camilla Acquaviva.

[2] Dorotea Acquaviva d’Aragona (7/1/1666? – † 3/12/1714) era figlia di Giosia (1631-1679) e Francesca Caracciolo (1646-1715) unitisi in matrimonio nel 1662. Nel 1686 sposò Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona.

[3] L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore – Marchesi di Ugento, Principi di Ruffano, Marchesi di S. Mango, Congedo Editore, Galatina 2011.

[4] Giulio Antonio era figlio di Cosimo († a Ostuni il 6/7/1665 in un duello contro Petraccone Caracciolo, duca di Martina) e Maria Caterina de Capua (29/5/1626 – † 2/2/1691). Nel 1690, essendo scoppiata la peste a Conversano, cercò riparo a Napoli. Venne posto in quarantena nell’isola di Nisida dove morì.

[5] Donna Maria Caterina de Capua era figlia di Giovanni Fabrizio (1604-1645) principe della Riccia e di Margherita Ruffo (26/6/1607- ?) dei conti di Sinopoli.

[6]Don Bartolomeo era fratello minore di Donna Maria Caterina e fu lui a dotarla quando si sposò nel 1646, un anno dopo la morte del padre. Nei capitoli matrimoniali egli assegnò alla sorella 50.000 ducati, 10.000 dei quali “dovevano provenire dal Monte dei Giunti”, fondato nel 1585 da venticinque famiglie nobile napoletane (De Capua, Pignatelli, Caetani d’Aragona, ecc.) al fine di fornire di dote le figlie degli stessi fondatori e dei loro discendenti maschi. Per i restanti 40.000 ducati si impegnò a versarle fino alla loro liquidazione 2.300 ducati l’anno e per quelli la tenuta del feudo di Nicotera. [V.: G. SODANO, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna – Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche (secoli XV-XVIII)], Alfredo Guida Editore, Napoli 2012, pp. 157-158.

[7] I feudi di Alliste e Felline, coi suffeudi di Tariano, Verito e Sinisgallo furono apprezzati nel 1665 dal Regio Tavolario Pietro Apuzzo (o d’Apuzzo). Nella sentenza n. 90 del 18 luglio 1810 emanata dalla Commissione Feudale si trova che lo stesso Tavolario per Alliste e Felline aveva redatto altri due apprezzi, rispettivamente il 24 agosto 1661 e l’11 luglio 1663 (v.: Commissione feudale, Napoli 1810, p. 682).

[8] Si trattava di Giovan Battista di Capua, figlio di Francesco Antonio (1619-1676) e Anna di Capua (1620-1686) e marito di Beatrice Muscettola.

[9] Don Felice Basurto (1653-ca. 1727) era nipote di Alfonso e figlio di Francesco e di Antonia Beltrano dei duchi di Mesagne. Sposò Candida Brancaccio figlia di Carlo, principe di Ruffano, e Teresa d’Amore (zia di Don Nicola d’Amore) e risulta che nel 1691, dopo un lungo processo, gli venne riconosciuta la titolarità su una quota del feudo di Alliste. Non si conoscono i termini di questo processo, ma in questo documento del notaio Biagio Domenico de Conciliis è precisato che il suo credito era stato riconosciuto dai balii e tutori di Don Giulio Cesare jr. con atto del notaio Aversana di Napoli. Per quanto concerne il pagamento da farsi in favore di Don Felice Basurto, verosimilmente vi fu una compensazione col credito che Don Nicola vantava verso lo stesso duca, come risulta da un atto del notaio Francesco Carida di Ugento del 30 aprile 1704. In questo atto Donna Candida Brancaccio afferma che quando nel 1694 (leggi 1695) il marito Don Felice acquistò sub asta il feudo di Racale per ducati 53.390,9 utilizzò i 20.000 ducati che gli erano stati dati a mutuo al 4% nel 1692 da Don Nicola nel d’Amore con atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis.

[10] Da accapare = condurre a termine, conseguire.

[11] L’atto di acquisto fu stipulato con Don Bartolomeo sr. il 6 novembre 1693 presso il notaio Biagio de Conciliis di Napoli.

[12] L’atto di vendita (fittizio) tra Don Giovanni Battista e Don Nicola fu stipulato il 9 maggio 1699 (v.: L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore …, cit. p. 46).

[13] Per l’addietro.

[14] Semplice. Quando nella successione nel feudo non si provvedeva a pagare il dovuto relevio, dal Regio Fisco veniva spedita lettera di significatoria con la quale si imponeva al nuovo titolare del feudo di pagare a breve quanto dovuto sotto pena di essere costretto a pagare il doppio.

[15] Agli eredi Barra fu riconosciuto un credito verso Don Nicola di ducati 1.350, somma che Donna Camilla pagò mediante un censo acceso con tale Don Luciano Silverio (v.: ARCHIVIO di STATO DI LECCE, Scritture delle Università e feudi (poi Comuni) di Terra d’Otranto – Alliste, fascc. 4/1 [1735]), 4/2 [1736]).

[16] Don Pietro Giacomo aveva fondato un fedecommesso primogeniale stabilendo che le sue sostanze (ascendenti a ca. 150.000 ducati) dovessero essere investite per 20 anni in acquisto di altre entrate e che dopo tale periodo al moltiplico così prodotto dovessero subentrare i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito. In caso di mancanza di discendenza per linea maschile della linea del suo erede primogenito Don Carlo (1o marchese di Ugento) dovessero subentrare i primogeniti maschi della linea collaterale. Solo in caso di assoluta mancanza di discendenti maschi dispose che subentrassero le femmine. L’interruzione della linea maschile dell’erede si ebbe proprio con Don Giuseppe che procreò e gli sopravvissero due figlie.

[17] Fu nominata anche curatrice e balia della figlia Elena nata postuma al padre e che divenne monaca col nome di suor Vittoria nel convento dei Santi Pietro e Sebastiano di Napoli.

[18] ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Processi antichi, Pandetta corrente n. 5217, vol. XVI, fasc.926, Post compromissum patrimonij Ill. Marchionis Uxenti, cc. 28v-29r.

[19] Nel laudo Donna Camilla era stata riconosciuta erede del padre, ma per entrare in possesso del feudo di Ugento avrebbe dovuto risarcire il figlio pagandogli oltre 57.000 ducati, cosa che non fu in grado di fare per cui Ugento rimase in testa a Don Domenico.

[20] E. RICCA, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, parte prima, pp. 354-355.

[21] ASLe, Sez. Not., not. G. V. Arnò, 105/8, Taviano 30 dicembre 1783.

[22] ASLe, Sez. Not., not. P. Cerrito, 107/3, Torrepaduli 2 gennaio 1777.

Scoperta e degustazione di dolci realizzati con olio extravergine. Ad Alliste

Domenica 29 dicembre ad Alliste (Le), dalle 10.30 alle 13

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Può un dolce essere salutare? L’esperto dice sì

Scoperta e degustazione di dolci realizzati con Olio EVO

Nella prossima “Buona (e sana) Domenica” sono di scena

il PanSorriso, il PanGioia ed il PanBellezza con ingredienti sani a km 0

 

 

Incontri con esperti di nutrizione e di estetica, degustazioni,

minispettacolo con P40, mostra pittorica e omaggi a chi giunge in bici

 

La prossima “Buona (e sana) Domenica”, oltre ad essere buona e sana, sarà anche molto …dolce! Sì, perché domenica 29 dicembre, presso il Cafè dei Napoli in pieno centro ad Alliste (Le), i riflettori saranno puntati su dei prodotti di alta pasticceria che hanno la straordinaria caratteristica di essere realizzati con Olio Extravergine d’Oliva (al posto del burro), miele (al posto dello zucchero), lievito madre e tanti altri ingredienti assolutamente naturali e a km 0, parliamo del PanSorriso, delPanGioia e del PanBellezza, i tre dolci della salute concepiti e realizzati dal pasticciere salentino Giovanni Venneri. Il segreto del PanSorriso sono i fichi secchi salentini macerati nell’Elisir S. Marzano, il PanGioia ha un’anima di “cuettu” ed il PanBellezza nasconde nella sua dolcezza chicchi di melograno e aloe vera.

 

L’appuntamento quindi di quest’altra “Buona (e sana) Domenica della Dieta Med-Italiana” è fissato per il 29 dicembre. Il programma, sebbene si svolga nella sola mattinata, è ricco e pieno di sorprese. Si comincia alle 10.30 con due incontri con esperti, il nutrizionista Cristian Manni illustrerà tutte le proprietà salutistiche, terapeutiche e nutrizionali degli ingredienti che compongono i tre dolci mentre l’esperta di estetica Anna Barbieri concentrerà l’attenzione sul PanBellezza. Per l’intera mattinata, dalle 10.30 alle 13, sarà possibile conoscere, apprezzare edegustare gratuitamente tutti e tre i prodotti dolciari, oltre all’olio extravergine “Adamo” (con cui i dolci sono realizzati) ed il “cuettu” e Vincotto Primitivo dell’azienda di Melissano “Terra Apuliae”. A completare il cartellone degli eventi un mini spettacolo del cantattore salentino P40 e la presentazione della personale di pittura “Amore e …non Amore” di Mario Venneri.

 

Anche in questa terza occasione saranno premiati tutti coloro che giungeranno in bicicletta, in quanto Giovanni Venneri ed il Cafè dei Napoli regalerà loro un “PanGioia” da 250 gr., questo perché la Dieta Med-Italiana è anche movimento, attività fisica e eco-sostenibilità.

 

Ricordiamo che le “Buone (e sane) Domeniche – il buon gusto della salute” sono una serie di incontri che avranno luogo durante alcune delle domeniche di questo prossimo inverno/primavera e che, volta per volta, punteranno i riflettori su un ben specifico prodotto caratterizzato dall’essere sia buono al gusto che sano e salutare. Un vero e proprio nuovo format di eventi ideato dagli studenti di “Pro_Salento” e mirante a formare e ad informare la cittadinanza, i turisti e i visitatori sulla grande qualità dei prodotti realizzati sul territorio e sui loro benefici in termini di benessere e salute.

Una probabile nuova specchia in territorio di Alliste

lato nord-est della costruzione
lato nord-est della costruzione

testi e foto di Francesco Giannelli

 

 

La passione e lo studio del territorio vengono spesso gratificati da chi sa ben porsi nei confronti del nostro paesaggio, mai sufficientemente studiato e valorizzato.

Una terra generosa, plurimillenaria, che porta ancora in sé i segni dell’uomo antico, almeno fino a quando si cercherà di tutelarla e difenderla dai numerosi tentativi di antropizzazione, non sempre leciti e rispettosi.

In una delle mie recentissime escursioni, questa volta sulla Serra “Calaturo” di Alliste, credo di essermi imbattuto in una presunta specchia o fortificazione di epoca remota. Mi pare che essa sia sconosciuta ai più, e non la ritrovo tra quelle censite dal De Giorgi in Alliste, che in questo comune classificò solo Specchia Sciuppano e Specchia dell’Alto. Per quel che ne so il felice mio ritrovamento non mi pare sia stato censito da altri studiosi locali e sono ben lieto di renderlo noto ai lettori di questo sito e a quanti si interessano di questo argomento.

specchia  (10)

Alla segnalazione aggiungo anche qualche dato, per supportare la notizia e per coinvolgere gli esperti, sebbene stia per inviare dovuta comunicazione alla Soprintendenza.

Ciò che mi ha colpito sono state soprattutto le dimensioni notevoli della costruzione, circa 24 mt di diametro, con un muro perimetrale che in alcuni punti dell’alzato registra un’altezza compresa tra i 2 e 2,5 mt.

Costruita con massi non perfettamente squadrati, colpisce la dimensione notevole di alcuni di quelli incastrati in più punti e soprattutto di alcuni massi che formano il basamento, almeno per quello che si riesce a intravedere.

particolare del muro sul lato sud
particolare del muro sul lato sud
particolare del muro sul lato est
particolare del muro sul lato est

La mia inadeguata formazione archeologica mi impedisce di formulare ipotesi fondate, ma non risulta insufficiente a ritenere l’affascinante costruzione un’opera di fortificazione o forse anche solo di avvistamento, considerando la strategica posizione, ad un’altitudine di 61 mt s.l.m., che permette di godere di una meravigliosa vista panoramica del territorio circostante, compresi, a sud, il tratto di costa prospiciente Ugento e fino a Torre Pali, ad est tutta la vallata fino alla serra di Casarano e di sant’Eleuterio (Parabita). Un’ulteriore, inevitabile, considerazione riguarda il collegamento a vista tra la nostra e la nota Specchia dell’Alto in direzione nord, quasi anticipasse la collaudata comunicazione tra le torri costiere meridionali che sarebbero sorte qualche secolo dopo.

vista dal lato sud
vista dal lato sud

 

vista dal lato ovest
vista dal lato ovest

Olio e miele salentino al posto di burro e zucchero

da Med-It News

    Il “PanSorriso” salentino sulla tavola di 600 medici in tutta Italia

La lombarda “Cieffe Derma” sceglie la creazione di Giovanni Venneri. Grazie alla Dieta Med-Italiana il dolce della salute si conferma tale

 

Sono ben 600 i “PanSorriso” commissionati e che nei prossimi giorni raggiungeranno altrettanti studi di medici dermatologi in tutta Italia. A compiere il bello e sano gesto è la società “Cieffe Derma” di Lesmo, in provincia di Monza Brianza, azienda leader nel campo della ricerca dermatologica, la quale ha voluto in questo modo omaggiare i professionisti italiani con un dono che fosse al tempo stesso originale, buono, prezioso e, soprattutto, sano. Quale migliore regalo da fare a dei medici se non “salute”? Il titolare dell’azienda lombarda, Salvatore Frontera, è venuto a conoscenza del dolce salentino tramite le azioni divulgative della Dieta Med-Italiana e, incuriosita dalle peculiarità salutistiche del PanSorriso, ha voluto conoscere ed assaggiare di persona il nuovo prodotto dolciario. Il risultato è intuibile, data la natura di questo articolo. «All’inizio non volevo crederci, pensavo fosse uno scherzo degli amici – racconta Giovanni Venneri, il pasticciere di Alliste (Le) inventore del dolce – poi man mano che proseguivano le trattative ho compreso che si stava facendo sul serio. Non ho parole per descrivere la soddisfazione provata, non tanto per l’importanza economica dell’operazione (che in questi tempi non è certo cosa da poco) quanto per il fatto di sapere che domani seicento medici, seicento famiglie in ogni regione d’Italia avranno la possibilità di conoscere, degustare e, mi auguro, apprezzare questa mia dolce “creatura”. Ci tengo molto a sottolineare che è un prodotto territoriale del Salento tanto è vero che ho dato al PanSorriso lo slogan “Ha il Salento dentro”. Naturalmente ho ringraziato di cuore il dott. Frontera per averci scelto e non finirò mai di ringraziare gli studenti dell’Istituto “Galilei Costa” di Lecce che, attraverso le loro valide azioni di promozione della Dieta Med-Italiana, sono riusciti a far conoscere ben oltre i confini locali e persino nazionali questo mio nuovo prodotto dolciario.»

Come se non bastasse, grazie alle sue caratteristiche naturali il PanSorriso è stato anche scelto per essere presentato a Roma il 25 e 26 novembre nell’ambito del 62° Congresso Nazionale della Cidesco dal titolo “Beauty&Innovation”.  Il PanSorriso è un dolce particolarissimo, conosciuto come dolce della salute e del buonumore per via dei suoi ingredienti che lo rendono sano e naturale al 100%. E’ realizzato con olio extravergine d’oliva “Adamo”, prodotto sempre ad Alliste, e con miele del luogo, che sostituiscono rispettivamente burro e zucchero, rendendolo così leggerissimo, sano e digeribile.

Per ora Giovanni Venneri ha previsto due varianti, all’arancia e ai fichi, entrambi straordinariamente buoni. Ricordiamo che il pasticciere salentino ha creato il PanSorriso appositamente per la Dieta Med-Italiana e ha scelto l’importante evento del “Festival della Dieta Med-Italiana”, avvenuto lo scorso maggio, per annunciarlo e presentarlo alla stampa e al pubblico. Da allora il dolce ha ricevuto un’inarrestabile escalation di interesse, sia commerciale che “etico”, per via della sua particolare naturalezza e per la scelta di tutti gli ingredienti a km 0.

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

La Madonna del Rosario di Alliste opera giovanile di Giovanni Andrea Coppola

Fig. 1 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario. Alliste, Chiesa di San Giuseppe

di Emanuele Arnesano
Le vicende della Madonna del Rosario, grande tela del pittore gallipolino Giovanni Andrea  Coppola, sono strettamente legate a quelle della chiesa di San Giuseppe, ad Alliste, in cui essa da sempre è custodita. La ricca documentazione storica, che la riguarda e cui si fa riferimento nel presente lavoro, è costituita soprattutto dalle relazioni sulle Visite Pastorali che si susseguirono in Alliste nell’arco di un secolo, dal 1618  al 1719, conservate nell’Archivio Vescovile di Nardò e puntualmente citate da Antonio Pizzurro in un suo interessante lavoro[1]. Lo studioso ci informa che nel 1618 al vescovo De Franchis la chiesa, che allora era denominata chiesa di S. Salvatore, sembrò piccola e vecchia. Il presule perciò invitò le autorità comunali del tempo a migliorarne le condizioni attraverso lavori di manutenzione straordinaria. Quando il vescovo ritornò per una seconda visita nel 1620 notò che in due anni nulla era stato fatto e questa volta ordinò che la chiesa venisse addirittura ricostruita.

Fig. 2 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (ritratto del committente). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

I lavori di ampliamento e ristrutturazione iniziarono quasi subito ma, a causa dei costi e soprattutto delle tristi condizioni economiche in cui versava l’Università di Alliste, si protrassero per tutto il secolo XVII. Comunque già nel 1659, durante la sua visita pastorale, monsignor Girolamo De Coris accennò brevemente, oltre che all’altare maggiore, anche all’altare e alla  tela del Santissimo Rosario, la cui costruzione era stata autorizzata dal papa Urbano VIII con bolla del 15 gennaio 1636. L’altare venne nuovamente lodato nella successiva visita pastorale da monsignor Orazio Fortunato il 24 maggio 1678.

Finalmente l’8 gennaio 1698 lo stesso vescovo Fortunato poté visitare la nuova chiesa ormai del tutto ricostruita e i suoi cinque nuovi altari. Nel 1719 il vescovo Antonio Sanfelice – che intanto nel 1717 aveva elevato la chiesa parrocchiale a Collegiata ad instar – nella visita pastorale (29 aprile-1 maggio), «visitavit altare S.mi Rosarij et laudavit».

L’opera, un olio su tela di notevoli dimensioni (cm. 385 x 250), non è firmata e riporta le seguenti iscrizioni: sullo stemma in basso a sinistra, «SPES MEA IN DEO EST» e, accanto al ritratto del committente (ripetuta sul bordo esterno dell’ovale), «EX VOTO DIDACI DE TOMASO».

Il dipinto (fig. 1), già segnalato dal De Giorgi nel 1888[2] e attribuito a Giovanni Andrea Coppola, è stato pubblicato dal Galante nel 1993[3], dopo più di un secolo durante il quale incuria e dimenticanza ne avevano compromesso gravemente lo stato di conservazione. Il Galante, nel confermarne l’attribuzione a Giovanni Andrea Coppola, ha proposto quale data di esecuzione il 1655, ponendola negli ultimi anni di attività del pittore gallipolino, morto nel 1659[4].

Fig. 3 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Viaggio al Calvario). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Un recente restauro, eseguito nel Museo Provinciale Sigismondo Castromediano di Lecce, ha riportato il dipinto alla bellezza originaria, testimoniata da alcune foto, eseguite da chi scrive, a corredo del presente lavoro. 

Il problema della tela della Madonna del Rosario oggi riguarda principalmente la datazione, che andrebbe notevolmente anticipata rispetto al 1655 e collocata tra il 1638 e il 1640. Più che alla maturità, apparterrebbe a quella che possiamo definire la fase giovanile dell’attività artistica del Coppola, che comprende gli anni che seguirono il suo rientro in patria, avvenuto nel 1637, e precede la realizzazione delle grandi tele della Cattedrale di Gallipoli. A sostegno della nuova proposta di datazione interviene la storia stessa della committenza. Antonio Pizzurro ci informa infatti che il conte Diego De Tommasi (1609 – ?), ottenuta l’autorizzazione con bolla del papa Urbano VIII del 15 gennaio 1636, fece costruire nella Chiesa Matrice di Alliste un altare sormontato dalla grande tela della Madonna del Rosario, dove in basso a destra fece dipingere la propria immagine e a sinistra lo stemma della nobile famiglia De Tommasi. Se l’autorizzazione papale alla costruzione dell’altare è del 1636, appare strano che il De Tommasi abbia commissionato il quadro votivo circa vent’anni dopo. D’altro canto la tela è un tutt’uno con la spessa e artistica cornice aggettante, che la contiene, ed è parte integrante della mensa dell’altare, che dal punto di vista artistico non presenta particolari degni di nota; non si spiegherebbe pertanto la presenza per circa vent’anni di un altare costituito solo da una mensa priva di elementi decorativi. Il committente, inoltre, raffigurato dal pittore nell’angolo in basso a destra (fig. 2), appare piuttosto giovane, di una trentina d’anni (era nato nel 1609) più che un cinquantenne.

Fig. 4 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (Flagellazione). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

A confortare la proposta di nuova datazione della tela intervengono comunque vari elementi stilistici. Anzitutto vi è da osservare che, come le storiette della Vergine delle Grazie e dei Santi Giovanni Battista e Andrea della Cattedrale di Gallipoli, i quindici tondi dei Misteri del Rosario (fig. 1) sono stati dipinti con massima cura da Giovanni Andrea Coppola, che, nonostante il piccolo formato, ha costruito i singoli episodi con grande armonia ed equilibrio. La misura ridotta comunque non ne compromette la fruibilità, al punto che per questa tela si può parlare di sedici scene: i 15 tondi e il grande ovale interno.

La parte centrale della tela richiama la Pentecoste di Coppola del 1636 che si conserva in San Romano a Lucca, in particolare per l’impostazione simmetrica della scena che vede la Vergine posta al centro. Nei personaggi ai lati della Vergine nella Madonna del Rosario tornano gli apostoli della Pentecoste, con lo sguardo rivolto verso l’alto: in particolare la figura del pontefice Pio V con la tiara rimanda direttamente all’apostolo a sinistra della Pentecoste, con la testa rivolta totalmente all’indietro. La disposizione dei personaggi, quasi sullo stesso piano rispetto alla Madonna col Bambino e l’impostazione generale della scena, più che ai dipinti della tarda attività, nei quali l’evento religioso si svolge su due piani ben distinti, l’umano e il divino, in una marcata verticalità, si accosta alle opere giovanili, caratterizzate da una costruzione dello spazio, equilibrata e ben impostata, che mette in risalto l’incontro ravvicinato tra l’umano e il divino. Mentre nelle grandi pale della Cattedrale di Gallipoli lo sfondo si apre, permettendo di intravedere il paesaggio e rendendo la scena più ariosa e con un’impostazione scenografica ricca di personaggi che si affacciano da entrambi i lati, in un movimento spesso frenetico, nella Madonna del Rosario le figure emergono dal fondo scuro illuminate dalla luce proveniente da sinistra, che rende i particolari della pelle e disegna i gonfi manti: evidenti le reminiscenze caravaggesche nella resa della fronte rugosa del pontefice o del profilo immerso nell’ombra del san Domenico. La resa luministica ricorda i chiaroscuri delle opere toscane e tutto appare essenziale, rasserenante. Come nella Pentecoste di Lucca infatti le figure, quasi estatiche e comprese del mistero, appaiono composte ed assorte e l’atmosfera è intima e quasi confidenziale, espressa dal dolcissimo sorriso della Vergine a santa Caterina; il Bambino a cavalcioni in braccio alla Madre, mentre accarezza san Domenico, ricorda quello che si china verso il vecchio re nell’Adorazione dei Magi degli Uffizi. La Natività di Maria e la Nascita del Battista delle Storiette di Gallipoli e le altre opere realizzate dal Coppola nella seconda  metà degli anni trenta del Seicento tra Toscana e Salento, esprimono tutte appieno il senso di genuina serenità e il pathos, con cui l’artista carica questi episodi di storia sacra, derivante anche dalla profonda assimilazione del classicismo bolognese di Annibale Carracci e Guido Reni. Non è casuale poi, quando ammiriamo la piccola Crocifissione di Alliste, il contatto con le serie dei misteri del Rosario proposte da Pietro Ricchi, il Lucchese, allievo del Reni.

Fig. 5 – G.A. Coppola, Madonna del Rosario, particolare (rose alternate agli ovali dei misteri). Alliste, Chiesa di San Giuseppe.

Non secondario appare  l’accostamento della tela di Alliste ad alcune sacre conversazioni dello stesso soggetto, presenti soprattutto in Toscana e così diffuse nel  Cinquecento: basti citare quelle di Raffaello, Lorenzo Lotto, Federico Zuccari e poi di Fra’ Bartolomeo, le cui opere il Coppola ebbe modo di conoscere a Lucca, a conferma ancora una volta della formazione toscana del pittore gallipolino. Possiamo trovare vari elementi caratteristici di queste pale d’altare come gli angeli reggidrappo e il baldacchino, l’architettura, che inquadra la Vergine attorniata dai Santi, i committenti in abiti contemporanei e la stessa formula piramidale della Vergine e del Bambino rivolti agli astanti. La presenza del cagnolino sul gradino poi, elemento non estraneo ad altre opere del Coppola, ricorda alcuni dipinti di Jacopo da Empoli, cui il gallipolino è vicino in altre opere, e conferisce alla scena un aspetto più realistico. Il dipinto del Rosario è lontano dalle citazioni letterali, desunte dai grandi artisti studiati tra Napoli, Roma e Firenze, che vediamo in gran numero nelle grandi tele delle Cattedrale di Gallipoli, segno che il Coppola di Alliste è in una fase di formazione e di continua formulazione, che, alla fine del quarto decennio del Seicento, lo porta ad essere ancora libero di esprimersi per poter arrivare al punto di equilibrio della sua produzione artistica.

Sono soprattutto le undici Storiette della Vergine e dei santi Giovanni Battista e Andrea, che il Coppola dipinse intorno alla pala della Vergine delle Grazie di Domenico Catalano tra il 1637 e il 1640, ( subito dopo il rientro in patria dalla Toscana) ad essere le più affini ai Misteri del Rosario: vivacità descrittiva e narrativa, freschezza del disegno e sintesi del tratto e ancora  gli inconfondibili colori del Coppola, le figure allungate, specialmente nei personaggi nudi, viste nello Studiolo di Francesco I a Firenze, le fugaci lumeggiature nelle armature dei soldati sono alcuni elementi che caratterizzano l’arte del giovane Coppola. L’accurata definizione anatomica, il movimento e la drammaticità delle scene spiegano il naturalismo presente nel dipinto, che non fu mai estraneo alle opere del pittore gallipolino. Ma anche il tardo-manierismo fiorentino e il classicismo emiliano  sono molto evidenti e predominano nettamente sugli elementi barocchi dell’ultimo Coppola, quello che si manifesterà più chiaramente dopo il  secondo viaggio a Napoli del 1640-41. Basti citare il morbido panno tra le mani della Veronica nel Viaggio al Calvario (fig. 3), così vicino a quello dei quadretti degli Uffizi, dipinti prima del rientro in patria nel ‘37, o la Flagellazione di Gesù (fig. 4) che riprende l’impostazione scenica della Flagellazione di San Matteo nelle Storiette. Altra annotazione meritano le rose che a mazzetti di cinque (fig. 5) si alternano ai tondi dei Misteri e che sembrano richiamare quelle dipinte, insieme ai tondi degli stessi misteri del Rosario, dal toscano Giovanni Martinelli intorno a una Madonna con Bambino di Jacopo del Casentino, conservata nella chiesa di Santo Stefano a Pozzolatico (Firenze), per l’impostazione, il naturalismo e il luminismo, cui il Martinelli e Giovanni Andrea Coppola restarono sempre fedeli. Nelle piccole pitture dei Misteri, negli angeli che sorreggono il dipinto e nelle rose che a mazzetti si alternano ai medaglioni emerge la profonda qualità della tecnica pittorica del Coppola pittore più che il valore cultuale e devozionistico dell’immagine sacra. Tutta l’opera comunque risulta ben impostata ed armoniosamente realizzata da un pittore, Giovanni Andrea Coppola, che appare, anche nelle opere meno conosciute, uno dei massimi rappresentanti dell’arte della prima metà del XVII secolo in Puglia, e non solo.

Foto di Emanuele Arnesano.

pubblicato su Spicilegia Sallenina n°3


[1] A. PIZZURRO,  Alliste. Frammenti di storia locale, Taviano 1988, 310-320.

[2] C. DE GIORGI, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882-1888, II, 251: «Nella parrocchiale vi è un quadro della Vergine del Rosario che si vuole del Coppola, fatto per voto di Diego de Tommaso ed un altro mediocrissimo di Nicolò Romano del 1608 (sic)».

[3] L. GALANTE, Pittura in Terra d’Otranto (secc.XVI-XIX), Galatina 1993.

[4] L. GALANTE, La pittura, in Il Barocco a Lecce e nel Salento, Catalogo della mostra a c. di A. Cassiano, Roma 1995, 65: «con l’attribuzione alla stesso pittore e con la proposta di datazione, anche per riferimenti documentari indiretti, intorno al 1655. Di sicuro interesse è la soluzione iconografica, che riprende il modello dell’immagine di devozione dipinta, trasportata o sorretta dagli angeli, e offerta alla devozione o alla preghiera del donatore o committente, un modello affermatosi agli inizi del ‘600, lo si trova, infatti in Rubens. Il tema del Rosario, inoltre, non più esemplato sulle stereotipe formulazioni tardo-cinquecentesche, sembra qui calato nel clima di una recuperata naturalezza, quale è ravvisabile anche in alcune tele della Cattedrale di Gallipoli, pur essendo evidenti le mai abbandonate propensioni classiciste leggibili nell’impianto complessivo». Cfr. anche ID., Aggiunte a Giuseppe Verrio e Giovanni Andrea Coppola e qualche precisazione sugli esordi di Antonio Verrio, in Studi in onore di Michele D’Elia, a c. di Clara Gelao, Spoleto 1996.

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

Diario del Salento – I pomodori secchi

 

di Tommaso Esposito

Tommaso Esposito gira il Salento. Ecco le sue suggestioni


E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37.

Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.

Riflessioni lungo la “passeggiata”… della marina di Alliste

la costa squarciata dalla passeggiata (ph Roberto Gennaio)

 

di Roberto Gennaio*

L’estate scorsa l’Amministrazione Comunale di Alliste ha inaugurato lungo la costa rocciosa “ Il percorso ciclo-pedonale” che da Capilungo si snoda fino a Torre Sinfonò. Costo dei lavori 555.191,17 € per due chilometri di costa  feriti, squarciati nella loro algida bellezza.

Alliste non poteva essere da meno rispetto ad altri paesi rivieraschi che avevano già da tempo realizzato la “passeggiata”. Ad Alliste non vi sono altri problemi prioritari, per cui con tenacia tutti nel corso delle diverse Amministrazioni si sono sforzati affinché si realizzasse l’ennesimo crimine al nostro paesaggio Salentino.

E’ cronaca di questi giorni, si parla di erosione costiera e di cementificazione della costa, di arenili che ormai sono scomparsi o che sono  arretrati anche di 100 metri e di un’economia messa al tappeto dalla furia della natura che ha mangiato i litorali e non ci rendiamo conto che la natura svolge il suo normale ciclo da milioni di anni e che si sta prendendo ciò che noi gli abbiamo tolto.

Una corretta pianificazione per la rivalutazione economico – turistica del territorio non può prescindere dalla conoscenza e dalla tutela delle caratteristiche ambientali e paesaggistiche della fascia costiera, e non solo, al fine di non subire un danno ecosistemico irreparabile e un’alterazione della propria identità territoriale.

Abbiamo smembrato le dune, aperto varchi tra la vegetazione dunale, abbiamo antropizzato il litorale sabbioso, abbiamo realizzato parcheggi retrodunali e costruito residence  e stabilimenti balneari sulla sabbia, abbiamo distrutto un ecosistema delicato e complesso per arrivare con le auto fin sotto al bagnasciuga e ora non contenti vogliamo stravolgere anche la costa rocciosa ?

Poi si grida  allo stato di calamità per introitare nuovi fondi pubblici, si fa allarmismo e  terrorismo psicologico. Dire che poi è la natura che effettua i danni a l’uomo e alle sue infrastrutture è soltanto pura follia antropocentrica e totale assenza di saggezza.
Queste non sono altro che speculazioni politico-amministrative perpetrate a danno del nostro territorio salentino immeritevole d’essere amministrato dall’attuale classe dirigente,  di destra, di centro o di sinistra! (Ma non faccio di ogni erba un fascio, alcune Amministrazioni hanno capito il vero valore del paesaggio che amministrano e lo tutelano in ogni modo a costo anche di essere alcune volte impopolari).
 Ma non è ora di smetterla? Non è giunto il momento di assumere con responsabilità un nuovo impegno nei confronti del nostro territorio?

Si parla tanto di tutela , di progetti da effettuarsi con il  minimo impatto

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