Eventi/ Il PCI, l’Italia e il Salento

 

Non si poteva far passare sotto silenzio il centenario del PCI. Non si voleva neppure ingigantire oltre il dovuto la ricorrenza, ma solo aprire una riflessione più distaccata con una presenza che, al di là dei diversi punti di vista, ha indubbiamente segnato nella storia d’Italia e del Salento una stagione positiva per l’affermazione della democrazia e per il riscatto sociale dei ceti meno abbienti. Settant’anni di storia (1921-91) che va rivisitata, riletta e reinterpretata alla luce dei processi di trasformazione e di sviluppo che hanno caratterizzato “il secolo breve”, attraversato da due guerre mondiali, dalla lotta al nazifascismo e dalla progressiva rivendicazione di diritti per lungo tempo negati…. (dalla Presentazione di Mario Spedicato)

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)

di Alessio Palumbo

Con la presa di Roma del 1870, il processo di unificazione nazionale raggiungeva uno degli obiettivi più attesi ed agognati. Le terre (le celebri terre irredente) ottenute sui tavoli della conferenza di Versailles segneranno un ulteriore passo in questa eccezionale opera politica e militare, tuttavia fu forse Roma, con il suo valore storico, culturale e simbolico a rappresentare la conquista più prestigiosa e sperata da generazioni di patrioti italiani. Una conquista avvenuta a soli dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dopo una serie di tentativi falliti. Dieci anni di estrema importanza per la nascita e la strutturazione del nuovo stato unitario.

Il volume da poco edito da Salvatore Coppola, Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870), Castiglione Salentino, Giorgiani 2020, esamina questo decennio cruciale attraverso una serie di saggi incentrati sul ruolo avuto dai patrioti salentini nell’opera di consolidamento del processo unitario. Ciascuno con la propria storia e con le proprie idee: dai moderati unitari come Castromediano e Oronzio De Donno, ai repubblicani radicali come Libertini, dai federalisti-unitari come Giuseppe e Liborio Romano a uomini come Pisanelli, Mazzarella e altri che hanno accettato il compromesso con i Savoia pur di raggiungere l’Unità.

A centocinquanta anni da quelle idee e da quegli avvenimenti, è per Coppola giunto il momento di riflettere sulle delusioni e sulle crisi delle certezze di molti di quei protagonisti. L’accentramento invece del decentramento federale; la repressione manu militari dei fenomeni di ribellismo delle masse contadine al posto delle riforme sociali ed economiche auspicate soprattutto dai Romano, ma anche da Castromediano; il compromesso con l’Impero francese sul destino di Roma (Convenzione di settembre), che segnò il divorzio tra mazziniani radicali e governo centrale; la mancata attuazione di riforme strutturali nel Mezzogiorno; tutto questo (e altro ancora) ha portato la gran parte dei patrioti salentini a rimanere “delusi” per quanto in quel decennio si stava realizzando. Di qui il Noi speravamo, del titolo. Una delusione, quella studiata nei saggi di Coppola, che va oltre le banalizzazioni di certo revisionismo neoborbonico tanto di moda. Una disillusione che erompe in chi ha fieramente creduto nell’ideale nazionale, salvo poi vedere quello stesso ideale ridimensionato o cancellato nelle complesse dinamiche (governative, parlamentari, politiche) che animarono il primo decennio di vita del neonato Regno d’Italia.

Da qui l’importanza e la significatività di questo ulteriore studio di Salvatore Coppola nel contesto storico del Salento all’indomani dell’unificazione nazionale.

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (epilogo)

di Alessio Palumbo

Epilogo

Il pennino raschiava la pergamena. Don Matteo Rocca, con mosse lente, appose la firma in calce al testo scritto di fresco con quella grafia spigolosa che con l’età era andata ulteriormente peggiorando.

Don Celestino si avvicinò all’arciprete che tuttavia non lo sentì.

“Sia lodato Gesù Cristo” urlò il cantore quando il vecchio parroco ebbe riposto il pennino nel calamaio.

“Sia lodato Gesù Cristo don Celestino” fece quello sorpreso, ruotando su se stesso “Non vi aspettavo. Come state? Avete una faccia grigia! Non vi sentite ancora bene immagino. Il vostro servo mi ha detto che stavate molto male”

“Va meglio grazie. Voi tutto bene?”

“Diciamo che stavo meglio ieri in campagna, ma il vostro servo è venuto a chiamarmi stamattina per la morte del Letizia” la voce tradiva il fastidio per quella chiamata in anticipo ai propri doveri pastorali “Vedete” continuò l’arciprete “Ho appena finito di registrarlo sul libro dei morti”

E indicò il registro.

Don Celestino si avvicinò e lesse velocemente traducendo istintivamente in italiano il latino mal scritto del suo superiore

“Il giorno tredici agosto millesettecentoottanta, Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dicono”. In realtà il parroco aveva scritto “così come dice” ma poi aveva depennato e corretto.

Il cantore lo guardò e il vecchio don Matteo Rocca, pur miope e malconcio, capì il senso di quello sguardo

“Ho evitato di scrivere che siete stato voi a dirmi com’era morto” disse più per far pesare l’inusualità della faccenda che per scusarsi “e ho anche detto di essere stato io a confessarlo”

“Avete fatto bene” rispose freddo don Celestino e riprese a leggere

“…e percosso visse diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni”

Don Celestino chiuse il registro e fece per andarsene

“Avete idea di cosa sia successo?” chiese quasi distrattamente l’arciprete prima che il cantore fosse uscito “Nessuno in paese sembra saperne nulla e per evitare di suscitare curiosità ho preferito seppellirlo subito”

“Avete fatto bene” ribadì il cantore “Cos’è successo me lo ha detto in confessione, don Matteo, ma l’ho potuto assolvere”

“Bene, bene. Tornatevene a casa ora. I vostri occhi parlano per voi: state ancora male. Andate magari a stare un po’ in campagna, voi che potete”

“Accetto ben volentieri il vostro consiglio” rispose e si congedò.

Appoggiandosi al bastone rientrò in chiesa, ma non si inginocchiò neppure per salutare il sacramento. Non riusciva a non pensare a quanto successo. Avrebbe potuto raccontare tutto a don Matteo, magari sotto la garanzia del sacramento della penitenza. Del resto avrebbe dovuto chiedere l’assoluzione per il fatto di non aver né confessato né unto il Letizia. Eppure non aveva voluto farlo. Perché? Lo capì attraversando la piazza e volgendo nuovamente lo sguardo verso la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla. La camera che aveva ospitato per diciassette lunghi giorni il figlio morente.

La vicenda alla quale aveva assistito e che, per alcuni versi, aveva vissuto in prima persona, aveva poco a che fare con i sacramenti, con il divino e con la religione. Era un’assurdità un pensiero del genere nella testa di un sacerdote, ma era così. Quella storia era una faccenda solo umana, come il volto della madonna ritratta da Michele Letizia o il sorriso del suo bambino. Era la storia di un amore tra una donna già sposata, Agata Calò, moglie di Alfonso Castriota, ed un giovane uomo ribelle. Un artista che per quella donna era giunto ad uccidere il legittimo consorte venendone ferito a morte; un pittore dal talento eccelso, come altri non aveva ammirato almeno in provincia, capace di dedicare la sua prima vera ed importante opera, nonché l’ultima, all’amata, eternandone sulla tela il viso delicato, bellissimo, con gli occhi di smeraldo e le labbra pallide, circondato da un velo blu come la notte ma molto più luminoso. Lo stesso blu che Michele aveva inavvertitamente impresso, quasi una firma, sul corpo del marito di Agata. Lo stesso blu che lui, affacciandosi dalla finestra della vedova Resta e poi rimirando dalla piazza la casa dei Mauro, aveva immediatamente riconosciuto, pur senza accorgersene nell’immediato, sul parapetto della finestra della camera da letto di donna Petronilla. Quel magnifico blu brillante che ora arricchiva il velo di una stupenda madonna delle Grazie. Il resto era una cronaca come tante altre. Probabilmente, saputo dell’omicidio, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, che quella tela aveva voluto, aveva deciso di non servirsi più dell’opera del giovane pittore. E la scelta era stata talmente risoluta da portare ad interrompere tutti i lavori di aggiustamento nella chiesa della Madonna delle Grazie, il cui altare centrale avrebbe dovuto custodire il quadro in una magnifica cornice di pietra. Michele Letizia non si era sconfortato per la decisione di donna Giovanna e in diciassette giorni di agonia, nascosto nel palazzo che era stato di sua madre e di suo nonno, aveva portato a compimento la tela, dando alla vergine il volto di Agata e ponendole tra le braccia un bimbo che non avrebbero mai avuto.

Avrebbe potuto raccontare tutto ciò all’arciprete? Don Matteo Rocca non lo avrebbe capito e lo avrebbe solo condannato per le menzogne dette. No, non gli importava nulla di ciò. Solo un aspetto di quella vicenda lo faceva stare tanto male e non poteva non ammetterlo, almeno a se stesso. La sua curiosità, quella maledetta curiosità senile, inutile e dannosa, lo aveva portato a vederci chiaro, ad indagare senza fermarsi davanti a nulla, neanche fosse un magistrato, un coadiutore della corte o una spia. Per farlo si era recato di notte in piazza, aveva voluto provare le proprie intuizioni anche al costo di introdursi in casa dei Mauro impedendo così ad Agata, fuggita per le urla della vedova Resta, di rientrarvi per trascorrere gli ultimi istanti con Michele. Ecco la ragione del suo tormento. Aveva negato a Michele la pace celeste e ad Agata quella terrena.

Avvolto in quei rimorsi era intanto giunto vicino casa. Il vecchio servo sedeva sulla soglia ingobbito, le braccia appese lungo il corpo e lo sguardo fisso nel vuoto.

“Attacca il calesse alla giumenta” gli disse don Celestino scuotendolo da quella sorta di catalessi “Quest’anno in campagna andiamo con due giorni di anticipo”.

“Ogni tanto una buona notizia” commentò con poco entusiasmo il servitore.

 

Cosa c’è di falso e cosa di vero?

 

Forse conviene partire da quest’ultima categoria che accorpa la gran parte delle cose riportate nel racconto. Le fonti utilizzate per ricavare le notizie utili all’intreccio sono principalmente tre: le visite pastorali dei vescovi di Nardò redatte a fine Settecento, dalle quali ho tratto le informazioni sui luoghi sacri e sul clero; il catasto onciario del 1743, che mi ha permesso di conoscere le proprietà dei vari personaggi, le rispettive abitazioni e indirizzi; i registri dei defunti, dei battesimi e dei matrimoni che, oltre ad aver fornito lo spunto principale della vicenda, mi hanno consentito di inquadrare cronologicamente i vari personaggi coinvolti.

Innanzitutto, dunque, posso dire che sono veri i luoghi. La via di Santa Caterina, il vicinato dei Mauri, il palazzo dei D’Acugna, quello dei Frigino, la piazza principale posti in continuità l’uno con l’altro e tante volte percorsi o fiancheggiati dai protagonisti della storia erano nel Settecento tra i principali riferimenti urbani di Aradeo. Sono assolutamente vere le chiese, nelle loro intitolazioni e in tanto di ciò che si è scritto nel descriverle: la chiesa madre con i suoi altari spogli, la sagrestia lugubre e corrosa dall’umidità è motivo di critica da parte dei vescovi per tutti i secoli della sua esistenza. Il Crocifisso, la Madonna di Costantinopoli e lo Spirito Santo che, all’epoca dei fatti, erano delle piccole chiese di una comunità povera, visitate dai presuli neretini senza mai segnalare in loro nulla di eccezionale; addirittura, per l’ultima delle tre cappelle verrà sancita l’interdizione a causa del suo stato di abbandono. È vera e ancora visibile ai tempi dei fatti la chiesa della Madonna delle Grazie che le carte ci dicono avere il proprio ingresso proprio di fronte alla casa dei d’Acugna (da qui l’idea dei lavori voluti da donna Giovanna Vasquez d’Acugna e della lite svoltasi al suo interno). Sono veri e tuttora visibili, seppur con modifiche rispetto al loro aspetto settecentesco, la colonna di San Giovanni, il castello baronale e la chiesa dell’Annunziata.

In secondo luogo, sono realmente esistiti nei giorni in cui si svolge la vicenda i personaggi citati (almeno quelli aventi un nome e un cognome). Ciò vale tanto per i protagonisti quanto per quelli che potremmo definire dei comprimari. Tra questi ultimo, erano vivi in quell’estate 1780 l’arciprete Matteo Rocca, don Ippazio Greco e l’arcidiacono Blasi, che tuttavia ho descritto come morente approfittando del fatto che il registro dei defunti dell’archivio parrocchiale ci riporta il suo decesso a meno di un anno di distanza (4 aprile 1871). Per i laici, sono realmente in vita nei giorni del duello il medico De Pandis, che dal catasto onciario sappiamo abitare in un comprensorio di case nel borgo, donna Giovanna Vasquez d’Acugna, ultima esponente della ricca famiglia gallipolina di cui abbiamo notizia ad Aradeo (morirà infatti l’1 maggio 1791, annorum quinquaginta duo circiter e sarà sepolta nella sua tomba privata in chiesa, in proprio monumento in hac Parochiali Ecclesia), Neviglia Gaetano, serva degli stessi d’Acugna di cui è innamorato il vecchio servitore di don Celestino e Felicia Rizzo, cameriera della nobile famiglia nonchè madre della protagonista, Agata Calò. Nell’agosto 1780 è ancora viva Anna Maria Resta, che morirà circa un anno dopo (il 7 agosto 1781): mulier quandam Petri Chiariaci (moglie del fu Pietro Chiriace), le cui proprietà abbiamo ricavato dal catasto onciario insieme alle notizie sulla sua abitazione (abita in casa propria sita nella strada del SS.mo Crocifisso). Dal registro dei defunti sappiamo che, pochi giorni prima dell’omicidio di Alfonso Castriota, il 25 luglio, perse la figlia, Iosepha Chiriaci filia quondam Petri Chiariaci et Anna Mariae Resta Terre Aradei […] aetatis sue annorum triginta sex circuite.

Tralasciando gli altri personaggi minori, veniamo infine ai veri protagonisti della storia che, è fondamentale dirlo, trae spunto da due annotazioni prese sul registro dei defunti a breve distanza l’una dall’altra:

 

Traduzione: “Il 28 di luglio 1780 – Aradeo

Alfonso Castriota della Terra di S. Pietro di Galatina sposato in questa terra di Aradeo nel giorno predetto fu colpito con un coltello da Michele Leti(ti)a della sopradetta Terra di Aradeo, così come molti dicono, e data l’assoluzione sotto condizione dal reverendo d. Celestino Giuri e da me insfrascritto Arciprete col sacro olio degli infermi corroborato, furono fatte le solite preghiere e il suo copro fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale il giorno 29 del prefetto mese, all’età di circa trentasei anni.—-Matteo Rocca Arciprete”

 

 

Traduzione: “Il 13 agosto 1780 – Aradeo

Michele figlio dell’illustrissimo Francesco Letizia della città di Alessano e della fu Petronilla Mauro della Terra di Aradeo morì il giorno sopra riportato percosso con un coltello così come dice dissero e percosso visse quindici diciassette giorni e ricevette il sacramento della penitenza da me soprascritto Arciprete, ristorato col sacro viatico e olio degli infermi corroborato e furono fatte le solite preghiere e il suo corpo fu inumato in questa mia chiesa parrocchiale, all’età di circa ventiquattro anni—- Matteo Rocca Arciprete”

 

Tutto nasce dalla prima annotazione, compresa la scelta di affidare a don Celestino Giuri il compito di indagare. Le visite pastorali di metà Settecento ce riportano quest’ultimo come Cantore della chiesa parrocchiale. Le notizie sulla sua casa (palazziata sita nel vicinato di S. Caterina, cinque orte di terra seminativa con alberi dodici di olivi dentro loco detto Lo Rizzo […] più orte uno mezzo di vigne pastane con alberi trenta di olive loco detto li Monticelli, […] più una giumenta [..]etc…) e sulle sue proprietà le ho ricavate dal catasto onciario

Sappiamo che morì nel marzo 1790 a circa 82 anni.

Di Alfonso Castriota notizie se ne hanno poche: sfogliando il registro dei morti, ho trovato in data 29 agosto 1790 una nota sulla morte di Agata Calò, mulier Alfonsi Castrioto San Petri Galatinae filia coniugum Joannis Calò Terrae S. Petri Galatinae et quondam Feliciae Rizzo Terre Castrignani aetatis suae annorum triginta sex circiter obiit) (trad: “moglie di Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina e figlia dei coniugi Giovanni Calò della Terra da di Galatina e della fu Felicia Rizzo della Terra di Castrignano, morì all’età di trentasei anni circa”).

Infine Michele Letizia: di lui conosciamo i genitori, ovvero la madre Petronilla Mauro, discendente di una ricca famiglia del paese il cui capostipite, Domenico Mauro, può vantare a metà secolo oltre a tante proprietà, elencate nel racconto dal servitore di don Celestino, una casa propria con camere superiori e inferiori loco detto S. Annunciata Vecchia. L’Annunziata Vecchia altro non è che il nome seicentesco della chiesa del Crocifisso: da ciò la vicinanza tra la casa dei Mauro e quella della vedova Resta così utile per l’intreccio del racconto. Del padre di Michele Letizia, so soltanto che è originario della città di Alessano. Approfittando tuttavia del fatto che la famiglia Letizia di Alessano ha prodotto numerosi pittori, tra i più famosi del Salento, ho pensato di fare anche di Michele un artista. Questa connotazione come le restanti parti del racconto (la storia d’amore, la tela, i dialoghi e i pensieri) sono frutto della sola fantasia.

Qui i precedenti capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. V)

di Alessio Palumbo

Capitolo V

 

Si distese nel letto con la tunica ancora addosso. La notte non era calda, ma sentiva la fronte bollire come se avesse la febbre. Il resto del corpo era invece scosso da brividi di freddo, tanto che si gettò addosso una coperta pesante che aveva ai piedi del letto. Passò il dorso della mano sotto l’attaccatura dei capelli e lo ritrovò completamente bagnato. Cos’era quell’agitazione? Si fece un segno di croce e cominciò a sciorinare le orazioni della notte. Non aveva testa per farlo. Sentiva qualcosa dentro di sé agitarsi violentemente. Qualcosa che era iniziato chiudendo la finestra della casa della vedova Resta. Ma cosa. Provò a recuperare un po’ di calma per poter ragionare. Aveva visto qualcosa vicino alla finestra di donna Petronilla che lo aveva colpito. Qualcosa che aveva rivisto o pensato di rivedere osservando quella stessa finestra dalla piazza. E poi il racconto del servo. Anche quello lo aveva agitato. Ma perché? Perché?

All’improvviso si mise a sedere sul letto, come se qualcosa lo avesse sospinto.

“Non può essere” esclamò. La campana di San Nicola rintoccò l’ora nona della notte.

Scese dal letto, indossò le scarpe cercando al buio di allacciare le stringhe. Le mani gli tremavano e dovette tentare più volte.

“Calmo Celestino” disse a se stesso. Finalmente ci riuscì e, afferrato il bastone da passeggio, raggiunse la scala.

Scese di furia e la luce del lume che d’improvviso gli si parò di fronte ai piedi della gradinata lo fece sobbalzare e urlare.

“Papa, dove andate?” chiese il servo

“Sei tu, che ti venga un male. Mi hai fatto morire”

“Ma che vi succede. Dove andate a quest’ora di notte?”

“Non ti immischiare. Torna a riposare”

“Ma che discorsi sono? Non vi lascio andare da solo a quest’ora. Ditemi dove volete andare”

“In piazza”

“A fare che”

“Non ti interessa”

“Va bene, non mi interessa” fece comprensivo il servo “Però vi accompagno”

Senza aspettare risposta si riaffacciò nella camera, prese un oggetto, lo mise in tasca e tornò dal cantore

“Cosa hai preso?” chiese

“Niente papa. Meglio stare sicuri” e si avviò.

Percorsero l’ultimo tratto della strada di Santa Caterina, svoltarono per il vicinato dei Mauri e da lì giunsero di fronte al palazzo dei D’Acugna

“Ferma” ordinò don Celestino “Tu aspettami qui, se serve qualcosa ti chiamo”

“Va bene”

Il prete fece un’altra quindicina di passi e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, si addossò al portone. Da lì poteva vedere la parte centrale della piazza e la finestra di donna Petronilla. Rimase in attesa, in silenzio. A poca distanza il servitore lo aspettava, accovacciato su un paracarro, con il lume in mano. Ciò lo fece sentire un po’ più sereno. Tornò ad osservare la parete di destra del palazzo dei Mauro che dava sul piccolo cortile condiviso con la vedova Resta. Era una delle poche case palazziate della piazza e tenuemente avvolta dalla luce lunare spiccava sullo slargo quasi fosse una torre di avvistamento. Per strada non passava nessuno, fortunatamente: avrebbe fatto non poca fatica ad inventare un motivo logico che lo potesse spingere a stare lì a vegliare. Da lì ad un’ora o due, però, i contadini si sarebbero svegliati per andare nei fondi fuori dalle mura e subito dopo le donne si sarebbero recate in chiesa per la prima messa. Se qualcosa doveva avvenire non avrebbe potuto tardare ancora. E così fu.

D’improvviso una flebile luce rischiarò la finestra di donna Petronilla. Il cuore di don Celestino cominciò a battere velocemente percuotendo le vecchie vertebre, ma ancor di più lo fece sobbalzare l’urlo che squarciò il silenzio d’intorno.

“Giuseppa, Giuseppa mia” udì distintamente e quel grido fu come una lama gelida che incise la sua schiena. La luce alla finestra si spense.

Il cantore uscì dal portone e il servo gli fu accanto.

“Cos’è stato?”

“Dammi qui” ordinò strappandogli di mano il lume “Non ti muovere”

Sbucò nella piazza e provò a correre verso la casa dei Mauro. Le gambe lo tradirono e cadde a terra.

“Fermo” gridò volgendosi al servo, che già si era mosso verso di lui. Si alzò e riprese a correre.

Il vecchio portone del palazzo che era stato di don Domenico cigolò. Intravide una figura uscire di corsa. Nell’oscurità non riuscì a scorgerne il volto. Vide solo una lunga veste nera, forse una tunica forse una gonna, strisciare sul selciato. Raggiunse il portone e sentì a poca distanza il respiro del fuggitivo.

“Fermatevi, chi siete” riuscì ad urlare

Udì i passi bloccarsi e poi riprendere veloci, allontanandosi in fretta per la strada che dalla piazza portava alla porta del paese. Non valeva la pena seguirlo, non ce l’avrebbe fatta.

Spinse il portone dei Mauro e, come se la strada gli fosse nota, salì lo scalone in marmo che portava al piano superiore. Giuntovi, sentì il cuore battere ancora all’impazzata e il fiato mancargli.

“Calma” pensò “riprendi fiato o ci lasci la vita”. Stette pochi istanti addossato ad un muro respirando a bocca larga, poi prese il corridoio che portava alle stanze di destra e lentamente lo percorse. Le porte erano tutte chiuse, tranne l’ultima. La scostò leggermente ed entrò.

La stanza era buia, ma da una finestra parzialmente chiusa da una tenda logora penetrava la flebile luce lunare. Capì di essere nel posto giusto: era la vecchia camera da letto di donna Petronilla. Ruotò il braccio con la lampada per guardarsi intorno, rimanendo però a distanza della finestra. Nell’aria stagnava uno strano odore acido.

A terra, quasi al centro della camera, vide un paio di bacili colmi d’acqua con immerse delle strisce di stoffa bianca e una sedia; sul fondo, un letto circondato da un pesante baldacchino con quattro colonne intagliate. Addossato ad una di queste notò un lenzuolo che stranamente si manteneva alto andando poi a cadere sul pavimento come a formare una piramide bianca. Le coperte sul letto, anch’esse candide, erano arruffate. Fermò i passi e si mise in ascolto: un rantolo leggerissimo, un respiro debole ed affannoso. Riprese a camminare con un groppo alla gola che gli impediva di respirare agevolmente.

 

“Sei tornata” udì. Il cuore di don Celestino accelerò nuovamente, tanto che il cantore per reazione portò una mano sul petto, come per placarlo.

Si avvicinò alla voce e, al lume della lampada ad olio, vide il volto di un giovane. Poteva avere poco più di vent’anni e giaceva riverso in maniera scomposta sul letto. Il busto, nudo, era fasciato con bende candide chiazzate di nero all’altezza del torace. Le mani, le braccia, erano punteggiate da numerose macchie. Gli toccò la fronte, era rovente.

“Amore mio” disse il giovane “Perché sei andata via?”

“Schhhhh” fece don Celestino per non togliere al giovane l’illusione che al proprio capezzale ci fosse la donna amata e non un vecchio prete

“Muoio amore. Lo sai? Muoio, ma ce l’ho fatta. La firma, però” tacque e deglutì con sforzo “la firma è venuta male. Pazienza. Non ho più forze. Vai a dire alla tua padrona che la tela è pronta. La prima tela di un grande pittore e anche l’ultima, amore mio”

Il cantore volse lo sguardo alla piramide bianca e capì. Si avvicinò, con una mano scostò con delicatezza il lenzuolo e la luce gialla disvelò il volto di una Madonna dagli occhi verdi come lo smeraldo. Il velo che le scendeva dalla testa sulle spalle era di un blu luminoso che don Celestino non poteva non riconoscere. Osservò con attenzione il viso della Vergine, ritratto con un realismo tale che chiunque in paese avrebbe potuto ricollegare all’originale. Mai nei lunghi anni di vita aveva visto un dipinto raffigurante la Madonna delle Grazie così bello e così insolito. Come l’iconografia voleva, la vergine reggeva tra le braccia il bambinello, un putto paffuto e biondo. Il bimbo sorrideva, ma non di quei sorrisi appena accennati, che già davano l’idea della divinità, come aveva visto in tante statue e tele. Il sorriso del bambino che aveva di fronte era reale, vivo; era quello di un fanciullo che ha trovato gusto e gioia in un gioco, in un fatto strano o nella carezza dei genitori. Anche la madre, la madonna, sorrideva, pure lei in modo estremamente umano: il volto era quello di una mamma serena, che gioisce nel vedere il proprio figlio felice. La luce passò sulla parte bassa della tela. La grafia era incerta, ma ugualmente leggibile.

“Michele Letizia” scandì a bassa voce “Letizia, non Lezia”. A differenza di quanto accaduto col volto della Vergine, il nome non lo colse di sorpresa.

Lasciò ricadere il velo bianco e si avvicinò al letto. L’uomo non si lamentava più. Gli posò la mano sulla fronte e sentì che era più fresca. Prese il polso e cercò inutilmente di percepirne battiti. Lasciò cadere la mano tra le coperte disfatte. Riportò la mano sulla fronte di Michele Letizia. Con il pollice fece un piccolo segno di croce che poi tracciò anche in aria con le tre dita semiaperte. Tutto ora era estremamente chiaro, solo una cosa gli restava da capire anche se già l’aveva intuita. Si avvicinò alla finestra e scostò la tenda.

Alla luce fioca del lume cercò con ansia sul parapetto e finalmente vide la macchiava che lo imbrattava in un angolo. L’aveva vista chiudendo gli scuri della finestra della vedova Resta e poi osservando la casa dei Mauro dalla piazza. Era blu, anche se con la luce calda della lampada il colore ora appariva tramutato. Era lo stesso blu che aveva visto sul collo di Castriota e ora sul velo della Vergine dipinta.

“Giuseppa mia”

 

Il grido della vedova lo colse di sorpresa e per poco la lampada non gli sfuggì di mano.

“Vecchia pazza” esclamò lasciando cadere la tenda. Uscì rapidamente dalla stanza, scese le scale e si ritrovò in piazza. Il paese era ancora avvolto dall’oscurità e non sembrava esserci nessuno in giro. Attraversò lo spiazzo e, giunto nei pressi del palazzo dei Frigino, incontrò il servitore che immobile lo attendeva.

“Finalmente siete tornato, papa. Dove vi eravate cacciato? Avete sentito di nuovo il grido?”

“Si ho sentito. Torniamo a casa”

“Ma posso sapere cos’è successo?”

“Oggi no. Te ne parlerò. Ora voglio solo andare a dormire. Tu prendi la mia giumenta e vai da don Matteo Rocca: digli che sto male e che deve rientrare in paese per celebrare un funerale”

“Chi è morto?”

“Michele Letizia, figlio di don Francesco Letizia e di Petronilla Mauro”

“Il figlio di donna Petronilla?” chiese sorpreso il vecchio, ma il cantore fece conto di non sentirlo e proseguì

“Digli che è morto accoltellato da Alfonso Castriota e che prima di morire l’ho confessato e unto con gli oli santi. Il corpo sta in casa della madre”

“Ma” provò a dire

“Ma le cose stanno così” tagliò corto don Celestino

Erano giunti ai piedi della scala.

“Vi accompagno?” chiese il servitore

“No. Ce la faccio da solo. Fai quello che ti ho detto e lasciami in pace”.

Con le gambe deboli, il respiro ancora pesante, salì quell’ennesima rampa. Giunto in camera sbottonò il colletto, bevve avidamente dalla brocca, espletò i bisogni corporali e si gettò sul letto. Crollò in un sonno profondo dal quale si risvegliò nel pomeriggio quando il sole già calava. Era l’ora prima.  (continua)

 

Qui i precedenti capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

di Alessio Palumbo

Capitolo IV

 

Passarono una decina di giorni scarsi e una mattina, mentre assonnato a causa della notte passata in bianco per il caldo si trovava ancora nell’altare di san Nicola per rinfrancarsi con un po’ di frescura, udì i cardini del portone della chiesa cigolare e nuovi passi veloci e leggeri susseguirsi sulla navata. Non poteva essere il servitore che era andato via da poco e neanche da giovane si era mosso con tanta agilità.

Si affacciò sulla corta navata del vecchio tempio e vide con sconforto la vedova Resta avanzare con la sua andatura spedita. Rassegnato le andò incontro. Si incontrarono all’altezza del confessionale di sinistra e don Celestino fece cenno alla donna di accomodarsi sull’inginocchiatoio

“Non voglio confessarmi” disse lei decisa

“Ah. E che volete?”

“La voce è tornata”

Don Celestino allargò le braccia

“Questa notte?”

“Si questa notte e anche le notti prima”

“E perché non siete venuta a dirmelo?”

“Perché voi non mi credevate papa”

“E bene? Cosa volete ora? Perché siete venuta a parlarmi di nuovo di questa voce?”

“Perché stavolta ho visto anche l’anima in pena che piange e si lamenta”

Don Celestino la squadrò dall’alto. Cercò di leggerle sul volto i segni della demenza, ma la vedova Resta pazza non era o almeno non lo sembrava. Appariva sicurissima di quel che diceva e, cosa più degna di nota, per nulla impressionata.

“In che senso l’avete vista?”

“L’ho vista, l’ho vista. Era come un’ombra che si muoveva con attorno una luce giallina”

“Finora non avevi mai visto questa luce?”

“Mai. Da quando sono venuta a confessarmi la prima volta, ho trascorso le notti alla finestra. Sentivo di tanto in tanto il lamento, leggero, lontano, ma luci nessuna. Questa notte l’ho vista. È durata poco, ma non la scordo”

“Maria” fece comprensivo “Non è che vi siete addormentata e avete sognato..”

“Cosa sognato? Cosa?” urlò la vedova sollevando le mani al cielo “Io oramai dormo il giorno per poter essere sveglia la notte. Guardate come sono sveglia e lucida, non come voi, papa, che state cascando in piedi”

“Calma Maria, calma. Non vi agitate”

“Ora dovete venire a benedire la casa dei Mauro”

“Come la casa dei Mauro?” chiese sorpreso il prete

“E certo. L’anima non sta in casa mia, ma nella casa che era di donna Petronilla Mauro e che sta addossata alla mia”

“Ma non ci abita nessuno?”

“No. Donna Petronilla è morta parecchi anni fa e il figlio mi sa che andò a stare dal padre che era del capo di Leuca”

“Ho capito. Ma come facciamo ad entrare in casa dei Mauro se non c’è nessuno”

“La benedite dalla finestra di casa mia” rispose netta la vedova che non aveva nessuna voglia di continuare quella discussione. “Vi aspetto stasera dopo la funzione. Sia lodato Gesù Cristo”

“Oggi e sempre sia lodato” rispose confuso il cantore.

La vedova uscì e don Celestino tornò sulla sua sedia nell’altare di San Nicola. Osservò con sguardo vuoto la porzione di navata che la prospettiva gli consentiva di vedere. Il sole, che in quel momento si trovava alle sue spalle, era alto e la luce che penetrava dalle finestre a forma di bocciolo poste sulla sua testa ne testimoniava l’eccezionale potenza. In quel bagliore giallo, le pareti della chiesa, i suoi arredi, le poche suppellettili spiccavano in tutta la loro miseria. L’umidità chiazzava di verde le vecchie mura; dai finestroni pendevano ragnatele e tracce di infiltrazioni solcavano dall’alto in basso il tempio. Puntualmente i vescovi avevano chiesto all’arciprete di turno di sistemare quel misero tempio, di acconciarlo e renderlo degna della sua funzione. Ma con quali denari? Il paese era povero. La chiesa stessa era povera e a costo di sacrifici si riusciva a tenerla almeno decente in qualche sua parte. Col terremoto del quarantatré si era lesionata e allora l’Università aveva dovuto vendere terre e beni per poterla mantenere in piedi. Del resto era il destino di tutte le chiese del paese. L’Annunziata era crollata più volte e ancora pericolava. Il Crocifisso, poco più di una cappella, era anch’esso ammorbato dall’umidità. Stessa cosa per la Madonna delle Grazie e per quella di Costantinopoli. Per non parlare della chiesa dello Spirito Santo, ancora interdetta. E cosa dire di tutte le chiese che, alcuni dicevano, erano esistite in passato e di cui oramai non c’era più traccia se non in qualche moncone di muro rimasto in piedi o in qualche vago ricordo dei più vecchi che ne avevano sentito parlare dai loro nonni.

Lui stesso se n’era sempre disinteressato. Aveva avuto cura dei propri paramenti, aveva sempre ottemperato con scrupolo al proprio ufficio ed infatti nessun vescovo, in tanti anni, gli aveva mosso il minimo appunto. Però non era andato mai oltre. Ducati ne aveva da parte, ma non li aveva mai spesi per sistemare la chiesa, per donarle un arredo, una tela, una statua.

“Magari in morte” concluse a mezza voce e tornò a leggere il breviario.

A sera, terminata la funzione, pose i paramenti con ordine in una delle casse della sagrestia, prese secchiello ed aspersorio e ritornò nell’aula dell’edificio sacro. Si avviò verso l’uscita e, passando accanto al fonte battesimale, prese un po’ d’acqua dal catino per versarla nel secchiello; ripose la bacinella d’ottone nel fonte e abbandonò il tempio.

Un leggero grecale addolciva l’aria e la luce rossastra del tramonto colorava le pareti delle case intorno al sagrato, omogeneizzandole in un comune tono roseo che camuffava crepe, macchie di umido e segni del tempo. Percorse la stretta via che portava in piazza e, giuntovi, superò la piccola chiesa del Crocifisso che si trovava alla sua destra. Bussò quindi ad una bassa porta di un bel verdone brillante.

“Chi è?”

“Don Celestino”

“Entrate, è aperto”

Il vecchio cantore spinse l’uscio ed entrò. La casa della vedova Resta, come d’altronde la gran parte delle case della gente comune del paese, si componeva di una sola stanza, con la madia, due o tre sedie, il camino in un angolo, stracci appesi ai chiodi e una tenda per celare i letti. La discreta ricchezza che il marito aveva accumulato, anche grazie a lei, la si poteva dedurre da un piccolo mobile lavorato posto in un angolo, con sopra una statua di san Rocco alta due o tre palmi, che al collo portava appesa una catenina d’oro con un anello nuziale. Sicuramente quello del povero Pietro Chiriace.

“Accomodatevi” fece “Di qua” e così scostò la tenda che separava la stanza dalla zona adibita a dormitorio. Accanto al canterano, posto al lato del letto, don Celestino notò una finestra aperta su un giardino.

“Questa l’aprì mio marito buonanima. Dà proprio sul cortile della casa dei Mauro” spiegò la vedova “È da qui che sento le voci. È da qui che ho visto la luce l’altra notte”

Il sacerdote si avvicinò e si affacciò. Il cortile era oramai in ombra. Era una sorta di rettangolo irregolare con due o tre alberi che, alla poca luce residua, ipotizzò essere di limone. Si capiva che era abbandonato da tempo, perché la vegetazione attorno agli arbusti cresceva alta e rigogliosa, coprendone quasi per intero i tronchi.

“Dove avete visto la luce?” chiese don Celestino

“Lì” indicò la vecchia ponendosi accanto, nel ristretto spazio della finestra.

Il dito, corto e nodoso, puntava ad una finestra al secondo piano. Quella parte della facciata dell’edificio era ancora in luce perciò il cantore poté osservarla con attenzione. L’intonaco attorno alla finestra era pressoché caduto. Resisteva solo un piccolo riquadro, abbastanza regolare, proprio sotto l’apertura. L’interno della stanza era celato da una tenda consunta.

“Avete visto la luce nonostante la tenda?” chiese sempre più dubbioso

“Si, ve lo giuro sul sacramento, papa” rispose rapida

“Lasciate stare i sacramenti” rispose un po’ spazientito

“La luce l’ho vista nitida perché la tenda non copre tutta la finestra. Quella è la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla Mauro. Quando morì lei e la casa venne abbandonata, mio marito aprì questa finestra per fare entrare un po’ di aria e di luce in casa nostra. Non l’avesse mai fatto, pace all’anima sua”

“Va bene” fece accondiscendente don Celestino e, afferrato l’aspersorio, tracciò una croce nell’aria in direzione della casa dei Mauro, recitò alcune preghiere in latino poi si voltò e ripeté il rito a favore nella casa della vedova la quale, una volta zittitosi il sacerdote, si fece il segno della croce.

“Ora cercate di stare tranquilla” le disse “Riposate e non state sempre alla finestra”

Così dicendo chiuse lui stesso lo scuro. Nel farlo sentì però una sorta di fitta alla testa che lo spinse a portarsi la mano a semicerchio attorno alla fronte.

“Che avete papa?”

“Niente, niente. Con i vostri discorsi mi avete rintronato. Cercate di stare tranquilla”

“Me lo avete già detto”

“E allora fatelo” chiuse don Celestino ed uscì.

In piazza alcuni contadini discorrevano animatamente; accanto a loro passò il medico Matteo De Pandis a cavallo di una mula: proveniente dal suo comprensorio di case nel borgo fuori le mura, puntava verso l’abitazione di qualche ammalato o moribondo nel paese. I contadini si levarono il cappello per omaggiarlo.

Don Celestino percorse velocemente lo spiazzo e anche lui fu omaggiato dagli uomini in piazza. Li salutò con un breve cenno della mano. Giunto dal lato opposto si voltò per osservare la casa della vedova Resta. Lo sguardo puntò poi in alto: da lì vedeva, oramai quasi completamente al buio, il lato destro del palazzo dei Mauro e la finestra della camera che era stata di donna Petronilla. Fissò per un breve momento la fenditura nel muro celata dalla tenda consunta e la fitta si ripropose.

“Sono stanco” disse, senza però esserne convinto.

Giunse a casa, mentre per strada uomini e donne prendevano a sedersi vicino agli usci per trascorrere un paio di ore raccontandosi fatti della giornata e dei tempi passati. Sull’ingresso incrociò il servitore che accendeva il lume per rischiarare la misera stanza.

“Ancora insistete ad accendere lumi, con tutte le zanzare che ci sono” lo rimproverò il cantore

“A me le zanzare non mi toccano. Ho il sangue cattivo” rise il vecchio “Ma che avete?” aggiunse incupendosi. “Vi vedo pallido, avete gli occhi affossati. Non vi sentite bene?”

“Dammi una sedia e un boccale di acqua. Mi gira la testa”

“Volete due fichi anche?”

“No, solo da bere”

“Allora state proprio male” pensò il servo versandogli da bere da un otre di creta che aveva accanto al letto. Don Celestino bevve velocemente e si lasciò andare sulla sedia impagliata che il vecchio gli aveva messo vicino

“Cosa avete?” provo a chiedere nuovamente

“Te la ricordi donna Petronilla Mauro?” chiese di rimando il sacerdote

“Certo che me la ricordo” rispose il vecchio che in quelle storie di tempi passati ci scialava “Donne così belle non ne rinascono. Aveva due occhi neri che facevano innamorare. E quanti le fecero la corte prima che si accasasse! Bella e ricca com’era non era pane per gente del posto e infatti don Domenico, il padre, la diede al figlio di un signore del capo di Leuca. Poveretta” sospirò il vecchio dopo una breve pausa “tanto bella quanto sventurata”

“Perché?” chiese il cantore

“Il matrimonio non fu fortunato. Una figlia, Teresa, le morì che era piccolina e non aveva neanche dieci anni. Già allora donna Petronilla sembrò perdere la testa. Poi altri dolori glieli provocò l’altro figlio, Michele, che era uno scapestrato, si azzuffava con tutti i peggiori elementi del paese. Ma del resto la madre lo aveva cresciuto così, gli aveva passato tutti i vizi e tutti i lussi. Quando lei morì, una quindicina di anni fa, il padre lo prese e lo portò con sé nelle terre di famiglia. Abbandonarono tutto: quella bella casa che avevano in piazza, che se la vedete ora vi piange il cuore per come sta cadendo a pezzi, le terre, il mulino. Una fortuna buttata”

“Chi era il marito di donna Petronilla?”

“Don Francesco Letizia di Alessano. Dicono un uomo ricchissimo. Ma perché tutte queste domande su donna Petronilla?”

Il cantore gli raccontò la faccenda della vedova Resta, naturalmente ciò che non era coperto dal vincolo del confessionale.

“È possibile” sentenziò il servitore

“Cosa?” chiese il padrone

“Che l’anima di donna Petronilla Mauro si disperi ancora per la propria sorte. Povera donna. Bella com’era avrebbe meritato un’altra fine, papa”

Il sacerdote si alzò stancamente. L’acqua e le chiacchiere col servo gli avevano fatto passare quella morsa che gli aveva serrato con tanta violenza la fronte. Percepiva però ancora una sensazione di malessere. Forse avrebbe dovuto accettare qualcuno dei fichi che il servitore gli aveva offerto.

“Mi dai un fico?” chiese

“Ora sì che siete tornato in voi. Mi stavate facendo preoccupare” fece l’uomo porgendogli un grosso frutto verde

“Buona notte e grazie” si limitò a dire il cantore iniziando a salire la ripida scala che portava alle proprie stanze

“Buona notte, papa”.

 

[*] Illustrazioni di Andrea Palumbo. Ringrazio l’associazione Arataion.it per avermi fornito lo spunto e le basi documentali per raccontare questa vicenda.

Qui i primi tre capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

di Alessio Palumbo

Capitolo III

 

Per tre giorni e tre notti il vento non smise di sferzare uomini e cose. Violenti rovesci d’acqua si riversarono sul paese ingombrando le strade con torrenti di fango. Alcune case abbandonate da decenni caddero o si lesionarono sotto la furia degli elementi. Le incannicciate furono divelte e nelle campagne persino ulivi che avevano trascorso interi secoli ben conficcati nella terra furono sradicati. Stessa sorte per le vigne che, già cariche di grappoli neri, si ritrovarono prive di qualsiasi frutto e stese al suolo come ceppi da ardere. Finalmente, la mattina del due di agosto, un sole limpido e possente, conficcato in un cielo privo di nubi per miglia e miglia, segnò la fine della buriana. Il paese si svegliò frastornato e scosso.

Don Celestino, ritemprato nel corpo e nello spirito dalla fine del maltempo, si presentò alla parrocchiale prima del consueto. In quei tre giorni, seppur a fatica, aveva svolto con la diligenza solita i doveri di uomo di chiesa, celebrando la messa del mattino e quella della sera, seppur solo per il suo servitore. Da quella mattina fino alla metà del mese, avrebbe dovuto raddoppiare i propri sforzi. L’arciprete, infatti, come ogni anno aveva abbandonato il paese per passare le prime due settimane d’agosto in campagna; l’arcidiacono Francesco de Blasi, che nella gerarchia del capitolo della parrocchiale veniva subito dopo don Matteo Rocca, era da tempo allettato e prossimo a presentare la propria anima a Cristo. Spettava a lui quindi sovrintendere alle attività degli altri sacerdoti, impartire ordinariamente i sacramenti, celebrare le funzioni principali e via elencando. Per questo, in quella mattina di ritrovata estate, si era recato in chiesa con la giumenta. Subito dopo la funzione sarebbe dovuto andare a dare disposizioni al resto del clero, poi avrebbe portato conforto ad alcuni infermi e infine avrebbe fatto una trottata dalle parti della masseria Resta, di proprietà del Capitolo parrocchiale, per scambiare due parole con i coloni e per capire l’entità dei danni causati dalla furia celeste.

Celebrò messa alla presenza di una decina di donne, alcune accompagnate dai figli che trascorsero il tempo della funzione salendo e scendendo dalla scala dell’organo. Lasciati i paramenti in sagrestia, abbandonò il tempio e nel percorrere la navata notò i numerosi fasci di fiori deposti sull’altare di San Giovanni: ringraziamento concreto delle donne del paese per la fine del maltempo. Si avvicinò alla mensa in pietra, prese un mazzo di zagare dall’odore pungente e lo portò vicino al volto inebriandosi. Ripose i fiori ed uscì. Fuori dalla chiesa di San Nicola la luce del sole lo avvolse e riscaldò.

“Vado a sbrigare le faccende della mattina” disse al servo che lo attendeva crogiolandosi sul muro di fronte al tempio dove aveva addossato il piccolo calesse.

Il vecchio afferrò le assi del biroccio e le fissò nei finimenti della cavalla. Non appena don Celestino montò, gli passò le redini e diede un leggero colpo sulle natiche della giumenta per farla partire.

“Arrivederci papa” lo salutò

Il prete sollevò il braccio e prontamente riafferrò le redini. Lentamente la giumenta si incamminò. Giunti in piazza, il calesse svoltò sulla sinistra imboccando la via che conduceva alla chiesa dell’Annunziata. Don Celestino diede mano alle briglie per accelerare la corsa dell’animale ma, nei pressi della colonna di san Giovanni, elegante simbolo dei baroni del paese, le voci di un alterco lo attrassero. Prontamente tirò a sé le redini. Alla propria destra, dalla cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, provenivano urla e strepiti, bestemmie ed imprecazioni. Un concio di tufo volò fuori dalla porta ed allora gli animi si surriscaldarono ancor di più: le voci divennero sempre più violente, le ingiurie si inasprirono.

Restò ad ascoltare, ma la furia della lite rendeva incomprensibili le parole che rimbombavano nella chiesetta. Scendere o non scendere? Con la vecchiaia era divenuto curioso, troppo forse. Decise di andare a vedere. Smontò dal calesse, legò la giumenta ad uno stallo nei pressi del palazzo baronale ed entrò nella cappella.

Santi, madonne, ostie e lo stesso padreterno affollavano il luogo sacro, ma non sotto forma di immagini o sculture. Tre muratori, bianchi di tufo, urlavano contro un colosso alto una canna, con spalle larghe a stento contenute da una camicia bianca insudiciata su di una manica da sangue; sicuramente quello del più vecchio dei tre manovali il cui volto era abbondantemente imbrattato.

“Cosa succede?” urlò il prete, ma dovette ripetere la domanda più volte prima che i quattro si accorgessero di lui e si placassero.

“Cosa succede? Come osate bestemmiare in un luogo consacrato? Bestie che altro non siete. Segnatevi”

I quattro fecero di mala voglia il segno della croce.

Don Celestino si avvicinò al colosso, che sapeva essere uno dei servi della famiglia D’Acugna, l’atrio della cui casa stava proprio di fronte all’ingresso della piccola chiesa.

“Niente papa Celestino, niente” smorzò questo

“Voglio sapere” si oppose il vecchio che sentiva inappagata la curiosità

“Questi tre pretendono soldi che non spettano loro. Affari nostri”

“Ah, carogna” scattò il muratore che, nonostante la faccia insanguinata e le dimensioni dell’avversario, non sembrava averne timore. Gli altri due, all’apparenza neppure ventenni, lo tennero fermo.

“Calma” impose il cantore “Voi che dite? Vi spettano questi soldi?”

“Certo che ci spettano. Donna Giovanna ci ha mandato a chiamare per fare dei lavori in questa chiesa”

“Ma questa chiesa non è di donna Giovanna D’Acugna” interruppe don Celestino

“Io non ne so nulla. Così ci ha detto. Dovevamo imbiancarla a calce, sistemare l’altare e farci sopra una cornice in leccese. Guardate là” disse indicando il pavimento “Abbiamo portato da Cursi tutti i blocchi per intagliarli e sistemarli”

“Siete di Cursi?” chiese desideroso di conoscere i minimi dettagli della vicenda

“Si. E ora questo” e indicò a mano aperta il colosso “dice che non se ne fa più niente e non ci paga”

“Ma se voi non avete lavorato” intervenne il servo della nobildonna

“E le giornate, il materiale, l’affitto del carro chi me li paga” riprese ad urlare il muratore

“Hanno ragione” sentenziò don Celestino

“Non vi intromettete papa” fece l’uomo dei D’Acugna con aria benevola, senza riuscire però a celare il tono minaccioso.

Don Celestino non si scompose. Conosceva chi gli stava d’avanti e, soprattutto, conosceva donna Giovanna, ricca e vanitosa: non avrebbe certo corso il rischio di vedersi rovinata la fama per quattro conci e un po’ di calce.

“Salgo a parlarne con la tua padrona” disse il prete con finta aria ingenua

“Non vi intromettete” ripeté il servo piazzandosi tra il cantore e l’ingresso della cappella dedicata alla vergine, la quale, silenziosa, osservava la scena da un tela oramai sbiadita posta sul vecchio altare “Donna Giovanna non vuole fare più i lavori”

“E vi ha detto di non risarcire i manovali? Voglio sentirmelo dire da lei”

“Ma a voi cosa interessa?”

Fece conto di non sentirlo. Continuò a fissarlo sul volto, senza aria di sfida però, ma con compassione, con una faccia, per l’appunto, da prete.

“Quanto avevate pattuito?” disse poi don Celestino rivolto al capomastro

“Trenta ducati per dieci giornate di lavoro, dieci per il materiale e due ducati per il noleggio del carro”

“Le pietre potete riportarvele?”

I tre si consultarono

“Si”

“Giornate ve ne bastano tre come risarcimento”

“Ma papa” intervenne uno dei giovani “noi abbiamo rinunciato ad altri lavori”

“Voi..” provò ad intervenire il servo dei D’Acugna

“Tacete” lo zittì il cantore e tornando a rivolgersi ai manovali “Tre giornate ve le paga donna Giovanna, le altre sette io e venite ad intonacare la mia casa di campagna e a fare piccoli aggiusti”

“Va bene” fece il capo dei tre che capì subito la vantaggiosità dell’offerta.

“Dategli undici ducati” ordinò allora il prelato rivolgendosi nuovamente al bestione che con la sua stazza continuava ad ingombrare l’ingresso del tempio “Dagli undici ducati e non dico niente alla tua padrona sul fatto che volevi intascarti la mercede di questi uomini”

Il servo trasse dalla tasca un sacchetto di velluto nero, slegò i lacci, ne cavò fuori undici grosse monete d’argento e le passò al manovale

“Sia lodato Gesù Cristo” si congedò il cantore

“Oggi e sempre sia lodato” risposero i tre e immediatamente dopo: “Papa, ma dove dobbiamo venire a fare i lavori?”

“Andate in chiesa e chiedete al sacrestano di accompagnarvi dal servitore di don Celestino Giuri. Lui vi saprà dire” ed uscì.

Per un paio di giorni non successe nulla di particolare. Furono riparati alla meglio i danni del maltempo e la vita tornò a scorrere regolare. Il caldo riprese a farsi sentire e quei pochi aradeini rimasti in paese si rintanarono nelle proprie case, grandi o piccole che fossero, venendone fuori solo alle prime ore del giorno e verso sera, quando strade e cortili si popolavano di piccoli capannelli. Per il resto della giornata i vicoli del paese restavano deserti, arroventati com’erano dalla fiamma agostana che si abbatteva senza requie sugli uomini, le bestie e tutto ciò che stava loro attorno.

Le stanze personali del cantore, poste nel piano alto della casa, erano diventate invivibili. Il sole batteva sul terrazzo e il calore già di notte poco sopportabile, durante le ore del giorno rendeva pericoloso soggiornare in quegli ambienti. Ritirarsi in campagna sarebbe servito a poco, né avrebbe potuto farlo finché l’arciprete non fosse tornato dalla villeggiatura, a meno di non volersi organizzare con un costante via vai dal paese in occasione delle messe principali e delle varie cerimonie religiose.

“Nonostante il caldo” spiegò una sera al servitore che, mosso quasi dalla disperazione per il caldo, aveva provato a riproporre l’idea di ritirarsi a Lo Rizzo “da qui all’Assunta in paese si continuerà a nascere, e quindi a battezzarsi, a sposarsi, ad ammalarsi e a morire. Dovremmo andare avanti e indietro ogni giorno. Non è cosa. Ci ho pensato e ripensato, ma non si può fare. Pensa a dover venire da Lo Rizzo al paese nelle ore più calde della giornata: non sai che è rischioso percorrere lunghi tratti sotto il sole in questa stagione?

Il servo non si era mostrato convinto ma non aveva più osato riproporre la questione. In campagna ci sarebbe andato, ma da solo, da qualche amico o parente nelle lunghe ore in cui il cantore se ne stava in chiesa.

Don Celestino, infatti, aveva preso a passare gran parte delle ore di luce nella parrocchiale, seduto in uno degli altari laterali dell’aula liturgica. Partiva da quello di San Nicola che la mattina, finita la funzione, era quello più in ombra e poi, seguendo il moto del sole, si spostava di cappella in cappella, in una mano il breviario, nell’altra una banderuola con sopra l’effige di san Giuseppe che usava per sventolarsi. Non di rado, vinto dal caldo e sopraffatto dalla lettura, si addormentava pesantemente, finché il servitore, di ritorno dalle sue gite nei campi, non lo svegliava per ricordargli che era il momento di desinare o di andare a sbrigare qualche incombenza.

In una di quelle mattine, nel silenzio assoluto in cui era immersa la chiesa, udì passi leggeri e veloci. Si affacciò dall’altare del Carmelo, dove si era da poco spostato, e vide una piccola donna procedere sicura verso di lui. Giunta che fu a pochi passi, riconobbe la vedova Maria Resta. Il marito, che si chiamava Pietro Chiariace, pur da bracciante, era riuscito a accumulare una decina di orte di terre di proprietà, in parte sue e in parte portate in dote dalla stessa Maria. Una discreta fortuna, insomma.

“Papa, qua siete?” chiese con voce stridula

“Sia lodato Gesù Cristo” la salutò il cantore

“Oggi e sempre” fece la donna e poi, senza alcuna pausa, “Mi voglio confessare” aggiunse

“Va bene. Facciamolo qui che nel confessionale c’è da morire per il caldo”

“Eh” obiettò la vedova “Ma così mi vedete in viso”

“Ma se so già chi siete” protestò il cantore

“O vi mettete nel confessionale o non se ne parla. Ma ricordatevi che se esco di qui e muoio la colpa della dannazione dell’anima mia ricadrà su voi e voi solo”

Non c’era da discutere. Appoggiandosi al bastone, che finalmente aveva preso a portare abitudinariamente, don Celestino trascinò i propri passi fino al confessionale e vi entrò. La vecchia, impaziente, gli andò dietro ed entrato che fu il prete si inginocchiò

In nomine patri et fili et spiritui sancti” esordì

“Amme”

“Avanti, confessate i vostri peccati”

“Non ne tengo peccati” esordì Maria Resta

“Questa è superbia ed è un peccato”

“E va bene, mettetelo nel conto” rispose poco preoccupata “Oltre a questo, però, peccati miei non ne ho. È l’anima di mia figlia che non riposa in pace”

“Non vi capisco Maria, parlate chiaro”

“La mia Giuseppa è morta il venticinque del mese scorso. Aveva trentacinque anni. Che fiore che era. Che fiore”

La donna si mise a singhiozzare. Don Celestino aspettò che si calmasse

“Papa Rocca le diede i conforti religiosi e tutto il resto. Dopo pochi giorni però dalla morte iniziai a sentire durante la notte voci, colpi secchi, rumori di mobili trascinati, di catene”

“Maria” provò ad intervenire il cantore “Magari il dolore…”

“Non sono pazza papa e il dolore non c’entra. All’inizio ho pensato che fosse qualcuno nelle case vicine a muovere mobili a fare rumore, ma le case vicino alla mia sono disabitate, non c’è anima viva. E poi le cose sono peggiorate dopo la tempesta”

“In che senso”

“Nel senso che rumori si sentono di meno. Niente mobili, colpi, catene ma solo lamenti. A volte si sente piangere”

La vecchia smise di parlare.

“Maria” chiamò don Celestino “Maria, proseguite”

La donna non parlava.

Il cantore uscì dal confessionale e la vide ferma, immobile, una statua di cera a fissare il vuoto.

“Maria” le urlò scuotendola con entrambe le mani.

La donna esplose in un pianto disperato, gli occhi si arrossarono e una voce lacerante, catarrosa e inquietante venne fuori dalla sua bocca.

“L’altra notte, papa, non ce l’ho fatta più. La voce piangeva, piangeva, si lamentava. Allora mi sono affacciata alla finestra. Luna non ce n’era quasi e fuori era tutto buio. Allora ho gridato “Giuseppa, Giuseppa che tieni? Perché piangi”

“Bhè” chiese il vecchio prete impressionato

“Niente. La voce è sparita e non l’ho sentita più fino a stanotte. Era l’ora sesta quando il lamento ha ripreso”

La vecchia sembrava ora essersi calmata. Lo sfogo le aveva disteso i nervi. Don Celestino allentò le mani che aveva stretto sulle scapole della donna.

“Tornate nel confessionale” disse lei cogliendo di sorpresa il sacerdote “Tornate che così non vi posso parlare” insistette.

Rassegnato, don Celestino rientrò nel suo forno di legno

“Maria” esordì “Tu dici che tu non sei sconvolta per la morta di Giuseppa, ma non ci credo”

“Papa” interruppe

“No aspetta, fammi finire. Giuseppa è morta in grazia di Dio, peccati sono sicuro non ne avesse, perché era una brava donna e anche se li avesse avuti in punto di morte ha ricevuto tutti i sacramenti”

“E allora quale anima piange e si lamenta? Mio marito? Buonanima”

“Chi ti dice che sia un’anima. Tu hai la testa e il cuore scossi. I rumori che senti possono venire da altre case, possono essere gatti in amore come ce ne sono tanti in questa stagione, può essere il vento che si infiltra dalle finestre, qualche civetta o barbagianni che ha fatto il nido dalle parti di casa tua”

La vecchia taceva

“Maria, parlate” ordinò il cantore “Non mi fate inquietare”

“Non mi convincete, papa. I rumori che sento, le voci e tutto il resto sono di un’anima”

“Facciamo così” mediò il vecchio prete “Se le prossime notti senti ancora delle voci o qualcos’altro che ti impressiona, vieni di nuovo da me, ti benedico la casa e diciamo una messa per Giuseppa e per tuo marito”

“La messa me la dice lo stesso”

“Va bene, va bene. Ora andate e cercate di riposare”

“E l’assoluzione”

“Peccati non ne avete” rise don Celestino “Lo avete detto voi stessa”

“E la superbia? Se non mi assolvete non me ne vado”

“E va bene. Ego te absolvo….” snocciolò accondiscendente

La vedova fece il segno della croce, si sollevò dall’inginocchiato e, atteso il confessore per baciargli la mano, si congedò.

“Arrivederci papa”

“Arrivederci”.

(continua)

Qui i primi due capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

 

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

di Alessio Palumbo

Capitolo II

 

Dormì per tutto il pomeriggio, ma un sonno agitato, frammentato, pieno di immagini confuse, di suoni indistinti. Rivide la smorfia di dolore sul volto del Castriota, nella testa risuonò il rumore degli zoccoli dei cavalli del governatore e la voce tonante di questo rimbombò come se fosse proprio lì, nella sua stanza. Si alzò dal letto solo per urinare e per bere l’acqua oramai calda della brocca. A metà pomeriggio decise di sgranchire un po’ le gambe che sentiva costipate e rigide. Scese dal letto con difficoltà. I muscoli erano contratti e gli facevano male, sicuramente per le corse del mattino. Si lavò velocemente nel bacile e andò nella camera accanto, separata dalla sua da una pesante tenda ingrigita. Sul grande tavolo in legno che suo padre aveva fatto costruire da un falegname di Nardò mezzo secolo prima, il servitore aveva posato un piatto di fichi nerissimi. In un altro piatto delle frise e delle cipolle.

Tastò i frutti dalla cui rossa fenditura sul fondo veniva fuori un intenso odore zuccherino. Ne sbucciò uno e poi velocemente altri tre mentre non aveva ancora finito di ingoiare il primo. Erano delle primizie a cui non riusciva a resistere.

“Eh la gola, la gola don Celestino” mormorò a se stesso

Da una nicchia del muro trasse fuori un piccolo fiasco con del vino. Lo versò e lo bevve sempre restando in piedi. A piano terra sentì passi e voci; si affacciò nella tromba delle scale.

“I fichi sono dei Monticelli o de Lo Rizzo?”

“De Lo Rizzo, papa” rispose il servitore

“Sono buoni”

“Vi porto altro?” fece il vecchio affacciandosi ai piedi della scalinata

“No, no. Vai solo da papa Rocca e digli che non sto in salute e che stasera non celebro”

“Soffrite il caldo? Volete che selli la giumenta e vi accompagni in campagna” propose

“No, no. In campagna andiamo il sedici, dopo l’Assunta. Te l’ho già detto più volte. Vai da papa Rocca, io torno a letto”

“Come volete” rispose deluso il servitore e sparì.

Tornò al tavolo, prese un altro fico, lo sbucciò e trascinando con difficoltà le gambe che sentiva rigide e pesanti, tornò a letto. Poggiò il frutto sul canterano, tolse la tunica che non aveva levato di dosso per tutta la giornata, si stese e finì di mangiare. Finalmente si addormentò e fece un sonno tutto filato fino all’indomani mattina quando la voce del servitore lo svegliò rudemente.

“Papa, papa. Neanche stamattina celebrate?”

“Si, si. Perché urli?” protestò mettendosi a sedere.

Si sentiva meglio. Il sonno lo aveva rinfrancato, le ossa non gli dolevano e sentiva i muscoli rilassati. Scese dal letto, espletò i bisogni corporali, si lavò nella tinozza e prese ad indossare la tunica. Il servitore scese a svuotare il pitale, poi risalì nella camera da letto. Con il lume poggiato al davanzale e lo sguardo rivolto a destra attese silenzioso che il padrone completasse la vestizione.

“Tu mi devi spiegare perché ogni mattina ti metti a guardare dalle parti dei D’Acugna” fece don Celestino quasi con indifferenza

“Io, papa? Io?” rispose risentito il vecchio

“Eh si. Tu” ridacchiò allusivo

“Ma che dite papa”

“Cerchi la tua bella?”

“All’età mia!”

“Neviglia, la cameriera, non ha la tua stessa età?”

“Ha tre anni più di me” rispose d’istinto il paggio

“Eh allora?”

Alla luce fioca potè osservare il viso del vecchio divenire rosso mentre lo sguardo testimoniava chiaramente che il pensiero era andato già oltre. Forse alla vecchia Neviglia che da giovane aveva fatto girare la testa a più d’uno. Chissà, magari ancora sortiva qualche effetto sul suo servitore che, ingobbito e decrepito, ora gli stava di fronte e faceva evidentemente forza a se stesso per non tornare a poggiarsi al davanzale.

“È proprio vero” mormorò il cantore “Est in canitie ridicula Venus

Il vecchio sentì la frase in latino e d’istinto fece il segno della croce

“Andiamo, andiamo” rise il sacerdote “Precedimi”

“Si, papa”.

Scesero lentamente le scale e, usciti che furono dall’archetto che delimitava la bella casa palazziata di don Celestino, furono colti da una ventata terrosa in pieno viso. La nera tunica si agitò violentemente e solo l’istinto, che spinse il cantore a portare immediatamente la mano sulla testa, impedì al tricorno di volarsene.

“O Dio mio” fece don Celestino

“Si, papa. Stanotte si è sollevata una tramontana tremenda” spiegò a voce alta il vecchio per vincere l’urlo del vento “Fuori dal paese non si può stare”

“Non me ne ero reso conto” commentò il prelato piegandosi in avanti e procedendo a fatica. Con il fazzoletto alla bocca e gli occhi serrati, il vecchio sacerdote avanzò scortato dal servitore che, come poteva, cercava di ripararlo dal vento precedendolo.

Per le strade la polvere turbinava e la tramontana ululava selvaggiamente. Le viuzze del quartiere di Santa Caterina erano ingombre di stracci, rami, vetri, embrici, assi divelte. Le poche persiane rimaste aperte sbattevano, mentre raffiche violente serpeggiavano tra i vicoli bui. La piazza era ancora in piena oscurità nonostante l’ora. Una fitta coltre di nubi mascherava la flebile luce del sole all’aurora.

“Sono andato in catalessi stanotte. Non ho sentito nulla” pensò il cantore frastornato dal rumore del vento.

I due vecchi cercarono di accelerare il passo attraversando la piazza e con non poco sforzo raggiunsero la chiesa. Ai piedi della piccola scalinata, contrastato dal vento che ora lo colpiva frontalmente, don Celestino si ritrovò a rimpiangere un bastone da passeggio. Entrarono finalmente in chiesa. L’aula era completamente vuota e buia. Il sole non era ancora spuntato al di sopra delle mura del paese e comunque le nubi avrebbero di sicuro attutito se non annullato la forza della sua luce. Nell’edificio stagnava l’odore della cera delle candele accese per la funzione della sera prima: era l’unica prova del fatto che in quel luogo era passata della vita. Il muggito cupo della borea rimbombava tra le mura.

Senza parlare, appoggiandosi alle pareti di sinistra, raggiunsero con difficoltà la sagrestia e vi entrarono. Le candele già accese permisero loro di tornare nel mondo della luce.

“Sia lodato Gesù Cristo” li accolse don Matteo Rocca

“Oggi e sempre sia lodato” risposero all’unisono, meccanicamente

“Buongiorno papa” aggiunse poi il servitore

“Ci sono novità” chiese invece don Celestino ad alta voce

“Su cosa?” rispose l’arciprete, quasi stupito

“Sul morto di ieri”

“Ah” rispose indifferente “Nessuna. Il corpo se lo sono presi quelli della Camera Baronale ma oggi ce lo ridanno per seppellirlo in chiesa”

“Ma quindi è di Aradeo, non di Galatina”

“Si, si. È originario di San Pietro in Galatina, ma abitava qui da qualche mese con la moglie che si chiama Agata Calò”

“Agata Calò” ripeté il cantore “Non la conosco”

“Nemmeno io” fece l’arciprete di rimando

“E tu?” chiese don Celestino al servitore

“Agata? Si. È la figlia di Felicia Rizzo, che sta a servizio dai D’Acugna. Ma il marito, questo Castriota, non l’ho mai visto. Si saranno sposati da poco e abiteranno in qualche terra dei signori” ipotizzò

Tacquero poi, come riscuotendosi, don Celestino si avvicinò alla grande cassapanca sul fondo della sacrestia, l’aprì, estrasse i paramenti e la richiuse.

“Vi aiuto” fece il servitore avvicinandosi

L’arciprete si congedò.

“Il funerale lo celebriamo a sedicesima ora” disse però prima di uscire, “tanto non fa caldo oggi e non ci sarà molta gente in paese con queste tempesta”

“Come volete” rispose il cantore. Diede un’ultima sistemata al cingolo e, rivolgendosi al servo, ordinò “Andiamo”

Furono di nuovo in chiesa: l’aula era ancora al buio e dai finestroni in alto non penetrava la minima luce. Non c’era nessuno, come si poteva facilmente ipotizzare: il servitore accese ugualmente le due lampade ai lati dell’altare maggiore.

Don Celestino entrò nel presbiterio, ascese i tre gradini dell’altare in pietra leccese decorato con eleganti colonnine e baciò la mensa. Il servitore si segnò, rassegnato a seguire la solita messa da solo.

Il resto della mattinata, in attesa del funerale, don Celestino la trascorse seduto su una seggiola in uno degli altari laterali, quello di san Giuseppe. Perché si stava arrovellando tanto con quel morto? In vita sua non ne aveva visti molti di ammazzati, ma neppure pochi. E allora? Forse era stata quella strana macchia sotto il collo? Che poi, a ben pensare, cosa c’era di strano in una macchia di tinta? Forse allora la concitazione del momento, la corsa, quella posa scomposta di Castriota, addossato al muro dei Francone come un sacco vuoto. Non riusciva a spiegarselo, eppure il pensiero tornava ossessivamente lì, al rione dei Mauri, agli occhi prima afflitti poi vuoti dell’ammazzato.

Passi lenti e leggeri lo distolsero. Sentì sedici rintocchi e vide l’arciprete attraversare lentamente la navata in penombra.

“Sono qui” disse don Celestino, a voce troppo bassa per essere udito

“Don Matteo attendete” urlò e finalmente il vecchio sacerdote si accorse di lui.

Gli fu accanto e insieme raggiunsero l’ingresso della chiesa. Rimasero dentro, mentre fuori l’urlo del vento sembrava aver rafforzato la propria intensità. All’improvviso la porta si spalancò. Due gendarmi entrarono portando su una lettiga il cadavere di Castriota. Dietro di loro una piccola figura, di nero vestita e coperta da un velo ugualmente nero, seppur più consunto, entrò silenziosa. Il cantore la osservò attentamente, mentre l’arciprete iniziava a snocciolare monotonamente le litanie funebri.

La donna, di sicuro Agata Calò, era di una bellezza da lasciare esterrefatto anche un vecchio sacerdote che mai aveva badato alle cose mondane, figurarsi alle soglie della morte. Non aveva mai conosciuto né visto una donna così bella in quei settant’anni che il Padre Eterno gli aveva dato da vivere. Il viso, circondato dal velo del lutto, era abbronzato e liscio. Corpose ciglia nere oscillavano pigramente su occhi di un verde cupo, profondo. Il naso, piccolo e sottile, da statua, attaccava poco sopra le labbra opache. Su quell’ovale perfetto e delicato, due grosse lacrime lasciavano il loro segno scorrendo lentamente.

In nomine patris, et filii et spiritui sancti” chiuse don Matteo Rocca.

Tutti si segnarono. Don Celestino passò l’aspersorio all’arciprete. Tre manate violente sancirono la benedizione del morto e degli astanti.

La donna si inginocchiò e abbracciò il corpo del marito avvolto dal sudario. Senza emettere un suono, un lamento, baciò la fronte con una dolcezza che ci si sarebbe aspettati da una madre verso il proprio figliolo piuttosto che da una moglie verso il marito. Da fuori provennero i rumori della pesante lapide del sepolcro che il sagrestano, aiutato dai due gendarmi, scostava sul sagrato. Rientrati, imbrigliarono il corpo con dei canapi pesanti e sollevato con leggerezza lo portarono fuori. La donna seguì i tre. Don Celestino le andò appresso, mentre il parroco ripercorreva lentamente la navata diretto verso la sagrestia.

Pur stretto tra le vie del paese, il piccolo sagrato era spazzato dal vento, mentre nuvole nere cariche di pioggia roteavano veloci sulle teste degli astanti. Il sacrestano si calò nella sepoltura e da lì diresse le manovre dei due soldati rese più difficili dal vento che faceva ondeggiare e sbattere il sudario del cadavere sospeso in aria come una vela avvolta al proprio albero. Il corpo scese lentamente fino a sparire. Passarono pochi minuti, poi la testa canuta del sacrestano spuntò nuovamente. Don Celestino osservava con attenzione la scena, stando ben attento a mantenersi addossato al portone. Agata, ritta, con le vesti schiacciate sul piccolo corpo dalla forza del vento, gli dava le spalle. A vederla così, dava l’impressione di una statua abbandonata dai suoi portatori. Il vento sembrava non aver potere su di lei, quasi fosse di metallo o marmo.

La lapide raschiò nuovamente lo spiazzo e con rumore cupo chiuse la botola. Immediatamente i due soldati presero la strada del castello baronale, mentre il sagrestano, passando accanto al sacerdote, rientrò in chiesa per il disbrigo delle altre faccende. In quel momento la statua si mosse, ruotò il capo a destra e poi a sinistra. Constata la desolazione che la circondava, si rivolse verso il tempio e qui vide don Celestino. Le lacrime ripresero a scendere una di seguito all’altra. Il cantore le appuntò i propri occhi neri, oramai quasi spenti, sul volto. Agata finalmente oscillò per una raffica più forte delle altre; sembrò quasi cadere tanto che il vecchio sacerdote fece alcuni passi verso di lei allargando le braccia, ma si fermò vedendola recuperare l’equilibrio. La donna accennò allora ad un inchino, girò su se stessa e prese la strada che, costeggiando la chiesa, portava alla porta del paese. (continua)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

di Alessio Palumbo

La storia che vado a raccontare è vera e falsa allo stesso tempo,

come del resto lo sono tante.

Quanto vi sia di reale e quanto sia frutto della fantasia,

chi avrà la pazienza di seguirne la trama

lo scoprirà solo alla fine, carte alla mano.

Per il momento posso solo dire che i fatti si svolsero ad Aradeo

tra il luglio e l’agosto di quasi due secoli e mezzo fa.

Come suol dirsi, correva l’anno 1780

Capitolo I

Oltre le mura la prima luce del giorno rischiarava le campagne più lontane; le stelle erano sparite già da un po’, mentre la luna sembrava volersi attardare ancora. Il caldo era soffocante, l’aria ferma, umida, vischiosa.

Il vecchio servitore, con i gomiti poggiati al parapetto, volse lo sguardo alla propria destra, verso le case dei Vasquez D’Acugna: le finestre erano spalancate, ma dentro era ancora buio.

“I signori dormono” mormorò

“Cosa hai detto?” chiese don Celestino Giuri, cantore della chiesa di San Nicola, appuntando l’ultimo bottone

“Niente papa Celestino. È tardi, stamattina siete più lento del solito”

“Che fretta hai. Tanto anche stamattina la messa la dirò solo per me, per te e qualche vedova insonne”

“Se vi sentisse l’arciprete”

 

Il vecchio cantore rise leggermente e diede due colpi sulla schiena ingobbita del servitore.

“Andiamo” disse “sono pronto”.

In quel momento delle urla squarciarono il silenzio che ancora avvolgeva il quartiere. Un litigio, poi altre urla prolungate.

“Che succede?” chiese don Celestino al vecchio che nel frattempo era tornato alla finestra

“Non vedo nulla”

“Scendiamo, presto” ordinò il sacerdote “Fammi strada con il lume”

“Ma…” provò ad obiettare il vecchio

“Sbrigati”

Scesero lungo la scala ripida con la velocità che l’età consentiva loro.

“Piano papa, piano”

“Ti ho detto di correre”

Sull’uscio svoltarono a destra e, al lume della lampada ad olio, dopo una decina di passi presero la strada a sinistra, verso la piazza. Percorsero pochi metri e furono nel vicinato dei Mauri. Addossato alla porta della bottega da ciabattino che era stata di Giacomo Francone, videro un corpo riverso.

Don Celestino strappò la fiamma di mano al servitore e si avvicinò all’uomo. Alle sue spalle sentiva le prime voci delle donne richiamate dalle urla.

Il cantore si inginocchiò. L’uomo respirava a fatica. Con la debole luce della lampada vide la smorfia di dolore sul viso dell’uomo. La camicia aperta era imbrattata dal sangue che veniva fuori copioso da uno squarcio sotto il cuore che l’uomo cercava inutilmente di tamponare con le mani.

“Non ti conosco” gli disse come prima cosa il prelato

“Sono Alfonso Castriota, di San Pietro in Galatina” rispose a voce bassa

“Chi è stato” incalzò

“Miche… Michele.. Le..Letia” provò a scandire, ma la voce era flebile e il respiro si strozzò in gola, soffocato da un fiotto di sangue che espulse violentemente tossendo addosso al sacerdote. Don Celestino non si scompose. Troppi ne aveva visti di malati e di morti per avere disgusto degli umori umani.

“Di Galatina anche lui?” chiese, poiché quel nome non gli ricordava nessuno

Castriota si limitò a scuotere la testa. Aprì e chiuse la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Il prete capì che la fine era vicina.

“Ti penti dei tuoi peccati?” chiese

L’uomo fece cenno di sì col capo, poi una sorta di ruggito sembrò levarsi dal suo interno, scuotendo tutto il corpo. Cercò di trattenerlo, stringendo i denti che spiccarono con il loro candore tra la barba nera e poi tacque. Alle proprie spalle il cantore sentì rumoreggiare. Segnò l’uomo sulla fronte, poi alzò la destra al cielo e lo benedisse. Le donne si segnarono e tacquero.

Nell’abbassare la mano notò sul collo uno strano segno. La luce del sole ora cominciava a rischiarare la strada. Ruotò quindi il viso di Alfonso Castriota per vedere meglio e sul collo, proprio dove terminava la barba e cominciava la pelle nuda, notò una grossa macchia di un blu intenso. Un blu brillante e acceso, come quello di una pietra preziosa o di un tessuto.

“Vado a chiamare l’arciprete e a prendere gli oli santi” disse al vecchio servitore sollevandosi “Tu aspetta qui e non farlo toccare da nessuno”.

Si fece largo tra le donne.

“Papa Celestino, chi è?”

“Papa Celestino, che ha detto? Non è di Aradeo?”

Le ignorò e si diresse verso la piazza. Altra gente accorreva in direzione opposta alla sua. Nonostante una certa dolenza nei muscoli, dovuta allo strapazzo della corsa e alla concitazione del momento, cercò di accelerare il passo. Attraversò lo spiazzo, costeggiò la cappella del Crocifisso senza neppure segnarsi, quindi tra i bassi caseggiati che delimitavano le sporche vie del paese giunse ai piedi dei tre scalini che introducevano alla chiesa di San Nicola.

“Devo decidermi ad usare un bastone” pensò.

Colmò il piccolo dislivello e, spinto il portone di legno oramai consunto dall’umidità, fu nel tempio.

 

Nell’unica navata, i raggi del sole nascente si intrecciavano sul pavimento chiazzandolo di luce. In piedi, quasi addossate alla balaustra, quattro donne attendevano l’inizio della messa.

“Papa Celestino, oggi non celebrate?” chiese una di queste, avvedendosi di lui che procedeva spedito lungo gli altari di sinistra. Il cantore non rispose ed imboccò la porta della sagrestia.

Nell’antro umido, dalle pareti chiazzate da enormi macchie verdastre che sembravano trasudare acqua, puntò sicuro ad una piccola cassa di legno rivestita. La scoperchiò e prese una chiave.

“Sia lodato Gesù Cristo”

La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa. Lasciò cadere di scatto il coperchio che chiuse rumorosamente la cassetta.

“Proprio voi cercavo” rispose riprendendosi “Ho preso la chiave degli oli santi”

La voce che lo aveva salutato venne fuori dalla penombra. L’arciprete Matteo Rocca, di pochi anni più giovane, gli si avvicinò lentamente. La vecchiaia era stata inclemente con lui. Debole di gambe, ingobbito prima del tempo e pressochè cieco, don Matteo Rocca gli andò incontro e, data la sordità incipiente, ripetè:

“Sia lodato Gesù Cristo”

“Oggi e sempre sia lodato” rispose don Celestino, alzando la voce “Sono venuto a prendere gli oli santi dall’altare”

“Chi sta morendo?”

“Un certo Alfonso Castriota. L’ho trovato poco fa dalle parti dei Mauri, coperto di sangue”

“ Oh signore mio Dio” esclamò l’arciprete segnandosi “Dobbiamo avvisare l’autorità”

“Prima dovremmo portargli il conforto dei sacramenti” obiettò il cantore

“Si, si. Allora portatelo voi, io vado ad avvisare il governatore. Questa è una faccenda degli Olivetani. Si, si” continuò don Matteo seguendo il filo di un discorso che si dipanava rapido nella sua mente e che escludeva qualsiasi interlocutore, men che meno don Celestino che ne fu rinfrancato “È di competenza della camera baronale. Le cause criminali sono loro, anche se… Forse dovrei dirlo al sindaco prima. Ma poi se il governatore viene a sapere che prima di lui ho avvisato il sindaco…No, no. Prima il Governatore, prima gli Olivetani. Anzi, per sicurezza… Biagio!” urlò, con voce vigorosa e per questo inadatta alle sue membra fragili “Biagio”.

Un giovane si presentò di corsa proprio mentre don Celestino scostava la tenda della sagrestia per andare a prelevare gli oli custoditi sull’altare.

“Biagio, vai a chiamare don Ippazio Greco. Digli di venire a celebrare messa. Poi recati dal sindaco e avvisalo da parte mia che hanno ammazzato un uomo ai Mauri”

“Si papa” fece il giovane senza porre altre domande e corse via.

Don Celestino intanto aprì la piccola custodia foderata di tessuto bianco posta sull’altare, prese le ampolle degli oli e li depose sulla mensa. Chiuse con cura la teca mentre le donne osservavano curiose i suoi movimenti.

“Papa, chi sta morendo?” bisbigliò la donna di prima che aveva riconosciuto le ampolle

“Castriota” rispose don Celestino a voce ugualmente bassa, quasi quella notizia non fosse adatta al luogo sacro

“Castriota? Non è di qua. Non ci sono Castriota ad Aradeo” sentenzio una delle quattro, piccola e tozza come una donnola

“Di Galatina”

“Ah” fecero le altre

“Ma la messa la celebrate?”

“Io no, ma chiedete all’arciprete” rispose riprendendo la propria strada. Attraversò la corta navata e uscì sul sagrato. Prese la stretta via che portava alla piazza e sboccatovi non potè non notare che il sole era ora alto sopra le mura del paese.

“Sarà un’altra giornata afosa” pensò attraversando la piazza per poi reimmettersi nella via dei Mauri “Meglio sbrigarsi e rientrare a casa quanto prima”.

Le voci della gente accorsa a curiosare lo distolsero dai pensieri. Attraversato lo spesso muro di folla, si ritrovò ai piedi del cadavere che ora, alla luce piena del sole, mostrava il volto con incisa un’espressione di dolore. Il viso era giovane, la barba e i capelli nerissimi. Il sangue imbrattava completamente la camicia e la parte alta dei pantaloni. Si inginocchiò evitando di pestare la chiazza nera, sfumata di rosso lungo i margini, che si era formata attorno al corpo. Aprì le ampolle degli oli santi, segnò il cadavere e iniziò a sciorinare le solite litanie. Gli astanti si segnarono e mugugnarono qualche prece. Quando il cantore si sollevò, aiutato dal servitore, tutti si segnarono nuovamente.

In piedi osservò attentamente la vittima e rivide quella chiazza. Netta, grumosa, all’attaccatura della testa sul collo

“Che strano” mormorò.

Intanto, dalle sue spalle, oltre la folla, venne un sordo rumore di zoccoli e poi un ordine, lanciato seccamente: “Largo”

Due gendarmi ed il governatore fecero la loro comparsa svettando dall’alto delle cavalcature. Evidentemente qualcuno li aveva avvisati. Di lì a pochi minuti spuntò a piedi, affaticata, la trista sagoma dell’arciprete.

“Il governatore”, “Papa Rocca”, “I Gendarmi” riportavano quelli più vicini alla scena a chi stava loro dietro.

Il Governatore smontò da cavallo, attese il vecchio arciprete e insieme andarono verso don Celestino.

“Lo avete trovato voi?” chiese senza salutare e rivolgendosi al cantore

“Si, stamattina”

“Sapete chi sia?” domandò il rappresentante dei baroni

“Dovrebbe essere Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina”

“Come vi dicevo” intervenne ossequioso don Matteo Rocca. Il governatore fece conto di non aver sentito

“Sapete altro?”

“Dovrebbe essere stato un certo Michele Lezia o qualcosa del genere. Purtroppo quando sono arrivato era quasi spirato e non era chiaro quel che diceva”

“Lo conoscete?”

“Michele Letia?”

“E chi altro sennò?” ribatté nervoso

“No” rispose pacatamente don Celestino

“E voi?” chiese, rivolgendosi all’altro prelato

“No eccellenza”

“Chi di voi conosce Michele Lezia?” urlò allora il governatore alla folla

Il nome passò di bocca in bocca, ma nessuno si fece avanti.

“Nessuno lo conosce? Va bene” commentò indispettito.

“Voi caricate il corpo e portatelo nella cappella di San Trifone a palazzo” ordinò ai due gendarmi che erano rimasti in sella.

Con gesto agile rimontò sul destriero e strattonando con forza le briglie lo spinse a ruotare. Colpiti i fianchi dell’animale andò via per la strada dalla quale era venuto.

“Andiamo” disse don Celestino al servitore e, facendosi largo tra la folla che ora osservava le manovre dei soldati, tornò verso casa.

Giunto ai piedi della scala che neanche un’ora prima aveva disceso con furia, congedò il paggio.

“Salgo a riposare un poco. Torna stasera”

“Vengo a portarle da mangiare tra qualche ora”

“No, no. Desinerò stasera. Ora voglio solo riposare” rispose. Afferrato il passamano di legno scuro che fiancheggiava la ripida scala, salì lentamente fino al secondo piano.

Il servitore, rimasto per strada, vide la finestra della camera da letto chiudersi lentamente e le tende di color verde oliva stendersi sulle lastre di vetro. Volse lo sguardo verso le case dei D’Acugna: donna Giovanna Vasquez d’Acugna, dal mignano del palazzo, osservava con aria annoiata il via vai di persone lungo la via.

Il delfino e la mezzaluna, n°8. Editoriale

di Alessio Palumbo – direttore

 

Cara lettrice, caro lettore,

come nel 2018, la Fondazione Terra d’Otranto ha deciso di inaugurare la serie di pubblicazioni previste per quest’anno con la rivista Il Delfino e la Mezzaluna, un periodico nato, oramai nel lontano 2012, con la stessa Fondazione e con essa cresciuto. La sua longevità, pur nell’avvicendarsi delle persone, pur con piccole e grandi modifiche formali e la sua diffusione nelle principali biblioteche salentine e nazionali, dimostra quanto questa terra abbia da raccontare ed offrire a chi, come noi (e come voi lettori) voglia conoscerla. Una poliedricità di argomenti, di tematiche, di figure che rappresentano il principale stimolo a continuare, pur di fronte alle immancabili difficoltà pratiche legate all’attività editoriale. Ma diamo il bando alle premesse ed iniziamo ad inoltrarci nel nuovo numero: l’ottavo della serie.

I collaboratori che gli hanno dato vita ci consentiranno, ancora una volta, di muoverci nel tempo e nello spazio, pur nei confini dell’antica Terra d’Otranto, visitando luoghi più o meno noti, scoprendo i personaggi (reali, mitologici, di pura fantasia, viventi o vissuti) che li hanno animati e li animano; ci permetteranno di ammirare le «tracce» lasciate dal loro passaggio e di scoprire testimonianze più o meno dirette e più o meno conosciute sulla loro esistenza. In questo numero, più che in altri, il piano del reale e dell’irreale, del concreto e del fantastico si intersecheranno e compenetreranno. Ma non vogliamo anticipare altro, lasciando a voi il piacere (si spera) di questa lettura.

Nel preparare questa edizione, il nostro fine è stato quello di portare alla luce degli studi che, pur nell’estremo rigore scientifico che li contraddistingue, non siano solo degli strumenti per conoscere una specifica realtà, ma anche degli stimoli per andare oltre, per interrogarsi, per guardare con occhi diversi il Salento. Questi saggi hanno, nelle nostre intenzioni, lo stesso ruolo dato alle «parole» da Cipriano Algor e dalla figlia Marta, i due protagonisti del romanzo La Caverna. Così disquisivano i due vasai, frutto della penna del nobel portoghese Josè Saramago:

“le parole sono soltanto delle pietre messe di traverso nella corrente di un fiume, sono lì solo per farci arrivare all’altra sponda, quella che conta è l’altra sponda, A meno che, A meno che, cosa, A meno che quei fiumi non abbiano due sole sponde, ma tante, che ogni persona che legge sia, essa stessa, la propria sponda, e che sia sua, e soltanto sua, la sponda a cui dovrà arrivare”[1].

I saggi del presente numero siano dunque per voi delle rocce poste nel fiume per scoprire un’altra sponda e uno spunto per esplorarne altre ancora. Personalmente, mi sono limitato a disporre le pietre, grandi e piccole, nella maniera più comoda possibile per il tragitto. Tutto il resto è opera, ovviamente, dei saggisti che, rimanendo nella metafora, hanno modellato questi massi di parole e li hanno offerti a noi in maniera gratuita e con eccezionale disponibilità; del presidente Marcello Gaballo, instancabile promotore e fautore delle molteplici attività della Fondazione; di Maria Costanza Baglivo, Elena Serio e, da quest’anno, del giovane Eider Arley Baglivo Castriota, che hanno fornito l’indispensabile consulenza linguistica; dei fotografi Maurizio Biasco, Rocco Castrignanò e Lino Rosponi che hanno offerto i propri scatti, anch’essi in maniera gratuita; di tutte le persone che con consigli, annotazioni o magari proponendo degli studi che per svariate ragioni non han potuto trovare spazio in queste pagine, hanno permesso ancora una volta la nascita di un nuovo numero. A tutti loro un grazie sincero.

Non mi resta dunque, cara lettrice e caro lettore, che darvi il mio «benvenuti», se per la prima volta vi accingerete a sfogliare queste pagine, o il «bentornati» se già in passato avete avuto modo di leggere Il Delfino e la Mezzaluna e, proprio per questo, avete deciso di farlo nuovamente.

Buona lettura!

 

[1] J. Saramago, La Caverna, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 76-77.

Su un’antica epigrafe aradeina dedicata a san Nicola

di Alessio Palumbo

 

Sulla storia (o non storia, per alcuni versi) di Aradeo in molti hanno scritto. In particolare, sul ruolo di primo piano avuto da questa comunità in età medievale e (seppur in maniera limitata) moderna all’interno del «circuito» culturale e religioso greco di Terra d’Otranto restano insuperati gli studi di A. Jacob e P. Hoffmann. Quest’ultimo, nel saggio posto in chiusura dell’approfondito excursus storico fatto da Gino Pisanò sulla storia di Aradeo[1], riteneva il parlare della cultura bizantina in questo paese

“un compito stimolante ma al tempo stesso difficile, anzi disperato. Allo stato presente delle nostre conoscenze, ci imbattiamo, subito, nel silenzio delle fonti documentarie, archeologiche ed epigrafiche. Nessun affresco medievale come a Soleto o in tanti altri luoghi del Salento. Nessuna iscrizione”[2].

Tra le epigrafi oramai scomparse, una, come riportato già in un’immagine pubblicata dallo stesso Pisanò nel medesimo volume, era stata trascritta dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice nel corso della visita pastorale del 1719[3]. In quell’occasione, il presule neretino, giunto ad Aradeo e sceso di fronte alla porta urbica, era stato accolto dal clero e da numerosa popolazione, mentre le campane di tutte le chiese suonavano a festa. Da qui, in processione e con canti, il Sanfelice, “sub pallio serico rubri coloris”[4] sorretto con quattro aste dagli esponenti della nobilissima famiglia D’Acugna, era giunto nei pressi della chiesa parrocchiale dedicata a san Nicola da Myra.

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Prima pagina della Visita pastorale di mons. Antonio Sanfelice (1719) (ph A. Palumbo)

 

Dopo le rituali cerimonie, come di consueto, aveva avuto quindi inizio una sorta di ricognizione dell’edificio sacro. Nel caso della parrocchia aradeina, nonostante le non poche lodi espresse, il presule aveva ordinato l’esecuzione di manutenzioni soprattutto nel tetto e nelle finestre (ovviamente a spese dell’Università che deteneva il patronato sul tempio).

 Visitati dunque anche i sepolcri dei defunti, il coro, l’organo e la torre campanaria, mons. Antonio Sanfelice aveva annotato, quasi a titolo di curiosità storica, che la chiesa di Aradeo in passato era stata retta da clero di rito greco[5]. Subito dopo questo inciso, aveva ripreso la descrizione del tempio a partire dalle porte, la maggiore delle quali era rivolta ad occidente, mentre la minore a sud. Al di sopra di quest’ultima, il porporato aveva notato una vetustissima immagine di S. Nicola di Myra Vescovo, avente nella mano sinistra un libro contenente caratteri greci elegantemente scolpiti nella pietra.

Retro della chiesa di San Nicola ad Aradeo nei giorni della demolizione, (in alto a sinistra è possibile notare un’immagine del santo che sembra reggere con la mano sinistra un libro, così come descritto nella visita pastorale del Sanfelice) (tratto da www.arataion.it)

 

Sempre sulla soglia della medesima porta, aveva infine letto un’ulteriore iscrizione scolpita.

Ecco come appaiono ancora oggi nelle carte dell’Archivio Diocesano di Nardò le trascrizioni di queste epigrafi:

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Trascrizione delle epigrafi presenti sulla porta minore della chiesa parrocchiale di Aradeo (1719) (ph A. Palumbo)

 

Archivio Diocesano di Nardò, Visite Pastorali, Decreta, Trascrizione delle epigrafi presenti sulla porta minore della chiesa parrocchiale di Aradeo (1719) (ph A. Palumbo) (nota 6)

 

Cosa indicavano tali residue testimonianze del passato greco della comunità aradeina? Né la visita pastorale del Sanfelice, né studiosi di epoche successive (almeno in base alle mie conoscenze) hanno mai proposto una traduzione del testo. Non avendo io una formazione utile a cimentarmi nell’impresa, ho quindi contattato docenti ed esperti che, in non pochi casi, hanno sottolineato le difficoltà di traduzione a causa delle evidenti lacune e del particolare greco utilizzato. Grazie ai consigli di alcuni di essi ed una sorta di passaparola creatosi, sono infine giunto a contattare don Michele Giannone il quale è riuscito a svelare l’arcano di un’iscrizione che, fino a pochi giorni fa, sembrava un rompicapo intraducibile.

Dopo attente ricerche, Giannone, professore presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce, ha individuato in un’antica preghiera al santo di Myra l’origine dell’epigrafe. Il testo, pur con errori di trascrizione che ne hanno reso oltremodo complessa la decifrazione, è tratto infatti dal grande vespro di san Nicola della liturgia ortodossa.

La forma corretta dell’iscrizione scolpita sul libro (ΚΑΝΩΝΑ ΤΗИΕΩϹ Κ ДΚO ΠIΟAO), è dunque ΚΑΝΟΝΑ ΠΙϹΤΕΩϹ ΚΑΙ ΕΙΚΟΝΑ ΠΡΑΟΤΗΤΟϹ[7], da tradurre con “Regola di fede e immagine di mitezza”, ossia un appellativo attribuito a san Nicola presente nelle più antiche preghiere ortodosse. Come evidenziato da Giannone, nell’epigrafe si nota la presenza di Ω al posto di Ο nella parola ΚΑΝΟΝΑ; la confusione di ΠΙ con ΤΗ e di ϹΤ con una lettera inesistente nel greco nella parola ΠΙϹΤΕΩϹ; la congiunzione ΚΑΙ abbreviata con Κ; la trascrizione di ΕΙ con un segno inesistente nel greco nella parola ΕΙΚΟΝΑ di cui manca il ΝΑ finale; la parola ΠΡΑΟΤΗΤΟϹ indicata attraverso Π iniziale e una serie confusa di vocali.

Passando alla frase riportata sulla soglia (NI…ΟΙϹ ΠΑΡΟΙΚΗϹΑϹ ΑΙϹΘΗΤΩ /… ΟΝ ΑΛΗΘΩϹ ΑΝΕΑΕΙΧΘΗϹ Μ…) la sua forma corretta è ΜΥΡΟΙϹ ΠΑΡΟΙΚΗϹΑϹ ΑΙϹΘΗΤΩϹ ΜΥΡΟΝ ΑΛΗΘΩϹ ΑΝΕΔΕΙΧΘΗϹ ΜΥΡΩΙ ΧΡΙϹΘΕΙϹ ΝΟΗΤΩΙ ΑΓΙΕ ΝΙΚΟΛΑΕ[8], da tradurre con “Dimorando sensibilmente a Mira, davvero apparisti olio profumato, unto con profumato olio spirituale, o san Nicola”. È interessante notare, come sottolineato sempre da Giannone, il gioco di parole presente nell’originale greco tra Mira, la città di cui san Nicola fu vescovo, e il termine myron che ne indica la virtù e la santità.

Nelle precedenti visite pastorali non si ha traccia di questa epigrafe, che pur rimanda, per contenuti e lessico, ad un periodo storico in cui in Aradeo vigeva il rito greco (e quindi sicuramente antecedente al XVI-XVII secolo[9]).

Dopo la prima visita di mons. Ludovico De Pennis, datata 1452, così ricca di nomi, toponimi, libri e oggetti liturgici tipici di una comunità di rito greco[10], le tracce di questo mondo erano andate gradualmente a scomparire, salvo poi riemergere inaspettatamente, quasi come «notarella» intellettuale, in una nuova relazione episcopale di inizio Settecento.

Cosa concludere da tutto ciò? In assenza (ad oggi) di notizie certe per una sua datazione, l’epigrafe si pone da un lato come un ulteriore piccolo tassello in una ricerca storica particolarmente complessa a causa della povertà delle fonti e della scomparsa di quasi tutte le tracce materiali del passato; dall’altro conferma l’antico legame che unisce san Nicola ad Aradeo pur nel mutarsi dei tempi, dei riti, delle liturgie e delle stesse sedi destinate al suo culto.

 

[1] P. Hoffmann, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di A. De Bernart, III, v. 3, Congedo, Galatina 1989, pp. 65-88; G. Pisanò, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, ivi, pp. 17 – 64.

[2] P. Hoffmann, Aspetti della cultura bizantina, cit., p. 65.

[3] Alla medesima epigrafe si fa riferimento già nella nota 36 del saggio Gli studi storici in Terra d’Otranto comparso nel 1880 su «Archivio Storico Italiano», deprecandone la scomparsa assieme alle altre testimonianze del passato greco del paesino: “Nella Chiesa Madre di Aradeo era (1718) un S. Nicola, con un libro in mano, avente l’iscrizione Κανω I vατηνῆ I ως I x…xοιοαο. E sur una porta di essa era il seguente frammento scolpito sulla pietra: Nι…οις Παροιxηςασαις τη τω ……οναληθως ανεαεχοης μ… Vedi Acta S. Visitat. Nerit. Dioec. , cit. – Esiste tuttavia la Cappella dello Spirito Santo con affreschi greci , tra i quali era la Trinità: nel 1850 scomparve tutto che vi era di antico di costruzione e di pitture sotto le solite restaurazioni (!). Vi è la Cappella di S. Nicola di Mira (Odepor.,cit.)” (Gli studi storici in Terra d’Otranto, in «Archivio Storico Italiano», tomo VI, quarta serie, 1880, p. 114). Ringrazio per questa segnalazione Sabrina Landriscina.

[4] “Sotto un pallio di seta di colore rosso” (Archivio Diocesano Nardò (=ADN), Visite pastorali mons. Sanfelice, c. 111r).

[5] “Olim à Greci Ritus Presbiteris recta fuit” (Ibidem, c. 113r)

[6] Ringrazio don Giuliano Santantonio per la possibilità accordata.

[7] La traslitterazione secondo la pronuncia erasmiana o restituta (quella in uso nei licei) è “kanona pisteōs kai eikona praotētos”; la traslitterazione secondo la pronuncia bizantina (ancora usata nella liturgia ortodossa) è “kanona pistis ke ikona praotitos”

[8] La traslitterazione secondo la pronuncia erasmiana è: “myrois paroikēsas aisthētōs myron alēthōs anedeichthēs myrō[i] christheis noētō[i] agie nikolae”; la traslitterazione secondo quella bizantina invece è “miris parikisas esthitōs miron alithōs anedichthis mirō[i] christhis noitō[i] agie nikolae

[9] Sul tema si veda il primo studio organico sull’argomento scritto da Mario Cassoni negli anni Trenta del Novecento e pubblicato a puntate su «Rinascenza Salentina» col titolo Il tramonto del rito greco in Terra d’Otranto (disponibile on line su www.emerotecadigitalesalentina.it).

[10] B. Vetere, Visite pastorali in diocesi di Nardò (1452-1501), Congedo, Galatina 1998.

I tristi fatti del 1647 a Nardò esposti da Alessio Palumbo a Santa Maria al Bagno

Questa sera, alle ore 21, presso Villa degli Angeli a Santa Maria al Bagno, lo storico Alessio Palumbo rievocherà in una conferenza le tristi vicende del1547 a Nardò (ingresso libero). 

“Agosto 1647. Le teste di sei chierici neretini sono macabramente esposte, come lugubre monito, sul sedile cittadino, accanto a quelle di due cittadini che hanno subito la medesima sorte. A pochi metri da lì, il corpo dell’ottantasettenne barone Sambiasi, appeso per un piede, è lasciato penzolare esanime dalla forca. È l’apice, non certo la conclusione, di una rivolta che per giorni ha infiammato le strade di Nardò, antica città della Terra d’Otranto, e ha spinto i neretini a serrare le porte urbiche, lottando disperatamente per difendere i propri diritti e le proprie libertà dai soprusi perpetrati dall’antico feudatario. Un evento eccezionale ma non unico, né tantomeno isolato.

La rivolta neretina è infatti contemporanea a tante altre che squassano, alla fine della prima metà del Seicento, Napoli, il sud Italia ed altri luoghi della cristianità. Nell’estate del 1647 in tutto il meridione serpeggia lo spirito dell’insurrezione: l’esempio della capitale spinge le città, i borghi e le campagne del viceregno ad insorgere. Contro le gabelle, contro la fame, contro i nuovi affaristi venuti da fuori, contro le angherie e le vessazioni dei propri signori feudali: il popolo, spesso spalleggiato (a volte manovrato) dal clero e dai nobili, si ribella. Non ci troviamo di fronte a scoppi di collera occasionali o contingenti, bensì a rivolte figlie del secolo e dei numerosi mali che lo tormentano.

Anche nei fatti di Nardò ritroviamo, seppur in scala ridotta, alcune delle principali ragioni che hanno indotto numerosi storici a definire il XVII secolo come l’età della crisi: il feudalesimo rampante, pronto a recuperare in maniera violenta un ruolo di prestigio ed una potenza che la crisi economica e le nuove dinamiche sociali hanno messo in serio pericolo; la povertà che attanaglia i popoli dell’area mediterranea, oramai lontana dai nuovi traffici oceanici; il fallimento della Spagna, gigante dai piedi d’argilla che, piegato su se stesso, trascina nel declino i suoi stati satellite in un vortice di corruzione, fiscalismo, squilibri sociali, carestie; i costi, non solo monetari, delle numerose guerre che insanguinano l’Europa.

Questi ed altri fattori, con diversa incidenza, interagiscono in modo alchemico creando, a Nardò come in altri luoghi della tormentata Europa seicentesca, una situazione letteralmente esplosiva. I moti di cui andremo a parlare deflagrano in un continente reduce da trent’anni di lotte intestine; in un regno, quello di Napoli, che sembra oramai incapace di slegarsi dal mesto tramonto della Spagna; in una provincia, la Terra d’Otranto, povera e lontana dal cuore dell’impero, ma allo stesso tempo ambita da vecchi e nuovi conquistatori”.

(dall’Introduzione di Alessio Palumbo a Nardò Rivoluzionaria)

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna

Filippo Nestola. Da Copertino a Vienna, ora in Ungheria… per amore della danza

di Alessio Palumbo

 

La biografia riportata sul tuo profilo facebook ci dice che sei giovanissimo (1998), che sei nato a Copertino, hai frequentato l’I.I.S.S. Moccia di Nardò e che ora vivi a Vienna. Puoi dirci qualcosa in più sulla tua vita e soprattutto sulla tua grande passione per la danza?

Mi sono avvicinato al mondo della danza a undici anni seguendo le orme di mio fratello presso Scena Muta di Ivan Raganato a Copertino. All’inizio del secondo anno di corso, il maestro Toni Candeloro, al termine di una lezione, mi ha offerto una borsa di studio per l’anno 2010-2011 presso il centro internazionale di danza Toni Candeloro a Castromediano. Da lì mi sono appassionato sempre di più e sono rimasto per tre anni in questa scuola.

Nel 2013 mi sono quindi trasferito presso la scuola di danza Art Studio Ballet di Daniela Zlavog a Lecce e vi sono rimasto per altri due anni. Nel frattempo ho preso parte a diversi concorsi nazionali UISP e FID, arrivando sul podio e vincendo diverse borse di studio per stage con la maestra Alessandra Celentano, il maestro Steve La Chance e il maestro Luciano Cannito.

Nel luglio 2015 la mia insegnate Daniela Zlavog mi ha infine proposto di partecipare ad uno stage internazionale presso l’opera di Cluj-Napoca in Romania: un’occasione che inaspettatamente mi ha rivoluzionato la vita.

La tua prima importante esperienza fuori dall’Italia

Esatto. Durante lo stage, durato due settimane, ho lavorato con diversi maestri di fama internazionale tra cui Boris Nebyla, Vasile Solomon, Shoko Nejime, Gianpiero Tiranzoni. Al termine dello spettacolo di fine corso, la direttrice dell’Accademia dell’Opera di Vienna, Simona Noja, mi ha proposto di entrare direttamente presso l’accademia di Vienna senza alcuna audizione. Da lì si è aperto un mondo a me completamente sconosciuto.

 

Non dev’essere stato semplice passare da una realtà di provincia quale la nostra a quella viennese. Quali sono state le tappe principali, i problemi con i quali ti sei scontrato, le motivazioni che ti hanno spinto ad andare sempre avanti?

A settembre del 2015, accompagnato da mio padre, mi sono catapultato in una realtà completamente diversa dalla nostra. Sono passato dal mio piccolo paese di provincia, Copertino, ad un’importante capitale europea. Nonostante la gioia immensa, mi sono sin da subito confrontato con alcuni problemi, primo fra tutti la lingua tedesca a me completamente sconosciuta (e odiosa). Fortunatamente ho trovato da un lato il supporto di altri compagni di corso italiani, dall’altro la presenza costante e preziosa della direttrice Noja, sempre disponibile con me.

Durante il primo anno ho dovuto quindi lavorare duro per riuscire ad allinearmi con il resto della classe e per poter superare diversi esami di ammissione alla classe successiva, ma grazie alla mia caparbietà ci sono riuscito. Oltre ai problemi inerenti allo studio ho dovuto poi affrontare anche la lontananza dalla mia famiglia e dal mio Salento, ritrovandomi da solo in una stanza di uno studentato, provvedendo a tutto, dalla cucina alle faccende domestiche. Dopo una serie di sacrifici, compresa la rinuncia alle vacanze estive per lavorare in vari ristoranti pur di aiutare anche economicamente la mia famiglia nel costoso mantenimento a Vienna, finalmente sono arrivato alla fine del percorso accademico. Ovviamente non sono mancate importanti soddisfazioni, come ad esempio la partecipazione al ballo delle debuttanti, dove mi sono esibito in una coreografia di classico assieme alla compagnia.

Venendo all’oggi, a maggio mi diplomerò e con mia grande gioia ho già superato l’audizione presso la compagnia Miskolci Ballet International Theatre di Miskolc in Ungheria. Qui, dal venti agosto, inizierò la mia esperienza lavorativa.

 

Pur avendo già raggiunto degli importanti traguardi, la tua giovane età ti spingerà sicuramente a guardare oltre, al futuro? Dove immagini i prossimi anni? Sempre fuori dai nostri confini o in Italia?

Il mio sogno sarebbe quello di tornare a lavorare in Italia, ma al momento sono consapevole di dover arricchirmi all’estero sperando che in Italia cambi qualcosa e che venga valorizzata un po’ di più l’arte in ogni sua forma.

Allora non ci resta che augurarti buon lavoro e buona fortuna

Grazie. Prima di salutarci vorrei rivolgere un ringraziamento speciale alla mia famiglia che mi ha supportato in questi anni, che non mi ha fatto mancare niente e non mi ha fatto mai pesare la lontananza. Se sono arrivato fin qui è grazie ai miei familiari: spero di renderli sempre fieri e soddisfatti di me. Ringrazio infine la Fondazione Terra d’Otranto nella persona del presidente dottor Marcello Gaballo e lei personalmente per l’interesse rivolto alla mia esperienza. Spero che questa possa essere di stimolo per tutti quei ragazzi che vogliono seguire la propria passione, affinché non mollino mai di fronte alle innumerevoli difficoltà.

Filippo con la sua famiglia

Antonio Mingolla, tra sguardi, corporeità e leggerezza

Antonio Mingolla, Equilibrio

 

di Alessio Palumbo

 

Trattandosi della prima intervista per il sito della Fondazione Terra d’Otranto, le chiediamo di presentarsi ai nostri lettori. Ci dia qualche nota biografica, ma soprattutto ci parli del suo percorso artistico.

Sono nato a Brindisi il 10 marzo 1983 ed ho studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce; appassionato cultore della nostra storia, sono stato co-fondatore del Gruppo Archeo Brindisi, collaborando a numerosi progetti per lo studio e la salvaguardia del patrimonio storico ed artistico della mia città e del suo territorio.

Nonostante la giovane età, ho già nel mio pregresso numerose mostre personali e diverse collettive d’arte. Oggi vivo in Veneto e insegno discipline pittoriche in un istituto superiore.

Per ciò che attiene il mio percorso artistico, in un primo periodo ho realizzato soprattutto architetture dipinte e paesaggi urbani tutti molto dettagliati. Tanto rigore e precisione geometrica, che sembrava sottintendere tranquillità, poneva in risalto l’inconsapevole assenza della figura umana.

Durante il soggiorno a Venezia, bellissima città che mi ha fortemente segnato nel carattere e nelle vedute personali, ho avviato una sorta di seconda fase: ho rivisto e maturato diverse tecniche, concentrandomi sulle figure e particolarmente sui volti e sul fisico, sforzandomi di cogliere ed evidenziare la differenza tra la corporeità dell’uomo e la leggerezza della sua psiche.

Il risultato di tale percorso sono state le varie mostre tenute in numerose città come Lecce, Milano, Pechino e, ultima in ordine di tempo, Venezia, presso la Carriòn Gallery.

paesaggio architettonico

 

Ritratto

 

studio per un personaggio del fumetto. Olio su carta

 

senza tempo. olio e foglia oro su tela.

 

Soffermiamoci per un momento sulla produzione artistica. La prima impressione che si ha osservando le sue opere è quella di trovarsi di fronte ad un affascinante gioco temporale: soggetti appartenenti al passato, volti e corpi da arte classica, rinascimentale o barocca, ma con tracce di attualità

Tecnicamente mi ritengo legato al passato, ma le tematiche, i corpi e gli sguardi sono decisamente attuali, anche perché sono ispirato dalle persone che incontro casualmente o volutamente. Mi sforzo di ritrarre il loro pensiero, tentando di fermare il loro inconscio che cerco di percepire dallo sguardo e dalla mimica facciale, tendendo ad un surrealismo che è slegato dagli schemi classici. Magari poi gioco con i sentimenti percepiti, specie se il soggetto ed il suo sguardo lo consentono, altalenando tra la sua fisicità, che carico di pensieri, il tempo e lo spazio, evidenziando contrapposizioni e ambivalenze e soprattutto la malinconia e la gioia.

Il rapporto tra peso e leggerezza è un altro tema da me molto avvertito da quando sono a Venezia, città lagunare caratterizzata dalla mole dei suoi palazzi sontuosi che apparentemente galleggiano sull’acqua: un’eccezionale metafora della fragilità umana impostata su apparenze spesso inconsistenti se non vane.

Tobiolo, olio su tela.

 

Tritone, olio e foglia oro

 

Veniamo ora ai soggetti delle sue ultimissime opere, ossia i dogi veneziani. I motivi di questa scelta? Un omaggio alla “patria d’elezione”?

Una bella prova, che è felicemente capitata nel mio percorso artistico. I ritratti dei dogi mi sono stati commissionati dall’hotel Antico Doge di Venezia, grazie alla segnalazione loro pervenuta dalla professoressa dell’Accademia di Belle Arti Francesca di Gioia, cui va la mia gratitudine e riconoscenza.

Pur se dura prova, ho subito accolto la proposta con entusiasmo, dando inizio ad una quadreria di ritratti di alcuni dogi della Serenissima. Ovviamente la rassegna è parziale, vista la lunga serie dei celebri personaggi.

A conferma di quanto le ho detto, gli sguardi sono il punto di forza dei personaggi ritratti, per ognuno dei quali ho voluto ricercare una interazione con chi li osserva, che non è più semplice spettatore ma protagonista anch’egli. Tenga presente che per alcuni dogi ritratti sono ricorso a modelli reali, i cui nomi ovviamente qui non rivelerò; sono tuttavia certo che essi vi si riconosceranno, magari ricusando quelle tinteggiature rosseggianti che ho pastellato intorno ai loro volti, per astrarli dalla contemporaneità e per conferire loro la sacralità che conviene ad eterni personaggi che hanno scritto la storia della Serenissima.

Pur nelle loro pose ieratiche, consapevoli del ruolo importante ricoperto, paludati negli sfarzosi abiti del tempo in cui vissero, ecco che attraverso gli occhi si rivelano comuni mortali, magari fragili, malinconici, paurosi. Buona parte dei soggetti da me ritratti, come può notare, li ho voluti raffigurare in età giovanile, racchiudendo in ognuno di essi l’inconsapevolezza ed il mistero della vita che sta loro davanti, con le sue mille sorprese, belle o brutte che siano, ma comunque meritevole di essere vissuta.

Il ritratto del Doge Ottone Orseolo, olio su tela.

 

Ritratto del Doge Pietro Candiano, olio su tela.

 

Alla base di questa eccezionale abilità realizzativa c’è, presumibilmente, l’esempio e l’insegnamento dei grandi “maestri”. C’è qualche pittore al quale fa uno speciale riferimento?

Non ho una particolare predilezione per un pittore, ma tecnicamente mi sono ispirato a quelli del passato a me tanto cari e che ho particolarmente studiato e continuo ad osservare. Dei nomi? Tiziano, Tintoretto, Jacopo Palma il Giovane, Caravaggio, etc.

 

Un’ultima domanda a chiusura di questo nostro primo incontro: ha già pensato alla prossima fase della sua vita artistica?

Vivo al presente, giorno per giorno cercando di migliorarmi sempre più e mi auguro che le mie opere arrivino nel cuore di chi le osserva.

 

bozza per un dipinto sulla tauromachia.

Intervista all’artista Daniele Minosi

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Alessio Palumbo – Daniele Minosi, Tra reale e fantastico. Intervista all’artista Daniele Minosi

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 305-312.

 

ITALIANO

Intervista all’artista Daniele Minosi. Pittore e scultore originario di Maglie, oramai affermato sia in Italia che all’estero, Minosi ha saputo creare uno stile unico, capace di fondere la rappresentazione realistica (ma non fotografica) di oggetti, persone e paesaggi, con tocchi fumettistici e fantastici. L’intervista, dopo aver ripercorso le tappe salienti della formazione e della maturazione delle peculiarità stilistiche dell’artista magliese, si sofferma sulle principali tecniche utilizzate e sul pensiero che si trova alla base delle opere stesse.

 

ENGLISH

An interview to the artist Daniele Minosi. Painter and sculptor from Maglie, by that time popular in Italy and abroad, Minosi could create a unique style, able to merge the realistic (but not photographic) representation of objects, people and landscapes with comics and imaginary pieces. The interview after having gone over the main features of the formation and the maturation of the Magliese artist’s stylistic peculiarities, dwells on the main used techniques and on the thought that is on the base of the works themselves.

 

Keyword

Daniele Minosi, Maglie, Austera, Scarpette rosse, Fumo lento

Arte| La nuova stagione di Marco De Mirto

a colloquio con Alessio Palumbo

 

– Partiamo da dove c’eravamo lasciati con le ultime interviste: le personali Mistico Pagano e Lo specchio convesso; poi Parigi, Miami…e ora? Di cosa ti stai occupando?

Questo è un periodo particolarmente denso dal punto di vista della produzione artistica.

In previsione di alcuni progetti espositivi che si definiranno nel corso di quest’anno, i primi mesi del 2018 mi vedono intento in una nuova stagione dedicata all’elaborazione di alcuni cicli pittorici che, come è mia consuetudine, mi impegneranno per lungo tempo. Il mio modo di procedere, anche se è abbastanza in linea con quanto fatto finora, si arricchisce sempre di nuovi dettagli: possono essere animali, volti umani, elementi inanimati. Il mio è un processo di creazione aperto: per questo motivo, mi risulta difficile entrare nel particolare di ogni dipinto. Non chiudersi in schemi per me è una vera e propria esigenza, ma cerco di declinare in più varianti quello che è l’unico filo rosso della mia pittura, vale a dire il simbolismo. Nel mio caso si avvale di un realismo metafisico, concettuale, con numerosi richiami alle tradizioni mitologiche e religiose, che si intrecciano e vengono sempre elaborate in una chiave trasfigurativa.

 

– Soffermiamoci allora su questa nuova stagione. Quali sono le cifre stilistiche e contenutistiche dei tuoi nuovi lavori? Continuità con il passato o rottura?

Un processo di mutazione è naturalmente presente in ogni nuovo lavoro, anche se magari non a livello consapevole (per l’artista, almeno!) Non posso parlare tuttavia di rottura, la mia cifra stilistica e contenutistica è sempre quella, il superamento di una realtà di superficie, esclusivamente visiva, che cerco invece di “scavare” in ogni senso, attribuendole significati diversi, surreali e onirici, soprattutto. Mi identifico totalmente in questo genere di ricerca. Sono – potrei dire – un purista, non amo inseguire le tendenze, le mode artistiche, pur apprezzando generi in voga come il Lowbrow e il Pop Surrealism. La mia iconografia è variegata e provo a non “auto-omologarmi”, sfuggendo al diktat della riconoscibilità a tutti i costi, che poi si traduce spesso in ripetitività. Ciò non significa, ovviamente, che un artista non possa avere alcuni motivi ricorrenti e identificativi, ma essi non devono porsi in posizione dominante rispetto a tutta la composizione pittorica.

– Il simbolismo ha fino ad oggi pervaso le tue creazioni: soggetti fuori dal tempo e dallo spazio, la cui esistenza può essere concepita solo nei meandri di una fervida immaginazione. A cosa è dovuta tale scelta? Ritieni la “realtà-reale” non efficace dal punto di vista artistico?

La realtà per come è non mi ha mai appassionato. E da questo si comprende come io non faccia abitualmente uso di modelli. Del resto, il vero raffigurato dai pittori realisti è molto più “astratto” – potremmo dire – di quanto pensiamo, ed è molto più astratto anche di tanta pittura che tale, propriamente, viene ritenuta. Perché dico questo? Perché le mie immagini, seppur in apparenza tangibili, di fatto, non esistono: dal momento che, a mio avviso, il vero reale è “invisibile agli occhi”.

– Nonostante il dato anagrafico, nelle tue opere non traspare nulla di “salentino”. Nessun paesaggio, né richiamo ai volti ed alle cose della nostra terra. Le ragioni di tale scelta?

In realtà il legame con il Salento è presente in “profondità”. Quando ho cominciato a interessarmi di pittura, tutto è partito proprio dalla tradizione pittorica del barocco napoletano seicentesco: qui, in Terra d’Otranto, per esempio, era molto attiva la scuola riberiana. Se mai di formazione si può parlare nel mio caso, visto che sono puramente autodidatta, potrei individuarla nell’osservazione di alcune opere sparse qua e là in questa terra. La mia decisione di non servirmi di soggetti tipicamente caratterizzati come “salentini” è dovuta alla mia stessa ricerca iconologica, che si concentra verso luoghi e personaggi atemporali e senza ulteriori connotazioni. Paradossalmente anche nello stesso Salento si respira e si percepisce la medesima sospensione della dimensione del tempo ed è forse proprio questo aspetto che, inconsapevolmente, è entrato nei miei dipinti.

 

 

Sullo stesso Artista vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/11/marco-de-mirto-mistico-pagano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/18/lo-specchio-convesso-viaggio-nellimmaginario-artistico-marco-de-mirto/

Libri| Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

Appuntamenti

Aradeo, 3 Marzo 2017 – ore 19:00

Pane! …Pace!…Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra

A distanza di un secolo dal conflitto che sconvolse la storia europea e mondiale, nuovi studi e ricerche arricchiscono la già prolifica bibliografia esistente. Numerosissime le materie di studio oggetto di recenti pubblicazioni: dalle scelte strategiche e militari sui diversi fronti alle conseguenze politiche di breve e lungo periodo; dai retroscena diplomatici alle ripercussioni sulla psiche dei singoli; dal ruolo dei soldati a quello delle donne, ecc.. Tra i tanti, quest’ultimo aspetto è andato sempre più posizionandosi al centro dell’interesse degli storici, favorendo nell’ultimo ventennio la diffusione di indispensabili studi anche (e soprattutto) di carattere locale.

Coppola def

Il nuovo libro di Salvatore Coppola, Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra (Giorgiani Editore, Lecce 2017), trattando l’impatto avuto dalla Grande Guerra sulle donne delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, si addentra in un terreno fino ad oggi pressoché inesplorato. Basandosi su una ricca bibliografia di carattere generale e, soprattutto, su un eccezionale patrimonio archivistico, quest’opera, dopo una doverosa introduzione di carattere storico e storiografico, ripercorre in ordine cronologico le manifestazioni di protesta inscenate a partire dal 1916. Manifestazioni legate alla fame, al desiderio di riabbracciare i propri cari al fronte, al bisogno di pane e pace. Tra cause oggettive e soggettive, con periodi di tensione e di ripiegamento, il volume analizza l’evoluzione in Terra d’Otranto di un movimento di lotta e rivendicazione avente per protagoniste le donne.

Tali proteste, il più delle volte lontane dalla politica e dalle organizzazioni partitiche o di categoria, delinearono per le masse popolari femminili un inedito ruolo, fuori dalle tradizionali barriere domestiche. Una nuova prospettiva per le donne salentine (ed italiane in genere) di fatto contenuta nell’immediato dopoguerra e poi totalmente repressa dal fascismo.

 

Sabato 3 marzo, presso la Biblioteca Comunale di Aradeo, Salvatore Coppola presenterà il libro Pane! …Pace! Il grido di protesta delle donne salentine negli anni della grande guerra discutendone con Michele Bovino, responsabile della stessa Biblioteca, e con Alessio Palumbo, direttore de Il Delfino e la Mezzaluna.

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

decor

Venerdì 14 luglio, alle ore 20, nella chiesa del Carmine di Nardò verrà presentato il volume edito da Mario Congedo di Galatina, Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò.

Un progetto ambizioso che il sacro tempio meritava, per essere una delle chiese più note e frequentate dalla popolazione ed oggi meta preferita dei tanti turisti che stanno riscoprendo la città di Nardò.

L’edizione, di circa 400 pagine, in formato A/4, con tavole e rilievi del complesso, centinaia di illustrazioni bianco/nero e colore, in buona parte eseguite da Lino Rosponi, è l’ottavo dei Supplementi dei Quaderni degli Archivi della Diocesi di Nardò-Gallipoli, diretti da Giuliano Santantonio. Oltre la Confraternita del Carmine hanno promosso l’edizione la Diocesi di Nardò Gallipoli e la Fondazione Terra d’Otranto.

Curato da Marcello Gaballo, contiene numerosi saggi scritti da studiosi ed esperti, che hanno voluto omaggiare la nota chiesa di Nardò con ricerche e nuove fonti di archivio raccolte negli ultimi anni. Tra questi Marino Caringella, Marco Carratta, Daniela De Lorenzis, Anna Maria Falconieri, Paolo Giuri, Alessandra Greco, Maria Domenica Manieri Elia, Elsa Martinelii, Alessio Palumbo, Armando Polito, Maria Grazia Presicce, Cosimo Rizzo, Giuliano Santantonio,  Marcello Semeraro, Maura Sorrone, Fabrizio Suppressa.

Si parte dalle origini della Congregazione dell’Annunziata e insediamento dei Carmelitani Calzati, fino alla loro definitiva soppressione e l’istituzione della parrocchia, soffermandosi sulle vicende del funesto terremoto del 1743, che arrecò danni considerevoli alle strutture, in buona parte ricostruite nel decennio successivo.

Notevoli gli approfondimenti artistici, specie all’interno della chiesa e del convento, senza tralasciare le sorprese dell’insolita facciata cinquecentesca e dei suoi celebri “leoni” posti all’ingresso, che sembrano rimandare al celebre architetto Giovan Maria Tarantino, probabile autore anche dell’altare della Trinità, nella stessa chiesa. Nuove fonti anche per l’altro artista neritino, Donato Antonio d’Orlando, al quale sembra debbano attribuirsi altre opere dipinte, oltre quella firmata del S. Eligio.

Altre sorprese emergono dagli studi sull’altare della Madonna del Carmine, sulla tela dell’Annunciazione, sulla statua lignea dell’Annunziata e su un inedito corpus di manoscritti musicali, conservati nell’archivio della confraternita.

Il ricco corredo fotografico, che rende il volume ancor più interessante, documenta arredi, stemmi, reliquie e suppellettili di cui si è arricchita la chiesa nel corso dei secoli e raramente esposti.

Da ciò l’entusiasmo del priore della Confraternita, Giovanni Maglio, che ha fortemente voluto ed incoraggiato l’iniziativa, con il sostegno dei confratelli e consorelle, inserendola “di diritto nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale civile e religioso, che si sta particolarmente curando in questo ultimo decennio” nella città di Nardò.

Oltre gli Autori, che hanno voluto offrire pagine importanti, mettendo a disposizione di tutti vicende e fonti spesso sconosciute o inesplorate, aiutandoci a leggere nella maniera più corretta ed esaustiva, altrettanto importanti coloro che hanno offerto immagini e foto altrimenti difficili da reperire, tra cui Giovanni Cuppone e don Giuseppe Venneri, Gian Paolo Papi, Clemente Leo e Don Enzo Vergine, il parroco della chiesa matrice di Galatone don Angelo Corvo, Don Domenico Giacovelli e Rosario Quaranta, Emilio Nicolì e Raffaele Puce, Stefano Tanisi, Bruno Capuzzello. Una particolare menzione a Stefania Colafranceschi per aver messo a disposizione parte della sua collezione di santini e immagini antiche, e a Stelvio Falconieri, per due importanti e rarissimi documenti fotografici della chiesa nei primi decenni del ‘900.

All’elenco si aggiungono Pierpaolo Ingusci, Antonio Dell’Anna, Luca Fedele, Emanuele Micheli e Matteo Romano, valido aiuto nell’ordinamento dell’archivio e trascrizione di alcuni documenti. C’è stato anche un silenzioso e paziente lavoro, assolutamente importante, nell’allestimento degli arredi liturgici e nella ripulitura di molte suppellettili in parte desuete ma necessarie per una completa catalogazione. Ed ecco che devono aggiungersi, includendo nel lungo elenco anche Cosima Casciaro, Dorotea Martignano, Teresa Talciano e Anna Violino.

Infine, ma non per minore importanza bensì per sottolinearne il ruolo, la riconoscenza ad Annalisa Presicce, che ha professionalmente rivisto le bozze ed omologato le centinaia di annotazioni per un testo agile, coerente e scientificamente valido, come si spera possa essere.

Il volume sarà presentato dalla Prof.ssa Regina Poso, già docente preso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento.

 

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

delfino e la mezzaluna

E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

Aradeo, ieri e oggi

di Alessio Palumbo

 

Colgo con piacere l’invito del prof. Armando Polito, per partecipare “attivamente” alla sua bella iniziativa.

Il mio contributo riguarda un piccolo paese, Aradeo, che non ha (né ha mai avuto) le bellezze artistiche ed architettoniche di città come Lecce o Nardò, ma che, per di più, quel poco che aveva del proprio passato lo ha quasi completamente distrutto una cinquantina di anni fa. In questa furia modernizzatrice sono sparite chiese, palazzi, complessi a corte ed edifici vari.

A parziale consolazione di chi ha meno di sessant’anni, alcuni aradeini si sono presi la briga di recuperare le testimonianze fotografiche del passato cittadino, conservandole nel sito www.arataion.it.

Solo per darvi un’idea del cambiamento subito dal centro storico di Aradeo, vi propongo due foto: la prima è tratta da http://www.arataion.it/nel-paese/le-piazze/124-la-vecchia-piazza-del-municipio e rappresenta l’antica piazza, con alle spalle la chiesa seicentesca. Una chiesa che ha rappresentato per secoli il cuore religioso e laico del paese visto che, fino ad inizio settecento, fu utilizzata anche come “parlamento cittadino” prima che gli aradeini costruissero un classico sedile fuori dalle mura (anche questo scomparso) per sfuggire al controllo dei monaci Olivetani, loro feudatari.

aradeo

Oggi di tutto ciò non resta alcuna traccia: un cuore verde (secondo l’interpretazione data dall’allora amministrazione comunale DC) ha sostituito gli antichi edifici, come si nota dall’immagine successiva tratta da google

aradeo1

Tra la prima e la seconda foto, due anni di distruzioni sconsiderate ed ingiustificate.

aradeo2
da http://www.arataion.it/nel-paese/le-chiese/177-la-demolizione-dell-antica-chiesa-madre

 

Achille Starace: il lato tragicomico del fascismo

da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm
da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm

 

di Alessio Palumbo 

La storia degli esordi (e non solo) del fascismo italiano si lega all’operato di alcuni leader fortemente radicati sul territorio, i cosiddetti ras. Balbo fece di Ferrara la propria roccaforte, il proprio staterello feudale, Farinacci poté sempre contare sugli squadristi di Cremona, Caradonna su quelli di Bari e così via per i vari Ciano (padre), Grandi, ecc. Il Salento non ebbe un ras vero e proprio, nonostante Gallipoli avesse dato i natali ad una delle figure più influenti dell’intero regime: Achille Starace.

Nato a Sannicola (allora non ancora separata da Gallipoli) nel 1889, trascorse l’infanzia più in strada che nel ricco palazzo del padre o tra i banchi di scuola. Per come viene descritto nella principale biografia a lui dedicata, (A. Spinosa, Starace. L’uomo che inventò lo stile fascista, Milano, Mondadori, 2002), sin da ragazzino si distinse per forza, spirito atletico e la sfrenata voglia di menar le mani. Scoppiata la Grande Guerra vi partecipò con entusiasmo, ricevendo numerose decorazioni. Dopo il conflitto aderì al fascismo, non tanto per motivi ideologici, quanto perché affascinato dalla personalità di Mussolini: una vera e propria idolatria, che non verrà meno neanche quando lo stesso capo del fascismo lo farà arrestare e rinchiudere in un campo di concentramento.

Come detto, a differenza di altri ras, non ebbe mai una vera e propria base territoriale. Nel Salento non fu particolarmente amato e non rare furono le manifestazioni di ostilità nei suoi confronti, anche in pieno regime. Tra i vari aneddoti, motti ed episodi che gli si attribuiscono, c’è ad esempio quello relativo ad una frase fattagli ritrovare dai leccesi di fronte alle finestre di un albergo cittadino durante una sua visita all’indomani della scissione di Taranto dal vecchio capoluogo: “Respira Roma quando Starace parte, esulta Taranto quando Starace arriva. Lecce città dell’arte se ne frega quando arriva e quando parte” (A. SPINOSA, cit., p. 42)

Il gerarca di Sannicola non sembrò, tuttavia, risentire della mancanza di questa base territoriale. La sua carriera si basò esclusivamente sulla fedeltà e dedizione al duce, che lo ripagò nominandolo nel 1926 luogotenente generale della Milizia, oltre che vicesegretario del partito. Sin da subito palesò un carattere da “mastino”: cercò di imporre agli uomini della Milizia lo “stile fascista” fatto di vigoria fisica, pratica sportiva, sprezzo del pericolo, virilità, ecc. A tale stile vanno ricondotte dichiarazioni del tipo: “Mi piace cavalcare. Per questo amo i cavalli e le donne” (A. SPINOSA, cit., p. 139) oppure “Tutti gli organi del partito funzionano: devono perciò funzionare anche gli organi genitali” (A. SPINOSA, cit., p. 277).

Sul piano più strettamente politico non smise mai di tramare contro i gerarchi a lui invisi. Nel corso delle non rare crisi interne al partito, queste doti gli valsero la nomina a segretario del PNF nel 1931, carica che mantenne fino al 1939. In tale posizione scatenò il suo “genio creativo”, dando vita a quello che Spinosa definisce lo stile fascista. Inventò il “saluto al duce”, grido che introduceva ogni apparizione pubblica di Mussolini, organizzò nei dettagli il sabato fascista, estese un controllo capillare sulla gioventù, stabilì le modalità del saluto romano vietando la stretta di mano, impose l’uso del “voi”, definì nei minimi dettagli l’abbigliamento fascista, ecc. Per circa dieci anni i gerarchi a lui ostili cercarono di scalzarlo dalla segreteria del partito sfruttando i ripetuti scandali che lo videro coinvolto, soprattutto a causa delle sue relazioni con donne, attricette e soubrette, che protesse e frequentò, mentre la moglie Ines rimaneva segregata a Sannicola. Tuttavia Starace non cadde, nonostante i tanti grattacapi e seccature creati a Mussolini e al partito.

Non cadde perché, per quanto buffonesche potessero essere le sue trovate, per quanto risultassero ridicole certe manifestazioni imposte agli stessi gerarchi, come il salto nel cerchio di fuoco o sopra una siepe di baionette, dietro questo “stile fascista” in realtà c’era lo stesso Mussolini. Starace era il perfetto esecutore delle volontà di Palazzo Venezia e per questo fu a lungo amato dal capo che non lo stimava, ma lo riteneva “un cretino ubbidiente”. Il gerarca di Gallipoli fu dunque il megafono di Mussolini e, nel caso di critiche, il suo parafulmine.

Nel paese fu uno dei gerarchi più odiati e derisi perché, come ben intuì Galeazzo Ciano, gli italiani “mentre sono disposti a perdonare persino chi ha loro fatto del male, non perdonano chi li ha scocciati”. Partecipò alla guerra d’Etiopia, riuscì a far attribuire al duce ed al re il titolo di Primo Maresciallo, che di fatto li equiparava. Sotto la sua ala nacquero le leggi razziali (e del resto non perse mai occasione per palesare il suo arrogante antisemitismo, come quando commentò il suicidio dell’editore Formiggini dicendo “E’ morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola” (A. SPINOSA, cit., p. 201))

Qualcosa però, alla fine degli anni ’30, si incrinò. Donna Rachele non lo sopportava, molti gerarchi continuavano a manovrare contro di lui e, nell’ottobre 1939, lo stesso Mussolini lo escluse dalla segreteria del PNF, indirizzandolo nuovamente al comando della Milizia. Durante la guerra i rapporti tra i due peggiorarono. Fu vittima di nuovi complotti, mentre si cercò di demolirne anche la famiglia: i fratelli rimasti nel Salento furono accusati di affarismo, come del resto il figlio Luigi, avvocato a Milano.

Dal maggio 1941, escluso da qualsiasi carica, iniziò il periodo più nero della sua vita. Disoccupato, visse con i pochi risparmi e con i prodotti della campagna salentina che la figlia Fanny gli inviava periodicamente. Fino alla fine non rinunciò però a correre, a cavalcare e a dedicarsi a svariate pratiche sportive. Continuò a scrivere al duce che ancora venerava, ma Mussolini non gli rispose mai e anzi lo fece arrestare, prima nel carcere di Verona (novembre 1943 – aprile 1944) e poi addirittura nel campo di concentramento di Lumezzane. Uscitone, visse gli ultimi mesi di guerra a Milano, povero ed errabondo. Il 28 aprile 1945 venne catturato dai partigiani, durante la solita corsetta quotidiana. Processato presso il Politecnico, fu fucilato in piazzale Loreto, dove morì inneggiando al duce.

Fedele fino alla fine, come un mastino, non gli erano bastati i calci ricevuti (la defenestrazione, gli arresti, le inchieste, le umiliazioni) per potere odiare il proprio padrone. Moriva in quel modo uno tra i gerarchi più detestati dell’intero regime. Lo avevano disprezzato gli italiani, gli antifascisti e gli stessi fascisti. Neanche Lecce lo aveva mai amato. La famiglia, a parte la figlia Fanny, lo aveva abbandonato.

Il figlio Luigi tornò a vivere nel paese natio, mentre i nipoti Achille e Luisa rinnegarono persino il cognome Starace. Un’ultima nota di colore, in questo scarno profilo, la si può associare a suo nipote, il celebre omosessuale Giò Stajano, il quale in un’intervista rilasciata in età avanzata al giornalista Francesco Caridi, alla domanda “Chissà che direbbe tuo nonno Achille Starace se ti vedesse, lui che voleva tutti gli italiani maschi e forti…” senza scomporsi rispose: “Direbbe che dopo tanta virilità in famiglia, un po’ di relax ci vuole”.

Aradeo. Hanno rubato la croce di San Nicola!

 carpignano-sal-le-palazzo-ducale-ghezzi-processione-della-madonna-della-grotta-ph-primi-del-novecento

di Alessio Palumbo

Il 6 dicembre 1881, la giornata non si presenta come delle migliori: il cielo è grigio, piove a tratti. Per gli aradeini è tuttavia un giorno speciale, ricorrendo la festa del Patrono, S. Nicola. Molti residenti e alcuni fedeli dei paesi circostanti prendono parte ai tradizionali festeggiamenti, a cominciare dalle funzioni sacre previste per il mattino e celebrate da don Francesco Stifani, trentenne sacerdote del posto. Per le strade c’è un via vai di gente che si ferma nelle taverne a bere un bicchiere di vino, a sorseggiare un caffè e a giocare a carte.

Nel pomeriggio, verso le quattro, le funzioni riprendono con la processione che percorre le strade del paese. Al rientro, intorno alle sei, don Francesco, come da tradizione, spoglia la statua del santo dagli addobbi e paramenti per consegnarli al capo deputato della festa, il signor Giovanni Blago. Quest’ultimo, intascati i preziosi ed afferrati a due mani il pastorale e la mitra, esce dalla chiesa attraversando la folla che ancora staziona nel tempio a causa della pioggia.

Giunto a casa depone mitra e pastorale su una panca, estrae l’anello dal gilet e, infilando la mano nella tasca della giacca, si accorge di non avere più la croce d’oro tempestata di pietre. Realizza immediatamente di essere stato derubato. In particolar modo ricorda che, subito dopo la svestizione della statua, due forestieri gli si sono affiancati e gli hanno chiesto se il pastorale fosse d’argento. Giunto poi vicino al portone, dovendosi fermare perché una certa Filomena Scalone si era chinata per raccogliere il berretto del figlio, ha sentito una botta all’altezza della tasca sinistra, ma non vi ha dato importanza.

Blago ritorna repentinamente in chiesa, accompagnato dal contadino Nicola Bomba e da Mariano Muscato, membro del comitato festa. Qui trova altri due compagni del comitato: il giovane possidente Felice Anghelè e il suo amico Angelo Cagia. I due hanno appena finito di raccogliere la cera delle tante candele usate nel corso della funzione e stanno per andar via. Messi a conoscenza del fatto, Anghelè e Cagia perlustrano la chiesa, nel caso la croce fosse caduta nella confusione. Non trovandola decidono, assieme a Muscato e Bomba, di mettersi sulle tracce degli sconosciuti.

Nel frattempo Blago denuncia il furto al Brigadiere dei Reali Carabinieri, Fabrizio Palazzoli, che per servizio si trova nei paraggi della chiesa. Anche gli uomini dell’Arma iniziano così a battere le strade del paese e le vie che portano ai comuni limitrofi. A sera, Anghelè e gli altri tre, percorsa la stramurale, imboccano la via per Noha e, a circa un chilometro dal paese, sentono delle voci discorrere fittamente. Fattisi incontro agli sconosciuti, questi si danno alla fuga calandosi in un canale e cercando di svignarsela per le campagne. Pur essendo una notte di luna piena, il cielo è completamente coperto e quindi la ricerca si svolge al buio. Il gruppo di inseguitori riesce tuttavia a scovare due individui che cercano di nascondersi, uno nel cavo di un albero d’olivo, l’altro tra le radici di un fico. Presi di forza, li portano in paese, consegnandoli al brigadiere. Intanto la voce del furto è corsa per le strade di Aradeo, la gente si accalca sulla piazza del Municipio. Tra la folla, una donna riconosce i fermati. Si chiama Domenica Giuri, ha 28 anni e gestisce una bettola. Al mattino i due giovani, che al brigadiere hanno detto essere ‘del basso di Bari’, sono andati a desinare da lei in compagnia di un terzo. Dopo aver ‘mangiato oltre il consueto’ i tre sono andati via senza pagare. Il brigadiere rivolta le tasche del meno giovane dei fermati, un tipo con uno sfregio sulla guancia destra, e trovate tre lire le restituisce alla Giuri. Intascati i soldi, la locandiera fa presente che i baresi ed il terzo forestiero erano stati condotti nella sua taverna da un tal Luigi Pedone, venditore ambulante di dolci. Palazzoli trattiene i due sospettati nella rivendita di caffè di Blago e, con lo stesso capo deputato, va in cerca di Pedone, trovandolo nei pressi della sua bancarella di confetture. Interrogato, Pedone dice di aver conosciuto i tre venendo ad Aradeo per la festa, di aver condiviso con loro la stalla di un certo De Tuglie e la bettola della Giuri, ma di non avere nessuna relazione con loro. Il brigadiere gli chiede di riconoscere i fermati e Pedone, recatosi al caffè di Blago, conferma la loro identità, facendo anche il nome del terzo ricercato: un certo Gaetano Spagnolo, tipografo di Lecce. Il sottoufficiale lascia andare il commerciante e porta in caserma i presunti colpevoli, per perquisirli ed interrogarli: sono Francesco Puglio e Gennaro Giacomantonio, originari di Terlizzi. Addosso non hanno tuttavia la croce.

Di fronte alle domande di Palazzoli, i due negano di essere mai stati in chiesa, non fanno il nome di Spagnolo ed iniziano a contraddirsi. Il brigadiere non può che convalidare l’arresto per avviare le indagini. Intanto i carabinieri ed alcuni aradeini sono ritornati nelle campagne sulla via di Noha per cercare con maggiore cura la croce d’oro: è tutto inutile, il gioiello è sparito.

L’indomani, 7 dicembre, i due arrestati sono portati a Galatone per essere interrogati in pretura.

Puglio è un ebanista di 23 anni, originario di Terlizzi ma da fine novembre dimorante a Lecce, dove si è trasferito in cerca di lavoro. Il giorno 5 dicembre, passando per Galatina, ha incontrato Gaetano Spagnolo e Gennaro Giacomantonio che chiacchieravano in piazza e con loro ha deciso di andare ad Aradeo per divertirsi in occasione della festa del santo patrono. Giunti in paese, hanno trovato da dormire in una locanda e il mattino seguente, dopo aver assistito alle sacre funzioni, sono andati girovagando. A mezzogiorno hanno quindi mangiato nella taverna della Giuri e poi hanno ripreso il giro fino al rientro della processione in chiesa. Qui hanno assistito alle ultime funzioni e usciti dall’edificio sono stati avvicinati dallo Spagnolo, che si sarebbe rivolto a loro dicendo: ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’.

La versione di Giacomantonio, anch’egli ebanista di cinque anni più giovane, differisce in parte da quella del compaesano. Il ragazzo dichiara di aver conosciuto Puglio e Spagnolo in una taverna di Galatina e non in piazza, inoltre non ricorda la frase pronunciata dal tipografo all’uscita della chiesa, dopo la processione. Comunque, entrambi si dichiarano innocenti, cercando di stornare i sospetti sul terzo compagno. Interrogati sul perché della fuga nelle campagne, la motivano con la paura di qualche sinistro da parte di sconosciuti del posto.

Nonostante i tentativi di discolparsi, le testimonianze contro di loro sono tuttavia incontrovertibili. In tanti li hanno visti affiancarsi al capo deputato della festa ed inoltre, il 6 dicembre, ad alcuni non è sfuggito il loro fare sospetto. Pantaleone De Tuglie, ad esempio, novantenne proprietario della stalla dove hanno alloggiato, dichiara di averli visti la mattina della festa nel bar Santoro: Giacomantonio faceva finta di giocare a carte con un terzo, probabilmente Spagnolo, mentre Puglio si guardava attorno lisciandosi i baffi. Per Giovanni Blago anche i due leccesi sono complici: mentre infatti i giovani falegnami di Terlizzi lo affiancavano, il commerciante Luigi Pedone ed il tipografo Gaetano Spagnolo complottavano in disparte. Per il capo deputato la croce, appena rubata, ‘passò tosto di mano in mano, e i primi a fuggire furono lo Spagnolo ed il Pedone‘.

Blago vuole assolutamente trovare un colpevole, per questo probabilmente accusa tutti e quattro. È lui la parte lesa di questa faccenda in quanto, come capo deputato della festa, è obbligato a rispondere del valore della croce, stimata per 229,50 lire [circa 850 euro dei nostri giorni, n.d.A.].

Alla luce delle dichiarazioni di testimoni e parte lesa, per il pretore non ci sono dubbi. Del resto gli incartamenti pervenuti da Terlizzi parlano chiaro: nonostante la giovane età, Puglio e Giacomantonio sono già considerati di ‘pessima condotta’ e sono stati più volte in galera per furto. Puglio inoltre è ammonito come ozioso, vagabondo e presunto ladro e quindi non si sarebbe potuto allontanare da Terlizzi senza il permesso delle autorità. Per i due si aprono le porte del carcere, mentre restano da chiarire le posizioni di Pedone e Spagnolo. Per la Camera di Consiglio gli elementi raccolti non sono infatti sufficienti per definire la dinamica dei fatti: viene quindi dato incarico al Giudice Istruttore di redigere un nuovo rapporto e soprattutto di prendere in considerazione le posizioni di Pedone e Spagnolo. I due vengono convocati per il 3 di gennaio presso il Tribunale di Lecce. Dalle deposizioni del commerciante e del tipografo e da accurate indagini, il giudice deduce chePedone è un onesto lavoratore, che non ha nulla a che vedere con gli altri tre. Ha avuto solo la sfortuna di imbattersi in loro recandosi ad Aradeo. Spagnolo, invece, è sicuramente coinvolto nella sparizione della croce. Anche lui, nonostante abbia appena 25 anni, ha numerosi precedenti penali per furto: la prima condanna risale al 1869, quando cioè aveva appena 13 anni, mentre gli ultimi quaranta giorni di carcere li ha scontati a giugno. La sua complicità con i due arrestati, il sue essersi dato alla fuga, come da lui stesso ammesso, sentendo arrivare gli aradeini sulla via per Noha, non depongono in suo favore. Per il giudice non ci sono dubbi e così, dopo averli rinviati a giudizio, il 3 marzo 1882 il Tribunale di Lecce condanna Gennaro Giacomantonio ad un anno di carcere, Gaetano Spagnolo a tre e Francesco Puglio a tre anni e quattro mesi(aggiungendosi la violazione dell’ammonizione). Spagnolo e Puglio ricorrono in appello.

La mattina del 6 marzo, Nicola Carallo, piccolo proprietario cinquantaseienne, si reca nel suo fondo, denominato Sciaccarea, per lavorare. Mentre sta zappando vicino ad un grosso ulivo, qualcosa si impiglia nella zappa. All’inizio pensa sia un serpente, ma tirando vede che si tratta di un laccio con appesa una croce. Immediatamente chiama il suo giovane amico Francesco Manco, che sta badando ai lavori di altri contadini in un fondo limitrofo. Manco identifica immediatamente la croce: è quella di San Nicola.

I due vanno di filato dal sindaco, Francesco Resta, per consegnare l’oggetto. Anche il primo cittadino la riconosce: ‘è d’oro, ha sette pietre, delle quali una grande e due piccole, tutte verdi nel lato maggiore, tre verdi grandi negli altri tre lati, ed un’altra pure grande, di color mele, nel centro. Questa croce è unita ad un laccio d’oro della lunghezza di un metro e centimetri sessanta circa, al quale laccio va unito un fiocco pure d’oro, e nel laccio stesso v’è un passante d’oro anche’.

Il sindaco prende quindi in custodia il monile e avvisa immediatamente il pretore, cosa che fanno anche i carabinieri con un secondo verbale. La notizia intanto passa di bocca in bocca; alcuni vanno a vedere il luogo del ritrovamento: l’albero sotto il quale è stato disseppellito il gioiello del santo è quello dove, la notte del sei dicembre, Anghelè ed i suoi avevano catturato Giacomantonio. Il caso si potrebbe dunque dire risolto, almeno per gli aradeini. Tuttavia un altro giallo si intreccia alla sparizione della croce.

Come detto, tre giorni prima del fortuito ritrovamento, Puglio e Spagnolo sono ricorsi in appello. Puglio lo ha fatto senza addurre novità alla sua posizione, sperando più che altro in uno sconto di pena. Spagnolo invece, per mezzo dell’avvocato Nicola Forleo Casalini di Lecce, ribadisce la propria estraneità al furto. A suo parere la corte ha pregiudizi nei suoi confronti a causa dei precedenti penali, ma con la sparizione della croce lui non c’entra. Ed infatti ha dei testimoni che possono dimostrare come, sin dalle tre del pomeriggio del giorno della festa (quindi molto prima dello scippo) lui abbia cercato un mezzo di trasporto per ritornare a Lecce; lo stesso Puglio, inoltre, che inizialmente gli ha attribuito la frase ‘Partiamo che qui non stiamo più bene’, in un secondo interrogatorio ha ritrattato; anche il frettoloso allontanamento da Aradeo era legato ad un’istintiva paura e non a correità; infine, se fosse stato veramente coinvolto nel furto, avrebbe potuto approfittare del suo essere a piede libero per recuperare la croce, cosa che invece non ha fatto, visto che il monile è stato ritrovato. Le argomentazioni di Spagnolo sono rigettate dal Corte d’appello di Trani: la condanna è confermata per lui e per Puglio. Anche la richiesta di libertà provvisoria avanzata dal tipografo viene respinta. Non gli resta che ricorrere in Cassazione. La pronuncia del tribunale di Napoli arriva nel luglio e ribadisce la condanna a tre anni stabilita nei precedenti gradi di giudizio. La sentenza, tuttavia, non può essere notificata al tipografo ‘attesoché il ricorrente non è in carcere né legalmente in istato di libertà provvisoria’ .

Che fine ha fatto dunque Gaetano Spagnolo?

Il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo

di Alessio Palumbo

 

Nell’accingersi a raccontare un evento, semplice o complesso, recente o remoto che sia, gli storici si sono da sempre confrontati con un problema o, per meglio dire, con “il” problema: le fonti. Edward H. Carr, nelle oramai classiche Sei lezioni sulla storia, sosteneva: “Ma che cosa ci dicono i documenti, i decreti, i trattati, i libri mastri, i libri azzurri, i carteggi ufficiali, le lettere private e i diari – allorché ci accostiamo a loro? Nessun documento è in grado di dirci di più di quello che l’autore pensa – ciò che egli pensava fosse accaduto […] o forse soltanto ciò che egli voleva che altri pensassero che egli pensava”[1].

Anche una storia di carattere prevalentemente locale, come quella sulla rivoluzione neretina del 1647 narrata in Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna, deve necessariamente fare i conti con il problema delle fonti. I racconti coevi, le ricostruzioni dei secoli successivi, le cronache e le storie generali utilizzati per ricostruire i fatti, rappresentano da un lato dei tesori informativi, dall’altro dei veri e propri nidi di insidie. Gli intenti che di volta in volta gli autori si sono posti nel descrivere la vicenda, il particolare punto di vista utilizzato, lo stesso contesto storico in cui queste fonti sono maturate rappresentano, per chi consulta i documenti, degli imprescindibili punti da attenzione.

Nel caso di Nardò Rivoluzionaria, tra tutte le fonti consultate, una in particolare ha rappresentato, per completezza, equilibrio e chiarezza, un vero e proprio cardine del racconto: il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo di detta Città. Per quanto lacunosa sia la vicenda personale dell’autore, l’abate neretino Giovan Battista Biscozzi, nondimeno questo suo libro di “notamenti”, più cronaca che diario, ha rappresentato una miniera di notizie per tutti coloro che, dal settecento in poi, si sono confrontati con questa pagina di storia. Non siamo certamente di fronte ad una fonte “oggettiva” (ciò renderebbe questa opera, a nostro modo di intendere le fonti, non solo eccezionale, ma assolutamente unica), nondimeno la sua utilità è indiscutibile.

Nelle righe degli Annali l’abate Biscozzi appunta i principali avvenimenti avvenuti in città tra il 1632 ed il 1666, con un’eccezionale frequenza di notazioni negli anni della rivolta. La sua posizione è esplicitamente quella di un cittadino ostile al feudatario, pur non essendo un ribelle. Proprio per questo, la sua narrazione è distaccata: il prelato cerca di tenersi lontano da giudizi di valore e solo di tanto in tanto soccombe all’emozione, ad esempio nel racconto del martirio di altri sacerdoti; è una cronaca che non cede quindi a pretese di oggettività ed assolutezza, riportando le voci del popolo, dei protagonisti e, seppur raramente, dello stesso Biscozzi. Il risultato di tutto ciò è una fonte sicuramente affidabile e, in ogni caso, impareggiabilmente ricca di informazioni. Nessun’altra cronaca, tra quelle a noi pervenute, racconta così nel dettaglio i fatti che si svolsero a Nardò, soprattutto nel biennio 1647 – 1648.

Una ricchezza che purtroppo non può essere riportata totalmente in un volume dal carattere più generale e dal taglio critico come intende essere Nardò Rivoluzionaria. Ogni passo non citato è stato quindi il frutto di una scelta difficile e sofferta e, proprio per questo, si è deciso di promuovere una ristampa dell’originale per garantire al lettore di apprezzare a pieno l’eccezionale valore del testo del Biscozzi. In assenza dell’originale, purtroppo perso, si è deciso di ripubblicare la versione più completa a noi giunta, ossia quella curata da Nicola Vacca nel 1936 per la rivista Rinascenza Salentina e tratta da un manoscritto conservato nella Biblioteca Scipione e Giulio Capone di Avellino[2].

copertina_giusti

 

[1] E. H. CARR, Sei lezioni sulla storia, Torino, Einaudi, 1966, p. 20.

[2] Per notizie sulle varie versioni dell’opera e sullo stesso autore si veda N. VACCA, G. B. Biscozzi e il suo “Libro d’Annali”, in «Rinascenza Salentina», A., n. XIV, 1936, pp. 1-25.

Una nuova edizione per la Fondazione. Nardò e i suoi

Nardò e i suoi

Con cerimonia privata, cui si accede per invito, sarà presentato e distribuito questa sera l’ultimo lavoro inserito tra le pubblicazioni della Fondazione, Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso.

Un volume di 400 pagine, cartonato, in formato 24×30 cm, con saggi tutti riguardanti Nardò, a cura di Marcello Gaballo, presentazione di Luciano Tarricone. Edizione non in vendita. ISBN: 978-88-906976-5-4.

Saggi di Francesco Giannelli, Armando Polito, Maurizio Nocera, Gian Paolo Papi, Giuliano Santantonio, Fabrizio Suppressa, Paolo Giuri. Giovanni De Cupertinis, Marcello Gaballo, Stefano Tanisi, Alessandra Guareschi, Alessio Palumbo, Elio Ria, Maurizio Geusa, Pino De Luca, Letizia Pellegrini, Massimo Vaglio, Valentina Esposto, Daniele Librato, Mino Presicce, Pippi Bonsegna.

 

 

Luciano Tarricone, presentazione ……………………….……………………………………. p. 1
Francesco Giannelli, Tracce di preistoria e protostoria nel territorio di Nardò …… 5
Armando Polito, Un toponimo sulla riviera di Nardò: la Cucchiàra ………………….. 11
Maurizio Nocera, Della tipografia e dei libri salentini ……………….……………………. 15
Gian Paolo Papi, La “Madonna di Otranto” in territorio di Cascia
tra i possibili lavori del neritino Donato Antonio d’Orlando ……………………………… 29
Armando Polito, Antonio Caraccio l’Arcade di Nardò ……………………..……………… 41
Giuliano Santantonio, Ipotesi di attribuzione di alcuni dipinti
a Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò ………………………………………………. 67
Fabrizio Suppressa, Torre Termite, la masseria degli olivi selvatici …………………. 81
Paolo Giuri – Giovanni De Cupertinis, Il seminario diocesano di Nardò dal xvii al xix secolo …………………………………………………………………………………………………….. 91
Marcello Gaballo, Un’architettura rurale impossibile da dimenticare.
Lo Scrasceta, dalle origini ai nostri giorni ………………………………………………………101
Stefano Tanisi, Lo scultore leccese Giuseppe Longo
e l’altare di San Michele Arcangelo nella Cattedrale di Nardò ………………….……… 117
Marcello Gaballo, Achille Vergari (1791-1875) e il suo contributo
per debellare il vajolo nel Regno di Napoli ……………………………………………………. 131
Alessandra Guareschi, L’arte “nazionale” di Cesare Maccari nella Cattedrale di Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 147
Alessio Palumbo, Il mito di Saturno in politica: le elezioni del 1913 a Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 185
Elio Ria, Piazza Salandra, un esempio di piazza italiana. ……………………………….. 193
Maurizio Geusa, Uno sconosciuto fotografo di Nardò al servizio dell’Aeronautica Militare ……………………………………………………………………………………………………… 199
Pino De Luca, Histoire d’(lio)……………..…………………………………………………………. 227
Letizia Pellegrini, Scritture private e documenti.
L’archivio privato di Salvatore Napoli Leone (1905-1980) ………………………………… 231
Massimo Vaglio, Olio e ulivi del Salento ………………..………………………………………. 257
Maurizio Nocera, Diario di un musico delle tarantate. Luigi Stifani di Nardò …………263
Valentina Esposto – Daniele Librato, L’archivio storico del Capitolo
della Cattedrale di Nardò. Inventario (1632-2010) ……………………..……………………. 289
Mino Presicce, Edizioni a stampa della tipografia Biesse di Nardò (1984 – 2015) …377
Pippi Bonsegna, Ricordo di Totò Bonuso una vita per il lavoro… e non solo

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna

????????????????????????

Premessa al volume di Alessio Palumbo

 

Agosto 1647. Le teste di sei chierici neretini sono macabramente esposte, come lugubre monito, sul sedile cittadino, accanto a quelle di due cittadini che hanno subito la medesima sorte. A pochi metri da lì, il corpo dell’ottantasettenne barone Sambiasi, appeso per un piede, è lasciato penzolare esanime dalla forca. È l’apice, non certo la conclusione, di una rivolta che per giorni ha infiammato le strade di Nardò, antica città della Terra d’Otranto, e ha spinto i neretini a serrare le porte urbiche, lottando disperatamente per difendere i propri diritti e le proprie libertà dai soprusi perpetrati dall’antico feudatario. Un evento eccezionale ma non unico, né tantomeno isolato.

La rivolta neretina è infatti contemporanea a tante altre che squassano, alla fine della prima metà del Seicento, Napoli, il sud Italia ed altri luoghi della cristianità. Nell’estate del 1647 in tutto il meridione serpeggia lo spirito dell’insurrezione: l’esempio della capitale spinge le città, i borghi e le campagne del viceregno ad insorgere. Contro le gabelle, contro la fame, contro i nuovi affaristi venuti da fuori, contro le angherie e le vessazioni dei propri signori feudali: il popolo, spesso spalleggiato (a volte manovrato) dal clero e dai nobili, si ribella. Non ci troviamo di fronte a scoppi di collera occasionali o contingenti, bensì a rivolte figlie del secolo e dei numerosi mali che lo tormentano.

Anche nei fatti di Nardò ritroviamo, seppur in scala ridotta, alcune delle principali ragioni che hanno indotto numerosi storici a definire il XVII secolo come l’età della crisi: il feudalesimo rampante, pronto a recuperare in maniera violenta un ruolo di prestigio ed una potenza che la crisi economica e le nuove dinamiche sociali hanno messo in serio pericolo; la povertà che attanaglia i popoli dell’area mediterranea, oramai lontana dai nuovi traffici oceanici; il fallimento della Spagna, gigante dai piedi d’argilla che, piegato su se stesso, trascina nel declino i suoi stati satellite in un vortice di corruzione, fiscalismo, squilibri sociali, carestie; i costi, non solo monetari, delle numerose guerre che insanguinano l’Europa.

Questi ed altri fattori, con diversa incidenza, interagiscono in modo alchemico creando, a Nardò come in altri luoghi della tormentata Europa seicentesca, una situazione letteralmente esplosiva. I moti di cui andremo a parlare deflagrano in un continente reduce da trent’anni di lotte intestine; in un regno, quello di Napoli, che sembra oramai incapace di slegarsi dal mesto tramonto della Spagna; in una provincia, la Terra d’Otranto, povera e lontana dal cuore dell’impero, ma allo stesso tempo ambita da vecchi e nuovi conquistatori.

 

Nei primi due capitoli di questo libro cercheremo di mettere in evidenza le principali cause internazionali, nazionali e locali, che portarono alla rivolta. In molti casi, si farà solo cenno ad eventi, congiunture e fasi storiche: ciò per evitare di annoiare il lettore con nozioni o notizie probabilmente già conosciute o che comunque potrebbero essere ricavate con maggiore completezza da altre opere. Nondimeno, in questo rapido excursus storico, saranno opportunamente rimarcati quei fattori che hanno avuto un influsso sicuramente preminente nella rivolta.

Il terzo e quarto capitolo saranno dedicati alla ribellione neretina. La ricostruzione degli eventi ruoterà attorno ad una data, il 20 agosto 1647, fulcro e punto di svolta dell’intera vicenda e si avvarrà del supporto di testimonianze coeve, quali i diari di Francesco Capecelatro e dell’abate neretino Giovan Battista Biscozzi, di opere storiche “classiche”, come l’ottocentesca Nardò e Terra d’Otranto nei moti del 1647-1648 di Ludovico Pepe, di ricostruzioni più o meno recenti e di fonti archivistiche. Una particolare attenzione sarà dedicata alle carte del processo condotto dal governatore Carlo Manca contro i rivoltosi: le deposizioni di questi ultimi si dimostreranno un utile spunto di riflessione sulla lotta di potere che si trova alla base della ribellione, sulle strategie poste in atto da vittime e carnefici, sullo stesso valore delle fonti documentali.

Infine, il quinto capitolo rappresenterà l’epilogo. Una lunga conclusione, che si protrarrà con fasi alterne per oltre un quindicennio e porterà gli accadimenti neretini all’attenzione della stessa corte di Spagna. La lotta armata lascerà il posto alle controversie giuridiche, ai ricorsi ed i controricorsi, fino a giungere ad un finale che, per molti versi, non accontenta nessuna delle parti in gioco.

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna

????????????????????????

Prefazione al volume di Marcello Gaballo.

 

Una storia dimenticata

di Marcello Gaballo

 

La storia narrata in questo libro è, per molti versi, una storia dimenticata.

Dalla metà del diciassettesimo secolo ad oggi, cronisti, storici, studiosi e semplici appassionati hanno scritto pagine e pagine sulla rivolta di Nardò del 1647. Le angherie patite dalla città per decenni, la disperata ribellione contro il proprio signore, la vendetta di quest’ultimo ai danni dei cittadini a lui maggiormente invisi, gli omicidi senza processo, le persecuzioni che durarono per anni, l’impegno di alcuni neretini di fronte alle magistrature napoletane e spagnole sono stati raccontati in vario modo, a volte con dovizia di particolari a volte nel contesto di altre tematiche di carattere storico. Nondimeno questa vicenda resta, sotto molti punti di vista, una storia dimenticata.

Dimenticata dai neretini.

Forse non interessati alla storia dei propri antenati, forse non adeguatamente informati e sensibilizzati, i cittadini di Nardò non hanno certo una memoria consolidata e condivisa sull’argomento. Nelle scuole non se ne è quasi mai parlato, né se ne parla e, nonostante una tendenza diffusa negli ultimi anni a recuperare le tradizioni, le musiche, i canti dei nostri avi, gli antichi idiomi e le pagine di storia locale, la vicenda dei martiri di Nardò è rimasta (e tuttora rimane) fuori dalle aule, lontana dalla sensibilità comune, estranea agli interessi della città.

Dimenticata dalla Chiesa.

La rivolta vide tra i suoi fautori numerosi ecclesiastici. Sei di questi furono barbaramente uccisi, senza alcun processo e con la connivenza di monsignor Giovanni Granafei, a quel tempo vicario del vescovo di Nardò Fabio Chigi. La Chiesa dell’epoca non fece nulla o quasi in difesa dei propri figli e, per i secoli a seguire, la loro triste fine cadde nel più profondo dimenticatoio. Nella lunga teoria di vescovi, canonici, sacerdoti e chierici che si è dipanata dal 1647 ad oggi, nessuno ha mai pensato di dover “confrontarsi” con queste figure, nessuno ha mai ritenuto di dover garantire loro un riscatto morale e spirituale negato dalla storia.

Dimenticata dalle istituzioni.

Sfogliando l’elenco delle strade cittadine, ci si imbatte in “via Martiri Neretini”; consultando la mappa topografica, si può ritrovare questa via all’estrema periferia del paese: la penultima strada ad immettersi sulla statale 174 che porta a Galatone. È questo l’unico segno tangibile tributato al sacrificio del 1647: un segno che io stesso richiesi alla Commissione Toponomastica nella mia breve esperienza da consigliere comunale. Nessuna piazza o via del centro, nessuna targa commemorativa, nessuna stele, null’altro è stato dedicato alla memoria dei neretini che combatterono e morirono in difesa della propria città, dei propri diritti, della propria dignità.

Una dimenticanza che affligge e mortifica. I popoli si fondano sulla propria memoria, sulla propria storia o, perlomeno, sulle pagine più importanti di essa. Perché dunque Nardò ha da sempre rinunciato a riscoprire, a fare propria e a preservare una pagina tra le più gloriose della sua vita ultramillenaria? Perché non è stata capace di far rivivere in una grande strada, in una piazza, in un segno concreto il ricordo degli uomini che, in nome della propria appartenenza ad una città, hanno combattuto, sono insorti, si sono impegnati in una lotta disperata che ha portato alla morte di tanti di essi?

Probabilmente non esiste una risposta per queste domande o forse è una risposta poco edificante. Ciò dovrebbe invitare ad arrendersi? A mettere da parte il ricordo, le emozioni che questa storia sa ancora suscitare, gli insegnamenti che da essa si possono trarre, solo per assecondare l’indifferenza che alberga in molti? Personalmente dico no!

Da più di due decenni, il far tornare alla luce queste gloriose pagine della storia cittadina è divenuto per me un impegno personale o, per meglio dire, un vero e proprio obbligo morale nei confronti dei protagonisti della ribellione. Circa vent’anni fa, visitando l’archivio di Simancas, ebbi modo di consultare alcune fonti di prima mano sulla vicenda: un fondo documentale all’epoca pressoché inesplorato. Nelle ore trascorse nella città spagnola, le lunghe controversie giuridiche, le cronache della rivolta, i resoconti sulle sanguinose gesta del duca di Nardò e la ribellione dei suoi sudditi, il ruolo del re, dei suoi ministri, dei viceré e delle autorità locali rivissero sotto i miei occhi, donandomi un’emozione tuttora viva.

Negli anni a seguire, parte di questa documentazione ha visto la luce grazie ad alcuni studiosi pugliesi, molti dei quali gravitanti attorno al Centro Studi Conversanesi, come Aurora Martino, che desidero ringraziare per la preziosa collaborazione fornita e per l’enorme mole di informazioni restituite con i suoi scritti. Molto restava tuttavia da dire sulle vicende neretine. Per questo ho ritenuto indispensabile continuare le mie ricerche: a Napoli, presso il fondo Brancacciano, dove ho raccolto altre cronache dell’epoca; presso la Biblioteca della Società di Storia Patria, dove ho ritrovato i manoscritti sul processo intentato ai ribelli; e ancora a Nardò, nell’archivio del Capitolo della Cattedrale e in numerosi altri scrigni di fonti. Per anni tutto il materiale raccolto, trascritto e conservato, ha rappresentato la base per articoli, come quelli pubblicati annualmente sul sito della Fondazione Terra D’Otranto[1] e per opere di divulgazione, come Nardò a fumetti,[2] una storia illustrata dedicata ai piccoli neretini affinché germogliasse in loro un desiderio di conoscenza sulla storia della propria città.

Nonostante questi miei interventi personali e la pur ricca bibliografia esistente sull’argomento, ritenevo tuttavia giunto il momento di elaborare un lavoro più organico sulla vicenda, un’opera capace di incastonare i fatti di Nardò in un contesto storico più vasto ed articolato. Per questo decisi di affidare il frutto di anni di studio, letture e ricerche a qualcuno che, per preparazione e sensibilità, potesse essere in grado di donare loro una nuova veste. Questo qualcuno è stato Alessio Palumbo, il quale ha aderito con trasporto ed entusiasmo al mio progetto e che per questo ringrazio. Quest’opera è, in sintesi, il connubio tra un’antica passione e l’entusiasmo di giovani studiosi. Essa rappresenta dunque un tributo scientifico ma anche sentimentale ai fatti del 1647.

Risvegliare nei suoi lettori un interesse, una passione, anche una semplice curiosità su quanto accaduto; far comprendere ai neretini vecchi e nuovi e, soprattutto, a chi ne cura la formazione sin dalle prime classi scolastiche, l’importanza di riscoprire e conservare gelosamente il proprio passato; inculcare, in chi ne ha il potere, l’obbligo morale di garantire un riscatto (conoscitivo, civile, religioso) alle vittime di quella che fu una vera e propria barbarie: sono questi i principali obiettivi che questo volume si pone. L’auspicio è che riesca ad ottenerli tutti e tre. Se così non fosse, nondimeno avrà rappresentato, per i suoi autori e per chiunque vi abbia contribuito, un gradito impegno personale per studiare, ricordare, ripercorrere e rivivere una vicenda esemplare.

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/16/lolocausto-di-nardo-un-tributo-doveroso-ai-suoi-martiri-a-363-anni-dalla-loro-tragica-fine/

Http://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/20/20-agosto-1647-lolocausto-di-nardo-seconda-parte/.

[2] M. Gaballo, Nardò a fumetti. Pagine di storia, cronologia ed altre notizie, Lecce, Conte Editore, 1996.

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna

????????????????????????

Mercoledì 19 agosto 2015 nel chiostro dell’ex Seminario verrà presentato, alla presenza del sindaco Marcello Risi e dell’assessore alla Cultura Mino Natalizio, il libro Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’Età Moderna, Congedo Editore. Interverranno don Giuliano Santantonio, direttore dei “Quaderni degli archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, l’autore Alessio Palumbo e la dottoressa Maria Luisa Tacelli, docente di Diritto Canonico presso l’Università del Salento.

 

 Indice del volume

Una storia dimenticata. 4

Premessa. 7

Nota al lettore. 9

  1. ………. La crisi del Seicento e la fine dell’egemonia spagnola. 10

1.1.      Sotto il segno della depressione. 10

1.2.      Sull’orlo del collasso.. 15

1.3.      Il viceregno.. 19

1.4.      Il baronaggio rampante. 22

  1. ………. La vigilia della rivolta. 26

2.1.      Nardò e la casa Acquaviva.. 26

2.2.      Il Guercio.. 29

  1. ………. La Rivolta. 41

3.1.      La rivolta napoletana.. 41

3.2.      Viva Dio! Viva il Re et mora lo mal governo: Nardò si ribella.. 44

3.3.      Fe bando che si mettessero tutti in arme: i primi giorni della rivolta.. 50

3.4.      E principiarono a metter fuoco nell’aere: la battaglia.. 53

3.5.      Fé venire detto Vescovo, e incominciarono a trattare: la tregua.. 57

3.6.      E in quell’istante si vide oscurarsi l’aria: la strage d’agosto.. 62

  1. ………. Il processo. 70

4.1.      Il processo di Carlo Manca: una nuova arma nelle mani del conte. 70

4.2.      Il ruolo dei canonici71

4.3.      I nemici fuori da Nardò.. 76

4.4.      Strane coincidenze. 80

4.5.      Tracce di umanità.. 82

  1. ………. Epilogo. 86

5.1.      Lo clamavan rey de la Pulla.. 86

5.2.      Da Nardò a Madrid.. 90

5.3.      Giovan Girolamo e Giovan Pietro alla corte di Filippo IV.. 93

Conclusioni104

Appendice  109

 

 

 

 

Avevano simulato di temere il duca,

con il pretesto di difendere la città

dai soldati che il duca avrebbe inviato a loro danno.

In realtà si erano ribellati con il duca

 che era loro signore e principe legittimo,

 poiché si erano dati il diritto di prendere le armi contro di lui.[1]

 

 

[1] Archivio Segreto Vaticano, Archivium Arcis, Arm. E, 127 (Super Tumultis Populi Civitatis Urbini Anno Domini 1573), cc. 312 v – 320 v in A. DE BENEDICTIS, Tumulti: moltitudini ribelli in età moderna, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 24.

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna

????????????????????????

Premessa al volume di don Giuliano Santantonio

 

Nel leggere la prefazione a questo volume, a firma del dott. Marcello Gaballo, sono rimasto profondamente colpito dagli interrogativi, peraltro condivisibili, che egli solleva dinanzi all’inspiegabile e rattristante dimenticanza di un evento che, nella sua tragicità, ha invece del grandioso e dovrebbe essere motivo di orgoglio per la città di Nardò, che grazie ad esso è salita alla ribalta della grande storia con una originalità tutta sua propria, intorno alla quale occorre tuttavia stendere ancora un po’ d’inchiostro.

Non intendo minimamente sminuire le responsabilità di chi in quel preciso momento storico era a capo della Chiesa neritina, il cui comportamento è da stigmatizzare come gravemente deplorevole per più ragioni: perché in contrasto con i principi del Vangelo a cui avrebbe dovuto ispirarsi; perché lesivo della giustizia tanto umana quanto divina; perché abusivo nei confronti della suprema autorità ecclesiastica, di cui vanificò l’intervento censorio occultando il monitorio che preludeva alla scomunica dei colpevoli; perché privo, soprattutto nei confronti dei chierici, di quella paternità che è dovere primario per chi ha il compito della cura pastorale di una diocesi. Mai come in questo caso però si può dire che il pastore non espresse il sentire del gregge: ne è prova il fatto che le prime vittime delle efferatezze del conte-duca furono proprio esponenti tra i più illustri del clero locale.

Posto che è innegabile una certa contiguità, che caratterizzò il tempo di cui trattiamo, tra gli alti ranghi ecclesiastici e la nobiltà, alla quale comunque appartenevano, mi permetto di osservare che estendere la responsabilità del silenzio complice del vicario Granafei ai più alti livelli della gerarchia ecclesiastica appare francamente poco fondato: Fabio Chigi, vescovo di Nardò, risiedette in Germania quale nunzio dal 1636 al 1651 e quello che apprendeva dai suoi informatori non è detto che rispondesse alla realtà dei fatti; non sarà stato un caso se il monitorio di Innocenzo X fu emanato nel 1652, cioè pochi mesi dopo la nomina di Fabio Chigi a Segretario di Stato e il suo rientro a Roma, anzi lascia supporre che una migliore conoscenza degli eventi abbia spinto l’autorità centrale della Chiesa a compiere i passi previsti ai fini della comminazione di una eventuale censura; peraltro il monitorio non è l’atto di scomunica, ma l’ingiunzione a deporre su fatti meritevoli di scomunica, per cui la sua omessa pubblicazione di fatto impedì la resa delle deposizioni che avrebbero innescato il procedimento censorio; non vi sono prove che il Chigi, che ovviamente doveva fidarsi del suo vicario, avesse potuto sospettare comportamenti abusivi da parte dello stesso, che in tutta la vicenda si curò peraltro di apparire del tutto estraneo.

Per il resto il silenzio calato sulla vicenda si può interpretare inizialmente come espressione di comprensibile paura di fronte ad una prepotenza che sembrava non conoscere limiti: in situazioni di tal genere l’eroismo di un’opposizione esplicita non sempre è la scelta più saggia, soprattutto quando, come nel caso di cui ci stiamo interessando, poteva fomentare vendette e sofferenze ancora più atroci quanto inutili alla causa. Ma non si può tacere che qualcuno ebbe il coraggio, anzi l’ardire, di consegnare ad uno scritto, rimasto nascosto sotto la polvere del tempo, la memoria delle nefandezze vedute e patite: forse era tutto quello che in quel momento poteva essere fatto, e noi lo ringraziamo perché ci offre oggi la possibilità di apprendere da un testimone diretto e credibile i particolari e i contorni di una vicenda, che può essere così apprezzata in tutta la sua portata non solo storica, ma anche umana e cristiana.

Il silenzio successivo può essere dovuto al fatto, anch’esso istintivo e naturale, che l’uomo tende ad esorcizzare le esperienze che lo hanno ferito in profondità, stendendo un velo sopra il passato e volgendo di preferenza lo sguardo verso il futuro, in cui trovare motivi per risvegliare la speranza di un mondo migliore. Meno comprensibile invece è il silenzio dei posteri: bisogna avere il coraggio di fare sempre i conti con il proprio passato, perché solo così la storia, secondo l’insegnamento di Cicerone, diventa maestra di vita, antidoto al ripetersi delle nefandezze compiute, trampolino di lancio verso un futuro più promettente.

Questo lavoro, che compone egregiamente i fatti in maniera sufficientemente completa e critica e li rilegge in un contesto di più ampio respiro, consente ora ad un’intera Città di riappropriarsi del proprio passato, risvegliando la memoria intorpidita e soprattutto prendendo coscienza di valori imperituri, impregnati del sangue di martiri innocenti, che devono essere sventolati come una bandiera anche nel nostro tempo, esso pure insidiato da una congerie di morbose e destabilizzanti tentazioni, sempre sulla linea della prepotenza e della corruzione, da cui vengono ineluttabilmente partorite, come la storia dimostra, ingiustizie, violenze e ogni forma di prevaricazione della libertà e della dignità dell’uomo e dei popoli.

Un pensiero di gratitudine voglio indirizzare, tra le innumerevoli vittime della ferocia del Guercio di Puglia, ai sei chierici che, dopo aver intercettato il disagio popolare e guidato il tentativo di riscatto dall’insopportabile oppressione del dispotico feudatario, hanno affrontato la morte con commovente ed edificante coerenza evangelica, confermando con l’immolazione della vita la loro scelta vocazionale di dedicarsi, in nome di Dio, al servizio dei fratelli. A loro il Registro dei defunti alla data del 20 agosto 1647 dedica un laconico “morirono e si sepelirono nella Cathedrale”, naturalmente senza esequie. Mi auguro che a questo volume, dedicato al loro sacrificio, ogni neritino voglia aggiungere la propria memoria grata, che continui a farli vivere come fari luminosi di umanità e di civiltà da additare alle nuove generazioni.

 

 

Dalla parte dei giusti. Il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo

copertina_giusti
Copertina dell’opuscolo che sarà distribuito gratuitamente il 19 agosto

Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo di detta Città [*]

 

A… Luglio 1636, venne il Sig. Conte di Conversano, a pigliare possesso della città di Nardò, per la morte di sua Matre D. Catarina Acquaviva, il detto si chiama D. Geronimo.

A 26 Marzo 1638, venne avviso che nella Calabria per una scossa di tremuoto, aveva gettato a terra trenta luochi.

A 12 Agosto 1639  giorno di venerdì, la matina, ad ore 13, fu ammazzato Francesco Maria Manieri, nobile, con una archibugiata, sopra il Cemiterio della Chiesa Matrice, giusto la porta magiore, l’omicita fu un tal Prome Felice, uno che guardava la foresta del Sig. Conte, e si dice esser stato mandato da detto Sig. Conte, per causa che detto Manieri, aveva detto mentre era Sindaco che poco era che era cessato da detto officio, che il Sig. Conte non possedeva libero Nardò, mentre prima di lui, lo possedeva uno casa del Balzo, pignorata per 24 mila docati, fu levata dalla Corte, a detto Balzo, e ne investì detto Sig. Conte, per servigi avuti Sua Maestà, nella guerra, e avendo la Città detta somma di denaro, e pagandolo, restarebbe detta Città Regia; altri dicono che detta Città fu data a detto Sig. Conte, per i servigi fatti nella guerra, vita sua durante, e che se ne pigliasse carlini quindeci per fuoco, l’anno, e doppo morto, s’incorporasse al patrimonio Regio, che così li fu concessa dal Re Ferrante, in tempo che era Sindaco Roberto Sambiasi.

A… Maggio 1643, venne il Canzelliere Mugnes, per la morte di Francesco Maria Manieri, ed annullò il Governo, essendo Sindaco, Gio: Bernardino Massa, de Nobili, e Delfino Zuccaro del Popolo, e nella nuova elezzione fu fatto Sindaco de Nobili Dr. fisico Pietro Gabellone, e Cesare de Paulo del Popolo, detto Governo fu confirmato da S. E., il detto Mugnes sequestrò la giurisdizzione della Città al Sig. Conte.

A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.

A 23 Febraro 1646, furono chiamati in Roma, Dr. Ottavio Sambiasi, D. Gio: Francesco Sambiasi, Cherico Carlo Sambiasi, D. Gio: Cola Sambiasi, Abate Gio: Filippo de Nuccio, Cherico Innocenzio de Nuccio nobili, D. Vitantonio Puzzovivo, D. Onofrio Nestore, D. Francesco Maria Gabbellone, Cherico Domenico Gabbellone, D. Diego de Vito, Cherico Pietrantonio de Vito, Abate Gabriele Nestore, Cherico Francescantonio Giullio, D. Gio: Antonio de Monte nobili; Gio: Francesco Demitri, Cherico Giuseppe Bruno, Cherico Scipione Querriero nobile, Cherico Giuseppe Manieri, Cherico Scipione de Nuccio nobile, Cherico Giullio Cesare de Pandis, Cherico Mercantonio di Vernole, Cherico Patonno Giannelli, tutti questi furono chiamati sotto pretesto che avessero levate certe esecuzioni fatte dal Governatore nelle bestiami de preti, che non volevano pagare il dazio, andarono dal Vicario Generale, che era l’Abate Giovanni Granafeo di Brindisi, il medesimo risposeli che su questo, non penzassero, che l’averebe da difendere, tutti i nominati costituirono procuratore in Roma, e non andarono.

A 21 Luglio 1647, Domenica ad ore 22 si rivoltò il popolo contro Gio: Ferrante de Noha Auditore de Nobili stando pro Sindaco, perché li Sindaci, erano in Lecce, la rivoluzione fu per mancanza del pane, quale portò pericolo della vita, si rivoltò anche contro il Governatore Dr. Geronimo Regina, per l’ingiustizie fatte nel suo governo, detto Popolo gridava che volevano per Sindici Stefano Gabellone de Nobili, e Cesare de Paulo del Popolo, e che cessino di Sindici, Gio: Bernardino Sabatino, nobile, e Francescantonio Bonvino del Popolo, tutti aderenti del Sig. Conte, condiscese detto Governatore, e firmò le scritture; in detto tempo si rivoltò Napoli, e tutto il Regno.

A 22 Luglio1647, vennero in Città detti Sindici, quali stevano rifugiati in Corigliano, essendo detto Marchese D. Giorgio delli Montii. contrario al Sig. Conte, e arrivati che furono, subito il popolo li dettero il Stendardo Reale in mano del Sindaco dei Nobili, che lo portasse nel Castello, e con tutto che detto Sindaco ricusava di farlo, fu necessitato a portarlo, mentre portava pericolo della vita.

A 22 Luglio 1647, il popolo ammazzò Giuseppe Sponziello tamborrino, havendoli scoverto, che voleva ammazzare il Sindaco de Nobili.

A 23 Luglio 1647, ruppero tutti li vasi, e cassette buttando tutte le robe che vi erano dentro della Spezieria di Antonio Corilli veneziano, per aver detto al popolo, che è ribelle del Patrone, sdegnato il Popolo di questo, s’aventarono sopra per ammazzarlo, e perché lo scampò dalle mani arrabiati di questo volevano sbarbicare detta Spezieria da fondamenti, ma perché non era da detto Corilli, si trattennero.

A 24 Luglio 1647, fu fatto capopopolo Patuano, il quale fe bando che si mettessero tutti in arme, come già si videro armati per la Città, andando in Casa di Gio: Lorenzo de Vito nobile, ed in casa di Luzio Zuccaro, Scipione Zuccaro, e dal Governatore, ed altre case, a trovare i Patroni per ammazzarli, come contrari della Città, e ad essi havendone avuto l’avviso, se ne fuggirono in Galatone, come anche fè D. Diego Acquaviva cugino del Sig. Conte.

A 26 Luglio 1647, fu ammazzato Giorgello, serviente del Sig. Conte, per aver sparlato contro la città.

A 26 Luglio 1647, volendo uscire dalla Città la Sig.ra D. Beatrice Acquaviva, con tre figlio il Popolo non la fè uscire.

A 28 Luglio 1647, passando per la vicinanza di Seclì Donatantonio Bonsegna, fu carcerato per ordine del Patrone di detto luoco D. Antonio d’Amato, come cugino del Sig. Conte, saputosi questo dalla Città, mandarono due Riformati, con imbasciate ad esso Barone, che se non scarcerava detto Bonsegna, farrebbero uscire sua sorella dal Convento di S. Chiara, e la brugiariamo, per detta imbasciata subito fu scarcerato; e la sua carcerazione fu per essere stato lui che disse, che si portasse il Stendardo a Castello.

A 29 Luglio 1647, venne ordine da Lecce, che lasciassero uscire dalla Città, D. Beatrice Acquaviva, moglie del Sig. D. Diego Acquaviva; il popolo ubitì.

A 1 Agosto 1647, ad ore diece arrivarono da settanta soldati a cavallo, che andavano scorrendo per la campagna, e attorno alla Città, pigliarono da settanta e più persone, e ne le portarono con essi, tutti questi stevano nell’aere pesando il grano, e chi guardava il fatto suo, e fra questi vi fu Pomponio Argentone nobile, D. Pietrantonio Fisio, nobile, ed altri; la gente a cavallo erano del Sig. Gio: Battista Cicinielli, e da D. Francesco Pignatelli, parenti del Sig. Conte, ed altri di Nardò aderenti del Sig. Conte, e questi andarono a Copertino ad aspettare il Sig. Conte, che veniva ad assediare la Città.

A 2 Agosto 1947, ad ore nove, di nuovo vennero li sopra detti a Cavallo, e principiarono a metter fuoco nell’aere, e fra le altre una si chiama Soleci, l’altra li Mangani, con questa occasione vennero molta gente di Galatone, e se ne portarono molto grano, scampato del fuoco; detta gente andarono per le Masserie d’intorno alla Città, e a quella di Arneo, e pigliarono tutte le bestiami, pecorine, e vaccine, le pecore furono 3000, le vaccine 200 e diverse giomente, e sommarrine, diverse altre Massarie non furono danneggiate, perché erano della partita del Sig. Conte; detta gente si avvicinarono sotto le Muraglie, e incominciarono a tirare archibugiate alla gente che steva sopra le Muraglie tutta armata, mentre avevano avuto l’avviso, che veniva il Sig. Conte, con molta gente armata, per assediare la città, in questo tempo si tirarono molte moschettate d’ambe le parti, ma non successe danno alcuno, la Città tirò un pezzo d’artigliaria, e perché l’artiglieri, non era troppo prattico, non offese nisciuno, doppo ciò la gente di fuora, nuovamente si ritirò in Cupertino.

A 2 Agosto 1647, venne avviso da Lecce, esser stato ammazzato il Dr. D. Ottavio Sambiasi, dentro il cimiterio de Patri Conventuali, perché era avvocato della Città.

A 3 Agosto 1647, ad hore nove arrivò la gente che portava il Sig. Conte con due suoi figli, D. Giulio, e D. Tommaso, e posarono mezzo miglio distante dalla Città, con questi andavano uniti il Principe di Presicce, il Duca di S. Donato, il Marchese di Cavallino, D. Gio: Battista Cicinelli, D. Tuglio di Costanzo, D. Diego Acquaviva, il Barone di Lizzaniello, il Barone di Seclì, ed altri Signori, ciascheduno con la sua gente, due compagnie di cavalli, una compagnia di fanteria, cento Picheri, trenta Gentiluomini di Lecce, con i loro servitori, ci furono anche gente d’Altamura di Monte Peluso, di Bari, di Brindisi, di Gallipoli, di Francavilla, di Casalnuovo, di Galatone, di Casarano, ed altri luochi, che in tutto furono 4000 persone, tutti bene armati, incominciarono a toccar tamburi, e trombette; inteso questo la Città, subito corse la gente alla difesa, e tirarono una cannonata verso l’inimico, proprio alla cavalleria, che li recò non picciol danno, la Città aveva trovato un artegliere inglese, molto pratico a tirare, e si vedeva che dovunque voleva tirava fra lo spazio di un quarto d’hora, vennero dietro la Porta della Città, tre cavalli, con le selle vuote; il nemico si portò vicino al Convento de Patri Paoloni, da dove ebero qualche fastidio i cittadini, quale incominciarono a tirare, quelli di fuora e quelli di dentro, portò il caso che un giovine salendo su una pergola per pigliare uva, li fu tirata una schioppettata, fu colpito nell’occhio, e se ne morì, della parte delli inimici, per relazione di quelli di fuora ne morirono 120 detta battaglia durò due giorni, e due notti, il Sig. Conte mandò due Capoccini, per l’accordio, i Cittadini rifiutarono il partito, nuovamente rimandò detti Patri, li fu risposto che mandasse il Vescovo di Lecce per necozziare, il Sig. Conte fè venire detto Vescovo, e incominciarono a trattare, la pretenzione della Città fu, che il Sig. Conte levasse tutte le gabbelle, e che la balliva sincome ab antico, era della Città, e presentemente la possiete detto Sig. Conte, la rilasciasse ad essa Cità, e in ricompenza di ciò, la Città si obbliga di pagarli 500 docati annui, mentre i cittadini sofrivano molto incommoto per detta balliva, mentre il Sig. Cote la vendeva in ogni anno docati 2000, e perché il compratore non podeva esiger tanto, accordava tutti quelli che avevano bestiami, come esso voleva, senza che nisciuno possa opponersi, e che per l’altre differenze che esistono tra la città, ed il Sig. Conte, se la vedessero di giustizia, tutto questo cercò la città, il Sig. Conte cercò, che li cittadini, nollo contrassero nelli suoi officiali, e che sia levato il Stendardo Reale dal castello, che haveva portato il Popolo.

A 7 Agosto 1647, andarono i cittadini, nelle loro Massarie, e le trovarono spogliate di bestiami, formagio, e di tutte le vettovaglie, e brugiate le case, le porte atterra, in vederle era pietà, si calculò il danno, ed arrivò alla somma di trentamila ducati.

A 9 Agosto 1647, un Massaro che steva nella Masseria nominata S. Elisa, era dell’Arciprete, ponendo fuoco alle ristocce, detto si attaccò alle rene, e abrugiò più di mille alberi, e sarebbe stato magiore il danno se non avessero corsa la gente dalla città, a smorzar detto fuoco.

A 10 Agosto 1647, venne il Sig. Gio: Battista Ciciniello, per causa che il Popolo si andava movendo, mentre si vociferava che i patti di levare le gabelle, e bagliva non si osservava, ma detto Ciciniello, queitò il popolo.

A 11 Agosto 1647, il popolo non si quietò affatto, ma diceva che per tutti i luochi non si pagava nisciuna gabella, ed in Nardò si, si pagavano due carlini a tumolo nella cartella della farina, volle il Popolo che rilevasse detta gabella, e per tal causa passò pericolo della vita il Sindaco de Nobili Gio: Bernardino Sabatino, quale fu di bisogno andare unitamente col Popolo alle Moline, è ordinare all’esattore, che lasciasse entrare tutte le persone, senza pagare cosa alcuna, così s’acquietò il Popolo.

A 13 Agosto 1647, l’aderenti del Sig. Conte, per tal mossa fatta dal Popolo, ne dietero avviso in Conversano al Sig. Conte, e usciti di notte detti aderenti, pigliarono tutta l’artigliaria della città, e dato di mano al Magazzeno della polvere, e altro, tutto trasportarono nel castello, la matina havendo inteso questo il Popolo, parte si ritirarono nelle chiese, e parte se ne uscirono dalla città ricuperandosi nei luochi circonvicini.

A 14 Agosto 1647, l’aderenti del Sig. Conte, pigliarono carcerati, il capo Popolo Patuano… Giuseppe Spatò Giov. Domenico Scopetta, e Gio: Francesco di Calignano, e li portarono carcerati nel castello, detti aderenti andavano per la città armati, intraccia di altri loro contrari, detti aderenti pigliarono informazione, benché falsamente, contro il Popolo, costandoli che volevano ammazzare tutti l’arderenti, detta informazione fu mandata in Utienza, quale la medesimo mandò due Auditori, con una compagnia di cavalli, che erano di D. Tiberio Garrafa, detta compagnia fu mandata ad allogiare nelle case de loro contrari, cioè in casa di D. Francesco Maria Gabellone nobile, Abate Gio: Filippo de Nuccio, nobile Abate Gio: Carlo Colucci, nobile, Pietro Spinelli nobile, Barone Pietr’Antonio Sambiasi, Barone Gio: Guglielmo Sambiasi, Dr. Abbate Benedetto Trono, Antonio d’Anili, ed altri, detti due Auditori dietero ordine che si esigessero le gabelle del Sig. Conte.

A 17 Agosto 1647, fu pigliato dalla chiesa di Casole territorio di Copertino, Cesare de Paolo, e li fu tagliata la testa, vicino la chiesa del Ponte, e pur anche fu pigliato Giuseppe Olivieri, che steva in Leverano, e li fu tagliata la testa, nelli patuli, e tutte due teste furono portate nel castello, dove stevano tutti l’aderenti, saputosi tal fatto dal Tenente de Cavalli, andò in castello lamentandosi, con dire che non havevan fatto bene a tagliar le teste a quelle due persone, quando che detta cavalleria, steva per ordine dell’Aditore Sarsale, per la quiete della città, promettendo, così l’aderenti, come i cittadini di posar l’arme sub fide Regia, e così si avevano acquietati, li fu risposto a detto tenente esser vero la parola data, ma questo successo, fu in campagna, e fu per inimicizie particolari de Cittadini, e perciò non sono incorsi a trasgressione d’ordine.

A 19 Agosto 1647, furono pigliati carcerati, l’abate Gio: Filippo De Nuccio, l’abate Donato Antonio Roccamora, nobili, Dr. Abate Benedetto Trono, Dr. Abate Gio: Carlo Colucci, Francesco Maria Gabellone, e il chierico Domenico Gabellone Fratelli, D. Giovanni Giorgino, Stefano Gabellone, Fratello dell’anzidetto Gabelloni, tutti questo stevano uniti in casa delli detti Gabelloni per sicurità, mentre in detta casa steva il Tenente della Compagnia, e detto Tenente li pigliò carcerati in poder suo, tutti questi furono che nella falsa informazione presa, che erano stati i fomentatori alla ribellione, e alla congiura contro l’aderenti del Sig.Conte; vetendo questo, molti del Popolo incominciarono ad uscire della città, andando per diversi luochi, ma la maggior parte in Gallipoli.

A 20 Agosto 1647, dalla gente del Sig. Conte furono tagliate tre strade, che uscivano al Castello, e incominciarono a trincerare detto castello, alzare la quarta Torrione, quale circondano tutto il castello, fecero anco il ponte, ed il restiglio nella prima entrata.

 

A 20 agosto 1647, fu tagliata la testa al Dr. Abate Gio. Carlo Colucci, d’anni 47; al Dr. Abate Benedetto Trono d’anni 70; Arciprete Gio. Filippo Nuccio, di anni 42; Abate Donato Antonio Roccamora, di anni 53; D. Francesco Maria Gabellone di anni 40; chierico Domenico Gabellone d’anni 37; prima furono archibugiati, e poi tagliate le teste, detto fatto fu dietro il convento di S. Francesco di Paola, e in quell’istante si vide oscurarsi l’aria in tal modo, che non si vedevano l’uno con l’altro, e finito che ebero tal carneficina, l’oscurità si risolse in pioggia così abondante, che era quasi un diluvio, detti sfortunati preti, dacché uscirono dal castello dove stavano carcerati, sino all’hora della loro morte, non mancavano di salmegiare, e dire diverse orazzioni, dandosi animo l’un con l’altro, e dicendo de continuo, Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, tra li quali D. Francesco Maria Gabellone, non cessò mai di dire, Conceptio tua Dei genitris Virgo gaudium annunciavit universo Mundo, e doppo morto anche flebilmente risentiva dire dette parole, questo fatto ad hore diecinnove;  nell’istessa notte fu ammazzato il Barone Pietrantonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo d’anni 37[†], morto che fu l’appesero per piede alle furche mezzo della Piazza, e le teste delli reti furono posto su il Sedile, e li corpi de medesimi distesi nella piazza attorno le furche.

A 21 agosto 1647, entrò il Sig. Conte in città, con suoi figli, Cosmo, Giuglio, e Tommaso, e con altri Signori, in compagnia di 500 uomini.

A 22 agosto 1647, furono pigliati carcerati, il Barone Baldassarro Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, e Gio. Lorenzo Colucci, nobili, e furono portati al castello.

 

A 22 agosto 1647, si dette sepoltura alli corpi de preti, e di Pietrantonio Sambiasi, ma non alle teste.

 

A 23 agosto 1647, furono carcerati nelle carceri del Vescovo, D. Donato Antonio Pizzuto e D. Onofrio Mastore, sotto pretesto che havessero portato polvere alla città, in tempo che stava assediata, e che havessero accompagnati alcuni gentiluomini che fugivano dalla città.

A 25 agosto 1647, fu gettato a terra lo studio, e due altre camere dell’Abate Gio. Carlo Colucci.

A dì detto si diè il sacco nelle case di Vitantonio Falconi, con dire che s’avesse trovato nella congiura.

 

A 26 agosto 1647, fu pigliato carcerato da Copertino, e portato in questo castello di Nardò il Medico Francesco Maria dell’Abate.

A dì detto si dette il sacco nella casa di Gio. Pietro Giuglio nobile per haver pigliato il stendardo di Sua Maestà dentro la chiesa ove si conservava e datolo a Stefano Gabellone Sindaco de nobili fatto dal popolo, per portarlo nel castello.

A 4 settembre 1647, mercordì all’alba partì il Sig. Conte, con sui filli, et altri signori, portando con essi mille cavalli, e cinquecento petoni, nella città di Lecce, ed entrate alcune persone per la porta falsa del castello, pigliarono D. Francesco Boccapianola mastro di campo di questa provincia insieme con la moglie e figli, e tutta la famiglia, detto Boccapianola s’aveva ritirato nel castello perché il popolo lo voleva ammazzare, con dire che era contrario a detto popolo, e unitosi col sig. Conte, e Duca di S. Donato, e perché detto Duca era stato scacciato da S. Cesario suo luogo, ed essendosi dato il sacco al suo castello di detto S. Cesario, da suoi vassalli, insieme con gente di Lecce, e di Lequile, sdegnato di questo il sig. Duca, et havendosi trovato l’ocasione di questa comitiva, ordinò che si desse il sacco a detto casale di S. Cesario, a questo replicava il sig. Conte, ma il sig. Duca sdegnato quanto più si può, si diè alla fine il sacco, non lasciandoci né meno una paglia dentro delle case, in ultime gettarono tutte le porte a terra, e tirarono di queste anche li chiodi che in vederlo era una pietà, il sig. Duca havendolo visto ne restò molto mortificato, e questo lo visto io proprio mentre andavo a Lequile per vedere certi miei parenti per coriosità volsi andare a vedere detto luogo; in detto luogo fecero residenza tutta quella gente cinque giorni, trattando se andavano a dare il sacco alla città di Lecce, per haver commessa ribellione, havendo il popolo ammazzato il conzelliere Aracca, essendo venuto per aquietare il popolo, perché tumultuava, e perché li cittadini havevano inteso, che avesse venuto per mettere le gabelle, che serano levate, e perciò l’amazzarono. Tra pochi giorni venne ordine da Napoli da S. E., che siano aggraziati tutti i cittadini di Lecce per l’omicidio fatto in persona del detto conzelliere, e che detta città ricevesse per mastro di campo Boccapianola, quale non lo voleva ricevere, ma in luogo suo voleva il sig. Giacomo Spinola genovese, e perciò il sig. Conte, e detto Boccapianola si ritirarono in Nardò per consultare questo fatto.

A 5 settembre 1647, fu pigliato carcerato Andrea Zuccaro, e portato al castello.

A 7 settembre 1647, fu pigliato carcerato cherico orlando Spina di Gallipoli, e cherico Antonio Monittola di detta città, quali passando da S. Cesario per andare in Lecce, per loro affari, ed essendo stati visti dalla gente del Sig. Conte furono pigliati, il Monittola fu lasciato, ma il detto Orlando fu carcerato, per aver fatto imbarcare in Gallipoli il marchese della Caia, D. Francesco delli Monti per haver fuggito dal Regno.

A 8 settembre 1647, Orlando Spina fu trasportato dal castello di Nardò al castello di Taranto.

A 10 settembre 1647, Boccapianola, assieme col Sig. Conte, mandò in Lecce per provista del castello, duoteci carrette di grano, oglio, formaggio, e pietre di moline, i cittadini di Lecce riceverono dette carrette, ma non le consegnarono al castello, perché i cittadini stavano inimici, con quelli del castello, e detta città voleva essa darli la provista, quale il castello non voleva ricevere cosa alcuna dalla città, protestandosi che non voleva altro provveditore, che Boccapianola, saputosi questo da detto Boccapianola, spedì molti corrieri per la provincia, a tutti li Baroni che si conferiscano in Nardò, per andare ad assediare la città di Lecce, per aver incorso al ribeglione, negando di dare al castello quella provista, che si mandò dal Governatore dell’armi.

A 14 settembre 1647, fu carcerato Tomaso Spano nel castello, perché portava le lettere da Lecce in Nardò, mandate dal Dr. D. Ottavio Sambiasi avvocato della città.

A 15 settembre 1647, fu pigliato carcerato Gio. Francesco Bisci, villano, e portato al castello, per testimonio, tutti quelli che sono pigliati carcerato sono per costare il ribellione, per li preti morti, ed altri cittadini.

A 19 settembre 1647, furono pigliati carcerati dentro Gallipoli, avendono fuggiti da Nardò, Pietro Antonio Fiazzi, e Giuseppe Scopetta, detti sono stati presi da uno di Gallipoli, affezionato del Sig. Conte, per nome l’alfiero Annibale Calò, furono trasportati al castello di Nardò.

A 20 settembre 1647, partì per Conversano il Sig. Conte, portando con sé tutti li carcerati, quali furono, il Barone Baldassarre Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, il Dr. fisico Francesco Maria dell’Abate, Gio. Lorenzo Colucci, e Stefano Gabellone il capi popolo Patuano, Giuseppe Spata, Andrea Zuccaro, Pietro Antonio Facci, Giuseppe e Gio. Domenico Scopetta fratelli, D. Giovanni Giorgino, ed un altro villano.

A dì detto fu pigliato il Barone Totino, per ordine di Boccapianola, e fu carcerato nel castello di Nardò, e dopo fu portato nel castello di Gallipoli.

A 23 settembre 1647, partì da Nardò Boccapianola per ordine di sua eccellenza e andò a Munopoli, o a Trani, per far residenza, portando con sé due compagnie di cavalli.

A 26 settembre 1647, fu fatto il bando che tutti quelli che si trovavano fuori dalla città fuggitivi, che venissero a farsi il decreto del Governatore, e che passeggiassero per la città eccettuatone alcune persone, e quelli che non erano eccettuati, nemmeno venivano, perché si vedeva, che il Governatore, mastro d’atti, ed altri aderenti del Sig. Conte, mettevano nella lista tutti indifferentemente, la causa era per abuscar li decreti, o regali e per odi particolari, nuovamente si fe bando, che ognuno venisse liberamente senza decreto, riserbando però tutti quelli eccettuati, quali sono li sottoscritti.

Barone Gio. Guglielmo. e Gio. Francesco Sambiasi, padre e figlio, notaro Alessandro, e Muzzio Campilongo padre e figlio, Mariantonio e Gio. Lelio de Vito, padre e figlio, Antonio e Giuseppe Nociglia fratelli, Matteo e Luca Giorgini fratelli, Gio. Donato e Giacomo dell’Ardita fratelli, Vitantonio delli Falconi nobile, Geronimo Matera nobile, Giuseppe Gabellone nobile, Alessandro Zuccaro, Francesco Luzziano nobile, Virgilio Massafra, Francescantonio Biscozzo nobile, Lupantonio della Fontana, Antonio d’Anili, Aloisio Zuccaro, Donato Antonio Bonsegna, Ottavio Bruno, Gio. Pietro Giuglio nobile, il nome di tutti questi furono  fissati nella piazza.

Altra nota de preti, ma questa non fu fissata in piazza e sono i sottoscritti:

D. Gio. Bernardino Sambiasi nobile, D. Gio. Antonio de Monte nobili, D. Gio. Francesco Cristallo nobile, D. Giuseppe e D. Carlo Piccione fratelli, cherico Gio. Geronimo Carignano nobile, Abate Stefano Conca nobile, D. Alessandro Sambiasi nobile, D. Gio. Francesco Sambiasi nobile D. Alfonso Campilongo nobile, tutti questi notati, sì preti, come laici, si dice che siano incorsi nella ribeglione.

A 11 ottobre 1647, ad hore quattro della notte si levarono le teste delli preti dal Setile, e solamente restarono la testa di Cesare de Paulo, e di Giuseppe Olivieri; si dice che fusse venuto ordine dalla Congregazione al Vicario, che le desse sepoltura, ma detto Vicario prima di far questo, ne scrisse al Sig. Conte; e perciò si levarono dette teste.

A 15 ottobre 1647, venne ordine al Governatore da Sua Eccellenza che mandi il battaglione in Napoli, per soccorso di Sua Altezza D. Giovanni d’Austria, che era venuto per quietare la città di Napoli, per il tumulto accorso, e perché detta città voleva certi patti prima che entrasse Sua Altezza, e non volendo concederli, per tal causa la città si pose in armi, e non lo fece entrare, sdegnato di questo Sua Altezza unito con li tre castelli, esso per la porta del mare, con l’armata navale, sincominciaro a tirarsi con la città, e perciò Sua Eccellenza spedì ordine per tutte l’Università e baroni de luochi, che andassero in Napoli con le loro genti.

A 19 ottobre 1647, venne in Nardò il Sig. Gio. Francesco Basurto, il Sig. Gio. Francesco Pignatelli, il Sig. D. Fulgenzio di Costanzo, detti signori andarono uniti con il Duca di S. Donato, e il sig. D. Diego Acquaviva, che stavano in Nardò, ciascheduno di questi andava con la sua gente chiamati da S. E. in Napoli, come anche furono chiamati tutti li Baroni e cavalieri del regno, e anche la fanteria e cavalleria ordinando a tutte l’Università, che ciascheduno provvedesse li suoi soldati, con darli e i petoni un carlino il giorno, e alli cavalli tre carlini al giorno, e che li pagassero per un mese anticipato.

A 22 novembre 1647, fu pigliato carcerato D. Filippo Demetrio, per haver detto, che l’aterenti del Sig. Conte, toccava fuggire, perché si diceva che il Sig. Conte fusse stato ammazzato, nella guerra di Napoli, con tutti i suoi figli.

A 29 novembre 1647, venne avviso da Conversano della sig.ra contessa, al suo Perceptore, che facesse l’esequie per la morte del Si.g D. Emiglio Acquaviva suo figlio, essendo morto nella guerra di Napoli, a Frattamaggiore.

A 4 marzo 1648, avviso da Conversano che li carcerat che stevano in Conversano, stati ammazzati per ordine del Sig. Conte.

A 5 dicembre 1647, fu pigliata una donna dalla gente del Sig. Conte, e fu posta nel Segio, attaccata alla berlina, per lo spazio di mezz’ora, per haver detto che il Sig. Conte sia morto nella guerra di Napoli.

A 7 marzo 1648, sabato mattina si videro nel Segio le teste di quelle che stavano carcerati in Conversano, e furono il Barone Badassarro Carignano, il Dr. Gio. Filippo Bonomi, Stefano Gabellone Gio. Lorenzo Colucci, Patuano capipopolo, Gio. Domenico e Giuseppe Scopetta fratelli, Giuseppe Spata, Andrea Zuccaro, Pietro Antonio Facci, Archilio, Gio. Francesco di Calignano; venne avviso, che detti morti furono strangolati da due schiavi, e dopo tagliate le teste.

D. Giovanni Giorgino ed il medico Francesco Maria dell’Abate, restarono carcerati, se bene furono passati al Civile, si dice che havessero havuto la grazia per mezzo di D. Francesco Pignatelli il sopra detto Stefano Gabellone s’aveva trattato di darli libertà con pagare mille docati, come già rimandarono in Conversano, e dopo ricevuti, in cambio di mandarlo libero in Nardò gli mandò la testa a sua madre.

A 25 maggio 1648, si levarono le teste che stavano al Sedile, cioè del Barone Baldassarro Carignano, del Dr. Gio. Filippo Bonomi, di Gio. Lorenzo Colucci e di D. Stefano Gabellone e li fu data sepoltura.

A 26 detto furono levate le altre teste, e furono sepolte.

 

[*] Tratto da «Rinascenza Salentina», A.4, n. XIV , 1936, pp. 7-26, pp. 9 -21. Trascrizione di Alessio Palumbo

[†] Si tratta di un errore: Pietrantonio Sambiasi aveva 87 anni

Nardò. 19 agosto 2015. Una notte di note per i giusti

 

 

manifesto_ok

 

Dopo la celebrazione della Messa, presieduta dal Vescovo di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna, nel chiostro dell’ex Seminario (di fronte alla Cattedrale), ci sarà la presentazione del volume Nardò Rivoluzionaria. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’Età Moderna, Congedo Editore. Interverranno don Giuliano Santantonio, direttore dei “Quaderni degli archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”, l’autore Alessio Palumbo e la dottoressa Maria Luisa Tacelli, docente di Diritto Canonico presso l’Università del Salento.

La serata si concluderà con l’evento Una notte di note per i giusti: la lettura da parte di Elio Ria e Roberto Tarantino di alcuni passi dell’opera del Biscozzi inframmezzerà l’omaggio musicale curato dal maestro Luigi Mazzotta, fondatore e direttore dei Cantores Sallentini. Prenderanno parte alla manifestazione il coro polifonico “Parrocchia S. Antonio di Padova” di Parabita diretto da Aurora Nicoletti, i musicisti Elisabetta Braga, Marcello Filograna Pignatelli, Paola Liquori, Alimhillaj Merita, Caterina Previdero, Andrea Sequestro, Giusy Zangari e Alessio Zuccaro.

 

 

PROGRAMMA

Marco Frisina   TRISAGHION

Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita, diretto da Aurora Nicoletti

 

Marco Frisina   VERGINE MADRE (testo di Dante)

Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita

 

Ymer Skenderi           MELODIA POPOLARE ALBANESE

Merita Alimhillaj, violoncello

 

Charl Gounod             AVE MARIA – meditazione su un preludio di J.S. Bach per violoncello e pianoforte

Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte

 

Maurice Ravel            La Vallèe del choches (da “Miroirs”)

Marcello Filograna Pignatelli, pianoforte

 

Ernest Bloch               PRAYER  –  per violoncello e pianoforte

Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte

Robert Schumann      TRAUMEREI    per violoncello e pianoforte

Merita Alimhillaj, violoncello – Luigi Mazzotta, pianoforte

 

Paola Liquori               DISTORSIONI IV (su due temi di Chopin)

Paola Liquori, pianoforte

 

W.A. Mozart                AVE VERUM

Caterina Previdero, mezzosoprano – Paola Liquori, pianoforte

 

Franz Liszt                  ETUDE D’EXECUTION TRANSCENDANTE n. 3 “Paysage”

Alessio Zuccaro, pianoforte

 

Robert Schumann       dalle Scene Infantili op. 15: Da PAESI E UOMINI STRANIERI –

BAMBINO CHE S’ADDORMENTA

Andrea Sequestro, pianoforte

 

Brahms                       INTERMEZZO op.117 n. 2

Caterina Previdero, pianoforte

 

Giuseppe Verdi           “ADDIO DEL PASSATO” dalla Traviata

Elisabetta Braga, soprano – HongLin Zong, pianoforte

 

Giacomo Puccini         “ SI’, MI CHIAMANO MIMI’” dalla Bohéme

Elisabetta Braga, soprano – – HongLin Zong, pianoforte

 

Z. Kodaly                   STABAT MATER

Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita

 

M. Frisina                  REGINA  COELI

Coro Polifonico Sant’Antonio di Parabita

 

 

CORO POLIFONICO “PARROCCHIA S.ANTONIO DI PADOVA” PARABITA

Il coro polifonico “Parrocchia S.Antonio di Padova” di Parabita, nasce alla fine degli anni ’70, con l’intento di animare le celebrazioni solenni nell’omonima parrocchia. Nel tempo, il coro ha consolidato la sua attività, svolgendo il servizio di animazione durante le celebrazioni di tutto l’anno liturgico. I suoi componenti, animati da spirito di servizio coltivano l’amore per il canto polifonico, convinti che la musica sia capace di toccare il cuore del credente, aprendolo alla contemplazione e rendendolo capace di cantare la propria fede. Ha partecipato a diverse rassegne canore riscuotendo positivi consensi. Particolare momento di grazia, vissuto dal coro con entusiasmo e impegno è stata l’animazione della messa per l’inizio del ministero episcopale di Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Fernando Filograna il 28 settembre 2013 a Nardò.

DIRETTORE Aurora Nicoletti

TASTIERA    Paolo Pasanisi       VIOLINO     Francesco Monteanni

SOPRANI                                                                    CONTRALTI

 

Antonazzo Cristina                                                   Fracasso Anna Maria

Corrado Lucia                                                           Fracasso Anna Rita

Garzia Vincenza                                                       Greco Francesca

Giaffreda Irene                                                          Greco Stefania

Giannelli Anna Rita                                                   Guglielmo Rossella

Giannelli Fernanda                                                    Leo Lucia

Grasso Cristina                                                          Monaco Katia

Guglielmo Anna Maria                                               Nicoletti Antonia

Latino Daniela                                                            Piccinno Gianna

Monteanni Maria Pia                                                  Piccinno Rosy

Nicoletti A.Franca

Nicoletti Rosalina

Rizzello Giuly

Russo Anna

Russo Fabia

Serino Lelia

 

TENORI                                                                       BASSI

Cataldo Luigi                                                             Fiorenza Giorgio

Fersini Antonio                                                           Gabriele Marcello

Fracasso Giuseppe                                                    Greco Sergio

Fracasso Roberto                                                       Leopizzi Biagio

Garzia Pierluigi                                                           Tarantino Giuseppe

Merico Salvatore                                                         Vigna Luigi

Russo Guido

Vigna Cesare

 

Elisabetta Braga

Nata a Nardò, si diploma brillantemente in canto presso il Conservatorio di musica “Santa Cecilia” di Roma nel 2013. Comincia la sua attività concertistica esibendosi in vari teatri e sale da concerto Italia e all’estero, quali la Sala Accademica del Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma, il Teatro Politeama Greco di Lecce, la “Tchaikoskj Concert Hall” di Mosca. Debutta nel 2015 a Roma come Mimì ne “La Bohème” di G. Puccini e a Rieti nel 2015 come Gilda in “Rigoletto” di G. Verdi. Si è perfezionata partecipando come allieva effettiva alla masterclass del soprano Sumi Jo tenuta a Roma in aprile. Attualmente sta per conseguire il Diploma Accademico di secondo livello presso il Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma.

 

Marcello Filograna Pignatelli è nato a Nardò (LE), il 19-03-1991.
Ha iniziato lo studio del pianoforte fin dall’età di 6 anni. Ha vinto numerosi primi premi e primi premi assoluti in concorsi pianistici nazionali ed internazionali.
Ha conseguito con il massimo dei voti il diploma del corso tradizionale di Pianoforte presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce sotto la guida del Mº Leonardo Cioffi.
Attualmente frequenta il biennio specialistico di 2º livello di Pianoforte con il Mº Pierluigi Secondi presso il Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara e contemporaneamente frequenta la facoltà di Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti.

 

Paola Liquori si è diplomata in pianoforte presso il Conservatorio di Lecce col massimo dei voti sotto la guida della prof.ssa Mariagrazia De Leo. Ha partecipato a diversi concorsi nazionali ed internazionali ottenendo il primo premio e nel 2011 è stata selezionata per suonare al Festival delle Murge in occasione del bicentenario dalla nascita di Liszt. Collabora fin da quando aveva 15 anni in formazioni cameristiche. Studia composizione col M° Gioacchino Palma presso il Conservatorio Tito Schipa di Lecce ed ha partecipato sia nel 2014 che nel 2015 alle due edizioni consecutive del Festival Del 18esimo secolo, in occasione del quale sono state eseguite alcune delle sue composizioni.

 

Luigi Mazzotta

Agli studi classici e giuridici ha affiancato lo studio del pianoforte con il m° Enzo Tramis e la prof.ssa Vittoria De Donno, lo studio dell’organo e composizione organistica presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce con il m° Nicola Germinario e a Padova con il m° Wolfango Dalla Vecchia.

E’ stato allievo effettivo del corso triennale di “Pratica corale e direzione di coro” alla scuola del m° Giovanni Acciai del Conservatorio “G.Verdi” di Milano, frequentando altresì i corsi di contrappunto vocale con Marco Berrini, di tecnica vocale con Marika Rizzo e Stew Woudbury, di canto gregoriano con Fulvio Rampi, Alberto Turco e Anselmo Susca. Si è perfezionato in polifonia vocale con Adone Zecchi e Bruno Zagni ed in musica barocca con Sergio Siminovich.

Dal 1984  opera nelle Stagioni Liriche del Teatro di Tradizione di Lecce, prima come artista del coro quindi come maestro preparatore e collaboratore del coro, maestro del coro di voci bianche, maestro alle luci. E’ stato maestro del coro e direttore musicale di palcoscenico in diverse opere liriche di cartellone eseguite in varie località del centro-sud d’Italia. Ha collaborato, come maestro del coro, anche con l’Orchestra ICO “Tito Schipa” della Provincia di Lecce sotto la direzione di Carlo Vitale, Aldo Ceccato, Marcello Rota e Carlo Frajese; ha svolto il ruolo di altro maestro del coro nel “Requiem” di Giuseppe Verdi sotto la magistrale direzione di Romano Gandolfi e nel “Requiem” di Mozart con il CORO LIRICO di Lecce con il quale ha effettuato,come direttore, numerosi concerti suscitando unanimi e positivi consensi di pubblico e di critica. Ultimamente ha fondato e dirige i Cantores Sallentini eseguendo la Petite Messe Solennelle di Rossini in versione originale per soli (C. Fina, soprano – A. Colaianni, mezzo soprano – F.Castoro, tenore – D.Colaianni, baritono), due pianoforti (P.Camicia e V.Rana) ed harmonium (R.Pastore); ed inoltre, Il Gloria, il Credo, il Magnificat, il Beatus Vir di Vivaldi ed il Te Deum di Mozart con l’Orchestra da Camera Salentina riscuotendo lusinghieri apprezzamenti.

Nel maggio 2012, a Lecce, in occasione della prima edizione del “Convegno Internazionale sulla Musica Sacra”, col patrocinio anche del Pontificio Istituto di Musica Sacra della Santa Sede, è stato invitato a dirigere brani corali a cappella con repertorio rinascimentale, barocco e contemporaneo.

 

Alimhillaj Merita

Cittadina italiana (pugliese) di origine albanese diplomata con il massimo dei voti in violoncello presso  l’Accademia delle Belle Arti di Tirana. Vanta numerose collaborazioni con diverse orchestre tra le quali:    l’Orchestra “Venus” di Monopoli, l’EurOrchestra da camera di Bari, l’Orchestra del 700 di Ceglie Messapica,  l’Orchestra della “Magna Grecia” di Taranto, l’Orchestra “S. Leucio” di Brindisi, l’Orchestra “Leonardo Leo” di Lecce, l’Orchestra “Terra d’Otranto”, l’Orchestra da Camera Salentina. E’ stata più volte membro di orchestre in programmi televisivi della Rai. Premio Barocco, Premio Regia Televisiva , collaborando con artisti di fama internazionale e nazionale: Paolo Belli, Riccardo Cocciante, Massimo Ranieri, Gianna Nannini, Antonella Ruggero, Ron, Gianni Morandi, Al Bano Carrisi, Gino Paoli, Renato Zero, Alessandra Amoroso ecc.  Attualmente è docente di violoncello presso l’Istituto Comprensivo “centro”, plesso Salvemini, di Brindisi.

 

Caterina Previdero è iscritta e frequenta l’ VIII anno della scuola di pianoforte presso il Conservatorio Tito Schipa di Lecce nella classe della prof.ssa Maria Grazia De Leo. Nel corso di questi anni ha partecipato a diversi concorsi pianistici classificandosi sempre trai primi posti. Nell’attività di canto del Conservatorio ha fatto parte in qualità di corista nel coro di voci bianche ‘’Sull’Ali del Canto’’ diretto dalla prof.ssa Tina Patavia, per i cui meriti ha percepito anche una borsa di studio. Scopre così di avere un’altra grande passione oltre al pianoforte: il canto lirico ed attualmente studia sotto la direzione del prof. Michael Aspinall.

 

Andrea Sequestro nasce il 25 ottobre 1994. La sua formazione pianistica inizia a 5 con la  Maestra Francesca Iachetta, a Cosenza, per continuare a Nardò con la Maestra Serena Caputo. Partecipa sin da bambino a numerosi concorsi e masterclass e attualmente continua i propri studi presso il conservatorio Tito Schipa di Lecce sotto la guida della professoressa Concita Capezza.

 

Alessio Zuccaro inizia lo studio del pianoforte col M. Ekland Hasa. Ammesso presso il conservatorio “Tito Schipa” di Lecce prosegue il cursus di studi col M. Corrado De Bernart. Affianco all’attività come solista, che lo ha portato ad esibirsi in prestigiose occasioni come il “Festival del XVIII secolo”, intraprende un percorso cameristico che lo porta a collaborare con l’Associazione “Tasselli Salentini” nell’esecuzione (come cembalista) delle “Quattro stagioni” di Antonio Vivaldi e con l’orchestra ICO di Lecce come pianista in orchestra. Nel 2013 vince ex-aequo una borsa di studio come “allievo più meritevole” indetta dal Rotary Club.

 

Aradeo. La truffa degli Olivetani

1-aradeo-metc3a0-secolo

di Alessio Palumbo

Aradeo è un paese pressoché privo di centro storico. Degli antichi monumenti, delle sedi dell’amministrazione civile e giudiziaria, delle vecchie dimore nobiliari e soprattutto delle numerose chiese[1] quasi nulla è rimasto, grazie soprattutto alla scellerata politica edilizia dell’ultimo secolo. Oltre a questa spiegazione legata alla storia contemporanea del paese, è necessario prenderne in considerazione un’altra, derivante dalla storia moderna. La Terra di Aradeo da fine Quattrocento fino al 1806 fu feudo di un ordine monastico (gli Olivetani) che per secoli la governò da lontano, ovvero da Galatina, sfruttandola come fosse una piccola colonia. Tale ordine non dimostrò alcun interesse ad arricchire il feudo con edifici ed opere d’arte di particolare rilievo, fatta eccezione, come vedremo, per un breve periodo intorno alla metà del Seicento, ovvero il periodo del “governatorato”.

Ad oggi, dunque, tra le testimonianze artistiche ed architettoniche più rilevanti del passato cittadino si possono segnalare la colonna dedicata a San Giovanni Battista ed il limitrofo palazzo baronale (attuale palazzo Grassi). Per ironia della sorte i simboli di uno dei momenti più bui della storia cittadina, ossia l’età della totale sottomissione di Aradeo allo strapotere feudale degli Olivetani. Una sottomissione che ebbe il suo momento di non ritorno in un determinato anno: il 1533, l’anno della “truffa”. Ma procediamo con ordine.

In età bizantina (ma anche normanna e sveva) Aradeo fu un chorion (ovvero un centro urbano con proprie mura) culturalmente attivo e vitale. Afferma Hoffmann: “Aradeo fu, a cavallo dei secoli XIII e XIV, un punto di riferimento per la coscienza nazionale dei Greci in Terra d’Otranto, sotto il duplice aspetto di fedeltà al culto bizantino e alla lingua greca, e di ritorno alla letteratura greca classica e profana”[2].

Come molte altre terre fu poi oggetto di spartizioni, cessioni ed infeudamenti. In particolare, ad inizio Quattrocento, Raimondello Orsini del Balzo donò il feudo di Aradeo al monastero ed ospedale di Santa Caterina in Galatina, allora retto dai francescani. Nel 1494 questi ultimi furono estromessi ed il controllo del monastero passò agli Olivetani. Sotto i nuovi feudatari iniziò per Aradeo un lento ma inesorabile declino.

Fino ad allora il “casale” di Aradeo aveva goduto di una notevole autonomia nei confronti dei propri signori. Il riconoscimento dell’autonomia giuridica ed amministrativa dell’Università[3] (concretizzatasi oltre che nella libertà di elezione di sindaci, uditori ed altri amministratori, soprattutto nell’operato di un vero e proprio parlamento cittadino), l’esenzione dal pagamento delle decime alla camera baronale (fatta eccezione per quelle relative al vino, grano ed orzo) ed una serie di altre franchigie avevano garantito lo sviluppo di una marcata coscienza civica e di un forte spirito libertario. Con gli Olivetani tutto ciò venne messo in discussione.

I monaci “servendosi dei loro ministri, si proposero di controllare l’Università, volendo fare riunire le assemblee non più nella chiesa maggiore del casale, ma nella «casa del ditto Monasterio» cioè nella dimora che i monaci possedeva ad Aradeo”[4]. Gli aradeini si opposero fermamente, ma siamo solo all’inizio della lenta opera di erosione delle autonomie cittadine posta in atto da quello che alcuni storici hanno definito lo “Staterello di Santa Caterina”. Ben presto, i monaci ottennero il controllo oltre che della giurisdizione civile (a loro spettante con l’infeudazione) anche di quella criminale (jus gladii) acquistandola nel 1530 dal duca di Galatina. I magistrati, prima dimoranti in Aradeo, ora iniziarono a risiedere nella stessa Galatina e anche la corte e le carceri, ben presto,  furono trasferite in questa città[5]. A queste ragioni di contrasto si aggiunsero infine dei motivi economici e fiscali: i monaci cercarono di abolire la libertà di pascolo fuori dalle mura, tentarono di imporre il pagamento dell’erbatico, cominciarono ad esigere dazi sulle strade e altri balzelli, richiesero prestazioni lavorative gratuite nelle proprie terre, ecc… Gli aradeini si opposero con decisione, ma la situazione degenerò nel 1533, annus horribilis per la storia di Aradeo.

Per capire cosa successe, dobbiamo fare un passo indietro di cinque anni. Nel 1528 un tentativo di invasione francese squassa il regno di Napoli: è la cosiddetta guerra di Lautrec. Nel corso delle operazioni belliche ad Aradeo vengono alloggiate delle truppe albanesi a spese del casale. Per far fronte a tali spese la comunità si indebita per 2.217,3 ducati con il notaio gallipolino Gabriele Nanni e per 228 ducati con Giovanni Staivario della Costa: debiti cui l’Università aradeina non può far fronte. È qui che scatta la “truffa” degli Olivetani. Nel 1533, di fronte ad un notaio leccese, i monaci si assumono l’onere del debito contratto dagli aradeini, ottenendo in cambio “la decima delle Olive, Grano, Orzo, Vene, Fructi, invernini, ed estivi, Fagioli, Dolega, Ceci, Cipolla, Agli, Zafferana, Olii, Vini, Musti, Lupini, Fichi, ed erbe, Borracana, ed altro”[6].

Con questo atto notarile gli aradeini di fatto firmarono la rinuncia alla secolare autonomia economica e fiscale nei confronti dei propri baroni. Un clamoroso gesto autolesionistico, insomma. Quando gli aradeini si accorsero dell’errore commesso era ormai troppo tardi. Dopo vani tentativi di recuperare alcune decime ed il controllo di trappeti e masserie, nel 1555, spinti dalla disperazione, decisero di intentare causa agli Olivetani.

Secondo gli storici la risoluzione dell’Università di adire alle vie legali contro i propri baroni è il sintomo di una situazione oramai insostenibile: “gli Aradeini accettarono dunque la lotta per salvaguardare il loro lavoro, per assicurarsi la libertà di commercio, per garantirsi il pieno possesso della terra e dei suoi frutti e per premunirsi dai danni provenienti dal sistema feudale. Essi inoltre agirono, perché la propria università liberamente continuasse a nominare i magistrati, perché la comunità non perdesse il possesso del demanio cittadino e perché non fosse privata di quelle franchigie economiche, che la consuetudine aveva garantite”[7]. L’avvocato nominato dall’Università giustificò la cessione delle decime come semplice donazione (e non vendita come sostenevano i monaci), causata delle incresciose conseguenze della guerra di Lautrec e, soprattutto, dall’opera di estorsione violenta posta in essere dagli abati. Gli Aradeini, quindi, “tentarono di invalidare il medesimo contratto, innanzitutto perché non avrebbe avuto le «solennità» richieste, in quanto non era stato stipulato nell’abitazione che l’ospedale galatinese possedeva nel casale, e poi perché gli olivetani, per estorcere il consenso ai contraendi, avrebbero pigliato «li homini et citatini de ditta terra et li amminaziavano che havessero fatto lo detto contenso Contracto de decime et li carceravano»”[8].

Nel processo che si svolse in territorio neutro, ossia a Parabita, i monaci ottennero che a testimoniare fossero uomini privi di proprietà immobiliari nella terra d’Aradeo, ciò al fine di evitare possibili conflitti di interesse. Nondimeno i testimoni provenienti soprattutto da Seclì, Soleto e Parabita accusarono i monaci di aver danneggiato in vario modo Aradeo, attentando alle sue tradizionali autonomie, minando la stessa economia, danneggiando la proprietà privata[9], maltrattando i cittadini, ecc. Nonostante la forza di tali testimonianze il processo si arenò, tant’è che nel 1753 la causa risultava ancora pendente presso il Sacro Regio Consiglio.

Gli Olivetani poterono quindi assoggettare completamente Aradeo. Essi misero “in atto il loro disegno: quello di ridurre le libertà amministrative e giudiziarie di Aradeo, inasprendo il sistema fiscale e attentando al piccolo Parlamento cittadino”[10]. Gli aradeini cercano di mantenere la propria autonomia politica edificando un sedile (sede del parlamento) fuori dalle mura, ma fu un successo effimero. Gli Olivetani rafforzarono il proprio controllo economico (acquistando tutti i mulini, trappeti e la gran parte della masserie[11]) e amministrativo. A tal fine, dal 1636, si avvalsero di una nuova figura: il governatore. A quest’ultimo il monastero di S.Caterina affittava, con contratto probabilmente biennale, i pieni poteri sul feudo.

Fu proprio il primo di questi governatori, padre Giovanni da Napoli, ad avviare un’eccezionale opera di rifeudalizzazione, che ebbe anche una sua veste artistica ed architettonica. La colonna di San Giovanni ed il palazzo baronale sono per l’appunto i simboli del baronaggio rampante degli Olivetani ad Aradeo. Giovanni da Napoli, infatti, “acquistò diverse abitazioni tra cui alcune dirute, che utilizzò come suolo edificatorio. Nel 1655 innalzò dalle fondamenta la nuova villa baronale, sede del governatorato olivetano, con la sala di rappresentanza, camere, magazzini, stalla, cucina, due cellari, uccelliere e una cappela. Nei pressi del medesimo stabile comprò anche diversi giardini, vigneti e altri terreni, che cinse con un muro di protezione, formando un unico grande giardino […] inoltre di fronte alla nuova sede baronale entrò in possesso di altri caseggiati, che poi fece abbattere per aprire una piazza, «et in mezzo ci hà eretto la statua di Santo Giovanne, et à torno, à fatto fare cornici di pietra di lecciso, et comprate tutte le case che s’includono in detta piazza»”[12]. Un grandioso piano di rinnovamento edilizio che portò anche all’ingrandimento del “vecchio castello” e all’innalzamento della chiesa dello Spirito Santo: un’eccezionale opera edificatoria volta a sancire il trionfo del baronaggio ecclesiastico sulla piccola e oramai completamente assoggettata università aradeina[13].

 


[1]Ad inizio cinquecento oltre alla chiesa parrocchiale intitolata a San Nicola, erano presenti edifici di culto dedicati a S. Antonio (due chiese), S. Stefano, S. Giorgio, S. Angelo, S. Maria dell’«Annunciata», S. Maria e S. Salvatore. Altre chiese e cappelle si aggiunsero nei secoli a seguire.

[2] P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 65

[3] Per Università, in età medievale e moderna, si intende l’attuale “comune”

[4] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università in Terra d’Otranto, vol. II, Galatina, Congedo, 1980, p.74

[5] Una testimonianza aradeina del 1555 riporta “comu li ditti Abate cellari et monaci voleno che il capitanio et Mastro de atti de ditta terra facciano residentia in Santo Pietro in Galatina et voleno che per qual si voglia causa tanto civile come criminale in prima instantia li homini di detta terra vadano adligati in Santo Pietro dove voleno tenere li carcerati” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f.169 r. in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 77)

[6] B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 80

[7] Ivi, p. 84. La straordinarietà dell’atto del 1555 emerge anche dal modo in cui le fonti descrivono gli abitanti di Aradeo, mansueti e obbedienti ai propri signori: “li citatini et homini della ditta terra di Aradeo sonno stati et sono persone rustice, bonate, e da bene; persone che vanno alla bona et poco prattichi et experti de cautele et scritture persone obedientissime alli superiori loro che mai li contradicono a cosa alcuna” (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, Ms. 5503, f. 175r, in B. F. PERRONE, Neofeudalesimo e civiche Università, cit., p. 83).

[8] Ivi, p. 81

[9] Alcuni testimoni ad esempio accusarono i monaci di aver fatto pascolare le proprie mandrie sui terreni posseduti dagli aradeini senza risarcire i danni procurati dagli animali.

[10] G. PISANÒ, Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia,  in Aradeo in «Paesi e figure del vecchio Salento», vol. III, 1989, p. 46

[11] Nel 1556 edificano la Corte, probabilmente una vecchia torre bizantina, riconvertita in azienda agricola

[12] Ivi, p. 111

[13] Il termine “piccola” non è casuale, visto che nel corso del seicento la popolazione cittadina diminuì considerevolmente passando dai 105 fuochi di fine Cinquecento agli 82 del 1648 e 80 del 1669. Una tendenza di certo in linea con il generale decremento demografico del sud Italia in questi anni, ma che spicca se paragonata ai flussi demografici di altri paesi limitrofi (le cifre relative ai fuochi di Seclì nelle stesse date sono 106, 132, 145). Ciascun fuoco contava circa 4-5 individui. Dati tratti da M. A. VISCEGLIA, Territorio Feudo e Potere locale:Terra d’Otranto tra medioevo ed età moderna, Napoli, Guida, 1998)

La notte de li lazzareni

Lazzareni a Sannicola (da: http://www.piazzasalento.it/)

di Alessio Palumbo

Nell’interessante articolo di Giovanna Falco, Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/01/lecce-il-sabato-delle-palme-e-la-chiesa-di-san-lazzaro/), si fa riferimento al tradizionale canto del Santu Lazzaru o Lazzarenu, diffuso nell’arco ionico salentino. Mi piace collegarmi al discorso di Giovanna, per riportare alcune notizie in merito, non tanto legate a studi o letture sull’argomento, quanto all’esperienza personale.

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta schianta. Non so se questa dieta avesse reali effetti benefici sull’ugola, ma, a memoria mia, i due non hanno mai preso una stecca nel corso delle varie serate.

Con le strade deserte e silenziose, parcheggiata la macchina un po’ lontano per non rovinare la sorpresa al destinatario della serenata, ci si appostava vicino all’ingresso o meglio ancora  sotto la finestra della camera da letto. La prima strofa era solo musicale, per permettere agli uomini e alle donne di disporsi ed accordarsi. Quindi partivano le parole. La cantilena si divideva in due macrogruppi: il primo con il saluto e la narrazione dell’ultima cena, fino al tradimento di giuda, il secondo con l’invocazione della protezione dei santi, le richieste di beni al proprietario di casa ed il commiato. Riporto il testo, forse non nella sua interezza, ma basandomi sui ricordi. La seconda strofa è quella ripetuta dal coro delle donne.

 

Bona sera a quista casa

a tutti quanti, mo l’abitanti (strofa ripetuta dal coro);

Gesù Cristu scia cu li santi,

ne dese aiutu e salvazione;

Sciamu a casa mo de Simone,

ca addhrai c’è Cristu pe fare la cena;

Addhrai cumpare la Madalena,

con le sue lacrime li piedi bagnava;

Con le sue  lacrime li piedi bagnava,

coi sui capelli ne li ssucava;

Coi capelli ne li ssucava,

ca addhrai purtava lu grande amore;

Giuda foe lu traditore,

tradiu Cristu nostru signore;

Trenta denari vindiu Cristu

cu sacerdoti e farisei;

Sacerdoti e farisei

ne lu minara mmienzu alli ulei;

Oci oci se fa  missione,

mo ci Lazzaru è suscitatu;

Santu Lazzaru essi qua fore,

ca si chiamatu de nostro signore;

Nui pregamu mo l’Annunziata,

mo cu te manda na bona annata;

Nui pregamu santu Trifone,

ci cu te carica, mo lu cippone;

Na bona sera, na bona Pasca,

ne dati l’ove de la puddhrascia

Compare Ucciu[1] nu fare mosse,

ca l’ove n’ha dare de le chiu grosse;

Nu dicu trenta, né na vintina,

ne bastane pur una quindicina;

Ci nu tieni cu ne le mandi,

te mandu doi de sti chiu grandi;

Ci nu poti cu ne le nduci,

te mandu doi de sti carusi;

Santu Lazzaru mo l’imu dittu,

e sia lodatu lu Gesù Cristu.

 

Il suono della fisarmonica, l’alternarsi cantilenante delle voci degli uomini e delle donne, creava un effetto molto suggestivo. Ricordo ancora la serenata fatta nei pressi di un istituto per orfani gestito da suore, con le sorelle affacciate alle rispettive finestre e con i fazzoletti agli occhi. La versione aradeina poi, a differenza ad esempio di quella cutrofianese, essendo in LA minore, ancor più si intona al clima quaresimale e alla narrazione della passione di Cristo.

Terminata l’esecuzione, il padrone di casa, che già nel corso della serenata segnalava il proprio gradimento accendendo le luci dell’abitazione, spalancava la porta, accogliendo i musicanti. Il fisarmonicista lo onorava con un’altra canzone, mentre i cantanti ricevevano i doni, consistenti in uova, farina, formaggio, pasta, liquori, vino, soldi ed altro, da spartire alla fine del ciclo di serenate. Salutato il parente o l’amico, si poteva partire alla volta di una nuova casa, fino a che gli occhi reggevano e la voce lo permetteva.


[1] Il nome cambia a seconda del destinatario

A proposito di soprannomi

il palazzo ducale di Seclì
il palazzo ducale di Seclì

di Alessio Palumbo

 

Leggendo, in calce alla poesia “L’innamorato imbranato”, lo scambio di commenti tra Armando Polito e Alfredo Romano sui nomignoli legati alla provenienza cittadina, mi è tornato alla mente un episodio riguardante il mio paese d’origine: Aradeo.

Da ragazzino irrequieto ed eccessivamente vivace qual ero, non di rado mi sentivo appioppare l’appellativo di “taratiaulu”. Il fatto che fossero più persone ad utilizzare quel termine mi incuriosì e, dopo un po’ di tempo, riuscii a risalire al motivo del soprannome, chiaramente frutto dell’unione tra la parola “taraddotu” (ossia aradeino) e “tiaulu” (diavolo). Tutto ha origine dalla inveterata rivalità tra aradeini, seclioti e nevianesi.

Vuoi la vicinanza reciproca, vuoi gli stretti vincoli parentali, vuoi le dimensioni demografiche non eccezionali, sta di fatto che Aradeo, Neviano e Seclì, da secoli, sono strettamente legati tra di loro. Tempo fa, un pescatore gallipolino in vena di canzonare, venendo a conoscere le mie origini aradeine mi chiese:

“Come ve la passate negli Stati Uniti?”

“Gli Stati Uniti?” chiesi io

“Si! Aradeo, Neviano e Seclì…gli Stati Uniti del Salento”

Insomma, tre paesi federati, con una cantina sociale comune, un frantoio comune, iniziative comuni ma, soprattutto, una stazione ferroviaria in comune. Un piccolo parallelepipedo giallo, come tanti altri in Terra d’Otranto.

Come ci insegna la storia e l’esperienza comune, le convivenze non sono mai facili: a dimostrazione di ciò, si potrebbero citare le vecchie poesie di scherno reciproco tra i paesi[1]; oppure vi sarebbe bastato assistere, qualche anno fa, ai derby Aradeo-Seclì ( “li ciucci contru li cavaddhri” diceva qualcuno, ma non sto qui a specificare quale delle due squadre fosse composta da asini) per capire come la federazione non avesse per nulla sminuito le rivalità campanilistiche. Ma torniamo al casus belli, la piccola stazione: proprio questo edificio è stato motivo di accese rivalità tra i tre paesi o perlomeno così tramandano alcuni.

Immediatamente dopo la sua costruzione, sorse un problema di enorme gravità: in quale ordine piazzare i nomi dei paesi? Ovviamente nessuno avrebbe accettato di venire dopo gli altri. Seclì pretendeva il primato in quanto la stazione ricadeva nel proprio feudo. Neviano portava a proprio favore la maggiore vicinanza del centro abitato. Aradeo, infine, cercava di far valere il maggior peso demografico ed il fatto che il terreno dove era sorta la stazione fosse stato espropriato ad un aradeino. Dopo mesi di discussioni, la decisione finale fu: Seclì, Neviano e Aradeo. Un tremendo smacco per gli aradeini.

Ma la faccenda non finì qui e, proprio dagli episodi che seguirono, derivò l’appellativo di “taratiauli” ancora oggi usato da qualcuno.

Tutto si deve ad un imbianchino di Aradeo, incaricato di pitturare sulla facciata dell’edificio i tre nomi. Memore dello smacco ricevuto, l’imbianchino preparò due miscele diverse: una indelebile e l’altra con uno strano composto (si dice con fuliggine). L’aradeino rispettò l’ordine dei nomi oramai stabilito, ma utilizzò la tinta alla fuliggine solo per Seclì e Neviano e quella indelebile per Aradeo. Bastarono le piogge di pochi mesi a smascherare il trucco: la stazione passò ben presto da Stazione di Seclì, Neviano, Aradeo a Stazione di…Aradeo. Una trovata diabolica, secondo i rivali di sempre: “roba de taratiauli”  insomma.

 


[1] Gli aradeini usavano ad esempio recitare: “Ssichijatu cciti patucchi/vai alla chiesa e nu te ngianucchi/ nu te cacci lu coppulinu/ ssichijatu malandrinu”

La notte de li lazzareni

Lazzareni a Sannicola (da: http://www.piazzasalento.it/)

di Alessio Palumbo

Nell’interessante articolo di Giovanna Falco, Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/01/lecce-il-sabato-delle-palme-e-la-chiesa-di-san-lazzaro/), si fa riferimento al tradizionale canto del Santu Lazzaru o Lazzarenu, diffuso nell’arco ionico salentino. Mi piace collegarmi al discorso di Giovanna, per riportare alcune notizie in merito, non tanto legate a studi o letture sull’argomento, quanto all’esperienza personale.

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta schianta. Non so se questa dieta avesse reali effetti benefici sull’ugola, ma, a memoria mia, i due non hanno mai preso una stecca nel corso delle varie serate.

Con le strade deserte e silenziose, parcheggiata la macchina un po’ lontano per non rovinare la sorpresa al destinatario della serenata, ci si appostava vicino all’ingresso o meglio ancora  sotto la finestra della camera da letto. La prima strofa era solo musicale, per permettere agli uomini e alle donne di disporsi ed accordarsi. Quindi partivano le parole. La cantilena si divideva in due macrogruppi: il primo con il saluto e la narrazione dell’ultima cena, fino al tradimento di giuda, il secondo con l’invocazione della protezione dei santi, le richieste di beni al proprietario di casa ed il commiato. Riporto il testo, forse non nella sua interezza, ma basandomi sui ricordi. La seconda strofa è quella ripetuta dal coro delle donne.

 

Bona sera a quista casa

a tutti quanti, mo l’abitanti (strofa ripetuta dal coro);

Gesù Cristu scia cu li santi,

ne dese aiutu e salvazione;

Sciamu a casa mo de Simone,

ca addhrai c’è Cristu pe fare la cena;

Addhrai cumpare la Madalena,

con le sue lacrime li piedi bagnava;

Con le sue  lacrime li piedi bagnava,

coi sui capelli ne li ssucava;

Coi capelli ne li ssucava,

ca addhrai purtava lu grande amore;

Giuda foe lu traditore,

tradiu Cristu nostru signore;

Trenta denari vindiu Cristu

cu sacerdoti e farisei;

Sacerdoti e farisei

ne lu minara mmienzu alli ulei;

Oci oci se fa  missione,

mo ci Lazzaru è suscitatu;

Santu Lazzaru essi qua fore,

ca si chiamatu de nostro signore;

Nui pregamu mo l’Annunziata,

mo cu te manda na bona annata;

Nui pregamu santu Trifone,

ci cu te carica, mo lu cippone;

Na bona sera, na bona Pasca,

ne dati l’ove de la puddhrascia

Compare Ucciu[1] nu fare mosse,

ca l’ove n’ha dare de le chiu grosse;

Nu dicu trenta, né na vintina,

ne bastane pur una quindicina;

Ci nu tieni cu ne le mandi,

te mandu doi de sti chiu grandi;

Ci nu poti cu ne le nduci,

te mandu doi de sti carusi;

Santu Lazzaru mo l’imu dittu,

e sia lodatu lu Gesù Cristu.

 

Il suono della fisarmonica, l’alternarsi cantilenante delle voci degli uomini e delle donne, creava un effetto molto suggestivo. Ricordo ancora la serenata fatta nei pressi di un istituto per orfani gestito da suore, con le sorelle affacciate alle rispettive finestre e con i fazzoletti agli occhi. La versione aradeina poi, a differenza ad esempio di quella cutrofianese, essendo in LA minore, ancor più si intona al clima quaresimale e alla narrazione della passione di Cristo.

Terminata l’esecuzione, il padrone di casa, che già nel corso della serenata segnalava il proprio gradimento accendendo le luci dell’abitazione, spalancava la porta, accogliendo i musicanti. Il fisarmonicista lo onorava con un’altra canzone, mentre i cantanti ricevevano i doni, consistenti in uova, farina, formaggio, pasta, liquori, vino, soldi ed altro, da spartire alla fine del ciclo di serenate. Salutato il parente o l’amico, si poteva partire alla volta di una nuova casa, fino a che gli occhi reggevano e la voce lo permetteva.


[1] Il nome cambia a seconda del destinatario

La fascinazione nel Salento: una testimonianza

cupid_psyche Edward Burne-Jones
Edward Burne-Jones, Cupido e Psiche

di Alessio Palumbo

 

Sostiene Erberto Petoia: “il fenomeno della fascinazione, del malocchio, prima di essere trattato come fenomeno psicologico, e in alcuni casi psicopatologico, va analizzato dal punto di vista antropologico, come una delle numerose credenze e superstizioni cui è involontariamente sottomesso il genere umano”[1].

Al di là delle priorità nella trattazione, quanto sostenuto da Petoia testimonia, implicitamente, la poliedricità e complessità dell’argomento. Proprio per questo la relativa letteratura è vasta e composita e, sempre per la suddetta complessità, è particolarmente difficile operare qualsiasi tentativo di sintesi esaustiva in poche righe. Ci limiteremo pertanto, nel corso di questo articolo, a esporre un caso reale, cui abbiamo assistito personalmente, più e più volte, nel corso degli anni ‘90, raffrontandolo con le teorizzazioni e le osservazioni di altri autori.

 

Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness
Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness

Il tema della fascinazione, della malia praticata per il tramite degli occhi, è estremamente diffuso nelle culture tradizionali e ha avuto, nei popoli e nei secoli, interpretazioni, pratiche e cure estremamente diverse. Allo stesso Petoia dobbiamo il tentativo di una carrellata, nel tempo e tra le culture, sul tema. Volendo tuttavia “trovare nella storia dell’umanità, come sostiene il De Martino, una prima presa di coscienza culturale del fatto che la fascinazione non ha nulla a che fare con forze magiche in senso stretto, ma con fatti che appartengono alla sfera naturale profana, bisogna risalire al pensiero greco”[2]. Precisamente al pensiero sensista ed al materialismo democriteo. Il riferimento a De Martino può essere un ottimo stimolo per raffrontare il nostro caso reale, osservato in un comune del Salento e precisamente ad Aradeo, con quanto studiato e teorizzato dal noto autore de La terra del rimorso.

 

Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)
Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)

Fino a non molti anni fa, ad Aradeo era possibile curarsi dalla fascinazione o meglio dallo spascianu[3]. Tale guarigione era operata da donne del posto, che non avevano nulla di magico, ma erano semplicemente le depositarie di un sapere tramandato, fatto di pratiche mediche, paramediche e fitoterapiche che potremmo generalmente ascrivere alla cosiddetta “medicina popolare”[4]. Queste stesse donne erano quindi deputate alla cura di varie disfunzioni e patologie, come ad esempio quelle articolari, per le quali praticavano stuppate e cuppini. Il sapere delle guaritrici aradeine era (ed è) un sapere antico, ampio, sfaccettato, che non di rado superava il confine della medicina per sfociare nella superstizione. Un sapere che tuttavia, è bene ribadirlo, non richiedeva alcuna particolare dote o predisposizione magica.

Nel caso aradeino, dunque, siamo di fronte ad una concezione “greca” della fascinazione. Essa è intesa come una sorta di fenomeno naturale, una malattia come le altre che è possibile curare con una terapia ad hoc. Ma cos’è quindi lu spascianu? Quali sono i suoi sintomi? Quali le cure? La trattazione fatta della fascinazione da De Martino in Sud e Magia ci aiuterà a definirlo, anche se spesso in contrapposizione.

da calitritradizioni.it
da calitritradizioni.it

Sosteneva l’antropologo napoletano, “il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascenatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento, di inibizione, e al tempo stesso un senso di deviazione, un esser agito da una forza altrettanto potente quanto occulta”[5]

Nulla di tutto ciò nel caso aradeino. Sebbene il fattore scatenante dello spascianu sia quello classico della fascinazione, ossia gli sguardi invidiosi, gli eccessivi complimenti e piaggerie, non si parla di alcuna forza occulta, né si riscontrano fenomeni di deviazione ed inibizione. Le cause e le conseguenze dello spascianu sono esclusivamente fisiche. Mal di testa, spossatezza e nausea ne sono i sintomi[6] tipici.

Riscontrati questi ultimi, lo spascianatu, o il sospetto tale, si presentava da una delle donne del paese in grado di curarlo. Nel caso da noi osservato la donna metteva a sedere lo spascianatu e, dopo avergli imposto la mano sulla testa e aver fatto il segno della croce con il pollice, iniziava a recitare mentalmente le formule di rito[7]. L’espressione usata per indicare la terapia era passare lu spascianu o passare lu principiu. Ecco la formula recitata dalla guaritrice aradeina e a lei insegnata da una vicina di casa da giovane:
Sant’Antoniu tenìa nu gigliu

Vene la mamma e vene lu fiju

De do occhi spascianatu

De quattru angeli ‘ccumpagnatu

Su nu monticellu hia tre pignatelle

Una rutta, una sana e una scasciata

Ne pòzzane ssire l’occhi a ci l’ha spascianata.

 

Santu Cosimu e Damianu

‘Cchiara Cristu pe la via

De ddhru sta vieni Cosimu mia?

Sta vegnu de nu malatu

Ci gghe forte spascianatu

Ne passu lu principiu alla capu

Lu malatu ne llenta la capu[8]

 

Sant’Antonio aveva un giglio

Viene la mamma e viene il figlio

Da due occhi spascianatu

Da quattro angeli accompagnato

Sopra ad un monticello c’erano tre piccole pignatte

Una rotta, una sana e una scassata

Possano venir fuori gli occhi a chi l’ha spascianata.

San Cosimo e Damiano

Incontrarono Cristo per la via

Da dove vieni Cosimo mio?

Sto venendo da un malato

Che è molto spascianatu

Gli passo il principiu in testa

Al malato non fa male più la testa

 

Come sostenuto da Petoia è palese la commistione di sacro e profano in queste credenze. “Gli aspetti religiosi che compaiono nei rituali e negli scongiuri contro il malocchio non sono quelli appartenenti alla religione tradizionale cattolica, a quella dottrinaria, ma a quella parte dei pluralismi cattolici”[9].  La formula recitata dalla donna, con i richiami a Cristo ed ai santi guaritori Cosimo e Damiano, lo dimostra chiaramente.

Già durante la pratica il diretto interessato e gli astanti potevano capire, dagli atteggiamenti della guaritrice, se si trattasse o meno di fascinazione. Ciascuna donna aveva infatti un proprio modo di “somatizzare” il malessere della persona curata con sbadigli, conati, lacrime o eruttazioni[10].

Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)
Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)

Non sempre l’intervento della donna si rivelava sufficiente ed era essa stessa ad ammetterlo, indirizzando lo spascianatu verso altre donne capaci di curarlo, quantificando il numero di mani di spascianu necessarie per la guarigione definitiva. Il tutto prima del sabato, in quanto, se lo spascianu fosse sabbaticiatu, avrebbe potuto causare anche febbre alta.

Nel congedare lo spascianatu la guaritrice raccomandava tutti i rimedi esperibili per difendersi da future fascinazioni, come ad esempio indossare un ciondolo di “fede, speranza e carità” (croce, ancora e cuore) o mettendo la “mano a fica” (pollice tra indice e medio) nel caso di eccessivi complimenti o sospette invidie.


[1] E.Petoia, Il malocchio: note storico-antropologiche,  in  A. De Spirito e I. Bellotta (a cura di) Antropologia e storia delle religioni: saggi in onore di Alfonso M. di Nola, Roma, Newton Compton, 2000, p.260

[2] Ivi, p.261

[3] Nel termine, pressoché unico nel Salento, è chiaro il riferimento al fascino.

[4] Siamo dunque estremamente lontani dalle fattucchiere galatinesi descritte da Alessandro Tommaso Arcudi alla fine del ‘600 e capaci di guarire persino col proprio sputo (A.T.Arcudi, Anatomia degl’ipocriti, Venezia, G.Alberizzi, 1699)

[5] E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2004, p.15

[6] Per altro lo stesso De Martino riporta sintomi simili  parlando di “cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento” (Ibidem)

[7]“ La rimediante comincia col tracciare col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente” (Ivi, p.16)

[8] Le due strofe devono essere ripetute in coppia per tre volte, ogni volta cominciando con un segno della croce

[9] E.Petoia, cit., p.271

[10] De Martino parla di un’immedesimazione della fattucchiera nello stato di fascinazione che comporta il prodursi dello stato oniroide che porta a sbadigliare, o la condivisione del patire, che spinge a lacrimare

Alessio Palumbo

 

Alessio Palumbo, nato a Galatina nel 1983, residente ad Aradeo, ma “costretto” a vivere a Bologna, per lavoro.

Sono laureato in Storia, indirizzo contemporaneo (laurea triennale – 110 e lode) e Storia d’Europa, indirizzo contemporaneo (Laurea specialistica – 110 e lode).

Nel corso del triennio universitario ho svolto studi storici di diverso genere, con approfondimenti relativi alla storia dei totalitarismi, alle vicende belliche del ‘900 ed alla storia della stampa italiana. Titolo della tesi: “La campagna stampa del Giornale d’Italia a favore della Guerra di Libia”

Nel biennio ho approfondito la storia dello Stato italiano in età giolittiana, con un occhio particolare al sud ed al Salento.

Titolo della tesi: “Le elezioni politiche del 1913: apogeo e crisi del sistemapolitico ed elettorale del meridione. Il caso del collegio di Gallipoli” (Pubblicata poi come saggio sulla rivista “Società e Storia”, Franco Angeli Editore).

Sempre in merito alla storia politica e parlamentare italiana, ho pubblicato per il CEPROF un saggio dal titolo “I professionisti nel parlamento italiano”, visualizzabile sul sito http://www.ceprof.unibo.it/docs/palumbo.pdf

Carni d’altri tempi

carni

di Alessio Palumbo

 

Il recente “scandalo” sulla carne equina, oltre a problematiche quali la tracciabilità dei prodotti alimentari o la sicurezza dei cibi che quotidianamente ritroviamo sulle nostre tavole, ha posto in risalto un altro tema a tutti noto, ma ugualmente degno di riflessione: le diverse culture culinarie che caratterizzano l’Europa ed il nostro Paese.

L’articolo di Massimo Vaglio sul consumo della carne equina nel Salento ben descrive questo fenomeno che, evidentemente, è legato ad usi, tradizioni alimentari, abitudini contingenti, etc. Restringendo la nostra analisi alla sola Terra d’Otranto, è possibile notare come, nel corso di circa mezzo secolo, il cambiamento dei costumi e delle condizioni economico-sociali abbia notevolmente inciso sull’alimentazione. Di conseguenza, ad esempio, alcune carni, prima abbastanza comuni e diffuse, sono completamente (e vien da dire fortunatamente) sparite dalle tavole dei Salentini. Vi propongo a tal fine un piccolo “bestiario” che spero non urti la vostra sensibilità:

Volpe (Orpe)

La caccia alla volpe, non intesa come sport tipicamente inglese con nobili, cavalli e cani al seguito, è stata a lungo praticata nel Salento. Cacciato premeditatamente o ucciso occasionalmente durante le scorrazzate notturne nei pollai, l’animale dal caldo mantello ha rappresentato per lungo tempo una pietanza non poco diffusa sulle tavole di cacciatori e non. Cucinata principalmente al forno, richiedeva una particolare abilità e pazienza nella preparazione delle carni che dovevano essere a lungo frollate con vino (o aceto), erbe (alloro, rosmarino) e limone, al fine di eliminare lu crestu, ovvero il sentore tipico della carne selvatica.

carni1

Riccio (Rizzu)

Di piccole dimensioni ed innocuo, il simpatico riccio di campagna ha spesso rappresentato l’oggetto delle rare grigliate contadine. A Sannicola, ad esempio, alcuni carrettieri che trasportavano le fascine di sarmenti erano soliti catturare questi animaletti in campagna, gettarli nel cassone posto sotto la seduta e portarli in paese per venderli o regalarli alle famiglie che usavano mangiarli. Una rapida scuoiatura e la dovuta pulizia erano gli unici preparativi previsti prima della cottura su fuoco di legna. A detta dei testimoni il sapore era simile a quello del pollo

Tasso (Milogna)

La sorte culinaria della milogna è stata a lungo simile a quella della volpe (con cui non di rado condivideva le tane). L’unica differenza consisteva nella difficoltà di cacciare questo animale presente in zone quali Porto Selvaggio o Lido Pizzo. I cacciatori erano infatti costretti ad appostarsi lungamente in prossimità delle tane per sorprendere il grasso mustelide nelle notti illuminate dalla luna. Un manicaretto raro dunque, dal sapore simile al maialetto.

Fringuello (Frangiddhru)

Come per il pettirosso ed altri piccoli volatili, la sua caccia è da tempo vietata. Tuttavia fino a pochi anni fa era ancora diffusa la cattura massiva di frangiddhri: in particolare, in alcune zone ricche di boschi o frutteti, si ponevano dei grossi sacchi all’imboccatura dei pozzi abbandonati dove i piccoli uccelli erano soliti rifugiarsi per la notte. Accendendo una lampada nel sacco, i fringuelli si precipitavano verso l’uscita rimanendo intrappolati. La loro triste (ma molto saporita) fine era in umido, al sugo o al forno.

Povera Elvira!

 elvira

 di Alessio Palumbo


Bello non lo sono mai stato, nemmeno da giovane. Ricco men che meno. Mi sono rotto la schiena per più di cinquant’anni sulle paranze di mezza Gallipoli e tutto quello che sono riuscito a mettere da parte l’ho speso per tirare su una casa di tre stanze su un appezzamento di terra sulla via per Mancaversa donatomi da uno zio prete. Una casa senza pretese, piccola e con poche comodità. Una strada la separa dal mare e d’inverno è quasi come trovarsi all’aperto. La tramontana si infiltra fredda dalle fessure ed il mare ha da tempo divorato tutto l’intonaco. Tuttavia, vivendo per quasi tutta la mia vita da solo, mi sono adattato.

Non sono sposato, né lo sono mai stato. Non che non mi piacessero le donne. Anzi! Tuttavia, per un tipo brutto e senza soldi le occasioni non sono mai tante e, se non si è pronti nel coglierle, sfumano rapidamente.

Anche da vecchio, però, la compagnia di amici e conoscenti non è mai scarseggiata. Tutto il vicinato, da quando ho abbandonato la vita di mare, si è preso cura di me. Gli uomini, quasi tutti pescatori come me, mandavano le mogli o i figli per portarmi un pasto caldo, qualche primizia o il conforto di due chiacchiere. Per questo non ho sofferto mai la solitudine. Tuttavia la compagnia di una donna è un’altra cosa. Finché uno non ce l’ha non sa cosa sia…e io, a settanta anni suonati, ho avuto la fortuna di goderne le piacevolezze. “Fortuna” forse non è la parola più azzeccata.

Si chiamava Elvira e si era trasferita da poco nella casa del compare Franco, proprio accanto alla mia. Abitava una stanza che aveva preso in affitto con i pochi soldi che aveva portato con sé venendo via dal paese. Era fuggita, mi raccontò, per non sposare un vecchio ricco che la famiglia voleva imporle. Dovevate vederla cos’era. Bruna, con un viso liscio e gentile, gli occhi neri come la pece e un bel seno da balia su dei fianchi stretti stretti da ragazza. Aveva venticinque anni quando l’ho conosciuta.

Elvira non era solo bella: era onesta e lavoratrice. Fin da subito si era data da fare per cercare un lavoro che le consentisse di sostentarsi; tuttavia, meschina, la salute non glielo aveva permesso. Nonostante infatti quell’aspetto florido era spesso malata. E così finì presto i pochi soldi che aveva con sé, rischiando di trovarsi per strada. Me lo ricordo ancora, accadde esattamente cinque anni fa. Mancavano una decina di giorni al Natale. La poveretta venne a portarmi gli auguri in anticipo perché, da lì a pochi giorni, avrebbe dovuto abbandonare la casa. Compare Franco l’aveva sfrattata. Mi disse che sarebbe andata un paio di giorni da un’amica e poi, se non avesse trovato altro, sarebbe tornata dai suoi. Mi sentii stringere il cuore e le chiesi se avesse voluto accettare la mia ospitalità. Non volevo nulla in cambio, al massimo mi avrebbe aiutato a tenere in ordine la casa. Le avrei dato il mio letto e io mi sarei sistemato in una branda in cucina. La poveretta accettò subito, tant’era disperata. Venne quindi a vivere da me, in quella mia casa povera e fredda.

Io feci di tutto per non farle pesare quella situazione. La mia pensione e l’aiuto del vicinato non bastava per entrambi e così ripresi a darmi da fare presso qualche vecchio amico. Ricucivo le reti, pulivo le paranze, insomma per un annetto riuscimmo ad andare avanti. Ma Elvira, poveretta, era sempre triste. Qualcosa la tormentava e finalmente un bel giorno riuscì a confessarlo: al paese era rimasto un suo fratello, vedovo e disoccupato, che viveva di stenti insieme al figlio. Proprio in quei giorni i suoi li avevano sbattuti fuori di casa.

“E falli venire qui, perdio” le dissi “Dove si mangia in due si mangia in quattro. E poi posso presentare tuo fratello a qualcuno dei miei amici. Vedrai, glielo troveremo un lavoro”

Elvira saltò dal letto e mi strinse forte. Dovevate vederla com’era felice.

Da lì a due giorni si presentò il fratello, Renzo, con il figlio ma, come capii quasi subito, anche Renzo avrebbe potuto fare ben poco per il sostentamento di quella famiglia che stavamo formando. Come la sorella, infatti, era spesso ammalato, tanto che i due, poveretti, restavano spesso per interi giorni a letto, mandando via di casa anche il ragazzino per evitare che potesse ammalarsi stando con  loro. Non fosse stato per la nostra povertà, saremmo stati proprio una famiglia felice. Elvira ed il fratello si volevano bene come pochi. Si abbracciavano spesso; lei era persino gelosa di lui, perciò le rare volte che Renzo era in forze gli impediva di venire a lavorare con me. Chissà cosa le girava in quella testolina? Sta di fatto che nessuno sapeva dirle di no e tutti le volevamo bene. Anche il nipote l’amava talmente tanto che, a volte, la chiamava mamma. Le cose andarono avanti così per quasi due anni, finché un giorno non successe quel che successe. Al solo pensiero mi tremano le gambe.

Una mattina, mentre riparavo le reti da Nino Persico, un amico che mi aveva dato del lavoro, si presentarono due carabinieri. Mi dissero che Elvira mi aveva denunciato per violenze su di lei e sul bambino. Mi sentii mancare. Non ve lo sto neanche a dire.

“Non ci credo” dissi “Fatemi parlare con lei”

Il maresciallo e l’appuntato mi portarono a casa e quando chiesero conferma ad Elvira delle accuse mi sembrò che anche lei ne fosse colpita. Ricordo che abbracciò il nipote e si mise a piangere violentemente. L’unica frase che riuscì a pronunciare fu: “Portatelo via, per favore”.

Poverina, doveva essere sconvolta. Non riuscì a dire altro e svenne.

Come sono andate le cose tutto il paese lo sa. Forse stanco per quel clamore che si era creato, per le malelingue che si erano messe a girare sul conto mio e di Elvira, ammisi la colpa che non avevo. In fondo in prigione non stavo così male: di inverno faceva meno freddo che a casa mia.

L’unico rammarico è non aver rivisto più Elvira. Sono due anni che non la vedo: prima in galera e poi in questa casa di cura non è venuta mai a trovarmi. Poveretta, malata com’è non avrà mai avuto modo di venire a farmi visita. Del resto non lo ha fatto quasi nessuno. Non perché si siano dimenticati di me, ma per mio volere. Dopo pochi giorni dall’arresto, venne in parlatorio compare Franco, il mio vicino di casa, e mi raccontò una storia incredibile. Mi disse che in realtà il fratello di Elvira era il marito, che stavano bene e vivevano tranquillamente in casa mia. Insomma mi avevano raggirato per impossessarsi della casa e per questo avrei dovuto denunciarli.

“Eh no” gli dissi “Tu la devi smettere di parlare così di Elvira. Quella ragazza non ti è andata mai a genio”

Franco me ne disse di tutti colori e se ne andò via bestemmiando. Da allora nessuno è più venuto a trovarmi. Perché vi ho raccontato questa storia? Per dimostrarvi la cattiveria della gente! Compare Franco è un uomo crudele. Prima mette alla porta una brava ragazza; poi, vedendo che questa ha trovato la felicità con me e con i suoi parenti, con qualche imbroglio mi mette nei guai. Sono infatti sicuro che dietro al mio arresto ci sia lo zampino di Franco. Come se non bastasse, cerca di danneggiare anche la brava ragazza accusandola ingiustamente di un fantasioso raggiro ai miei danni. Avete capito? Povera Elvira mia, che gente cattiva c’è al mondo!

Aradeo. La notte de li lazzareni

 

 

di Alessio Palumbo

 

Circa quindici anni fa, ad Aradeo, la tradizione del Santu Lazzaru era ormai data per morente. Una sola famiglia continuava a perpetuarla, portando le note e le voci della canto quaresimale nelle case di amici e parenti.

Avevo poco più di dieci anni e da non molto avevo preso a suonare la fisarmonica. Questo scatenò l’iniziativa di mio zio: perché non formare un gruppo per il Santu Lazzaru? Ci volle più tempo a dirlo che a farlo. La canzone è assai semplice, pienamente alla portata di un fisarmonicista alle prime armi. Come giustamente la definisce Giovanna Falco è una “lunga cantilena” con due strofe che si alternano. Dopo un paio di prove si era pronti.  Ed ecco come si svolgeva (e credo si svolga ancora) la notte dei lazzareni.

Intorno alle dieci ci si riuniva per l’ultima prova. Terminata questa e concordato il giro delle case, si usciva intorno alla mezzanotte. Mio padre e mio zio, le prime voci del gruppo, usavano preparare la gola mangiando pane, sarde e ricotta

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!