Angelo Gorgoni (1639-1684) di Galatina e una stroncatura forse immeritata (1/2)

di Armando Polito

(Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle.)

Probabilmente la figura di Angelo Gorgoni sarebbe stata inesorabilmente avvolta dalle tenebre del tempo se non ci avesse lasciato memoria della sua vita il suo conterraneo Alessandro Tommaso Arcudi  (1655-1718) alle pp. 68-69 della sua Galatina letterata uscita per i tipi di  Giovambattista Celle a Genova nel 1709. Così in particolare: Ora di questa famiglia [Gorgoni] abbiamo veduto, e pratticato ne’ nostri giorni, ed in un secolo tanto nella mia Patria scarso, ed avaro di letterati, per eruditissimo Angelo Gorgoni. Egli doppo aver sedate alcune turbolenze insorte nella sua casa, e legatosi in stato matrimoniale, attese con ogni ardenza a fondare, e promovere l’Accademia degl’Irrisoluti: e diede sprone alla gioventù con gloriosa emulazione ad erigere l’altra de’ Risoluti. Più volte abbiamo inteso il Signor Angelo publicamente discorrere, ed in verso, ed in prosa, con applauso di tutta la radunanza. Ma doppo la sua morte a poco, a poco, l’una, e l’altra Accademia restano quasi dimenticate, e sepolte. Il suo fratello, e già Archidiacono D. Giovanni Camillo Gorgoni, soggetto che ancor vive in Napoli, al par di lui erudito, fece stampare alcune delle sue Poesie,col titolo di Melodie di Parnaso, risuscitando il nome del Signor Angelo dal sepolcro, nel quale fu chiuso nell’anno 45 della sua vita a 24 Febraro, e nel Bisestile 1684.

Sulle due accademie fondate dal Gorgoni l’unica, scarna fonte è l’Arcudi con questo passo e con un altro de Le due Galatine difese, raccolta di suoi diversi opuscoli fatta e pubblicata da Francesco Saverio Volante, per i tipi dello stesso editore di Galatina letterata, nel 1715. Le pp. 8-15 contengono un pezzo dal titolo L’autore a gli signori accademici Risoluti di Galatina e alle pp. 237-244  un’epistola datata 10 ottobre 1681, che così inizia: Cugino carissimo, desiderando V. S. di leggere le mie due composizioni poetiche, l’una latina, e l’altra volgare da me recitate contro le maledicenze del signor Musarò nella nostra Accademia, celebrata alle lodi dell’Apostolo Pietro principale Padrone, e protettore della mia Patria. E più avanti (p. 243): Dovete finalmente sapere, che l’Academia celebrata dall’Academici Risoluti, i quali fanno per impresa la fiamma, fu sotto gli auspici del Signor Sindico Angelo Mongiò, che fà per impresa la Luna, il quale qualche tempo fu travagliato da infermità di pazzia; che la mia impresa è l’Orsa stellata, che Galatina erge la Civetta coronata, alla quale Urbano VI aggionse le chiavi di Pietro e Gallipoli il Gallo. In quella radunanza erudita io presentai il libro del Musarò, leggendo publicamente l’accennate parole sue, sopra le quali facendo una breve perorazione, poi recitai quelle composizioni, che per ubidirla le invio. All’Arcudi si rifà Camillo Minieri-Riccioindicando come data di fioritura il 1715, cioè quello di pubblicazione del libro. Basta, però, una lettura superficiale dello stesso (a parte la lettera del 1681) per capire che gli opuscoli ivi raccolti erano stati preparati da tempo e che, quindi, conformemente alla testimonianza dell’Arcudi, a quella data (erano passati trentuno anni dalla morte del fondatore)  l’accademia doveva essere estinta da un pezzo.

Del Gorgoni nulla sarebbe rimasto, dunque, se suo fratello Giovanni Camillo non avesse provveduto a pubblicare le sue poesie a quattro anni dalla morte nel  volume intitolato Le melodie di Parnaso, uscito per i tipi di Michele Monaco a Napoli nel 1688.

La prima recensione che io conosco (e non ho certo la pretesa che questo mio scritto ne costituisca una sottospecie di ultima) è quella di Giovanni Battista Lezzi di Casarano (1754-1832), in Vite degli scrittori salentini , manoscritto (ms. D5) custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. A p. 462 (la numerazione non è per r/v), si legge: Per dire, che queste Poesie non sono lodevoli per alcun verso, basti il dire, che son del secento; ma l’Autore contento almeno di averle scritte non avea pensato di farne un regalo ai Posteri, o se avea avuto il desiderio di pubblicarle, non ne avea avuto il tempo, prevenuto dalla morte. Il fratello, credendo di consagrarle all’Eternità, con pessimo consiglio si risolvè di stamparle. Per osservarne il cattivo gusto, basta il leggere l’annesso sonetto ch’è de’ meno sciagurati.

L’autore ad Amico, che l’addimanda in che si trattiene, risponde.

Nacqui Cignoa, son Cigno. A Cliob che volle/

amico avermi, son’amico ancora;

amo la vita mia sempre canora

giachesempre al mio core un spirto bolle.

Non mi ribellodall’ Aoniocolle

per altri monti a divagar tal’ora:

ivi l’anima mia note migliora,

ivi l’alma erudita i versi estollef.

Umor Castalioin urnabreve accoglio,

in cui disseto la mia penna, in cui

trovo materia d’eternare il foglio.

Se pianse Anchise e ne’ disastri sui

disse Fummo Troiani, io dir non voglio,

Non son Poeta se Poeta fui.

_____

a Appellativo di musicisti e poeti.

b Una delle nove Muse, protettrice della storia e della poesia epica.

c Per giacché, ma la forma (nata da già che) era di uso normale in testi a stampa del XVII e del XVIII secolo.

d non rinuncio

e dell’Aonia, regione montuosa della Beozia dove le Muse avevano la loro sede.

innalza.

della fonte Castalia, che prese il nome dalla fanciulla che si suicidò gettandovisi per sfuggire ad Apollo. In essa si purificavano i pellegrini che si recavano a Delfi per consultare l’oracolo del dio. Dai poeti romani era ritenuta ispiratrice di poesia. Quindi tutto il verso sta per attingo l’ispirazione con un piccolo vaso (difficile dire se il riferimento è alla limitatezza delle sue capacità di captazione o alla brevità dello schema metrico preferito, che è, qui come negli altri componimenti, il sonetto).

h vaso.

 

Premesso che le note di commento per questo sonetto e per i successivi sono mie, debbo rilevare che il Lezzi con quel suo basti dire che son del secento mostra di essere condizionato dal pregiudizio più banale in cui sovente cadiamo, non solo quando si tratta di dare il giudizio su un prodotto letterario: tutto ciò che non esprime il gusto del nostro tempo è da buttar via, quando, al contrario, ma non vale per il nostro caso dato l’esiguo lasso di tempo esistente tra il poeta ed il suo critico, non ci ergiamo a laudatores temporis acti. Da questa premessa ne consegue la stroncatura di un componimento che, pure, è considerato tra i meno sciagurati. Probabilmente il Lezzi non poteva tollerare quelle che a lui apparivano come oziose ripetizioni talora accoppiate a figura etimologica (Cigno nel primo verso, amico nel secondo con la figura etimologica di amo nel terzo, colle e monti rispettivamente nel quinto e nel sesto verso, anima nel settimo e alma nell’ottavo, poeta nell’ultimo. E dovettero sembrargli una prova di presuntuosa sicurezza gli ultimi tre versi, compreso, ad aggravarla,  il ricordo virgiliano del primo di essi. È del poeta il fin la meraviglia, parlo dell’eccellente e non del goffo, chi non sa far stupir vada alla striglia! predicava Giambattista Marino, il pontefice della poesia barocca. Certamente il Gorgoni non è un cigno, ma non si può nemmeno invitarlo ad andare alla striglia senza dare uno sguardo integrale al suo volume che comprende componimenti  che, secondo il Lezzi, probabilmente, sarebbero da considerare tutti più o meno sciagurati.

Per corroborare quanto affermato nel commentare questa poesia che nel volume è a p. 26 e perché il lettore si faccia una sua idea, propongo un estratto dell’imponente produzione2.

Comincio con un sonetto in cui l’autore, ben lungi da quella presunzione che una lettura superficiale del precedente indurrebbe a rilevare, mostra chiara consapevolezza dei suoi limiti (questa volta qualcuno lo accuserà di ipocrisia e falsa modestia? …) pur invocando  a compensazione una certa correttezza morale e religiosa.

 

(p. 4) Per le sue Poesie, mentre vanno alle Stampe3

Ite innocenti mie dolci fatiche,

ne’ torchi amici à miglior vita haverne;

voi della penna mia già figlie antiche,

voi della Cetra mia note moderne.

Se le lingue de’ Savi havrete amiche,

poco vi cale di chi mal discerne.

Non Elene corrotte, et impudiche

v’accoglie Apollo in sù le sfere eterne.

Vergine la mia Clioa, però modesta,

a suon di corde d’or vita vi diede,

e, mentre v’adornò, la man fù onesta.

Quanto spetta al decoro, in voi si vede,

quanto a pena Cristiana, in voi s’innesta;

vi diede un Cigno purità di fede.

_________

a Vedi la nota b del componimento precedente.

 

Il sonetto che segue si direbbe quasi premonitore …

(p. 5) Per chi cenzura , e non scrive

Mille Zoilia vegg’io, che a’ Greci Omeri

mordono i fogli, et è livor lo sdegno;

di mille anco Aristofani severi,

che de’ Socrati ognor ridonsi à segnob.

Veston ali di cera i lor pensieri,

né giunger ponno della Fama al Regno.

Inutili di Palladec Guerrieri,

hanno l’armi alla lingua, e nò all’ingegno.

Chi commenzal d’Apollo oggi si spanded,

Pindaroe non fù mai. Né bene accenna

che delibòf col Dio sacre vivande,

non sà, chè fiero il Mar, chi mai l’Antennag

d’un pinh guidò. Né sà, che peso è grande

chi Atlantei non provò Cielo di penna.  

________

a Zoilo fu un grammatico greco del IV secolo a. C., autore di un’opera, andata perduta, in cui criticava ferocemente i poemi omerici.

b Aristofane (V secolo a. C.) nella commedia Le nuvole ironizza su Socrate e i Sofisti.

c Dea protettrice delle arti.

d vanta

e Poeta lirico greco (VI-V secolo a. C.) famoso per i suoi voli, cioè ardite, improvvise digressioni.

f gustò

g l’albero

h nave (metonimia: invece dell’oggetto, la materia di cui è fatto).

i Zeus, che era figlio di Crono,  lo costrinse a reggere sulle spalle la volta celeste per punirlo di essersi alleato con Crono per guidare o titani contro gli dei dell’Olimpo.

 

Proseguo con i sonetti dedicati agli animali.

 

(p. 31) La formica

Quando Sirioa  più avampa, e ‘l fier Leoneb 

co’ suoi raggi infocati il Mondo accora,

sbucata da mia concava magione,

de’ bruti in compagnia lodo l’Aurora.

Provedo a’ casi miei nella stagione

dell’ariste indorate avida ognora.

E per assimilarmi cal dio Plutone,

furo a Cerere afflitta i frutti ancora.d

Non di villano cor m’agghiaccian l’onte

Caccoe di brieve corpo. Io sono amante

delle bricef disperse, e lui del fonte.

Rispetto al corpo, alle minute piante,

s’ogni peso che porto appare un monte,

benche il nano de’ vermi io sono Atlante g.

___________

a É la stella più luminosa della costellazione del Cane e nel periodo della canicola (24 luglio-26 agosto) sorge e tramonta con il sole.

b Il sole è nel suo segno tra il 23 Luglio e il 22 Agosto.

c rassomigliare

d Allusione al mito di Cerere, la cui figlia Proserpina fu rapita da Plutone.

e Caco viveva in una grotta dell’Aventino e terrorizzava i vicini con i suoi furti. Fu ucciso da Ercole, al quale aveva rubato dei buoi.

f briciole

g Vedi la nota i del componimento precedente.

 

(p. 32) La mosca

Chi regal mi dirà!! Chi mi condanna

plebea frà tanti piccioli animali!

D’aquilino color vestendo l’ali,

ogni fisonomista in me s’inganna.

Se turbo il sonno altrui, sono tiranna;

arpiaa, se cene infestob a’ commenzali.

I Monarchi, i Plebei fò tutti eguali,

succhio a questi l’erbette, a quei la manna.

Mio Tron, è un volto in cui me spesso  assentoc,

né temo, che mi fuga, indi importuna,

con flagello di carta ira di vento.

La sorte è a me, né lucida, né bruna;

con vicende di Fato, io m’alimento

in desco di Miseria, e di Fortuna.

___________

a Le Arpie erano creature mitologiche col volto di donna e il corpo di uccello. Erano specializzate nel saccheggio delle mense.

b invado

c siedo; qui l’autore, che non era certo un indotto, si è preso la licenza, dovuta ad esigenza di rima, di scambiare assido (da assidere) con assento (da assentire), attribuendo a quest’ultimo il significato del primo.

 

(p. 122) Lamenti d’un Bue

Su l’apparir de’ matutini albori

m’intima a fatigar bifolca mano,

e interrotti i placidi sopori,

o le valli coltivo, o solco il piano.

Trovo circonferenti i miei sudori,

se dura sfera è l’esercizio humano,

né pietade provede a’ miei languori,

che le leggi ad un Bue fa Re villano.

Son’io, che copro i semi, io che raccoglio

le ricche biade; e se talor mendico

cibo, lo porge rusticano orgoglio.

Riposa altrui nel vitupero antico,

io naufrago operando; e sì mi doglio,

che fra tanti cornuti io sol fatico.

 

(p. 142) L’Aragno

Priva di penne, ove convengon l’ali,

lega debol fil da muro, in muro,

e fabra, e spola: aggroppa i stami uguali,

Dedaloa verme  ,c’ha veleno impuro.

Mille Tesei volanti, i dì fatali

chiudono a morte al carcere spergiuro,

e, fallace Arianna a loro mali

porge stami, e lo scampo è men sicuro.b

Pesca senz’amo, sù dell’Etra al Marec;

dalle viscere sue l’esche raduna,

fatte le reti Rie fila già rare.

Se ‘l cerchio indi le squarcia Aura importuna

meraviglia non è, che sempre appare

chiara incostanza a Rota di Fortuna.

_____

a L’inventore del labirinto, cui la tela del ragno somiglia.

b Allusione al mito di Teseo che uccise il Minotauro (rinchiuso da Minosse, re di Creta,  nel labirinto) grazie all’aiuto di Arianna, figlia del re , la quale lo dotò di una matassa che, srotolata, permise all’eroe di uscire dal labirinto.

c dal cielo al mare

 

(p. 152) Il Gallo

Quando avanzano al dì brievi momenti,

la notte invoco à seminar gli orrori.

Ristorate dal sonno al fin le menti,

desto l’Aurora à dispensar gli albori.

Animato  Orologgio: io balbia accenti,

rinforzo audace, e fremiti sonori,

invito à sursib effeminate genti.

Sono Metro del Tempo, e degli amori.

Coronato volante: à me natura

della prosapiac mia fidò l’impero,

altro che vigilar non è mia cura. 

Iride hò nelle piume; e sempre altero

se co ‘l canto protestod ogni bravura,

degli Augelli son’io tromba, e Guerriero.

________

a Forma sincopata di surgersi(levarsi dal letto)

b balbettanti

c stirpe

d mostro

 

(p. 166) Per una sanguettolaa, morta sopra il braccio di bella Donna

Dai neri stagni, in lucida prigione

altri ti chiuse, di salute un Angueb,

acciò, svenando agl’innocenti il sangue,

fusse de’ vermi un fisico Neronec.

Mentre l’arte di Cood savia t’impone

mordessi il braccio à Lilla mia che langue:

avida, e tu, per non sentirla esangue,

fustee di sua salute empia cagione.

In picciolo Eritreof, tue rabbie absorteg,

inerme Faraon vedesti; e ‘l male

che ondoso s’annegò, anco fù forte,

ma, felice imparasti empio animale,

per non mutarti in cenere la Morte,

con i balsami suoi farti immortale.

________

a sanguisuga; all’epoca il salasso tramite sanguisuga era una delle terapie più usate in varie malattie. Sanguettola è diminutivo di sanguetta, voce regionale settentrionale.

b serpente

c Qui l’imperatore è assunto per antonomasia a modello di sanguinario.

f Il globulo rosso, scoperto da poco (dall’olandese Jan Wammerdam  nel 1568).

g scatenate

 

(p. 236) Si paragona all’Ape

A te, ch’ali dorate Ape ramingo

apri a i raggi del Sol, Clotoa de’ fiori

e guerriero oricalcob, a’ tuoi clamori

coorti aduni, a parità mi fingo.

Tu nel fumo patisci, e io mi stringo

del Dio ch’è ciecoc ai fumiganti ardori,

tu favi ammonti, ed io con atri umorid

armoniche dolcezze al Mondo pingo.

Tu volante destrier sù l’Etrae biscif,

io di Marte scrivendo, or pugno, or giostro,

tu i Prati adori, io d’un bel volto i lisci.

Così,  troppo uniforme è il viver nostro,

mentre noi stizza altrui: pronto ferisci

tu con ago mordace, io con inchiostro.

__________

a Era la più giovane delle tre Parche e il suo compito era quello di filare lo stame della vita.

b tromba

c Amore

d inchiostro

e nell’aria

f sibili

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/28/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2-2/?fbclid=IwAR3hwtlMSi_n1I7kvSJXU7n8M46Vpo52XgZLvcszVuz9X1gGqY8zfXTVexM

________________

1 Notizia delle Accademie istituite nelle Provincie Napolitane in Archivio Storico per le Province Napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 147: Galatina. L’Accademia col nome di RISOLUTI fioriva tuttavia nell’anno 1715 in Galatina, e facea per impresa una Fiamma3. E in nota 3: Vedi ALESSANDRO TOMMASO ARCUDI a p. 8, 237 e 243 del suo libro Le due Galatine difese, che stampò in Lecce nel 1715 colla falsa data di Genova e col finto nome di Saverio Volante.   

2 Sono 312 componimenti: 270 sonetti, 37 epigrammi e 5 altri di maggiore estensione. Due suoi sonetti , inoltre, si trovano inseriti, in lode dell’autore, in Vita e miracoli del glorioso S. Saba, di Onofrio Guido di Castrignano dei Greci, opera uscita per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1861 (le pagine non sono numerate).

3 Scrive il fratello nell’avvertenza al lettore che i sudori di mio fratello furono valevoli, accelerandogli il suo dì fatale, a privarlo della luce; e più avanti che si tratta di opere … la maggior parte ritrovate abbozzate trà misere cartuccie …   Se, dunque, questo componimento non è un topos obbligato, Angelo aveva intenzione di pubblicare la sua fatica ma la morte glielo impedì.

 

Notizie inedite su Matteo Tafuri (1492-1584). Nuove rivelazioni da un manoscritto seicentesco

M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola. Proprietà L. Galante
M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola.
Proprietà L. Galante

 

di Luigi Galante*

In una pagina famosa della sua Galatina letterata, pubblicata nel 1709, Alessandro Tommaso Arcudi dà una notizia, e tutti la ricordiamo, su Matteo Tafuri; ed è una notizia tanto celebre, quanto, come sempre per il Tafuri, controversa. Cosa scrive Arcudi? Egli ricorda “Conservavasi nella mia casa (degli Arcudi) la sua (di Gio. Tommaso Cavazza) Calvarie; insieme con quella del tanto nominato, e famoso al mondo Matteo Tafuro di Soleto, ma nell’anno 1672 a tempo ch’io facevo l’anno del noviziato, la vedova mia madre per alcuni timori e scrupoli feminili, fecele ambedue secretamente gettare nel publico cimiterio: non sapendo di che grand’uomini erano quelle, e di che bella memoria alla nostra casa”[1].

Molti studiosi si sono interrogati sul significato di questa ambigua parola: ‘calvarie’, perché quello che sembra il significato del termine più vicino al tempo in cui Arcudi viveva è indubbiamente ‘teschio’. Però certamente è sempre sembrato in qualche modo preoccupante che in una casa privata si conservassero dei teschi anche se appartenuti ad uomini illustri del passato; senza poi voler considerare la difficile compatibilità di questa conservazione con le regole della religione cattolica della quale Arcudi, dotto domenicano, era severo custode. Sicché è del tutto comprensibile che alcuni studiosi abbiano interpretato la parola ‘calvarie’ in modo diverso, ed abbiano sostenuto, non senza argomentazioni e riscontri, che il significato reale intendesse alludere invece a studi o scritti. Questa è stata l’opinione di esperti accreditati del mondo tafuriano e, a tacere di altri, ricordo il compianto Prof. Giovanni Papuli e la sua allieva Luana Rizzo[2]. Soltanto Luigi Manni, tra gli studiosi recenti, ha sostenuto con forte determinazione che per ‘calvarie’ non poteva che intendersi il teschio.[3]

Come stanno davvero le cose? Ancora una volta il dilemma è svelato da una inedita pagina del Galatinese Pietro Cavoti (1819/1890) che ci dà,oltre a questa rivelazione, una serie di sconosciuti particolari sulla sepoltura del Tafuri e, incredibile a dirsi, anche sulle vicende successive delle sue spoglie mortali. Facciamogli allora comunicare le notizie preziose che egli nelle sue peregrinazioni per la provincia, lesse in un antico manoscritto della famiglia Carrozzini, che oggi è probabilmente perduto, ma che nel 1884 si conservava a Soleto presso il canonico Giuseppe Manca il quale lo mise cortesemente a disposizione del Cavoti.

Ricordo dei fatti storici di Soleto da un manoscritto della Fam. Carrozzini. Matteo Tafuro morì il dì 18 novembre 1584, fu seppellito nella cappella di S. Lorenzo delli Tafuri a mano destra sotto l’immagine della Madonna con Nostro Signore. Furono tolte le ossa del filosofo di Soleto per volontà della Famiglia Carrozzini e deposte nel Monastero di S. Nicola in Soleto dentro una cassetta di legno con l’arme dei Tafuro. Vollero donare il teschio di questo insigne, alla famiglia Arcudi di Galatina. Alcuni frammenti dei suoi abiti consumati dal tempo e dai vermi, conservansi come reliquie da questa onorabile famiglia Carrozzini di Soleto. Notizie avute dal canonico Manca di Soleto. Conservasi detto manoscritto in casa sua. Mi mostrò il manoscritto per una mia visita il dì 26 ottobre 1884 per l’acquisto di alcune monete antiche trovate nell’agro di Soleto[4].

L’inclinazione del Manca a collezionare ed acquistare monete antiche, è confermata da una lettera dell’anno successivo, che il canonico scrive a Cavoti:  “Mio amatissimo Pietro. Ho visto le nove monete; pare appartengono al numero delle sessantatrè trovate qui. Sono greche e buone.… Se per vostro conto volete farne l’acquisto di qualcuna, preferite quella di Velia, cioè l’unica in cui si trovansi un leone, oppure qualcuna di Napoli scegliendola tra quelle che portano il bue a faccia umana barbato, le altre scartatele tutte, ma cercate di dar la preferenza a quella di Velia, che potreste pagarla £ 1:50 non più. Qui si son trovate molte altre, e nell’istesso luogo; basta ne parleremo. Vostro affezionatissimo amico e sempre Giuseppe canonico Manca[5].

Insomma, grazie al cimelio che Pietro Cavoti ci ha consegnato, e che è una ennesima riprova di quanto prezioso sia lo studio delle sue carte superstiti nel Museo galatinese, possiamo oggi dire non solo che Luigi Manni ha avuto, a sua tempo, la giusta intuizione, ma possiamo anche conoscere con esattezza il luogo della sepoltura originaria del Tafuri ; (cioè nella chiesa S. di Lorenzo dei Tafuri, e successivamente in S Nicola, oggi scomparse) e così combinando queste notizie con quelle di Arcudi , possiamo anche definire il destino finale del teschio tafuriano. C’è poi tra le cose da notare una data di morte: quella del 18 novembre 1584, che è a me pare, perfettamente bencredibile, perché contraddice, è vero, quella tradizionale divulgata da Girolamo Marciano (al 13 giugno 1582), ma è perfettamente compatibile con i dubbi di quanti hanno notato che nelle opere di Gian Michele Marziano (1583) e di Francesco Scarpa (1584), il Tafuri sembra essere considerato vivente[6].

Non mi parrebbe completo chiudere questo articolo, se non ricordassi anche il contributo iconografico importantissimo che Cavoti ha dato alla scuola tafuriana, non solo copiando da vari luoghi, e conservando per noi le immagini che io ho edito di Matteo Tafuri, ma anche quelle, sempre edite da me, di Sergio Stiso, suo predecessore, e dei suoi allievi, Cavazza, Scarpa e forse Lorenzo Mongiò. Perciò mi pare opportuno pubblicare qui due immagini cavotiane di altri due uomini legati forse al mondo tafuriano, e cioè quella di Giovan Paolo Vernaleone junior e di Stefano Corimba.

Infine aggiungo a complemento del ritratto molto importante del Galateo che ho pubblicato mesi fa insieme a quelli del Galatino,[7] anche il disegno cavotiano di un famoso amico galatinese del Galateo, Girolamo Ingenuo, che Cavoti copiò in casa della famiglia Tanza, da un originale che tutto lascia supporre essere perduto. Ma nelle carte cavotiane c’è di più: un ritratto di G.B. del Tufo8, che è poi il destinatario del famoso pronostico tafuriano che attende ancora di essere edito.

 

[1] A. T. Arcudi, Galatina Letterata (ristampa anastatica), Aradeo, 1993, pag. 49

[2] L. Rizzo, Umanesimo e rinascimento in terra d’Otranto: il platonismo di Matteo Tafuri, Galatina, 2000, pag 121

[3] L. Manni, La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP, pag 113

[4] Il documento cavotiano è conservato presso il Museo Civico di Galatina, come tutti i ritratti riportati in queste pagine, comprese quelle nel saggio del Prof. G. Vallone, eccetto l’immagine tratta dal ms. Vat. lat. 6046. Essi sono di esclusiva proprietà del Comune di Galatina-Museo Cavoti. Per la riproduzione parziale o integrale delle immagini qui riprodotte, è vietata qualunque riproduzione senza autorizzazione scritta al Comune di Galatina, nonchè la richiesta di citazione dell’autore. Ringrazio l’Assessore alla Cultura di Galatina Prof.ssa Daniela Vantaggiato, che mi ha autorizzato alla pubblicazione.

[5] Lettera scritta dal canonico Manca di Soleto al Cavoti l’8 ottobre 1885. Cfr. L. Galante, Pietro Cavoti. I tesori ritrovati, , Galatina, 2007, EdiPan, pag. 76.

[6] G. Vallone, Restauri Salentini, in BSTO, Galatina, 1-1991 nota 14, pag. 155.

[7] L. Galante, Iconografia del Galatino, in Studi Salentini, LXXXV/2009-2010, pp. 75-88.

8  “Per un approfondimento sulla famiglia del Tufo vedi, L.  Manni La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP,”

 

Pubblicato su “Il Filo di Aracne”.

Non essendo in possesso di autorizzazioni alla pubblicazione non abbiamo potuto riproporre le tavole citate nel testo

Alessandro Tommaso Arcudi di Galatina, il wikipediano ante litteram …

di Armando Polito

Le precedenti immagini sono tratte da http://www.unigalatina.it/attachments/article/687/Alessandro%20Tommaso%20Arcudi.jpg; per saperne di più su questi ritratti invito il lettore a prendere visione al link segnalato di un interessantissimo post a firma di Luigi Galante con nota di lettura di Giancarlo Vallone.

 

Non è raro incontrare in Wikipedia nelle schede relative ai toponimi una sezione apposita in cui sono elencati con i loro dati essenziali i personaggi famosi che hanno onorato un luogo con la loro nascita o coni rapporti con esso intercorsi. Il wikipediano del titolo è da intendersi con riferimento non all’utente ma al collaboratore.

Se la tecnologia digitale e la relativa cultura  fossero esistite qualche secolo fa, Tommaso Alessandro Arcudi  sarebbe stato un ottimo compilatore della scheda relativa a Galatina (allora si chiamava S. Pietro in Galatina), dov’era nato nel 1665. E, tra l’altro, gli sarebbe bastato sintetizzare quanto aveva registrato in Galatina letterata uscita per i tipi di Giovan Battista Celle a Genova nel 1709. Di seguito il frontespizio tratto da  http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ204638008, dove l’opera è integralmente leggibile.

 

Immediata simpatia ha suscitato, almeno in me, quell’Autore dell’Anatomia de gl’Ipocriti sotto nome anagrammatico di Candido Malasorte Ussaro. La prima parte del titolo può sembrare un abile espediente pubblicitario (simile all’attuale reduce da una trionfale tournée in America) della sua precedente pubblicazione (Anatomia degl’Ipocriti Opera utilissima a’ predicatori evangelici; illustrata con varie, e peregrine interpretazioni di Sacri Testi à confusione dell’Ipocrisia d’Oggidì uscita per i tipi di Girolamo Albrizzi  a Venezia  nel  1699).


Il lettore noterà che anche in questo secondo frontespizio è ripetuta la seconda parte del titolo del primo, in cui compare solo l’anagramma. Non credo che l’assenza del vero nome qui sia legato a timore di rappresaglie1, anche perché la presenza nella pubblicazione del 1709 del nome vero e del suo anagramma ribadisce, secondo me, la fedeltà al suo coraggioso pensiero. Non credo nemmeno che lo stesso anagramma faccia soltanto parte di quel gioco di parola così caro agli accademici ed al gusto in generale del periodo barocco2 e spiego perché. Alessandro Tommaso Arcudi anagrammato può dare anche, tra i più allusivi,  narrami modulo scassa dote o narrami de modulo scassato o modulo scosta da sè marrani. Alessandro, invece, ne scelse uno in cui Candido è interpretabile nello stesso tempo come nome proprio e come aggettivo e Malasorte come cognome, insieme allusivi alla punizione di un puro. Ussaro, infine, mi ha giocato un brutto scherzo. In un primo momento,infatti, mi era parso che avesse la la stessa funzione che il cognomen aveva nei tria nomina dei Romani, per lo più legato ad una caratteristica fisica o morale; e qui, visto che gli ussari erano soldati appartenenti a speciali reparti di cavalleria leggera, in un primo momento avevo pensato che  Ussaro sostanzialmente fosse sinonimo di soldato  speciale. Insomma, un anagramma, se volete, un po’ presuntuoso (ma l’autoironia riscatta anche la presunzione, reale o … presunta) ma non certo millantatore. A smentire la mia interpretazione iniziale, poi, anche se la funzione di cognomen rimane, e a riprova che la fantasia in qualsiasi indagine è indispensabile ma pericolosissima quando un’ipotesi non trova conforto in nessun dato che abbia  la valenza, se non di prova, almeno di indizio, sono intervenute le stesse parole dell’Arcudi che  nella sua opera polemica così giustifica la sua scelta:  L’ipocrisia opera sempre dietro una maschera, ed io la combatterò mascherandomi anch’io; contro gl’ipocriti sarò tutto “Candido”, esponendomi di conseguenza ad ogni “Malasorte”, onde mi occorre la pazienza di un “Ussaro”, quella di Giobbe cioè, che fuit de terra Hus (Giob., I, 1: “Vir erat in terra Hus, nomine Job, et erat vir ille simplex, et rectus ac timens Deum”3). Così la mia ipotesi dell’impeto cavalleresco è miseramente annegata nel concetto di pazienza messo in campo dallo stesso autore.

Chi ha interesse a conoscere i personaggi presentati in Galatina letterata non ha che da leggere il libro o, in caso di ricerca selettiva, consultare i due indici alfabetici. Va da sé che la consultazione dell’opera è fondamentale per chiunque abbia intenzione di avere lo spaccato letterario di Galatina fino ai tempi dell’autore o semplicemente di aggiornare la scheda virtuale che l’Arcudi stilò molto prima dell’avvento della realtà virtuale …

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1 Esse pure ci furono, tant’è che a causa di questo pamphlet contro i Gesuiti  (sul cui conto  l’autore nella parte introduttiva  così si esprimeva: Ho molto abominato quelle persone, e massime ecclesiastiche e regolari, che dovendo secondo il debito dell’ufficio sepelirsi nella ritiratezza dell’operazioni e de’ studi, consumano scioperatamente il tempo nelle sessioni delle botteghe e delle porte, ne’ circoli de’ cortili, ne’ passeggi delle piazze, nelle visite di feminelle, lacerando l’altrui fama, e la propria anima contaminando), i superiori lo “esiliarono” nel convento di Andrano dove rimase fino alla morte.

2 In questo l’Arcudi va considerato un vero specialista. Infatti nella Galleria di Minerva (una sorta di miscellanea di novità editoriali) edita da Girolamo Albrizi a Venezia) del 1696 fu pubblicato un saggio dal titolo Miniera dell’argutezze scoperta dal signor Silvio Arcudi, ed illustrata dal Padre Alessandro Tomaso Arcudi sui Pronipote, de’ Predicatori (pp. 297-306). Se è impossibile individuare quanto è di Silvio e quanto di Alessandro, è certo che l’illustrazione è degna della miniera, come può controllare chi lo voglia all’indirizzo  http://digital.onb.ac.at/OnbViewer/viewer.faces?doc=ABO_%2BZ164590208. A p. 396, in coda alla Miniera …, lo stesso editore dava notizia che era in fase di stampa l’Anatomia degli ipocriti e ne forniva una sorta di recensione anticipata.

3 Nella terra di Hus vi era un uomo, di nome Giobbe, e quell’uomo era semplice e retto e timoroso di Dio.

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

 

A PROPOSITO DELLA ANATOMIA DEGL’IPOCRITI

DI A. T. ARCUDI

 

galatina letterata

di Giovanni Vincenti

Era già stata rilevata l’esistenza di una doppia edizione dell’operetta Galatina Letterata composta dall’erudito galatino fra’ Alessandro Tomaso Arcudi (1655-1718) e pubblicata il 1709. Non si trattò tuttavia «di una prima insoddisfacente sul piano formale seguita da una seconda migliorata e corretta»1, ma di una mera ristampa del solo frontespizio che presentava un evidente errore nel nome del dedicatario: “D. Filippo / Romualdo Orsino, / Duca di Gravina, Prencipe di Solo- / fra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 1], corretto in “D. Filippo / Bernualdo Orsino, / Grande di Spagna di Prima Classe / Duca di Gravina, Prencipe di So- / lofra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 2]. Da una comparazione approfondita, i due testi sembrano perfettamente identici.

Ma simile malasorte pare sia toccata, come si cercherà di dimostrare, al un’altra opera dell’Arcudi, l’Anatomia degl’Ipocriti pubblicata «sotto nome anagrammatico diCandido Malasorte Ussaro». Era stato lo stesso stampatore veneziano Girolamo Albrizzi ad anticipare, il 1697, con una sua nota apparsa ne La Galleria di Minerva, la notizia della imminente pubblicazione della Anatomia opera «di novella invenzione, piena d’erudizione sacra e profana, copiosa di dottrine e di scritture» rivelando altresì che «il vero autore di quest’opera che si trova sotto il mio torchio, sia P. Alessandro Tomaso Arcudi dell’Ordine de’ Predicatori»2.

Un trattato massiccio ed interminabile che, dedicato al teologo e cardinale agostiniano fra’ Enrico de Noris (1631-1704)3, vide la luce il 1699 «non ostante l’infelicità della Stampa, ed infedeltà dello Stampatore»4, nel quale il padre Arcudi distende su un metaforico lettino anatomico l’Ipocrisia e la seziona in ogni sua minima parte. Nell’opera «si rispecchia già tutt’intera una vita, in modo compatto e coerente spesa per il proprio ideale di santità e condotta fra amarezze e delusioni, insofferenze mordaci e inghiottite rassegnazioni, reazioni a mala pena frenate ed esplosioni d’indignazione»5.

Sull’infelicità della stampa già lo stesso autore, nella pagina a chi legge, consapevolmente aveva avvertito: «La Malasorte dell’Autore è stata ereditata dal libro. E’ solito infortunio delle stampe qualche difetto di ortografia, e di sillaba: ma di questo figlio sventurato non può dire il Venusino: Egregio inspersor reprendas corpore naevos: mentre non solo di nei, ma di brutti tagli porta sfregiato il volto, e le membra: più che non ha l’Autore tirati all’Ipocrisia. Il semplice titolo che portava d’Anatomia de gl’Ipocriti, crebbe così ampolloso, e farisaico, che l’Autore à primo aspetto dubitarebbe se questo fusse il suo libro. Si mutino almeno così tre righe del frontespizio. Illustrata colle divine Scritture, Sancti Padri, e Scrittori profani. Il bellissimo fregio dell’Indice, col nome d’Anatomia del Libro, corrispondente a gli numeri, che tu vedi nelle margini in faccia de’ Capiversi, l’è stato tolto non so perché, con non ordinario del Padre suo, la cui lontananza dà Venezia fino all’estrema punta dell’Italia, è stata la cagione d’ogni dissordine. Io compassionando le sue disgrazie, ho medicato le piaghe più ampie, e risarcite le vesti più lacere in tutti quei volumi che sono capitati nelle mie mani. Gl’errori di mano conto non pregiudicano alla sua intelligenza. Prega il Cielo, che l’altre opre dell’Autore non avessero la sempre sua mala sorte»6. E più avanti ribadiva: «Non mi arrossisco confessare molti errori in quest’opra […]. Vero è che molti errori son della stampa, e non minori della mia penna, perché l’intelletto applicato alla sostanza, non ha possuto con accuratezza attendere alle parole»7.

L’espressione infedeltà dello Stampatore usata dall’Arcudi, poco chiara, sin qui, ora assume significato nuovo dopo il rinvenimento di una seconda edizione dell’Anatomia. Consideriamo i due frontespizi, il primo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / In Dieciotto Membri Divisa / Opera Nuova / Illustrata col testimonio infallibile del Pentateuco, Santi / Evangelii, Atti Apostolici, e di Moltissimi / Santi Padri Ecumenici. / Utilissima à Predicatori della Verità Evangelica, con varie / e peregrine Interpretazioni de Sacri Testi. / A’ Confusione dell’Ipocrisia de’ moderni Farisei. / Consacrata / All’Eminentiss.mo e Reverendiss.mo Principe, e Sig. / Il Signor CARD. FRA’ ENRICO / DE NORIS / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori” [fig. 3], mentre il secondo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / Opera / Utilissima à Predicatori Evangelici; Illustrata con varie, e / Peregrine Interpretazioni de Sacri Testià confusionedell’Ipocrisia d’Oggidì. / Consacrata / All’Illustriss. e Reverendiss. Sig. il Signor / LIVIO LANTHIERI / Conte del S.R.I. Libero Barone di Schenhaus, e Baum- / chirchenturn; Copiere ereditario di S. M. Cesarea / nell’Illustriss. Contado di Gorizia; Signore / di Vipaco, & Raifemberg, &c. / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori “ [fig. 4].

Ma le differenze proseguono anche all’interno del libro. Lo stampatore infedele infatti, elimina le cinque pagine dedicatorie All’Eminentiss.mo Signore il Sig. Card. Enrico de Noris firmate dall’«Umilissimo ed Obligatissimo Servo Candido Malasorte Ussaro» e datate S. Pietro in Galatina, li 8 luglio 1699, la nota critica Graziano Dissamato a chi legge e le tre pagine di errata Corrige. Queste vengono sostituite con una lettera dedicatoria al conte Livio Lanthieri con la quale «consacrare à V. S. Illustrissima questa Anatomia degl’Ipocriti, come figlia delle mie Stampe», firmata dall’«Umiliss. Osseq. Riveritisi. Servo Girolamo Albrizzi» e datata Venezia, li 14 luglio 1699, con un Sonetto [fig. 5] ed un Madrigale di un anonimo Accademico Gelato Agli Ipocriti per il viaggio dell’Inferno [fig. 6].

L’Anatomia degl’Ipocriti – scrive l’Arcudi il 1709 – fu «ricevuta con tanta grazia (gloria a Dio) da letterati di Europa: e lo confessano le lettere scrittemi da molte parti d’Italia: e tanto avidamente letta da gl’eruditi: […] comparve appena nella mia Patria, che un nasuto fermando la pupilla su la coperta, cercò censurare la Grammatica del suo titolo: asserendo con pedantesca prosopopea, benché non pedante di professione; ch’io non dovevo scrivere Anatomia, ma Notomia. Se costui fusse stato Cirusico, e non Leggista, accetterei la censura, e ad imitazione di Apelle corretto il titolo: ma nec sutor ultra crepitam. Credendo far il Dottore appresso gl’idioti, si palesò idiota appresso i dotti. Non intese questo novello Asinio quanto più spiegativo, e proprio all’invenzione di quel Volume fusse il vocabolo Anatomia, secondo l’etimologia della Grecia; la quale al Lazio prestò il nome. Non intese, quanto più maestoso era il titolo di Anatomia, che cominciando, e finendo colla più sonora, più squillante, più bella, e perciò prima lettera dell’Alfabeto; e replicandosi nella seconda sillaba: con dar bando alla O, di suono men naturale, e men dolce: empiva l’occhio a vederla, e l’orecchia a sentirla, con maggior simpatia: come primogenito parto dell’anima, (così la chiama l’eruditissimo, ed ingegnoso Tesauro) e prima lezione insegnatagli nascenti bambini dalla natura. Onde questo vocabolo appare sul frontespicio del libro come Re sedente sul Trono: non come Notomia, bastardo fantaccino, che da se stesso si scopre, e si vergogna. Perché il Critico, aveva letto Notomia in qualche moderno: senza penetrar più dentro alla forza, e proprietà della voce; per non avere salutato, che i primi vestiboli della Grammatica; credette aver detto assai, quando sapea tanto poco. Ma la censura non è degna di risposta, ma di risate. Tanto è vero, che il compiacere a tutti chi scrive, non solamente è difficile, ma eziandio impossibile. Né questa è la prima volta, che omnibus, et verbis nostris insidiatus, et sillabis: come appresso l’Angelico mio Dottore, 2.2.q.II.a.2.ad.2. scrisse il Pontefice S. Leone a Proterio Vescovo Alessandrino»8.

Qui emerge prorompente tutta la vis polemica del nostro padre fra’ Alessandro Tomaso Arcudi predicatore.

 

 

1G.L. De Mitri – G. Manna, Presentazione a A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, rist. anastatica, Maglie 1993, p. XII.

2 Cfr. G. Albrizzi, Anatomia degl’Ipocriti di Candido Malasorte Ussaro, ne “La Galleria di Minerva”, Venezia 1697, II, p. 306-307.

3A.T. Arcudi, S. Atanasio Magno, Lecce 1714, p. 272.

4A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, pp. 12-14.

5 M. Marti, Schizzo di un minore letterato insofferente e geniale: Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina, in “Urbs Galatina”, II, 1993, 1 (gennaio-giugno), p. 170.

6A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti, Venezia 1699.

7A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti etc., cit., p. 15.

8A.T. Arcudi, Galatina Letterata etc., cit., pp. 12-14

Tommaso Cavazza (1540-1611) alchimista di Galatina

La pietra filosofale quintessenza della chiave del sapere

INEDITI SU GIOVAN TOMMASO CAVAZZA (1540-1611) ALCHIMISTA DI GALATINA

Circolazione in area meridionale di scritti alchemici del ‘500

"L’Alchimista" di David Teniers il Giovane (1610-1690)
“L’Alchimista” di David Teniers il Giovane (1610-1690)

 

di Luigi Manni

Il beneventano Nicolò Franco, finito sulla forca dell’Inquisizione l’11 marzo 1570, durante il processo accusò Girolamo Santacroce, suo avversario, di aver conosciuto il “mago di Soleto”, l’astrologo Matteo Tafuri (1492-post 1584), in quel periodo processato per eresia e incarcerato nelle galere romane della Santa Inquisizione. Il Santacroce, su chi poteva aver notizia della scarsa religiosità del Tafuri, indicò, tra gli altri, “don Gio. Thomaso Caruso de Taranto”, poi, una seconda volta, come “Capato de Taranto”, che altri non è che il galatinese Giovan Tommaso Cavazza, “scholaro” appunto del Tafuri.

La certezza della patria tarantina ci viene da due inediti rogiti nei quali Joanne Tomasio Cavazzade civitete Tarenti era ad presens (1594) comorante (abitante) dicte terre Sancti Petri (Galatina). Giovan Tommaso ha due fratelli, Donato Antonio, sinora sconosciuto, e Mario, sposato nel 1560 con Giovanna, figlia naturale del duca Castriota Scanderbeg. La madre Joannella Galiota (Giovanna Galeota), nel 1595 risulta vidua relicta quondam magnifici domini Caroli Cavazza (vedova di Carlo Cavazza, padre del nostro). Dal testamento di Mario, sappiamo che i fratelli ereditarono tutti i suoi beni mobili, stabili, oro e argento.

Ora, oltre le date 1568 e 1570, da me individuate, che testimoniano la presenza a Galatina di Giovan Tommaso, disponiamo di un profilo del Cavazza, o Cabazio, curato nel 1679 dal domenicano galatinese Alessandro Tommaso Arcudi nella sua Galatina Letterata,da recepire, in qualche caso, con le dovute cautele, se non la si libera da tare e invenzioni.

Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)
Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)

Giovan Tommaso Cavazza, dottissimo nella lingua greca, ebrea e latina, non ebbe “eguali nella teologia, filosofia, matematica, cosmografia, astrologia, alchimia, retorica, poetica, come appare dalle tante opre, che scrisse in queste materia”. L’Arcudi lamentava la dispersione delle sue opere: “La maggior parte delle fatighe di questo ingegno grande l’ho andato io raccogliendo manuscritte, eziandio i medesimi originali, benché alcune con mio rammarico le ritrovai poscia consumate da vermi e dall’acqua, che distillava sopra per negligenza ed ignoranza de’ miei domestici”. Il domenicano afferma che il Cavazza aveva “non poca cognizione della magia naturale e fece prove mirabili di chimica, investigatore acuto de’ profondi secreti della natura”. Pensava di “mandar alla luce le sue dotte e degne fatighe, ma cedendo in quella deliberazione troppo tarda alla comune nemica, nel 1611 terminò settant’uno anno di vita”. Il poeta Silvio Arcudi invitò tutti quanti a leggere “del gran Cavazza i dotti fogli”.

Tra i tanti scritti Del Cavazza, ci è rimasta, in volgare, un’opera alchemica intitolata Della pietra filosofale, overo della quinta essenza, che oggi sappiamo conservata nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Il trattato, incompleto, inserito in un codice miscellaneo già noto agli studiosi, ci riporta direttamente agli ambienti dei neoplatonici salentini, raccolti intorno al “protosavio del mondo”, il “philosopho, matematico et medico” soletano Matteo Tafuri. Ed è proprio dal Tafuri che Giovan Tommaso, suo allievo, trasse la linfa vitale per gli esperimenti alchemici di trasmutazione, condensati appunto nel suo Della pietra filosofale, nel quale è citato ripetutamente un altro allievo di messer Matteo Tafuro, il matematico galatinese Giovan Paolo Vernaleone (1527-1602), la cui specifica fama come alchimista è ricordata nella Operatie elixirisphilosophici, un manoscritto polacco attribuito all’alchimista Michele Sendivogio, in cui è citato “un gran’uomo di Napoli”, tal Wernalcon, corruzione di Vernaleone, che avrebbe compiuto a Roma un tentativo mal riuscito di trasmutazione. Ma il Vernaleone fu attivo principalmente nella Napoli tardo-rinascimentale.

Come argomenta Massimo Marra, tutto il trattatello alchemico del Cavazza appare debitore degli scritti dell’alchimista friulano Giulio Camillo (1485-1544), soprattutto il De Transmutazione e l’Interpretazione dell’Arca del Patto. Il galatinese, attingendo come fonti Omero e Virgilio, “utilizza ripetutamente l’ermeneutica alchemica di miti classici”. Tutto ciò testimonia, da una parte, la circolazione in aree meridionali degli scritti camilliani e, dall’altra, come rovescio della stessa medaglia, la produzione e la circolazione di trattati meridionali come quello del Cavazza, che risulta una miscellanea di alchimisti di area meridionale. Viene ribaltata così la convinzione che in Italia l’alchimia fosse un fenomeno essenzialmente settentrionale.

Cavazza esordisce nella sua opera dissertando su un concetto base della dottrina ermetica, cioè sull’Anima del mondo, dalla quale uno spirito vitale, “prodotto come un suo lume, un fiato, uno spirito, un vehicolo di lei”, si congiunge con il “corpo mondano”. La sua speculazione filosofica conclude che da questo “generativo spirito di tutte le cose, et che da questo celeste spirito habbia origine l’essere, la vita et la generazione di tutte quelle (parti dell’Universo)”, per cui “gli elementi, le pietre, l’herbe, le piante e gli animali per quello (spirito) sono, vivono et si generano”. L’alchimista, nella solitudine e segretezza della sperimentazione, agendo “sotto certe costellazioni”, aveva il compito di portare al di fuori della materialità delle cose mondane, “le virtù di questo mondano spirito (…) in tutte le parti del mondo diffuso et nascosto”. Gli obiettivi erano nobili e alti, forse troppo alti: la ricerca della quintessenza della vita, della pietra filosofale, della trasmutazione di un elemento in un altro, della possibilità di trasformare la materia e lo spirito.

(E’ utile consultare: L. MANNI, La guglia, l’astrologo, la macàra, Galatina 2004, pp. 114-8; G. VALLONE, Restauri salentini, in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto, 1 (1991), p. 158; A. T. ARCUDI, Galatina Letterata (a cura di G. L. DI MITRI e G. MANNA), Aradeo (Le) 1993, pp. 47-54; M. MARRA, Il discorso sopra il lapis philosophorum del signore Giovan Thomaso Cavazza, in Alchimia (a cura di A. DE PASCALIS e M. MARRA), “Quaderni di Airesis”, Milano 2007, pp. 213-54).

 

 

La fascinazione nel Salento: una testimonianza

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Edward Burne-Jones, Cupido e Psiche

di Alessio Palumbo

 

Sostiene Erberto Petoia: “il fenomeno della fascinazione, del malocchio, prima di essere trattato come fenomeno psicologico, e in alcuni casi psicopatologico, va analizzato dal punto di vista antropologico, come una delle numerose credenze e superstizioni cui è involontariamente sottomesso il genere umano”[1].

Al di là delle priorità nella trattazione, quanto sostenuto da Petoia testimonia, implicitamente, la poliedricità e complessità dell’argomento. Proprio per questo la relativa letteratura è vasta e composita e, sempre per la suddetta complessità, è particolarmente difficile operare qualsiasi tentativo di sintesi esaustiva in poche righe. Ci limiteremo pertanto, nel corso di questo articolo, a esporre un caso reale, cui abbiamo assistito personalmente, più e più volte, nel corso degli anni ‘90, raffrontandolo con le teorizzazioni e le osservazioni di altri autori.

 

Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness
Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness

Il tema della fascinazione, della malia praticata per il tramite degli occhi, è estremamente diffuso nelle culture tradizionali e ha avuto, nei popoli e nei secoli, interpretazioni, pratiche e cure estremamente diverse. Allo stesso Petoia dobbiamo il tentativo di una carrellata, nel tempo e tra le culture, sul tema. Volendo tuttavia “trovare nella storia dell’umanità, come sostiene il De Martino, una prima presa di coscienza culturale del fatto che la fascinazione non ha nulla a che fare con forze magiche in senso stretto, ma con fatti che appartengono alla sfera naturale profana, bisogna risalire al pensiero greco”[2]. Precisamente al pensiero sensista ed al materialismo democriteo. Il riferimento a De Martino può essere un ottimo stimolo per raffrontare il nostro caso reale, osservato in un comune del Salento e precisamente ad Aradeo, con quanto studiato e teorizzato dal noto autore de La terra del rimorso.

 

Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)
Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)

Fino a non molti anni fa, ad Aradeo era possibile curarsi dalla fascinazione o meglio dallo spascianu[3]. Tale guarigione era operata da donne del posto, che non avevano nulla di magico, ma erano semplicemente le depositarie di un sapere tramandato, fatto di pratiche mediche, paramediche e fitoterapiche che potremmo generalmente ascrivere alla cosiddetta “medicina popolare”[4]. Queste stesse donne erano quindi deputate alla cura di varie disfunzioni e patologie, come ad esempio quelle articolari, per le quali praticavano stuppate e cuppini. Il sapere delle guaritrici aradeine era (ed è) un sapere antico, ampio, sfaccettato, che non di rado superava il confine della medicina per sfociare nella superstizione. Un sapere che tuttavia, è bene ribadirlo, non richiedeva alcuna particolare dote o predisposizione magica.

Nel caso aradeino, dunque, siamo di fronte ad una concezione “greca” della fascinazione. Essa è intesa come una sorta di fenomeno naturale, una malattia come le altre che è possibile curare con una terapia ad hoc. Ma cos’è quindi lu spascianu? Quali sono i suoi sintomi? Quali le cure? La trattazione fatta della fascinazione da De Martino in Sud e Magia ci aiuterà a definirlo, anche se spesso in contrapposizione.

da calitritradizioni.it
da calitritradizioni.it

Sosteneva l’antropologo napoletano, “il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascenatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento, di inibizione, e al tempo stesso un senso di deviazione, un esser agito da una forza altrettanto potente quanto occulta”[5]

Nulla di tutto ciò nel caso aradeino. Sebbene il fattore scatenante dello spascianu sia quello classico della fascinazione, ossia gli sguardi invidiosi, gli eccessivi complimenti e piaggerie, non si parla di alcuna forza occulta, né si riscontrano fenomeni di deviazione ed inibizione. Le cause e le conseguenze dello spascianu sono esclusivamente fisiche. Mal di testa, spossatezza e nausea ne sono i sintomi[6] tipici.

Riscontrati questi ultimi, lo spascianatu, o il sospetto tale, si presentava da una delle donne del paese in grado di curarlo. Nel caso da noi osservato la donna metteva a sedere lo spascianatu e, dopo avergli imposto la mano sulla testa e aver fatto il segno della croce con il pollice, iniziava a recitare mentalmente le formule di rito[7]. L’espressione usata per indicare la terapia era passare lu spascianu o passare lu principiu. Ecco la formula recitata dalla guaritrice aradeina e a lei insegnata da una vicina di casa da giovane:
Sant’Antoniu tenìa nu gigliu

Vene la mamma e vene lu fiju

De do occhi spascianatu

De quattru angeli ‘ccumpagnatu

Su nu monticellu hia tre pignatelle

Una rutta, una sana e una scasciata

Ne pòzzane ssire l’occhi a ci l’ha spascianata.

 

Santu Cosimu e Damianu

‘Cchiara Cristu pe la via

De ddhru sta vieni Cosimu mia?

Sta vegnu de nu malatu

Ci gghe forte spascianatu

Ne passu lu principiu alla capu

Lu malatu ne llenta la capu[8]

 

Sant’Antonio aveva un giglio

Viene la mamma e viene il figlio

Da due occhi spascianatu

Da quattro angeli accompagnato

Sopra ad un monticello c’erano tre piccole pignatte

Una rotta, una sana e una scassata

Possano venir fuori gli occhi a chi l’ha spascianata.

San Cosimo e Damiano

Incontrarono Cristo per la via

Da dove vieni Cosimo mio?

Sto venendo da un malato

Che è molto spascianatu

Gli passo il principiu in testa

Al malato non fa male più la testa

 

Come sostenuto da Petoia è palese la commistione di sacro e profano in queste credenze. “Gli aspetti religiosi che compaiono nei rituali e negli scongiuri contro il malocchio non sono quelli appartenenti alla religione tradizionale cattolica, a quella dottrinaria, ma a quella parte dei pluralismi cattolici”[9].  La formula recitata dalla donna, con i richiami a Cristo ed ai santi guaritori Cosimo e Damiano, lo dimostra chiaramente.

Già durante la pratica il diretto interessato e gli astanti potevano capire, dagli atteggiamenti della guaritrice, se si trattasse o meno di fascinazione. Ciascuna donna aveva infatti un proprio modo di “somatizzare” il malessere della persona curata con sbadigli, conati, lacrime o eruttazioni[10].

Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)
Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)

Non sempre l’intervento della donna si rivelava sufficiente ed era essa stessa ad ammetterlo, indirizzando lo spascianatu verso altre donne capaci di curarlo, quantificando il numero di mani di spascianu necessarie per la guarigione definitiva. Il tutto prima del sabato, in quanto, se lo spascianu fosse sabbaticiatu, avrebbe potuto causare anche febbre alta.

Nel congedare lo spascianatu la guaritrice raccomandava tutti i rimedi esperibili per difendersi da future fascinazioni, come ad esempio indossare un ciondolo di “fede, speranza e carità” (croce, ancora e cuore) o mettendo la “mano a fica” (pollice tra indice e medio) nel caso di eccessivi complimenti o sospette invidie.


[1] E.Petoia, Il malocchio: note storico-antropologiche,  in  A. De Spirito e I. Bellotta (a cura di) Antropologia e storia delle religioni: saggi in onore di Alfonso M. di Nola, Roma, Newton Compton, 2000, p.260

[2] Ivi, p.261

[3] Nel termine, pressoché unico nel Salento, è chiaro il riferimento al fascino.

[4] Siamo dunque estremamente lontani dalle fattucchiere galatinesi descritte da Alessandro Tommaso Arcudi alla fine del ‘600 e capaci di guarire persino col proprio sputo (A.T.Arcudi, Anatomia degl’ipocriti, Venezia, G.Alberizzi, 1699)

[5] E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2004, p.15

[6] Per altro lo stesso De Martino riporta sintomi simili  parlando di “cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento” (Ibidem)

[7]“ La rimediante comincia col tracciare col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente” (Ivi, p.16)

[8] Le due strofe devono essere ripetute in coppia per tre volte, ogni volta cominciando con un segno della croce

[9] E.Petoia, cit., p.271

[10] De Martino parla di un’immedesimazione della fattucchiera nello stato di fascinazione che comporta il prodursi dello stato oniroide che porta a sbadigliare, o la condivisione del patire, che spinge a lacrimare

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