Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Giornate FAI di Primavera. Nardò e il suo castello

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani

dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente angioina o sveva e magari non con i poderosi torrioni o con le caratteristiche dei castelli presenti in ogni luogo d’Italia.

La prova è data dal qualificato lavoro di Lucio Santoro titolato “Castelli Angioini e Aragonesi nel Regno di Napoli” (Milano, 1982), in cui si riporta l’ elenco dettagliato e documentato dei castelli esistenti al momento dell’ occupazione angioina, suddivisi per “Giustizierato”. Tra i castelli di Terra d’Otranto, oltre a quelli di Ydronti (Otranto), Licii, Galipuli, Brundusii, Meyani (Mesagne), Orie, Hostuni, Tarenti, Massafre, Motuli (Mottola), Ienusie (Ginosa) e Mante (Matera), è incluso il castrum Neritone, cioè il nostro.

In altro documento del 10 dicembre 1463 il re Ferrante d’Aragona nel castello di Nardò riceve l’omaggio dei cittadini di Ceglie, qui convenuti per la conferma della concessione al loro feudatario.

particolari della facciata (ph Vincenzo Gaballo)

 

Forse solo nuovi documenti potranno identificare il sito su cui sorgeva, a meno che pesanti ristrutturazioni o modifiche non lo abbiano eclissato, senza tuttavia poterne escludere la distruzione.

Nel 1482 il re Ferrante aveva preso le difese del suo parente duca di Ferrara contro la Repubblica di Venezia e questa, per vendetta, aveva allestito una flotta da guerra per attaccare la Puglia. Iniziarono con Brindisi, poi con San Vito dei Normanni e Carovigno, e da qui mossero verso Otranto e Gallipoli, che venne assediata nella primavera del 1484 per alcuni mesi. Si diressero quindi verso l’ entroterra sottomettendo numerosi centri salentini, tra cui Copertino, Galatone e Nardò, che, accerchiata in maniera pressante, si arrese nel luglio 1484. In tale gesto la nostra città era stata incoraggiata dal suo signore Anghilberto del Balzo, conte di Ugento, filo-veneziano, al quale era stata venduta nel 1483 “…con suo castello seu fortellezza et con la Portulania, pesi et misure mezo Banco della Giustizia, et cognitione di prime cause civili, criminali et miste et integro stato per prezzo di 11.000 ducati donandoli tutto lo di più che forse detta Città valesse…”.

Raggiunta la pace tra il re di Napoli Alfonso II, figlio di Ferrante, e Venezia, Nardò per la sua resa fu punita con l’abbattimento delle mura e la perdita delle difese militari. La città fu data in vassallaggio a Lecce (secondo quanto scrive Bernardino Braccio in “Notiziario o parte di Istoria di Lecce”:…con spianarne tutte le mura e vi fece morire il sindaco Notare Andrea e sospese alle forche quattro gentiluomini e dopo li fece in quarti. La possessione della quale città anno perduto i leccesi per loro trascuraggine e negligenza…”). Ecco dunque come la città avrebbe potuto perdere il suo castello.

Per effetto della pace di Bagnolo, il 9 settembre 1495 Nardò, con altri centri, venne restituita al re di Napoli Federico d’Aragona, il quale il 12 marzo 1497 tolse la città al figlio di Anghilberto, Raimondo del Balzo, per donarla a Belisario I Acquaviva d’ Aragona. Fu questi dapprima conte, poi marchese, quindi primo duca, per privilegio di Ferdinando il Cattolico del 1516.

Belisario fece costruire l’attuale castello, realizzato dunque dopo la sua presa di possesso di Nardò, e fece realizzare la cinta muraria, in parte ancora visibile.

Inizialmente provvisto di ponte levatoio, cannoniere, balestriere e feritorie disposte sui lati, il castello ha subito diversi rifacimenti e restauri, che hanno mutato le linee architettoniche originarie e l’antica facies, mutandosi in palazzo gentilizio.

particolare della pianta del Bleau-Mortier con il castello, parte della cinta muraria e porta Viridaria

 

A pianta quadrangolare, secondo le più aggiornate tecniche di difesa dell’epoca,  mostra ancora oggi quattro torrioni a mandorla, di cui uno, quello che protende verso Piazza Battisti (più noto come “torre ti lu ‘nnamuratu”) è il più sporgente rispetto al perimetro del castello e alle mura della città, ed un tempo era collegato con porta Viridaria. L’altro, compreso tra Piazza Battisti e Via Roma, è certamente il più antico, e forse il solo originario, come documenta il bellissimo bucranio con l’arme dei duchi Acquaviva ancora visibile nella parte più alta, incastonato nella cortina muraria.

bucranio dei duchi Acquaviva d’Aragona sul torrione meridionale del castello di Nardò

 

Altri stemmi della stessa famiglia, evidentemente posteriori, sono sui due torrioni del prospetto principale, che, come gli altri, sono cilindrici nella parte superiore e a scarpa nel pian terreno. Cornicioni lievemente aggettanti poggiano su piccole mensole, riprese su quasi tutto il perimetro.

altro stemma dei duchi Acquaviva d’Aragona, su uno dei torrioni settentrionali

 

Subito prima del portone, a sinistra, vi era il corpo di guardia, che vigilava l’ingresso alla ridotta piazza d’armi, cioè il cortile interno. Nella parte superiore dimoravano i duchi Acquaviva ed i loro familiari, come è documentato nei secoli XVI-XVII.

Il fossato che lo circondava fu colmato nel secolo scorso ed una parte, quella attaccata alla città, fu trasformata in giardino inglese (attuale Villa Comunale).

Le decorazioni ottocentesche della facciata, con fregi ed archetti molto eleganti, fu aggiunta dai baroni Personè, la cui arme col motto è visibile sul prospetto del balcone, con diverse figurazioni di corazze e trofei che si vedono un po’ dappertutto. I lavori di restyling e le decorazioni furono eseguiti dall’ing. Generoso De Maglie (Carpignano, 1874 – 1951), che aveva prestato la sua opera anche per alcune delle ville gentilizie degli stessi baroni in località Cenate.

Per altre notizie si rimanda a:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/27/note-storiche-sul-castello-aragonese-di-nardo/

Il Guercio di Puglia (1600-1665) e una pubblicazione del 1650

di Armando Polito

Questo post ha solo lo scopo di segnalare agli storici, ai quali fosse sfuggita, una fonte, secondo me molto interessante, coeva al famigerato duca di Nardò, recante la data 1650. Il testo a stampa fa parte delle allegazioni giuridiche del collegio degli avvocati di Barcellona, nel cui sito web è integralmente leggibile, e scaricabile, all’indirizzo http://mdc.cbuc.cat/cdm/ref/collection/allegacions/id/9454 la copia digitale. Si tratta di un opuscoletto di 16 pagine non numerate. Di seguito riproduco la prima (in pratica il frontespizio)  e l’ultima.

 

In calce a quest’ultima pagina compare, a mo’ di firma, il nome di don Diego Boleroy Caxal. Per farmi parzialmente perdonare per il fatto che, frontespizio a parte, questa volta ho rinunziato a recitare la parte del traduttore (non tanto perché il testo è in spagnolo, quanto perché sono costretto a dedicare prioritariamente il mio tempo ad altri lavoretti in corso d’opera, che altrimenti non vedrebbero mai la luce) dirò solo che Diego Bolero y Caxal (1612-1681) era un giurista famosissimo ai suoi tempi, un’autentica autorità in materia fiscale, la cui opera più nota è quella della quale faccio seguire il frontespizio, augurando buon lavoro a quanti della fonte segnalata vorranno avvalersi.

Vescovo, ti tolgo io la spina!

di Armando Polito

Non è per difendere ciò che troppo spesso è stato e continua ad essere indifendibile, vale a dire il potere in tutte le sue forme, ma debbo dire che il simpaticissimo recente post LA “SPINA” DEL VESCOVO1 di Emilio Rubino, argutamente impostato sul gioco di parole Spina/spina, mi appare più vicino al gossip dei nostri giorni che ad una storia romanzata. In base alle notizie storiche a me note2 Iacopo Antonio Acquaviva si dimise da vescovo nel 15313 per sposare Adriana Saframondo dei Conti di Cerreto e non Giovanna Spina, figlia di Angelo signore di Bagnano e di Beatrice Brancaccio. Dal primo matrimonio Iacopo ebbe tre figli: Claudio, Belisario e Caterina. Solo dopo la morte della prima moglie sposò Giovanna Spina, vedova di Giacomo Antonio della Marra. Ciò non esclude le tresche più complicate che, però, vanno in qualche modo documentate, altrimenti restano solo maliziose illazioni sulle quali è troppo comodo apporre il timbro, incontrollabile, della tradizione orale. Anche oggi, d’altra parte, spesso viene spacciata per documento una foto, magari di per sé insignificante, o, peggio, un fotomontaggio su cui certa stampa ha costruito e continua ad incrementare le sue fortune con testate che spesso pubblicizzano in tv l’ultima uscita con i titoli più pruriginosi o, addirittura questi ultimi forse tirano di più …, truci. Purtroppo c’è chi, pur essendo magari cattolico (non dico cristiano perché sarebbe ancor più impegnativo), è disposto a prestarvi fede più che al vangelo e chi, cosa secondo me ancor più grave, pur avendo seri dubbi, non può fare a meno di comprane una copia …

Pronto a rimangiarmi in parte o integralmente quanto detto dopo l’esibizione delle fonti e dopo, cosa a cui non so rinunciare,  un controllo sulla loro autenticità prima e attendibilità poi.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/06/la-spina-del-vescovo/

2 Bartolomeo Tafuri nel suo Memorie de’ duchi di Nardò della famiglia Acquaviva. Di Bellisario Acquaviva duca di Nardò primo in  Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò  ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, pag. 39:

e a pag. 44:

Faccio notare che lo scritto di Bartolomeo era apparso  la prima volta  inserito nell’opera di Scipione Ammirato Delle famiglie nobili napoletane, parte I, Marescotti, Firenze, 1580.

Francesco Zazzera, Della nobiltà dell’Italia, Gargano e Nucci, Napoli, 1615, pag. 20:

 

Filiberto Campanile, Dell’armi ovvero insegne de nobili, Parrino, Napoli, 1701,  pag. 35:

Da notare come quest’ultimo brano è copiato (pochissimi e irrilevanti i cambiamenti) da quello di Bartolomeo Tafuri.

3 Non nel 1532 come riportato nel post. Nella serie dei vescovi neretini compilata dal Polidori e pubblicata nel I volume dell’Italia sacra di Ferdinando Ughelli, Coleti, Venezia, 1717, col. 1053, si legge: Neritine Ecclesiae regimen dimisit anno Domini 1531 exeunte (Lasciò la guida della Chiesa neretina alla fine dell’anno del Signore 1531).

La “Spina” del vescovo

Una torbida vicenda neritina di tanti secoli fa

LA “SPINA” DEL VESCOVO

Anche nei periodi più bui, la giustizia, seppure tra tanti stenti, ha fatto il suo corso

 

di Emilio Rubino

 vescovo

Qualche volta, quando l’animo umano è tormentato da una forte emozione o dal dolore per una spiacevole traversia, si usa dire che quell’evento “ci ha punto il cuore”.

Cos’è che può provocarci una sensazione così intensa, se non una “spina”?

Di spine ci sono tante, tutte pungenti, tutte dolorose e mai piacevoli.

Ci sono “spine incarnite”, che, in alcuni casi, sono difficili da estrarre, perché penetrate troppo in fondo; ci sono “spine velenose”, che, oltre a provocare un forte dolore, possono, se non estratte immediatamente, determinare una necrosi della parte interessata; ci sono, inoltre, “spine di riccio o di rosa”, e, a voler essere un po’ spiritosi, “spine… elettriche”, anche se, considerato il tempo in cui si svolgono i fatti che stiamo per raccontare, non ve ne erano.

Per non arrovellare più di tanto il cervello dei nostri incuriositi lettori, dobbiamo puntualizzare che la “spina”, di cui stiamo per parlare, è tutta particolare: è una “spina” dolce, una “spina” che, nel lontano XVI secolo, fece girar la testa al vescovo di Nardò, Giacomo Antonio Acquaviva, figlio del turpe e cattivo Signore della città, chiamato spregevolmente dal popolino con l’appellativo di “Guercio di Puglia”.

Giacomo Antonio Acquaviva non era un sacerdote, eppure ne fu investito. Tanto ottenne per potenza di casta, da indurre il Pontefice, Papa Leone X a elevarlo al soglio vescovile di Nardò il 25 febbraio 1521.

Insediatosi nel sontuoso palazzo adiacente alla Cattedrale, il nuovo vescovo si circondò di un nugolo di giovani fedeli. Tutti si amavano come se fossero “Fratelli di Cristo” ma, in quel palazzo, chi si atteggiava a vero Cristo era soltanto lui, il Vescovo, giovane fra giovani, pieno di vitalità, aitante e bello come nostro Signore Gesù.

Nelle segrete stanze di quel palazzo una Spina… punse il giovane Vescovo, ma non fu una spina che provocava dolore, bensì una spina dolce, bella, piacevole, cara e affettuosa, che fece impazzire il vescovo Acquaviva tanto intensamente da farlo suo, per sempre.

Il lettore non si scandalizzi più di tanto. Quella era l’epoca in cui gli “strappi alle regole” erano all’ordine del giorno e che, in un certo qual modo, potevano essere anche tollerati. Di storie di preti e di prelati, che abbandonavano la giovanile vocazione per la Santa Madre Chiesa e si rifugiavano tra le calde braccia di qualche “pia donna” in estasi, ve ne erano a “buzzeffe”, come si usava dire a quel tempo.

Vi è una lunga serie di storie boccaccesche accadute nella nostra beneamata Italia. Sarebbe quasi impossibile enumerarle: forse non basterebbero le pagine di un corposo quaderno. Perciò, limitiamoci a richiamare qualche avventura galante accaduta a Nardò. Qui, di certo, non mancarono “piccanti fatterelli”, anche di una certa importanza, che fecero assurgere, ai… disonori della cronaca, la nostra sonnacchiosa città.

Fu una “torbida tresca” quella stabilitasi tra un ecclesiastico neritino e un’avvenente fanciulla, e, ancora più sporca, fu quella di un giovane sacerdote, che, in barba al voto di castità e al giuramento di fedeltà a Dio e alla Chiesa, si “fidanzò” ufficialmente con una ragazza gallipolina. La storia d’amore tra i due “innocenti fidanzati” fu breve e finì malamente con pugni e calci nel sedere del giovane prete, allorquando i fratelli della ragazza, venuti a Nardò per le usuali informazioni sul fidanzato della sorella, appresero dalla gente che il futuro cognato, più di un “buon giovane”, era un… “buon sacerdote”.

Ma torniamo alla… Spina del nostro vescovo. Come narrano le cronache del tempo e don Emilio Mazzarella ne “La Sede Vescovile di Nardò”, Giacomo Antonio Acquaviva non fu l’unico prelato nella sua famiglia. Altri suoi fratelli furono in seguito “ordinati” vescovi: esattamente Giovanni Battista a Nardò e Giovanni Antonio a Lecce e poi ad Alessano. Evidentemente quella degli Acquaviva doveva essere famiglia molto pia, pura e predisposta al voto di… castità. Sembrava per davvero una “sacra famiglia”.

Il nostro Giacomo Antonio fu nominato vescovo a seguito della (misteriosa) rinuncia del vescovo in carica, e resse la diocesi neritina per ben undici anni sino al 1532, quando, all’improvviso, fu punto dalla… Spina.

Chi fosse costei e come nacque e si sviluppò la strana “love story”, non lo sappiamo, anche perché nulla di scritto ci è stato tramandato. Tutto è stato “trascinato” di bocca in bocca, attraverso cinque secoli, sino ad arrivare intatto e incorrotto alle nostre orecchie.

Figlio di Belisario Acquaviva, umanista ma truce tiranno, come la gran parte dei suoi antecessori e successori, una volta appresa la tresca del figlio-vescovo, ordinò che nulla trapelasse in giro e che tutto si fermasse nell’interno della famiglia. Chiunque avesse osato divulgare, anche tra i più intimi conoscenti, un minimo di quella brutta storia, avrebbe pagato con la vita.

Ed intanto il nostro Giacomo Antonio continuava nella sfacciata e peccaminosa vita tra le ovattate e tranquille stanze dell’Episcopio con la sua dolce Spina, che, guarda guarda si chiamava Giovanna Spina, donna splendida e avvenente.

Però, nonostante gli inflessibili ordini del duca Belisario, nei salotti neritini e tra il volgo non potevano non diffondersi le sconcertanti notizie, solo che erano sussurrate ai conoscenti fidati, dopo aver dato un attento sguardo tutt’intorno per essere sicuri di non essere ascoltati e visti.

La storia tra i due era troppo affascinante da tenerla nascosta: rappresentava un vero e proprio gossip, come quello che si protrae oggi tra uomini illustri e… tante belle ragazze. Per tale ragione, prima con qualche incertezza, e poi sempre più velocemente la notizia dilagò in ogni parte del feudo, sollevando ben presto un grosso vespaio.

La “love story” tra il prelato e la bella Giovanna Spina s’era diffusa a macchia d’olio nell’intero Salento, cosicché le autorità, sia ecclesiastiche sia politiche, non poterono non intervenire.

La rabbia del duca Belisario era tanta e tale da indurlo persino a negare il saluto all’ingeneroso e imprudente figlio. La storia finì di fronte alla Reale Corte che, per non emettere provvedimenti drastici nei confronti dell’infedele vescovo, consigliò il padre a convincerlo alla rinuncia del prestigioso incarico ecclesiastico. Per non perdere l’amore per la sua Giovanna, che intanto continuava a pungere come non mai, Giacomo Antonio preferì abbandonare l’abito vescovile.

Sebbene fosse intervenuta la forzata rinuncia, lo bocche pettegole e lo scandalo andarono via via montando, come le onde in un mare sempre più infuriato. Per tale motivo i due amanti furono costretti ad abbandonare Nardò e a rifugiarsi a Napoli, dove, Giacomo Antonio morì dopo qualche anno, lasciando la diletta e giovane moglie sola, senza figli e in compagnia dei dolci ricordi legati alle insonni e piccanti notti d’amore.

Tutto ciò, però, non impedì al duca Belisario di far nominare, appena quattro anni dopo, suo figlio Giovanni Battista, di appena ventisette anni di età, alla prestigiosa poltrona di vescovo di Nardò. La cerimonia fu tenuta solennemente nella Cattedrale 22 maggio 1536. Anche in questo caso la nuova ordinazione avvenne a seguito della rinuncia (misteriosa) del vescovo in carica. Sulla scorta dell’esempio fraterno, Giovanni Battista si guardò bene dal tradire i sacramenti e il giuramento di castità. In pratica, condusse una vera e castigata vita da… vescovo.

Ancora una volta la giustizia aveva trionfato, seppure tra tante forzature!

Gedik Ahmet Pascià e Giulio Antonio I Acquaviva. Breve profilo storico di due uomini l’un contro l’altro armati

Gedik Ahmet Pascià il rinnegato cristiano che divenne Gran Visir alla corte di Mehmet II il Conquistatore

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Ritratto di Gedik Ahmet Pascià detto Giacometto

 

di Romualdo Rossetti

 

Il nome di Gedik Ahmet Pascià (… – Edirne, 18 novembre 1482) è tristemente ricordato in terra d’Otranto per la ferocia con la quale il 14 Agosto del 1480 ordinò ai suoi uomini di decapitare gli 800 prigionieri idruntini sul colle della Minerva, dopo aver fatto stuprare fanciulle, sgozzare inermi uomini di fede, donne, vecchi e bambini, abbattere ed insozzare i più importanti luoghi di culto cristiani come la chiesetta di San Pietro, la cattedrale e l’antico cenobio basiliano di San Nicola di Casole, segare in due il comandante della guarnigione cristiana Francesco Zurlo, e fatto impalare il boia Berlabei che colpito dal coraggio e dall’eroica e soprannaturale morte di Primaldo Pezzulla, il primo degli ottocento martiri, si era rifiutato di decollarne altri.

Ma chi era in realtà Gedik Ahmet Pascià? Secondo alcune fonti il comandante in capo dell’armata turca conosciuto anche con gli appellativi di Giacometto o Gedik lo sdentato pare non fosse altro che uno dei tanti rinnegati cristiani di origini serbe o greco-bizantine che si erano votati per codardia alla causa dell’Islam. Altre fonti invece, lo dichiarano di discendenza albanese visto che durante una manovra bellica si rifiutò di prendere parte ad una ritorsione nei confronti della città di Scutari che molti cedettero fosse la sua città d’origine. La sua folgorante carriera politica ebbe sicuramente inizio in ambito militare quando in qualità di stratega riuscì a sconfiggere l’ultimo karamanide che ostacolava l’avanzata di Mehmet II in Anatolia, principato islamico che resisteva alle mire espansionistiche degli Ottomani da più di duecento anni.

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Stemma del Gran Visir della “Sublime Porta”

La sua vittoria contro i Karamanidi nel 1471, permise all’Impero della “Sublime Porta” di conquistare la strategica regione costiera che si affacciava sul Mediterraneo e che aveva reso prospere con le sue rotte commerciali e vie carovaniere le città di Silikke, Mennan ed Ermenek. Ebbe anche numerosi scontri con la flotta veneziana stanziata nel Mediterraneo orientale e fu inviato nel 1475 dal Sultano ottomano Mehmet II a dar manforte al Khanato di Crimea contro le forze genovesi che lo assediavano da tempo. In Crimea conquistò le città di Sudak, Balaclava e Caffa insieme a molte altre fortezze e roccaforti genovesi. Per opera sua capitolarono il Principato di Teodoro con la sua capitale Mangup e le regioni costiere della Crimea. In un’occasione mise in salvo inoltre, Mengli I Giray, il Khan di Crimea dagli attacchi dei Genovesi. Conquistò al soldo del suo sultano la Crimea e la Circassia. Nel 1479 il Sultano Mehmet II gli ordinò di porsi alla guida della flotta ottomana nel Mediterraneo nella guerra contro il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.
Durante questa campagna, si appropriò delle isole di Cefalonia, Santa Maura (Leucade) e Zante (Zacinto).
Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, Mehmet II volle considerarsi il legittimo erede dell’Impero Romano, cosa che gli fece credere di poter intraprendere la conquista della penisola italiana per riunire i territori romani sotto la sua dinastia. Dopo un tentativo non riuscito di strappare l’isola di Rodi ai Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, nel 1480 riuscì a conquistare la città portuale di Otranto.
Nel frattempo, nel 1474 Gedik Ahmet Pascià, uno dei primi fra coloro che avevano istruito i Turchi sull’arte della navigazione, era stato da nominato dal suo amato sultano Sadrazam (supremo Visir, carica che terrà fino al 1477) successivamente retrocedette alla carica di “Sançak Bey”, ovvero governatore del sangiaccato di Valona.

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Ritratto di Maometto II di Giovanni Bellini

La flotta messagli a disposizione per la conquista dell’Italia era imponente. Stando alle varie fonti storiche pare fosse composta da un numero compreso tra le 70 e le 200 navi nominalmente capaci di trasportare tra i 18.000 e i 100.000 uomini: cifre però queste non storicamente confermate ed in continua oscillazione. Per approssimazione, la flotta doveva disporre in fatto di navi da guerra di 90 galee, 40 galeotte e altre 20 navi, per un totale quindi di circa 150 imbarcazioni. È ipotizzabile che la flotta turca trasportasse un esercito di 18.000 uomini. Presa Otranto ordinò ai suoi uomini svariate incursioni lungo la penisola salentina ai danni di numerosissimi villaggi e casali non trascurando di attaccare però città di notevoli dimensioni come Galatina che sotto i suoi assedi rovinò il 7 febbraio del 1481.

La presa di Otranto e le scorribande nel Salento durarono in realtà pochi mesi perché gli assedianti si trovarono, ben presto, senza vettovagliamenti e ripiegarono in Albania con l’intento di riprendere l’assedio con l’arrivo della buona stagione. La morte improvvisa di Mehmet II il 3 maggio del 1481 causata da un complotto di palazzo orchestrato con buona probabilità dal figlio Bayezid II pose Gedik Ahmet Pascià in una posizione abbastanza scomoda tanto che fu posto dal nuovo sultano agli arresti e dopo nemmeno diciannove mesi la morte del suo grande benefattore, fu fatto uccidere ad Edirne il 18 novembre del 1482.

Giulio Antonio I Acquaviva lo sfortunato “defensor fidei” di Don Ferrante d’Aragona che perse la testa per la causa cristiana

Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova
Ritratto di Giulio Antonio Acquaviva in veste di condottiero conservato nella sala consiliare del Municipio di Giulianova

 

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VII Duca d’Atri, I Duca di Teramo, XIII Conte di Conversano e di Castro San Flaviano e Signore di Forcella, Roseto e Padula, Giulio Antonio Acquaviva I nacque in Abruzzo nel 1425. Figlio di Antonella Riccardi Migliorati dei signori di Fermo e di Ortonae del famoso capitano di ventura Giosia Acquaviva, VI duca d’Atri.

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Le famiglie di entrambi i suoi genitori appartenevano al più antico patriziato napoletano. Suo padre Giosia aveva ereditato vasti territori lungo il litorale adriatico da parte dei propri predecessori che erano scesi in Italia dalla Baviera con gli Ottoni nel corso del X secolo. Questi vasti possedimenti avevano il loro centro d’irradiazione nel feudo della città di Acquaviva Picena, graziosa città in Abruzzo Ultra, da cui la famiglia acquisì il nome a partire dal regno dell’imperatore Federico II di Hohenstaufen.Gli Acquaviva ricoprirono le più alte cariche sia in campo militare che in quello civile ed ecclesiastico. Le prime scritture risalgono al 1195 con tal Rinaldo sposato a Foresta, figlia di Lione signore d’Atri.

Stemma ducale della Casata Acquaviva
Stemma ducale della Casata Acquaviva

Gli Acquaviva parteciparono, con le proprie milizie alla Crociata del 1185 e, con propri navigli, alla guerra contro l’Imperatore d’Oriente. L’antica prossimità degli Acquaviva con la casata sveva rese inevitabile il forte contrasto con gli Angioini ed i loro vassalli. Un suo avo , Antonio Acquaviva nel 1376 riuscì a sottomettere gli Ascolani che si erano ribellati e fronteggiò con successo anche Lodovico d’Angiò tanto che per riconoscenza, re Carlo III di Durazzo lo nominò suo ciambellano donandogli i possedimenti di San Flaviano e di Montorio col titolo di Conte.Con un’abile strategia e manovra militare, nel 1390 riuscì a penetrare di notte nella città di Teramo uccidendo Antonello della Valle che dormiva nella sua dimora. Il 20 giugno del 1393 ottenne da re Ladislao di Durazzo, dietro pagamento il riconoscimento del possesso di Atri e Teramo. Suo padre Giosia intraprese la stessa strategia alleandosi con Alfonso d’Aragona nella lunga, drammatica contesa per il trono di Napoli. Per questa netta scelta di campo, egli dovette subire periodiche devastazioni delle sue terre da parte degli Sforza, alleati degli Angioini, venendo persino preso prigioniero da questi ultimi dopo la sanguinosa battaglia di Ortona del 1440. Cresciuto in un contesto così violento ed infido il giovane Giulio Antonio I non potette che farsi strada con l’astuzia e la forza delle armi, militando con onore nell’armata del principe di Taranto Giovanni Antonio Orsini del Balzo.

La sincera devozione verso il suo signore – dimostrata in molti campi di battaglia tra Marche, Abruzzo e Puglia – gli portò in dote la contea di Conversano, acquisita tramite il matrimonio che si celebrò nel 1456 con Caterina Orsini del Balzo, Contessa di Conversano, Signora di Turi, Noci, Castellana, Casamassima, Bitetto e Gioia del Colle, nonché figlia naturale del suo amato principe. Affiancando la politica del suocero, prese parte alla prima congiura dei baroni sconfiggendo il 22 luglio del 1460 presso il proprio feudo di Castello S. Flaviano le guarnigioni reali anche se non potette gioire della vittoria perché ostacolato dalle forze di Giorgio Castriota Scanderbeg. Passò poi a prendere parte all’assedio di Troia e quindi a quello di Andria insieme con Niccolò Piccinino col quale si sforzò di piegare ma invano la resistenza di Francesco del Balzo, padre di Raimondello e fedele a Ferrante d’Aragona. Presa infine la città di di Andria ma fu però sconfitto nel 1462 a Troia.

Successivamente Giulio Antonio I Acquaviva negoziò un trattato di pace tra il suocero e gli Aragonesi, riuscendo ad instaurare così un buon rapporto personale con il nuovo sovrano Ferrante. Nel 1463 tale simpatia gli permise di recuperare alcuni possedimenti di famiglia a Montepagano, e di imporre alla città di Bari un esoso tributo ammontante ad oltre 4000 ducati. Nel 1463, una volta deceduto il suocero, capo ed organizzatore principale della rivolta dei baroni, passò senza preavviso dalla parte del re Ferrante d’Aragona, al quale da allora in poi serbò fede fino alla morte. Ferrante lo accolse con ogni onore, concedendogli il 30 aprile del 1469 la restituzione dei possedimenti di Atri e di Teramo, che erano stati privati a suo padre Giosia.

 Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”
Busto in ceramica policroma di Re Ferdinando I d’Aragona detto “Don Ferrante”

Nel 1473 ebbe l’incarico di scortare a Ferrara Eleonora d’Aragona, che andava in sposa ad Ercole d’Este. L’anno successivo fece parte del corteggio di Federico d’Aragona nel viaggio verso la Borgogna, per chiedere la mano di Maria, figlia di Carlo il Temerario. Il 16 settembre del 1477 accompagnò Giovanna d’Aragona da Castelnuovo alla chiesa dell’Incoronata, dove doveva aver luogo la cerimonia della sua incoronazione.

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Con l’interdizione della carriera militare ai nobili, decisa da don Ferrante, il maturo condottiero si stabilì definitivamente nei suoi possedimenti abruzzesi dove pose in essere un’intensa attività artistica e culturale.Questo ritiro fu interrotto per poche settimane solo dalla guerra di Toscana del 1479. Ormai sicuro dei propri diritti feudali, Giulio Antonio I Acquaviva progettò la ricostruzione di molte località del ducato di Atri, diroccate durante le precedenti ostilità tra Aragonesi e Angioini.La prima località ad essere soggetta a tali interventi urbanistici fu la città di Conversano, dove venne ristrutturato l’antico castello medievale che fu arricchito con un’ampia torre a base decagonale e lunghe mura a scarpata, particolarmente ardite dal punto di vista ingegneristico. Il resto del maniero fu invece fortificato con parapettie bastioni a pianta cilindrica che lo fecero divenire un vero e proprio capolavoro dell’architettura militare del tredicesimo secolo. Subirono importanti restauri anche la Cattedrale e il Monastero di San Benedetto, governato spesso nei secoli seguenti da badesse appartenenti alla famiglia ducale Acquaviva d’Aragona.

Giunse poi il tempo della ricostruzione di Atri, con l’edificazione della chiesa di San Liberatore che era stata originariamente cappella votiva degli Acquaviva e l’ampliamento di quella di San Nicola.Fu però l’antico borgo di Castel San Flaviano ad assorbire le massime attenzioni del duca mecenate. Posto sul litorale adriatico dopo la famosa battaglia del Tordino del 25 luglio del 1460 tra le truppe di Francesco Sforza e quelle Niccolò Piccinino, Castel San Flaviano, la residenza degli Acquaviva, fu saccheggiata dai soldati di Matteo di Capua e ridotta in un cumulo di macerie.Invece di ricostruire la città, Giulio Antonio I preferì costruirne una nuova a settanta metri sul livello del mare vicino alla città antica romana denominata Castrum Novum Piceni.

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Stemma d’Aragona

Il 31 maggio1471 Ferrante I re di Napoli emise un proclama mediante il quale autorizzava Giulio Giulio Antonio I Acquaviva a riedificare Castel San Flaviano sul luogo che egli stesso aveva prescelto. Il nuovo nucleo prese da lui il nome di Julia e più tardi quello di Julia nova. Il progetto della cittadella fu affidato dal duca ai famosi architetti Leon Battista Alberti e Francesco di Giorgio Martini che lo terminò nel 1472, ispirandosi agli antichi modelli vitruviani ed ai nuovi criteri di prospettiva e razionalità propri dell’età rinascimentale. I lavori di edificazione si protrassero per più decenni e si presentarono come un’impresa titanica, fortemente voluta dallo stesso duca che più di una volta s’interessò personalmente dell’opera, anche con l’aiuto di persone di sua fiducia, come il suo legittimo primogenito Giovanni Antonio, e Sulpizio altro suo figlio naturale. Il centro abitato originario era racchiuso per intero entro una possente cinta muraria della forma di un quadrilatero irregolare, difeso da otto torrioni di cui uno inserito nel palazzo ducale. L’impianto dell’urbe era di tipo radiocentrico imperniato su un nucleo monumentale costituito dal Palazzo degli Acquaviva, dalla fontana pubblica e dal Duomo di forma ottagonale che dominava l’Adriatico.

Stemma Acquaviva d’Aragona
Stemma degli Acquaviva d’Aragona

La cittadella, progettata per accogliere non più di un migliaio di residenti, ebbe al principio una scarsa popolazione, composta per lo più da immigrati di altri stati italiani o provenienti da alcuni paesi dell’Europa orientale. Nel primo censimento comparivano dieci Albanesi, quattro Croati non ben identificati e tre Greci mentre per quanto concerneva gli Italiani si segnalavano la presenza di ben quindici Lombardi oltre ad alcuni Veneti e Romagnoli, un Ragusino, un Marchigiano ed un solo Abruzzese. La città di Jiulia nova fu il definitivo trionfo di Giulio Antonio I Acquaviva, ormai acclamato non solo per le diverse battaglie sostenute ma anche per le grandiose opere artistiche realizzate durante il suo lungo ritiro professionale.

Uomo d’arme e d’ingegno fu utilizzato più volte da re Ferrante per i suoi fini politici. Nel 1478, riprese le armi e comandò la flotta che sosteneva l’esercito napoletano di Ferrante d’Aragona, che si era unito alla coalizione costituita dal papa Sisto IV contro Firenze e nel luglio dello stesso anno partì alla volta di Genova alla testa di una spedizione armata, in occasione della ribellione genovese contro gli Sforza, di lì attraverso la Lunigiana transitò in Toscana con Roberto Sanseverino, combattendo sotto le mura di Pisa e passando poi a sostenere nel 1479 i Senesi ribelli contro Firenze.

Una volta ritornato alla corte di Napoli per aver guidato e consigliato il duca di Calabria, fratello del re, venne insignito dell’Ordine del Ermellino. Inoltre con privilegio del Re di Napoli del 30 aprile 1479, ricevette l’onore di poter aggiungere al suo cognome il nome di Aragona e di inserire nel blasone di famiglia i colori della nobile casata regia. Una volta occupata Otranto dai Turchi di Mehmet II, fu posto a capo della prima spedizione di millecinquecento soldati mandata per recuperare la cittàportuale salentina.

Stanziatosi con le sue truppe nella piccola città di Sternatia, il 7 febbraio del 1481 saputo della caduta in mano musulmana della roccaforte di Galatina cercò di inseguire le retroguardie turche che ritornavano ad Otranto ma alla guida di un manipolo di suoi fedeli, s’impantanò nelle terre paludose e boschive nei pressi dei casali di Acquarolo (oggi località “Laccu”) e Pulsanello (oggi località “Pulisanu”) a poche miglia dai centri urbani di Muro Leccese e Giuggianello cadendo in un agguato dei Turchi che lo decapitarono in battaglia. La sua testa fu dapprima issata su di una picca e mostrata a sfregio durante gli scontri poi successivamente fu inviata a Costantinopoli come trofeo di guerra.Nonostante vari tentativi diplomatici non fu mai riportata in patria ad alcun prezzo. La leggenda racconta che una volta decapitato rimase in arcione sul suo cavallo che lo riportò privo di testa a Sternatia nel fortilizio da dove era partito con le sue truppe.A vendicarlo ci pensò il figlio Andrea Matteo, che condusse il lungo assedio delle posizioni turche nel Salento sino alla loro resa definitiva.

Il suo corpo fu sepolto, assieme a quello della moglie, nella chiesa di Santa Maria dell’Isola a Conversano, in un momumento funebre opera dello scultore galatinese Giulio Barba.

Note storiche sul castello aragonese di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Le vicende storiche del castello di Nardò, oggi sede della civica amministrazione, sono soltanto in parte note, restando le sue origini approssimative e degne di essere ancora studiate.

Intanto occorre dire che il primitivo “castrum” neritino, forse eretto su una preesistente e strategica acropoli o una costruzione romana, era stato concesso nel 1271 ai francescani dal re Carlo d’ Angiò (1266-1285), tramite il suo congiunto Filippo di Tuzziaco o de Toucy, a causa delle cattive condizioni statiche in cui si trovava e quindi non più atto alla difesa dell’abitato.

Il celebre storiografo francescano Luca Wadding[1] così scrisse a proposito: nel 1271 …Neritoni in regno Neapolitano Carolus Andegauensis huius nominis primum utriusque Siciliae Rex concessit in habitaculum Fratibus extruendum regium castrum temporum & bellorum iniuria destructum. Donationis instrumentum ipso rege praesente factum, apparet in vetusta membrana. Recensetur hic conventus sub Provincia S. Nicolai, & custodia Brundisina Patrum Conventualium.

Sui resti e su quanto avanzava dell’antico maniero, che non è dato di sapere a quale anno risalisse, probabilmente realizzato dal normanno Roberto il Guiscardo, i frati fissarono la loro dimora, a lato dell’ attuale chiesa dell’ Immacolata, rimanendovi ininterrottamente per ben sei secoli, fino alla metà dell’800, quando furono soppressi quasi tutti i conventi presenti in città.

Dell’antico castello restò solo il nome al pittagio in cui esso sorgeva, detto per l’ appunto “castelli veteris” (vecchio castello).

Se l’attuale castello è della fine del XV secolo o dei primi decenni del successivo è inevitabile chiedersi, come già altri studiosi hanno fatto, se la città di Nardò abbia o meno posseduto un castello nel periodo compreso tra il 1271 e l’epoca a cui risale il nostro. Oltre due secoli, durante i quali era impossibile che una città importante e grande come Nardò fosse sprovvista di difesa e di un castello.

particolare della facciata del castello di Nardò

Sebbene finora nessuno sia riuscito a scoprire dove fosse collocato, esiste invece certezza che Nardò aveva la sua fortezza, forse non tipicamente

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano (l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano[1](l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò[2] (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in qualche occasione divennero convergenti con punti d’incontro che produssero eventi di notevole

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