Il presepe artistico della parrocchia del Sacro Cuore di Nardò

47.a edizione del presepe artistico della parrocchia Sacro Cuore di Nardò (foto Luigi Romano)

 

di Marcello Gaballo

La tradizione presepiale nel Salento è ancora viva nelle abitazioni private e nelle chiese, senza differenziazione d’età e di censo. Molti Comuni organizzano anche edizioni del presepe vivente, che continuano a destare l’interesse e la partecipazione dei locali e dei turisti.

Anche quest’anno tra le diverse rappresentazioni si segnala, per il grande livello qualitativo, quello allestito nella parrocchia del Sacro Cuore di Gesù in Nardò, a cura della confraternita.

Ogni anno, ed ormai da 47 anni, la comunità, in originali e mai ripetitive raffigurazioni presepiali, esibisce il suo gruppo statuario inserito in un contesto tradizionale di grande effetto scenico per adulti e bambini, dimostrandosi fedele alla volontà di chi, per primo, volle qui istituirlo. Ci riferiamo al sacerdote don Salvatore Leonardo (1939-1997), primo parroco della comunità, che ebbe la grande intuizione di commissionare il gruppo presepiale.

Attento cultore dell’arte popolare e particolarmente devoto al grande evento della Natività di Cristo, francescanamente innamorato del presepe di Greccio, don Salvatore si rivolse al più valido artefice della cartapesta leccese deceduto pochi anni fa, il maestro Antonio Malecore. Ultimo esponente della celebre bottega ancora attiva sino a qualche decennio fa nel cuore della Lecce antica, impiantata dallo zio Giuseppe nel 1898, il maestro ha operato in Lecce dapprima in Piazza delle Poste, dal 1958 in Vico degli Alami, quindi in Via Stampacchia n. 44 ed infine nel laboratorio sulla via Merine, al civico 9.

Nato a Lecce il 20 luglio 1922, Antonio Malecore ha frequentato la Scuola d’Arte, formandosi presso il laboratorio condotto dal padre Aristide (6/11/1888- 1954) e dal fratello di questi, Giuseppe (18/8/1876-1967), entrambi allievi di Giuseppe Manzo, poi titolari della Primaria Fabbrica Italiana di Statue Religiose Artistiche. I due erano figli di Francesco (morto nel  1893), che era stato allievo di Antonio Maccagnani e di Achille De Lucrezi.

Le sue opere sono presenti in numerosi centri salentini, quasi sempre commissionate da parrocchie, oratori e confraternite. Non pochi i pezzi esibiti e conservati fuori dalla regione e nel mondo (Canada, Stati Uniti, Argentina). Ha partecipato a innumerevoli mostre ed è stato insignito di pregevoli riconoscimenti da parte di Enti pubblici e privati.

Il sacerdote neritino aveva notato la finezza e la valenza artistica del Malecore in numerosi lavori sparsi nelle diverse chiese salentine, cogliendone la cura meticolosa dell’esecuzione, il sorprendente realismo dei personaggi e la perizia tecnica esercitata in ogni particolare delle statue. Era soprattutto attratto dalla dolcezza dei volti del maestro, dall’anatomia, dal panneggio e dalla delicata cromìa, mai esagerata, non translucida, ben accostata.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, pastore presepiale di Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

Undici figure a tutto tondo, di grandezza proporzionatamente ridotta (la più alta è di circa 120 cm), colorate a pennello, dal peso alleggerito grazie alla struttura impagliata: Maria, Giuseppe, il Bambino con la mangiatoia, il pastore in ginocchio, l’umile contadina con il cesto di mandarini, il pifferaio, i tre Magi, un altro pastore col suo gregge e l’angelo in cima alla grotta che annunzia al mondo la lieta Novella. Meravigliose opere gelosamente custodite dalla Comunità nel corso dell’anno, tolte dal luogo “riservato” solo pochi giorni prima del Natale, per essere collocate con inedita sequenza nell’originale scena che rimanda a paesaggi agresti del nostro Salento.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, pastore presepiale di Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

La semplice carta, ridotta in poltiglia secondo tecniche centenarie, diventa pregevole materia capace di competere con i più nobili materiali, alla ricerca della perfezione e della bellezza classica che indossa le vesti del popolo salentino. Ma anche quando deve trattare “reali” personaggi, come i tre Magi, l’artista riesce a conservare la dolcezza dei loro volti, l’umile posa, rendendoli esuberanti solo per le vesti degne del loro status, impreziosite dall’abile collocazione  di gemme e minuterie in metallo dorato.

Non ci vuole molto a capire che il maestro Antonio Malecore qui, come per altri presepi sparsi nelle sedi più prestigiose del mondo, è andato ben oltre la tradizione leccese, con risultati che lo inseriscono di diritto nella storia artistica della cartapesta.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, uno dei Re Magi realizzati da Antonio Malecore, particolare (foto Lino Rosponi)

 

Il gruppo statuario neritino qualche anno fa è stato incrementato da cinque pecore, sempre in cartapesta, realizzate dalla bottega Zappatore, che rimandando al contesto di quella magica Notte, contribuiscono alla dinamicità della scena accanto a quelli che vennero chiamati ad adorare il Figlio di Dio.

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, angeli musicanti realizzati da Davide Di Vetta

 

Nardò, parrocchia Sacro Cuore, angeli musicanti realizzati da Davide Di Vetta

 

In questa 47.a edizione si è voluto impreziosire la già ricca rappresentazione con elementi che possono sembrare decorativi, invece rivestono significati importanti, e aggiungendo un altro gruppo formato da una coppia di angeli musicanti. Realizzati su commissione di devoti dal giovane sannicolese Davide Di Vetta, le due figure  fanno pendant con il pastorello che suona il piffero, anche questo al cospetto del Bambino, rendendo celestiale l’umile luogo e riuscendo ad incantare chiunque  osserva, invitando al ricordo di quell’evento portentoso.

foto Luigi Romano

Note sull’artista leccese Francesco De Matteis 

di Giovanni Maria Scupola

Francesco De Matteis nasce a Lecce il 25 febbraio 1852. Giovanissimo frequenta la bottega del noto cartapestaio Achille De Lucrezi dove ha modo di apprendere i primi rudimenti della scultura.

La sua passione lo spinge a trasferirsi a Napoli per iscriversi presso l’Istituto di Belle Arti dove incontra illustri maestri: Stanislao Lista, per l’insegnamento della scultura e Gioacchino Toma, per il disegno.

Ben presto diviene uno dei protagonisti dell’ambiente culturale partenopeo che a quei tempi si imponeva come uno dei più importanti centri di riferimento della cultura artistica italiana. Scultore abile ed innovativo supera le tradizionali forme accademiche e si distingue per la capacità di rappresentare le figure popolari del suo tempo.

La sua fama cresce al punto da essere chiamato, unitamente ad altri noti artisti, a decorare a Napoli il famoso Gran Caffè Gambrinus. Pochi anni dopo, nel 1897 partecipa alla decorazione della facciata del Teatro Del Fondo, successivamente rinominato Teatro Mercadante in onore del noto musicista di origini pugliesi.

Abilissimo, anche come decoratore, De Matteis viene invitato nel 1897 a partecipare alla decorazione del Teatro Comunale di Santa Maria Capua Vetere.
Oramai noto oltre i confini campani, torna a Lecce per decorare due nobili dimore, palazzo Carrozzini e palazzo Garzya (oggi noto come palazzo Famularo).

Nel 1898 è chiamato a realizzare nella città natia il monumento a Gioacchino Toma inizialmente collocato in piazzetta Ignazio Falconieri. Viene invitato a numerose importanti esposizioni: a Torino, a Venezia, a Firenze ed a Milano.

Gli ultimi anni della sua esistenza li vive quasi in disparte, collabora saltuariamente con la nota manifattura di ceramiche Cacciapuoti. Viene nominato Professore Onorario degli Istituti di Belle Arti di Urbino e Napoli, città nella quale scompare nel 1917.

Francesco De Matteis fa parte di quel non esiguo gruppo di maestri salentini che si sono affermati lontano dalla città di origine. Le sue opere si trovano oltre che in raffinate collezioni private, anche in importanti musei.

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (prima parte)

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

di Cristina Manzo

 

Tantissimi furono gli artigiani che si distinsero per la loro bravura e i loro lavori. Ttra questi alcuni di loro ebbero anche la fortuna di diventare più noti di altri, di veder commissionati i propri lavori al di fuori del Salento e dell’Italia e di ottenere grandi riconoscimenti. Il più celebre tra tutti sarà sicuramente Giuseppe Manzo. Inoltre, cosa molto importante da notare, esiste una precisa sequenza cronologica della loro storia rintracciabile attraverso l’usanza di mandare i ragazzini, ancora giovanissimi scolari, di sette o otto anni, a imparare l’arte alla bottega dei maestri; così abbiamo il Maccagnani che sarà allievo del Surgente, e il De Lucrezi che uscirà dalla scuola del Maccagnani, il Manzo che comincerà a modellare nella bottega del De Lucrezi, il Guacci che lavorerà nella bottega di Giuseppe Manzo e via di seguito, tenendo presente tuttavia che la tecnica artistica di ognuno di loro si evolverà poi in maniera originale, e secondo una direzione propria.

Giuseppe Manzo  (1849-1942)

Nacque a Lecce il 17 marzo 1849, figlio d’arte di Orazio, muratore e scalpellino, e Natalizia Romano. Ebbe una sorella di nome Addolorata e quattro fratelli: Carlo, Domenico, Bartolo e Luigi. In tenera età il padre, essendosi accorto che il figliuolo aveva la propensione all’arte, lo mandò presso Luigi Guerra, un figaro che nel retrobottega, si dedicava alla costruzione di maschere e pupi in cartapesta. Dopo un po’ di tempo, il piccolo Giuseppe si trasferisce nel laboratorio di Achille Castellucci, per poi passare allo stabilimento di ceramica Paladini in S. Pietro in Lama. E’ qui che apprende i primi insegnamenti di modellatura e disegno dai maestri Tobia Strino e Anselmo De Simone,(1875-85). Qui conosce anche  l’amico Andrea  De Pascalis  e insieme cominceranno a modellare in cartapesta nella bottega di Achille De Lucrezi. Nel 1887, conclusasi ormai l’esperienza presso lo stabilimento di Antonio Paladini in San Pietro in Lama, che fu per molti una vera e propria scuola, il Manzo ebbe l’incarico d’insegnare modellato presso la Scuola d’arte applicata all’industria di Maglie, diretta allora dall’esigente Egidio Lanoce. La scelta di quest’ultimo appare alquanto indicativa, considerato il numero dei cartapestai contemporanei del Manzo, che avrebbe potuto fornire un’ampia scelta. La quinquennale esperienza d’insegnamento fu il suo trampolino di lancio.

Nella pubblicistica salentina mancano le tracce necessarie alla ricostruzione della biografia d’uomo e d’artista di Giuseppe Manzo, vista e raccontata dai suoi contemporanei, ma fortunatamente abbiamo la preziosissima testimonianza di suo nipote Dino. Possiamo inoltre desumere importanti particolari da  alcuni libri, come quello scritto da Nicola Caputo a proposito delle statue dei misteri di Taranto, realizzate proprio dal nostro grande cartapestaio, per il quale lo scrittore in questione  nutriva una vera adorazione. Assai utile anche il libro curato da Salvatore  Solombrino, che riprende le memorie di suo padre, Oronzo Solombrino, che fu discepolo del Manzo per tanti anni.

Oronzo Solombrin, nel ricordare  la propria storia (nei primi anni Ottanta), rende note anche importanti notizie sulla vita giornaliera del maestro, che si svolgeva tutti giorni, dalle otto di mattina alle due del pomeriggio nella sua bottega sempre piena di giovani discepoli desiderosi di apprendere la sua arte. Ne ebbe veramente tanti, e tra i sui più bravi  allievi si ricordano Egidio e Attilio dell’Anna, Oronzo Manzo, (omonimo ma non parente) Luigi Guacci, Gabriele Capoccia e lo stesso Solombrino. Questi dice :

“Riuscii, grazie ai buoni uffici interposti da un fratello del titolare, a frequentare il primo di tutti i laboratori di Lecce, quello del cavaliere Giuseppe Manzo (benemerito dei Reali d’Italia, pluridecorato in numerose esposizioni in Italia e all’estero),  il quale, aborrendo la lavorazione della cartapesta su scala industriale, fu sempre proteso a farne un fatto artistico, evidentissimo nei suoi alti e bassorilievi, dove scultura, scenografia e pittura sono le componenti fondamentali.”[1]

 

 


Cartapesta e cartapestai tra Gallipoli e Lecce

Maccagnani e De Lucrezi: diatriba sul “Cristo morto” di Lecce e Gallipoli

di Antonio Faita

 

Maccagnani, Cristo morto (ph Antonio Faita)

 

Il crescente interesse degli ultimi anni nei confronti del fenomeno della produzione artistica in cartapesta mi ha spinto ad approfondire, nell’ambito dello studio della ritualistica locale, le committenze, soprattutto confraternali, e maestranze che a metà Ottocento gareggiarono nella produzione della statuaria in cartapesta. Della splendida città di Gallipoli è fin troppo nota la vicenda confraternale[1] iniziata in epoca medievale e sviluppatasi in età barocca, ma tuttora vivace e significativa in ambito pugliese e meridionale. Vicenda che ha lasciato il segno nella ritualistica tradizionale con le tipiche processioni devozionali e penitenziali nelle quali la statuaria aveva la funzione di umanizzare l’evento religioso trasformandolo con grande capacità espressiva in una mistica narrazione popolare.

De Lucrezi, Cristo morto di Gallipoli (ph Antonio Faita)

 

Tra il XVIII e il XIX secolo, la cartapesta leccese diventa la protagonista assoluta, soprattutto nell’800, quando ormai acquista una propria identità, rafforzandosi e diffondendosi moltissimo. Nella città di Lecce nascono così numerose botteghe. Fu il secolo dei grandi maestri, attorno ai quali si avvicendarono molti discepoli, che divennero a loro volta abili statuari.

E’ opinione diffusa in ambiente popolare gallipolino che quasi tutta la statuaria in cartapesta sia stata realizzata tra fine Ottocento e primi anni trenta del secolo successivo, quando operò a Gallipoli il noto laboratorio d’arte di Agesilao Flora[2]. Ed in verità pochi sono gli esemplari, diciamo così, di metà Ottocento presenti nelle chiese cittadine, tra i quali un bellissimo “Cristo morto” nella chiesa confraternale di Santa Maria degli Angeli, statua sulla quale ho voluto riservare una prima notazione d’archivio.

E’ stata attribuita, sulla scorta di quella esistente a Lecce nella chiesa di Santa Teresa, ad Antonio Maccagnani[3], notissimo cartapestaio leccese[4].

Essa presenta una chiara dipendenza dal volto del Cristo morto con i fluenti capelli raccolti sul lato sinistro, che Diego Villeros scolpì in legno sul finire del ‘600 ed oggi si può ammirare nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli[5].

Diego Villeros, Cristo morto di Gallipoli, particolare (ph Antonio Faita)

Ma non al Maccagnani va assegnata il Cristo morto di Santa Maria degli Angeli di Gallipoli, bensì ad Achille De Lucrezi[6] che con l’ambiente gallipolino aveva intrattenuto rapporti già nel 1865 e che certamente aveva visto il Cristo morto in San Francesco d’Assisi[7].

Ne dà certezza una annotazione conservata nel “Libro dei conti” della confraternita di Santa Maria degli Angeli nel quale si legge: “Spesa pel Cristo morto= All’artefice Achille de Lucrezi di Lecce, per la statua del Cristo morto, pattuita D(ucati) 100, a dì 23 marzo 1866 si è dato a conto la somma d. 60”[8].

La minuta descrizione delle spese fatte per il trasporto della statua da Lecce a Gallipoli ci informa, anche, sul conto delle fatiche prestate dal maestro De Lucrezi per “lavorare la bara dorata… per ornare il letto del Cristo morto posto in un’urna uscita in processione nel Giovedì Santo”, il 29 marzo del 1866[9].

Stabilita, pertanto, e senza ombra di dubbio la paternità del Cristo morto di Gallipoli al De Lucrezi, resta da individuare l’autore della statua di Lecce che, senza alcun fondamento, viene invece generalmente attribuita ad Antonio Maccagnani[10].

De Lucrezi, Cristo morto di Gallipoli, particolare (ph Antonio Faita)

Il raffronto fotografico dei due lavori non lascia dubbio sull’unica matrice artistica, dovendosi peraltro annotare che apparirebbe insostenibile una più tarda replica in Gallipoli, da parte del De Lucrezi, dell’esemplare di Lecce. Ci soccorre a tal proposito la schematica ricostruzione delle vicende della statua leccese descritta il 10 settembre 1880 da mons. Salvatore Luigi dei Conti Zola nel corso della “Santa visita” eseguita alla confraternita del Calvario, che risulta eretta nel 1868 e formalmente riconosciuta il 9 ottobre 1869[11]. Tale confraternita si trasferì nel 1898 nella chiesa di Maria SS. Annunziata, accorpandosi con la confraternita dei SS. Medici. Nel 1919 e fino ai primi anni ’30 si stabilì in San Matteo mentre, dagli inizi degli anni ’50, fu in San Francesco della Scarpa e fino al 1973, anno in cui prese in consegna, dalla disciolta Arciconfraternita del SS. Crocefisso e Gonfalone, la chiesa di Santa Teresa, dove è attualmente collocata la statua del Cristo morto.

Maccagnani, Cristo morto di Lecce, particolare (ph Antonio Faita)

 

E’ evidente che è possibile così datare la statua leccese solo ad epoca successiva al 1868, anno in cui fu eretta la confraternita del Calvario, oggi in Santa Teresa e che, in conseguenza, non avrebbe potuto eseguirne una copia in Lecce se non lo stesso De Lucrezi. D’altronde  come avrebbe potuto il Maccagnani presentare in Lecce, cioè nello stesso ambiente artistico del De Lucrezi, una plateale replica di un soggetto che peraltro non è dimostrato abbia mai potuto vedere?

Il 1956 fu l’ultimo anno che la Confraternita portò in processione il simulacro del Cristo morto (del de Lucrezi) e l’Addolorata.
Il Vescovo mons. Biagio d’Agostino nel 1957 emanava un decreto che rivedeva e correggeva i riti della Settimana Santa fino ad allora vissuti nella più totale libertà senza alcun vincolo liturgico.
Un passo di detto decreto così recitava:
“Il diritto alla processione del Cristo morto il giorno del Venerdì Santo è della Confraternita del SS. Crocefisso. Le confraternite di Maria SS. degli Angeli e di Maria SS della Purità dovranno uscire all’alba del Sabato Santo alternativamente con il simulacro dell’Addolorata gli uni e della Desolata gli altri”.
La confraternita della Purità dopo l’attuazione dell’accordo declinò l’invito astenendosi dall’organizzare la processione, mentre la confraternita di S. Maria degli Angeli continuò a rispettare il decreto e ad uscire il Venerdì Santo, dietro la confraternita del Crocefisso con la propria statua dell’Addolorata, come accade ancora oggi.

[1] Cfr., E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Civitas Confraternalis. Le confraternite a Gallipoli in età barocca”, Ed. Congedo, Galatina 1997;

[2] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese” a cura di M. Cazzato, Ed. Congedo, Galatina 1993: “Agesilao Flora (1863-1952), noto più come valente decoratore e apprezzato paesaggista che come cartapestaio. A 17 anni emigra a Roma dove si pone al seguito di Maccari e dell’Ing. Koch. Rientra a Lecce attorno al 1891 e frequenta subito l’ambiente artistico provinciale, soprattutto la bottega di Achille De Lucrezi. Fa le prime esperienze nel campo della statuaria collaborando con Luigi Guacci, dove conosce e sposa Anna Guacci nipote di Luigi. Nel 1907 si trasferisce a Gallipoli dove assieme al cognato Eugenio Guacci, impiantono uno studi d’Arte e un laboratorio di lavorazione di cartapesta”, Scheda a cura di E. PINDINELLI.

[3] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”, Ed. Del Grifo, Lecce 1997: “Antonio Maccagnani (1809-1892), apprese i primi rudimenti dell’arte dal De Augustinis (altri dicono da Pietro Surgente). Col suo talento artistico operò il rinnovamento dell’arte della cartapesta, superando il manierismo e il convezionalismo che ai suoi tempi imperava a Lecce.  I suoi lavori suscitarono una vera e propria rivoluzione nel campo della modellatura in carta. Il Maccagnani ebbe ambìti premi e riconoscimenti”;

[4] In sede di restauro nel 1984, Antonio Malecore, l’attribuì ad Antonio Maccagnani e ne lasciò memoria con una iscrizione dipinta ai piedi della statua (!);

[5] E. PINDINELLI – M. CAZZATO, “Dal ghigno infernale… all’orrida bellezza. Il “Malladrone” di Gallipoli tra tradizione e cultura popolare”, Tip. Corsano, Alezio 1999;

[6] Cfr., M. DE MARCO, “La cartapesta leccese”: “Achille De Lucrezi (1827-1913), discepolo di Francesco Calabrese dove per i primi anni modellò la creta. Poi iniziò a lavorare col Guerra, ma per sottrarsi ad ogni convenzionalismo, andò a studiare a Lecce con Andrea Majola ed in Roma per venti anni con il pittore Filippo Cipolla. Le vicende politiche lo costrinsero a ritornare a Lecce dove impiantò la sua modesta bottega di statuario, e diede impulso quasi industriale all’arte della cartapesta. Il De Lucrezi non appartenne mai alla scuola del Maccagnani, che per breve periodo frequentò da bambino, e andarsene come tanti altri in quanto il maestro, geloso della sua arte, si nascondeva addirittura quando doveva compiere le fasi più delicate del lavoro” – Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”, ”Tralasciando ogni convenzionalismo, il De Lucrezi, dette alle sue figure naturalezza, libertà e varietà di atteggiamenti ed alle linee delle pieghe maggiore morbidezza. Anche il De Lucrezi ebbe ambiti premi e riconoscimenti;

[7] E. PINDINELLI, “Cristina di Bolsena V. e M. nel culto e nella iconografia gallipolina”, Tip. Corsano, Alezio 1999;

[8] ACSMA, “Libro dei conti (1863-1980)”;

[9] Cfr., Ibidem, “allo stesso; cassa per trasportare la statua suddetta d.2,40. Allo stesso; paglia pel trasporto di detta statua, d.0,40. Allo stesso; pel il traino che trasportato la statua, d. 3,60. Allo stesso; strisce dorate per la bara di detta statua, d. 6,60. A primo aprile 1866. Complimenti pagati a Perruccio per la benedizione del Cristo morto e per la processione del Giovedì Santo”;

[10] Cfr., C. RAGUSA, “Guida alla cartapesta leccese”;

[11] ACALecce, mons. Salvatore Luigi Zola, “Visita Pastorale” (10.09.1880), f.276.

 

 

Pubblicato su Il Bardo, Anno XI-2001, luglio-agosto, n°1.

Gallipoli. La festa di S. Cristina compie 145 anni, ma molti di più la devozione popolare

di Gino Schirosi

Dopo i patroni ufficiali S. Agata e S. Sebastiano, dopo l’acquisito compatrono S. Fausto, Gallipoli gode anche dell’ausilio di S. Cristina, nostra coprotettrice da quasi un secolo e mezzo. La giovane santa nata a Roma nel 270 fu martirizzata ventenne il 24 luglio 290, imperante Diocleziano, ma a lei si riconduce persino il miracolo dell’Ostia sanguinante che nel 1264, con Bolla papale, diede origine sia alla festività del “Corpus Domini” sia all’edificazione del superbo Duomo della vicina Orvieto che tuttora custodisce la prova visiva del lino insanguinato nel misterioso e sovrannaturale episodio di Bolsena (PG).

Accadde cioè che nella cappella dedicata alla martire sull’isola Bisentina, dinanzi alla pesante lastra di pietra (oggi pannello d’altare), con la quale la giovane fu legata e gettata nel lago per risalirne a galla incolume ed essere infine barbaramente uccisa, si verificò il fatto straordinario del “Corpo Mistico” che sanguinò tra le dita tremanti di uno scettico sacerdote boemo.

Santa Cristina di Nicolas Régnier (1590-1667)

Per S. Cristina è nota la devozione del popolo gallipolino. Ne è testimone, nella chiesa di S. Maria della Purità, la leggiadra statua, oggetto di culto e somma venerazione, opera mirabile di “felicissima interpretazione”, commissionata col contributo di devoti. Fu realizzata a grandezza naturale dal cartapestaio leccese Achille De Lucrezi nel biennio 1866-67, peraltro nel rispetto dell’agiografia della giovane martire di Bolsena. La sacra effigie, rispettosa della storica vicenda tratta dal Martirologio Romano di Cesare Baronio (1600), rappresenta la santa legata ad un albero e trafitta dalle frecce, mentre un Angelo le porge la corona di santità e la palma del martirio.

Il bellissimo simulacro, giunto da Lecce la sera del 22 luglio del 1867, fu

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