Radici in fiamme

di Pier Paolo Tarsi
Oggi mi sono concesso una lunga camminata con Tris ripercorrendo lo stesso tragitto che tempo fa, all’inizio dell’estate, mi permise di notare che un giovane uomo aveva preso a curare un uliveto non distante da casa mia e da tempo abbandonato a se stesso. Mi rallegrò molto constatare allora che qualcuno aveva ripreso a lottare, a sperare e resistere nel suo piccolo metro quadrato di civiltà ereditata. Un appezzamento con una trentina d’alberi non ancora fortemente intaccati dalla xylella.
Mi illudevo, evidentemente. Ripassando di là mi si è presentata oggi una scena orribile che non riesco a togliermi ancora dagli occhi e dalla mente. Quell’uomo stava caricando sul suo camioncino gli ultimi pezzi di legna, calmo, serafico, fischiettando al tramonto. La metà di quell’uliveto era stato ridotto a brandelli, pezzi buoni per il camino nell’inverno alle porte; quel che restava di ogni albero, un tronco mozzato qua e là e radici inabissate nella terra, era in fiamme. Anni fa, quando ancora la gente credeva che la xylella fosse un frutto esotico ed io ancora credevo nella mia gente, dalle pagine di un giornale locale scrivevo che perdendo gli ulivi questa terra avrebbe perso tutto. E fui profetico. Tentavo di spiegare che noi siamo un popolo di terra, non gente di mare, come molti, anche salentini, erroneamente pensano, confusi forse dai cataloghi per le vacanze altrui.
Non che si dovesse malinconicamente ed erroneamente tentar di perpetuare un dato passato, pretendere stupidamente di arrestare il flusso della nostra storia. Solo che avremmo dovuto ben guardarci dall’interromperla, tranciando legami e radici. Da allora quasi niente. Da una parte un fronte scientista che ad oggi non ha saputo proporre che far quanto prima il deserto; dall’altra qualche santone verboso. In mezzo tante chiacchiere da politicanti di tutti i colori, nessuno escluso. E tanta, tantissima ignoranza. Quella vera, quella che niente ha a che fare con l’analfabetismo o con ciò che si può imparare all’università.
A un uomo si può insegnare in modo relativamente facile a scrivere, a risolvere una complicata equazione o a programmare la più strepitosa delle app. Queste sono competenze che non ci fanno uomini o donne, sono cose che ci rendono semplicemente delle scimmie particolarmente abili in qualche ambito.
Quel che è difficile davvero da insegnare a delle scimmie per farle diventare uomini e donne è il sentire il valore delle cose ricevute e il valore di ciò che lega le nostre effimere vite agli altri e all’eterno fluire dei tempi. Difficile davvero non è far apprendere a delle scimmie il secondo principio della termodinamica ma portarle a chiedersi cosa implica per loro stesse il compiere una data azione, o ancora portarle a domandarsi del mistero della propria identità. Forse ha ragione Briatore. Bisognerebbe affidare questa terra ormai immemore e senza speranza a quelli come lui per farne finalmente un colorato non-luogo, insignificante forse ma pieno di traffici e soldi, di fregna con cui mirare i tramonti dai lidi attrezzatissimi ubicati tra un gasdotto e l’altro.
Beati, abbronzati e con in mano una frisa deluxe o un mojito, da sorseggiare prima di rientrare nei deserti edificati da faraonici villaggi turistici in cui far trenini fino all’alba. Pensateci: Belen tra noi tutto l’anno e non solo per una notte.
Caro il mio Tris, per noi nemmeno un sentiero di campagna da attraversare in santa pace. Le radici bruciano, il deserto avanza, fuori e dentro di noi. E non è colpa della xylella stavolta. Andremo a fare due passi da qualche altra parte, prima o poi bisognerà rassegnarsi e cambiare aria una volta per tutte.

Il mimetismo del Geco comune

 

di Sandro D’Alessandro

 

Sulla base di ciò che è stato affermato nei paragrafi precedenti riguardo le capacità mimetiche del Geco comune e di quanto sarà qui evidenziato sulla variazione di cambiare colore in base a quanto presente nel campo visivo dell’animale, l’apparato visivo del Geco comune assumerebbe un rilievo di eccezionale importanza, in quanto la sua caratteristica di predare gli Insetti di notte sarebbe correlabile in misura assolutamente non trascurabile ad una sua particolare acuità visiva anche nelle ore di scarsa illuminazione.

Il particolare della pupilla estremamente modificabile, al punto da poter essere ridotta ad una sottile linea, rende conto della capacità del piccolo Rettile di adattare la sensibilità dell’occhio all’illuminazione circostante. Si confronti al riguardo la dilatazione della pupilla del piccolo Geco in quelle, fra le foto successive, in cui detto foro è evidente e la si confronti con quella sottilissima visibile nella foto n° 5 in cui, benché l’animale non sia esposto alla luce solare diretta, esso è circondato da una luce abbagliante, riflessa com’è da un imponente ed esteso muro di colore chiaro tutto attorno all’animale. Tale straordinaria capacità di dilatazione e di restringimento rende conto della capacità che ha l’animale di adattarsi per una certa misura all’oscurità.

 

Foto n° 1 – In questa, che è la prima della sequenza di fotografie scattate nell’arco di tre minuti ad un piccolo Geco comune individuato su una casa in pietrame grezzo, si nota l’animale sulla porta di una casa: dalla foto, che appare purtroppo molto sfocata, è possibile evidenziare come il colore del Rettile, per quanto non definibile come “mimetico”, abbia tonalità molto prossime a quelle della porta stessa, specie se queste vengono confrontate con quelle che si rilevano nelle foto successive. (Foto: Sandro D’Alessandro)

 

Con la premessa che il Camaleonte non è, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, una specie “esotica”, per il semplice fatto di essere presente Italia per lo meno da diversi secoli – se non da millenni[1] – il Geco, il comunissimo animaletto così frequente da vedere sui muri delle case, meglio se diroccati[2], è un Rettile a tutti gli effetti autoctono nel nostro Paese.

Anche se purtroppo alcuni problemi a carico del supporto informatico su cui erano state memorizzate hanno portato alla perdita delle foto più rappresentative ed eloquenti in assoluto, le più indicative in tal senso, quelle (scattate in un’altra occasione) a corredo del presente articolo possono essere ugualmente ritenute in grado di documentare in modo inoppugnabile quanto scritto in queste pagine.
Nelle seguenti foto, dalla n° 1 alla n° 6, viene mostrato lo stesso piccolo Geco comune in una serie, ordinata cronologicamente, di scatti della durata complessiva di circa 3 minuti. L’evidenza delle variazioni di colore del piccolo animale è stata resa possibile dall’adozione di una sequenza di scatti fotografici a brevi intervalli, scatti che hanno permesso di registrare le variazioni di colore dell’animale a seconda del colore dell’immagine ambientale così come essa appariva volta per volta al piccolo Sauro. Preciso che ciò che era visto dal Geco non corrispondeva esattamente a ciò che viene visto da chi osserva le foto, in quanto l’animaletto poteva vedere anche chi (il sottoscritto), scattando le foto dietro l’obiettivo, si avvicinava volta per volta all’animale. È opportuno tenere conto di questo (con la precisazione che lo scrivente indossava una tuta in tinta unita grigia mentre scattava le foto) per avere contezza delle variazioni di colore delle prime quattro foto della serie.

 

Foto n° 2 – In questa foto, anch’essa purtroppo sfocata perché, come le altre, scattata senza flash – che avrebbe falsato i colori – in condizioni di penombra ed a distanza non eccessivamente ravvicinata, si vede come l’animale, dopo aver visto un soggetto di un altro colore, ha cambiato tonalità, adeguandola al colore grigio della mia giacca fino ad apparire nel suo complesso in contrasto con la colorazione della porta. (Foto: S. D’Alessandro).

 

Appare davvero singolare la spettacolare variazione di colore di questo piccolo Geco comune. Si tratta di un esemplare che, avvistato da alcuni metri di distanza su una porta di una casa in pietrame a secco mentre era in possesso di un colore compatibile con quello del legno della porta, ha iniziato progressivamente a cambiare colore. Il colore del Geco è infatti diventato grigio, assumendo una colorazione discroma con quella dell’ambiente circostante, man mano che mi avvicinavo; a distanza di mesi, nel riosservare le foto, il perché della colorazione grigia ha costituito per me un dilemma…. finché non mi sono ricordato che indossavo una giacca grigia! Le foto riportate nell’articolo hanno un valore documentale, in quanto, anche volendo prescindere dall’adeguamento della livrea dell’animale al colore “ambientale” dominante (rivelatosi essere volta per volta il colore della porta, quello della mia giacca – non rilevabile dalle foto – e quello del muro, visibile nelle foto seguenti), esse testimoniano la variazione del colore dell’animale.

Tecnicamente, riportate nell’ordine in cui sono state scattate, tali foto sono state acquisite con la modalità di scatto “in sequenza” e lo scatto è avvenuto a distanza di secondi o frazioni di secondo l’uno dall’altro, nel corso del mio tentativo di avvicinamento in maniera poco brusca per non allarmare l’animale e non indurlo ad una fuga precipitosa.

 

Foto n° 3 – In questa foto, molto più nitida delle precedenti perchè scattata a distanza ben più ravvicinata e non sottoposta ad alcuno zoom, si nota come, passato l’effetto sorpresa e dopo aver adeguato all’istante la sua colorazione al nuovo colore apparso nel suo campo visivo, il Geco assume nuovamente una colorazione prossima a quella della porta, verso cui ha rivolto nuovamente il suo sguardo. E’ importante sottolineare che in nessuna delle foto è stato usato il flash al fine di non falsare i colori, il che avrebbe reso impossibile il confronto fra esse (Foto: S. D’Alessandro).

 

La variazione documentata permette di fare alcune riflessioni. In primo luogo, il Geco comune cambia colore adattandosi a quelli che sono i toni dell’ambiente circostante ma, in caso di un fattore di disturbo o comunque di un fattore che desta la sua attenzione, l‘animale può fissarsi sul colore di quest’ultimo ed acquisirne i toni. Perché ciò si verifichi devono probabilmente essere fatte salve due condizioni: la rilevanza  del  fenomeno  e  la “sorpresa” (discostamento  dalle  condizioni  abituali,  che  l’animale  si aspetta) che essa ingenera nel Geco.

Il processo potrebbe essere spiegato con la necessità dell’animale di adattarsi istantaneamente alle condizioni ambientali in cui esso si trova: così, nel passare da un substrato roccioso ad uno in cui sia invece presente vegetazione, è opportuno che esso vi si mimetizzi in poco tempo, in modo da non dar modo alle sue eventuali  prede –  o ai  suoi eventuali  predatori  –  di notare  l’animaletto  (che,  vale  la pena  di ricordarlo, si  caratterizza  per  una  relativa  lentezza  di  movimenti  e  per  una  intrinseca incapacità  nel mantenere per molto tempo velocità idonee a raggiungere le prede di cui si nutre o a sfuggire agli attacchi dei predatori).

Foto n° 4 – Il Geco cambia bruscamente il proprio colore, adeguandolo alla tonalità grigia della mia giacca, che occupa la quasi totalità del campo visivo dell’animale: nella foto è infatti possibile vedere come, a differenza della foto precedente, lo sguardo del Geco non sia rivolto verso la porta, bensì al di sopra di essa. Dal confronto con le altre foto si evidenzia che non si tratta di uno schiarimento strumentale, dovuto ad un “adattamento” della esposizione, della sensibilità ISO o di altri automatismi della fotocamera alle condizioni di minore distanza di messa a fuoco e di diversa colorazione dovuta alla presenza più ravvicinata del “fotografo”, dato che la colorazione della porta, se confrontata con la foto immediatamente precedente, risulta addirittura più scura (Foto: S. D’Alessandro).

 

Con molta probabilità l’assunzione di una data colorazione è indipendente dalla volontà“ del Geco, ma viene assunta automaticamente in base ai toni che dominano l’orizzonte visivo che esso ha a disposizione.

In caso contrario, bisognerebbe attribuire al Geco una capacità di controllo di incredibile precisione, pressoché fotografica, nel rilevare i colori,  le variazioni di tonalità e le successioni dei colori che si stemperano l’uno nell’altro, adeguando i toni del corpo e persino “frammentandolo”   in   termini  cromatici   in   relazione   all’ambiente   circostante.

E’   infatti sorprendente l’efficienza dell’animaletto nel cambiare colore, adattando il suo corpo persino a quelle che sono le sfumature dell’ambiente circostante. Considerata l’abitudine del piccolo Sauro di cacciare gli Insetti presenti nelle sue vicinanze, è plausibile che il suo sguardo metta a fuoco i soggetti posti nell’immediatezza e si fissi su tonalità cromatiche non troppo distanti, stante la stringente necessità che esso ha di mettere a fuoco piccoli particolari a breve distanza. A meno che il soggetto avente una data colorazione non sia molto grande, tale da occupare buona parte dell’orizzonte dell‘animale. In questo caso non è evidentemente richiesta una grande accuratezza dell’immagine come invece nella precisione con cui l’animale riproduce le colorazioni ad esso contigue, ma è sufficiente l’adozione di un mantello“ coerente con i toni dell’ambiente posto superiormente.

 

Foto n° 5 – Dopo aver proseguito il suo percorso, il piccolo Geco comune ha superato la porta ed ha proseguito verso il muro sul quale erano fissati gli stipiti, cambiando ulteriormente colorazione ed adattandola istantaneamente ai toni del substrato cementizio sul quale si è venuto a trovare per il tempo di pochi secondi. Notare la pupilla estremamente sottile come adattamento all’elevata luminosità. (Foto: S. D’Alessandro).

 

Nell’esaminare   alcune   delle   foto   a   corredo   dell’articolo,   che   testimoniano   in   maniera incontrovertibile la capacità del Geco comune di cambiare colore adattandolo a quello dell’ambiente, appare inoltre evidente la possibilità che l’animaletto ha di “frammentare” la colorazione del suo corpo, scomponendone l’immagine al punto da adattarlo alle sfumature di colore che insistono in corrispondenza delle diverse parti del suo corpo.
Una cosa sorprendente è che ciò – al pari peraltro dei Molluschi cefalopodi come Polpo e Seppia – avviene anche in parti del corpo che sono presumibilmente al di fuori della capacità visiva dell’animale, il quale non avrebbe pertanto la possibilità di regolare a livello centrale, per mezzo delle informazioni provenienti dalle immagini visualizzate, le diverse tonalità di colore che il suo organismo assume.

Un’altra cosa che appare strabiliante è che anche l’occhio del Geco assume il colore del proprio campo visivo, fatto questo ben evidente nelle foto n° 4 e 5 che, come già detto, si riferiscono allo stesso Geco. Da quest’osservazione deriva una subitanea variazione della colorazione che avviene a livello dei pigmenti oculari forse prima ancora che nel resto del corpo, e da qui si potrebbe essere indotti a pensare che la colorazione del corpo sia sincrona con quella delle sclere dell’occhio, se un’ipotesi del genere non fosse è prontamente smentita dall’osservazione che il corpo del Geco imita i dettagli della colorazione del substrato anche in corrispondenza di quelle parti del corpo al di fuori del campo visivo dell’animale.

 

Foto n° 6 – Dopo aver percorso pochi centimetri rispetto alla posizione della foto precedente, il Geco si piazza su un substrato in cui prevalgono i toni rossicci, acquisendone immediatamente la tonalità. (Foto: S. D’Alessandro).

 

Foto n° 7 – Complice anche una non eccessiva nitidezza della foto, lo stesso Geco delle foto precedenti diventa quasi invisibile, confondendosi con le colorazioni e con le sfaccettature del muro in pietrame grezzo. (Foto: S. D’Alessandro).

 

Ritornando al fatto che il Geco assume colorazioni differenti anche in zone del suo corpo al di fuori del suo raggio visivo, ciò potrebbe dar vita ad ipotesi sicuramente suggestive ma poco sostenibili, come ad es. quella di giungere a presupporre una sorta di “intelligenza” del corpo dell’animale, che in ogni suo millimetro quadrato prenderebbe cognizione dei toni e delle sfumature di colore presenti nell’ambiente circostante  e  “si  regolerebbe”  di  conseguenza,  acquisendone  non  già  i  cromatismi,  ma  addirittura l’andamento e le sfumature delle linee, che vengono assunte con una precisione geometrica che ne riproduce finanche le discontinuità.
Di fatto, la minuziosità con cui esso è in grado di riproporre colorazioni, toni  e sfumature anche in parti del suo corpo che sono al di fuori del suo campo visivo, caratteristica che ricorda in un certo qual modo il Camaleonte ma anche organismi appartenenti a categorie sistematiche ben differenti, come Polpi e Seppie, è una caratteristica molto difficile da spiegare.

Foto n° 8 – Quasi invisibile nel suo accostamento cromatico alle tonalità del muro, un Geco comune sfrutta la capacità che ha di ancorarsi saldamente alle superfici permanendo “a testa in giù” in attesa di una preda. (Foto: S. D’Alessandro).

 

Peraltro, si rileva come una dipendenza dalle tonalità percepite con l’immagine visiva esista innegabilmente; ciò è particolarmente evidente nella foto n° 9, ma rende ragione anche delle colorazioni documentate in molte delle altre immagini a corredo di questo lavoro.
Come appare evidente nella foto appena menzionata, i Gechi comuni hanno la possibilità di adattare il colore del proprio corpo a quelle che sono le picchiettature dell’ambiente, al punto che tali animali potrebbero essere in grado di rendersi pressoché invisibili ad uno sguardo poco attento, se non ci fosse la tridimensionalità della loro figura a dare risalto al loro corpo, che risulta in ogni caso ben più appariscente di quello che può sembrare in foto.
Per contro, essi non sembrano particolarmente idonei a mutare colore quando sono sugli alberi come il loro ben più famoso cugino, il Camaleonte, rispetto al quale i nostri Gechi potrebbero essere indicati come una sorta di “specie vicariante”, potendo essi fare sui muri ciò che il Camaleonte fa sulle piante.
La foto precedente rende ragione dell’accostamento  dei toni del Geco a quelli dell’ambiente: ognuna  delle  sfumature  di  colore  del  muro  è  stata  assunta  dall’animale,  che  ne  ripropone  anche l’andamento a chiazze. Da notare poi che, come già visibile in altre foto precedenti, perfino il colore dell’occhio è perfettamente in linea con i colori dell’ambiente.

 

Foto n° 9 – Due Gechi comuni sul muro in una mattina di primavera inoltrata: essi presentano visibilmente colorazioni molto diverse, che sembrano accordarsi ai toni presenti nelle immediate vicinanze dei loro rispettivi orizzonti visivi. (Foto: S. D’Alessandro).

 

L’adeguamento del colore del corpo alle tonalità dell’ambiente adiacente può essere illustrato nella foto sopra, in cui sono raffigurati due Gechi comuni fotografati sul muro di una vecchia casa colonica: come si vede, essi presentano una livrea visibilmente diversa, senza che sia apparentemente dato modo di capire quale sia il motivo di questa differente colorazione.

Ad un esame più approfondito, in pieno accordo con l’ipotesi fatta precedentemente, si notano nelle immediate vicinanze dei Gechi delle variazioni di colore sul muro che appaiono del tutto concordi con le rispettive colorazioni dei due animali: si nota infatti una marcata corrispondenza fra ciò che è nei primi piani del campo visivo di ogni Geco e, rispettivamente, le livree dei due animali, che si accordano perfettamente con la tonalità e la distribuzione dei colori delle zone di muro ad essi immediatamente adiacenti.
Osservando la foto con una certa attenzione, è infatti possibile rilevare come il Geco posto superiormente, di colore più scuro, è su un tratto di muro caratterizzato sia da una colorazione scura dei Licheni che lo ricoprono che dalla presenza di piccoli anfratti che determinano condizioni di ombreggiamento e di chiaro/scuro; viceversa, il Geco posto inferiormente, caratterizzato da tonalità giallastre con picchiettature bianche, è su un tratto di muro con Licheni di colore giallastro e biancastro, oltre che senza crepe o anfrattuosità.

A ben vedere la faccenda rende conto in modo molto circostanziato della straordinaria complessità delle forme di vita, anche di quelle ritenute a torto “minori” (termine che potrebbe anche ingenerare, in chi lo sente, la falsa convinzione di un’estrema semplificazione delle strutture, semplificazione del tutto inadeguata a descrivere non già il Geco o un altro appartenente alla Classe dei Rettili, ma una qualsiasi forma vivente).
Per definizione, il concetto stesso di “vivente” è assolutamente incompatibile con il concetto di “semplice”: se ciò poteva essere accettabile nei secoli scorsi, quando, a causa dell’estrema semplificazione dei mezzi di ricerca, non si aveva nemmeno una pallida idea della complessità che caratterizza a tutti i livelli il mondo vivente, non è assolutamente scusabile oggi, in un’epoca in cui l’estrema sofisticatezza dei mezzi di indagine non lascia né può più permettersi di lasciare spazio ad approssimazioni che, anche a livello terminologico,  che non sono più giustificabili né tantomeno scusabili.
Chiunque abbia un minimo di esperienza nell’osservazione delle cose della natura non può non rendersi conto che la vita in sé è a tutti i livelli l’espressione stessa di una complessità straordinaria, ben difficilmente percepibile “ad integrum” e difficilmente rinchiudibile in parole, idee, teorie, paradigmi, ecc. umani allo stesso modo che come se si trattasse di enunciare una regola matematica o di descrivere un processo chimico.

 

Note

[1] Leggasi a tale proposito “Oriundi d’Oriente”, dello stesso autore, pubblicato sulla Rivista “Silvae” e disponibile sul web https://www.academia.edu/3767530/Oriundi_doriente

[2] Il Geco si avvantaggia della vicinanza con l’Uomo, potendo  nei  pressi  delle  abitazioni  sfruttare  l’illuminazione artificiale che richiama gli Insetti di cui si nutre; tuttavia, è innegabile che questo animale, in presenza della nostra specie, venga di regola ucciso o comunque allontanato per paura o per superstizione.

 

Per i paragrafi precedenti:

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (prima parte)

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (seconda parte)

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (terza parte)

 

Dialetti salentini: “pete” e derivati

di Armando Polito

– Ne ha fatta di strada l’Umanità! – si sente spesso dire, ma sarebbe opportuno chiedersi se altrettanta ne ha fatta la nostra umanità. Credo che le due immagini di testa (separate cronologicamente da cinque millenni e mezzo) la dicono lunga, soprattutto se operiamo una parallela contrapposizione con un’altra coppia in cui siano rappresentate le condizioni antiche e quelle attuali del nostro pianeta , al quale abbiamo fatto le scarpe con la nostra presunta superiorità, senza rispetto per gli altri esseri viventi, animali e vegetali, e pure minerali, che costituiscono l’ambiente.  Continuiamo a pretendere di avere un  piede  in due scarpe illudendoci che il nostro sciagurato modello di sviluppo, basato unicamente sul profitto, possa in qualche modo conciliarsi con i problemi ecologici che, per quanto riguarda la soluzione, appaiono ormai più che inderogabili, irreversibili. Mi verrebbe da dire che abbiamo curato più i piedi che la testa e che il passaggio dall’agricoltura (senza la chimica …) all’industria ci ha portati a dimenticare il vecchio proverbio Contadino: scarpe grosse e cervello fino.

Dopo questa sparata o, per i pacifisti, pistolotto (da epistola, con la pistola non ha nulla a che fare …), consapevole che qualche lettore possa imputarmi (ma deve esibire le prove …) di aver scritto questo posto con i piedi, entro in argomento.

Comincio dal capostipite, cioè da pete, che corrisponde all’italiano piede, rispetto al quale presenta una maggiore fedeltà fonetica per quanto riguarda il comune etimo: il latino pede(m), accusativo di pes/pedis, connesso con il greco πούς (leggi pus), genitivo ποδός (leggi podòs)1. Per i nessi in cui è usato a designare metaforicamente  qualcosa di particolare, oltre a pete ti puercu (piede di porco, l’attrezzo degli scassinatori, ma, col significato particolare (evoca la forma del piede dell’animale)ad Alessano di nuvola presaga di temporale e a Salve di arcobaleno che resta imperfetto, il vocabolario del Rohlfs registra, solo per Nardò, pete di lupu col significato di arcobaleno incompleto2; solo  per Galatone pete ti mosche e solo per Ruffano nella variante pete te mùschie a designare il bagolaro (Celtis australis L.)3; pede de capra per Leuca (peti ti crapa a Brindisi), a designare il bivalve chiamato in italiano Arca di Noè4.

Passo ora ai principali derivati di pete, con la preghiera al lettore di segnalarmi eventuali, tutt’altro che improbabili omissioni, soprattutto laddove la voce pone interrogativi o consente di fare riflessioni di un certo interesse.

PETALE (in italiano pedale), latino pedale(m) forma sostantivata col significato di oggetto della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dell’aggettivo corrispondente che significa della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dalla radice ped– di pes (genitivo pedis) + suffisso aggettivale. 

PITALORA (non conosco corrispondente italiano)= tralcio nato sul tronco della vite. Dal precedente in una forma *pitale, da non confondersi conl’omonimo ,designante il vaso da notte, che è dal greco πιϑάριον (leggi pithàrion), che significa orcio.

PITANTE (il corrispondente italiano pedante ha, con lo stesso etimo, un altro significato)=passeggero, soprattutto nell’espressione pitante ti mare (persona che ama frequentare i luoghi in riva al mare). La voce è participio presente di un inusitato *pitare, a sua volta dal latino medioevale pedare usato nel senso di misurare a passi.

PITATA (in italiano pedata, participio passato di un inusitato *pedare, forma verbale da piede, della quale permane il composto appiedare.

PITICINU sinonimo di picciolo, peduncolo. Come le voci italiane appena ricordate è diminutivo sostantivato dell’aggettivo  del latino medioevale pedicus5=relativo al piede, dal citato pes.

PITICUNE usato (non a Nardò)  nel significato di ceppaia. Stesso etimo del precedente, ma con suffisso accrescitivo.

‘MPITICUNARE è usato nel significato di mettere in condizione di non muoversi o in quello traslato di impegnare totalmente . La voce è dalla preposizione in (con aferesi di i- e normale passaggio –n->-m-davanti a -p-) + una forma verbale derivante dal precedente piticune.

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1 Da una radice indoeuropea ped– presente anche nell’inglese foot.

2 Pur essendo di Nardò, è la prima volta che incontro questa locuzione e sarei grato a chiunque fornisse qualche notizia (o fondata supposizione) circa l’origine della metafora. Posso solo dire che qualche collegamento è ipotizzabile con il piede di lupo o Lycopus europaeus L. [Lycopus è dal greco λύκος (leggi iùcos)=lupo + πούς (leggi pus)=piede], in rapporto ai colori dominanti del perianzio (bianco, rosa, rosso, purpureo (vedi   https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=4911. Tuttavia questo comporterebbe un doppio passaggio metaforico (dal mondo animale a quello vegetale e da questo all’atmosferico), per cui è più probabile che l’imperfezione abbia evocato l’immagine del piede dell’animale come credo sia successo per il pete ti puercu di Salve.

3 Anche qui il passaggio metaforico dal mondo animale a quello vegetale dovrebbe essere basato su un rapporto di somiglianza, ma non riesco ad intravvederlo, sfruttando, questa volta, la scheda presente in https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=1825. Faccio presente che il piede di mosca (o piede sporco), indicato con ❡ o ¶,è un antico segno tipografico che in passato segnava la ripartizione di un capitolo e che negli attuali programmi di videoscrittura segna la fine di capoversi e paragrafi; non credo proprio che la nostra metafora possa avere questa origine dotta.

4 A Nardò chiavatone. Probabilmente le sue decantate proprietà afrodisiache hanno propiziato la paretimologia (parziale, perché protagonista, come vedremo, è sempre il chiodo)da chiavare (non nel suo significato letterale di inchiodare ma in quello metaforico alludente al coito maschilisticamente inteso, tanto per cambiare …. Mi sarei aspettato, sotto questo punto di vista, un chiavantone (accrescitivo del participio presente attivo  e non di quello passato che, per i verbi transitivi, come chiavare,  ha significato passivo …).  In realtà chiavatone è accrescitivo, sì, ma da clavatus  (=a forma di clava), a sua volta da clava, che ha la stessa radice di clavis=chiave e di clavus=chiodo (in fondo un chiodo è la forma più semplice di chiave). Chiavatone, perciò, nasce dalla sua somiglianza con una clava, poi la fantasia popolare ha fatto il resto …  Ne approfitto per ricordare che fungu ti crapa è chiamato a Nardò quello che con nome italiano è detto piede di capra (Albatrellus pes caprae), per cui il nome neretino evoca la forma e non una particolare predilezione caprina per esso.

5 Da non confondere con l’omografo del latino classico pèdicus=relativo ai fanciulli, che è trascrizione del greco παιδικόϛ (leggi paidicòs), a sua volta da  παῖς (leggi pàis)=fanciullo. Il pèdicus (da pes) è stato quasi riesumato nell’italiano pèdice [(detto anche  deponente),   segno, lettera, numero che, in formule chimiche o in espressioni matematiche, è collocato in basso rispetto ad altri segni], che è formazione moderna modellata sul latino àpicem (non a caso àpice, tipograficamente parlando, è il contrario di pèdice), che significa sommità.

Nardò, due pergamene certamente (una addirittura, una bolla papale), due scultori forse, anzi, decisamente no!

di Armando Polito

Dopo le ultime “creazioni” di Christo e di Cattelan il lettore si chiederà, letto il chilometrico titolo che farebbe invidia a a quelli di tanti  libri a stampa dei secoli scorsi, quali saranno mai questi scultori prima annunziati e subito dopo schizofrenicamente rinnegati alle prese con pergamene. Anche se avessero rimediato gli onori della cronaca, avrei perso il mio tempo con loro solo per un liberatorio sfogo intriso di sarcasmo. La questione, invece, è stata, almeno all’inizio, maledettamente seria e ci porterà, comunque, a ritroso nel tempo per più di quattro secoli.

Comincio col presentare la bolla, non di sapone né finanziaria …, cioé quella con cui papa Gregorio XIII sancì l’elezione di Cesare Bovio1 a vescovo di Nardò il 15 aprile 1577.

Riproduco la pergamena, che è custodita nell’archivio della curia vescovile di Nardò, da http://www.sapuglia.it/Schedatura/Pergamene/iviewer/viewer/viewer.php?id_perg=7780&offset=0, aggiungendo di mio la trascrizione (le abbreviazioni sciolte in parentesi tonde, le lacune integrate2 nelle quadre), la traduzione e le dovute note.

bolla diocesi Nardò

Gregorius ep(iscopu)s servus servo(rum) Dei Dilecto filio Cesari Electo Neritonen(si) Sal(u)t(em) et A [p(osto)licam) Ben(edictionem)].

Apostolatus officium meritis licet imparibus nobis ex alto commissum quo ecclesiarum omnium regimini divina dispositione presidemus utiliter exequi coa[diuvante Domi]no cupientes soliciti corde reddimur et solertes ut cum de Ecclesiarum ipsarum regiminibus agitur committendis tales eis in Pastores preficere studeamus,  qui [Populum] sue cure creditum sciant non solum doctrina verbi, sed etiam exemplo boni operis informare commissasque sibi ecclesias in statu pacifico et tranquillo velint et [valeant], auctore Domino salubriter regere et feliciter gubernare Dudum siquidem provisiones Ecclesiarum omnium tunc vacantium et in posterum vacaturarum ordinationi et disp[ositioni nostre] reservavimus decernentes ex tunc irritum et inane, si secus super his per quoscumque quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigeret attentari. Et deinde ecclesia N[eritonensis auctoritati] apostolice immediate subiecta cui bone memorie Ambrosius Episcopus Neritonensis dum viveret presidebat per obitum dicti Ambrosii Episcopi qui extra Romanam Curiam  de[bitum] persolvit pastoris solatio destituta Nos vacatione huiusmodi fide dignis relationibus intellecta ad provisionem eiusdem ecclesie celerem et felicem de qua nullus preter [nos hac] vice se intromittere potuit sive potest reservatione et decreto et sistentibus  supradictis ne ecclesia ipsa longe vacationis exponatur incommodis paternis et solicitis [studiis] intendentes post deliberationem quam de preficiendo eidem ecclesie personam utilem et etiam fructuosam cum fratribus nostris habuimus diligentem demum ad te Rectorem [ecclesie] beate Marie Virginis Assumptionis nuncupate Licien(sis) in presbiteratus ordinem constitutum et ex civitate Bononien(si) oriundum cui apud Nos de literarum scientia vite munditia honestate morum spiritualium providentia et temporalium circumspectione aliisque multiplicium virtutum donis fide digna testimonia perhibentur direximus oculos nostre mentis. Quibus omnibus debita meditatione pensatis de persona tua nobis et eisdem fratribus ob tuorum exigentiam meritorum accepta eidem ecclesie Neritonen(si) de ipsorum fratrum consilio Apostolica auctoritate providemus teque illi in Episcopum preficimus et pastorem curam et administrationem ipsius ecclesie Neritonen(sis) tibi in spiritualibus et temporalibus plenarie committendo in illo qui dat gratias et largitur premia confidentes quod dirigente Domino actus tuos prefata ecclesia Neritonen(sis) per tue diligentie laudabile studium regetur utiliter et prospere dirigetur ac grata in eisdem spiritualibus et temporalibus suscipiet incrementa. Iugum igitur Domini tuis impositum humeris prompta devotione suscipiens curam et administrationem predictas sic exercere studeas solicite fideliter et prudenter quod ecclesia ipsa Neritonen(sis) Gubernatori provido et fructuoso Administratori gaudeat se com(m)issam. Tuque preter eterne retributionis premium benivolentiam nostram et nostre sedis benedictionem et gratiam exinde uberius consequi merearis. Volumus autem quod antequam possessionem seu quasi regiminis et administrationis dicte ecclesie Neritonen(sis) vel illius bonorum aut maioris partis eorum assequaris seu in illis te immisceas fidem catholicam iuxta articulos pridem ab eadem sede propositos iuxta formam quam [sub b]ulla nostra   mittimus introclusam in manibus venerabilium fratrum nostrorum Archiepiscopi Idruntusin(ensis)  et Episcopi Castren(sis) seu alterius eorum quibus et eorum cuilibet per alias nostras literas man[dam]us quatenus ipsi vel eorum alter professionem a te recipiant seu recipiat antedictam omnino profiteri et facte huiusmodi professionis fidei formam in scriptis tuo sub sigillo per proprium [n]uncium ad sedem autem quantocitius destinare tenearis alioquin provisio et prefectio huiusmodi nulle sint. Datum Rome apud Sanctumpetrum Anno incarnationis dom[inic]e millesimoquingentesimoseptuagesimoseptimo decimo septimo (ante) Calendas Maii nostri pontificatus anno [quin]to.

Da notare che nella prima linea le iniziali G di Gregorius, D di dilectus, C di Cesari, E di Electo, N di Neritonen(sis), la S di Sal(u)tem hanno l’estetica dei capilettera imitanti le miniature medioevali; inoltre, in modo meno appariscente, delle linee verticali uniscono al capolettera la s di servus e di servorum, la l di dilecto, la f di filio, la s di Cesari e la l di Electo.

Ecco la traduzione:

Gregorio vescovo servo dei servi di Dio al diletto figlio Cesare eletto a Nardò (rivolge) il saluto e l’apostolica benedizione.

Desiderando che l’ufficio dell’apostolato a noi affidato dall’alto pur con impari meriti, con il quale per divina disposizione presiediamo al governo di tutte le chiese, sia eseguito utilmente con l’aiuto di Dio siamo resi solleciti nel cuore e solerti affinché, quando si tratta di affidare Il governo delle stesse chiese, curiamo di dare l’incarico di presiederle a pastori tali che credano che il popolo sia stato affidato alla loro cura non solo per l’insegnamento della parola (di Dio) ma anche vogliano e valgano con l’esempio della buona azione educare e con l’aiuto di Dio reggere e felicemente governare in uno stato pacifico e tranquillo li chiese a loro affidate. Da tempo poiché abbiamo riservato al nostro governo e comando la cura di tutte le chiese allora vacanti e in seguito destinate ad esserlo giudicando da allora  nullo o inutile se diversamente su queste cose toccasse di transigere da chiunque con qualsiasi autorità consapevolmente o inconsapevolmente e di conseguenza la chiesa di Nardò, immediatamente soggetta all’autorità apostolica, alla quale presiedeva finché era in vita il vescovo di Nardò Ambrogio di buona memoria priva di conforto per la morte del detto vescovo Ambrogio che fuori della curia romana assolse al dovere di pastore, Noi per una sospensione di questo tipo compresa mediante relazioni degne di fede per una cura celere e felice della medesima chiesa circa la quale nessuno eccetto noi questa volta potè o può intromettersi con riserva o decreto e stanti le cose prima dette intendendo che la stessa chiesa non sia esposta lungamente agli inconvenienti della sospensione dopo la diligente deliberazione che abbiamo avuto con i nostri fratelli sul preporre alla medesima chiesa persona utile e anche fruttuosa alla fine abbiamo diretto gli occhi della nostra mente a te rettore della chiesa leccese chiamata della Beata Vergine dell’Assunzione post nell’ordine dei presbiteri e oriundo della città di Bologna, dal quale sono offerte a noi testimonianze degne di fede sulla conoscenza delle lettere, la purezza di vita, l’onestà dei costumi, la prudenza delle cose spirituali e l’avvedutezza di quelle materiali e altri doni di molteplici virtù. Meditate con la dovuta profondità tutte queste cose, circa la tua persona gradita a noi ed ai medesimi fratelli per esigenza dei tuli meriti provvediamo con apostolica autorità su decisione degli stessi fratelli alla chiesa di Nardò e ti eleviamo a capo di quella e a pastore affidando plenariamente a te la cura e l’amministrazione della stessa chiesa di Nardò nelle cose spirituali e temporali in (nome di) colui che dà le grazie e largisce i premi confidando che dirigendo il Signore le tue azioni la predetta chiesa di Nardò grazie al lodevole impegno della tua diligenza sarà retta utilmente e prosperamente diretta e conseguirà graditi progressi nelle cose spirituali e temporali. Accettando dunque con pronta devozione il giogo del Signore posto sulle tue spalle impegnati ad esercitare la cura e l’amministrazione predette così sollecitamente, fedelmente e prudentemente che la stessa chiesa di Nardò goda di essere stata affidata ad un governatore provvido e fruttuoso. E tu possa meritare oltre al premio dell’eterna ricompensa la nostra benevolenza e la benedizione della nostra sede e di conseguire più abbondantemente da questo gratitudine. Vogliamo poi che prima che tu consegua il predetto possesso sia quasi di governo e amministrazione della detta chiesa di Nardò o dei suoi beni o della loro maggior parte, o che in essi ti immetta, che tu faccia aperta dichiarazione di fede cattolica secondo la forma che sotto la nostra bolla mandiamo chiusa nelle mani dei venerabili nostri fratelli l’Arcivescovo di Otranto ed il vescovo di Castro o di uno di loro. Ad essi ed a ciascuno di loro per altre nostre lettere diamo l’incarico che essi o uno di loro ricevano o riceva da te la dichiarazione di fede, che tu sia tenuto a fare in tutto la predetta professione e a far pervenire quanto più presto possibile a questa sede per iscritto la forma di professione di fede di tal genere fatta sotto il tuo sigillo tramite proprio messaggero, che in caso contrario il provvedimento e la nomina a capo di tal fatta siano nulli. Emesso a Roma presso San Pietro nell’anno dell’incarnazione del Signore 1577 il 15 aprile, del nostro pontificato anno quinto.

La bolla in calce mostra ben cinque scritture spurie, cioè estranee al testo ma aggiunte senz’altro subito dopo la sua stesura. Riproduco in dettaglio ingrandito quella che ci interessa.

Leggo più o meno agevolmente Franc(iscu)s Bellottus p(ro) Mag(istr)is.

La traduzione sarebbe: Francesco Bellotto per i maestri. Credo che il riferimento sia ai magistri plumbi (alla lettera maestri del piombo), cioè a coloro che realizzavano il sigillo, della cui presenza la bolla oggi presenta solo tracce, com’è detto nella scheda di catalogazione che l’accompagna. Ciò che, però, a prima vista fa sobbalzare, a patto di averlo sentito nominare, è Francesco Bellotto, cioè il nome di uno scultore neritino del secolo XVI3.

E, tenendo conto che di lui ben poco si sa, uno sobbalza credendo di averne rinvenuto, addirittura, la firma e giunge pure a supporre che nella realizzazione del sigillo di Gregorio XIII ci sia il suo zampino. Poi comincia a riflettere ed a nutrire qualche dubbio, a cominciare dal fatto che a livello cronologico siamo proprio al limite. Un controllo effettuato sulle altre cinque bolle di Gregorio XIII conservate nel detto archivio ha fatto rilevare la presenza della firma del Bellotto in due altre bolle, sempre del 15/4/1577. Nella prima  (il papa assolve Cesare Bovio da ogni censura o pena ecclesiastica in cui sia eventualmente finora incorso):

 

Nella seconda (il papa dispensa Cesare Bovio dalla rinunzia alle cariche e ai beni che teneva a vita prima della sua elezione, concedendogli, cioè, di conservare la chiesa di S. Maria dell’Assunzione di Lecce, de iure patronatus di D. Filippo De Matteis, la chiesa di S. Andrea dell ‘Isola e quella di S. Maria de Formellis, di Brindisi:

Nel corso di questo controllo, poi, è avvenuto qualcosa che da un lato ha definitivamente messo da parte il sospetto di aver fatto una scoperta, se non eccezionale (!), quanto meno interessante (tanto più, come ho detto, che del Bellotto sia sa poco o niente), dall’altra di prendere una madornale cantonata con un’ipotesi abbastanza evanescente, seppur suggestiva.

In calce ad un’altra pergamena, questa del 23/6/1577, in cui Cesare Bovio, in presenza del Capitolo, impartisce istruzioni per il servizio nella Cattedrale di Nardò, leggo, sempre in calce, quanto segue.

Placidus Buffellus ca(ncell)ar(ius) causarum ep(iscopa)lis neritonens(is) Not(arius)

Placido Buffelli cancelliere delle cause, notaio neritino del vesc

Faccio presente che Buffellus alla lettera sarebbe Buffello, ma ho tradotto Buffelli per l’uso invalso nel latino di declinare al singolare anche i cognomi dalla forma evocante il plurale. Un esempio per tutti, connesso con l’epoca e col territorio: il Galateo, com’è noto, dedica il De situ Iapygiae a Giovan Battista Spinelli e Spinelle (vocativo singolare=o Spinelli, ma alla lettera sarebbe o Spinello) ricorre più volte,senza contare la stessa procedura adottata per altri cognomi “plurali” di autori di opere latine, com’è regola fino al XVIII secolo.

Placido Buffelli, dunque, non è una forzatura, e legittima il ricordo di Placido Buffelli di Alessano 1635-1693), anche lui scultore, autore, fra l’altro, di tre fastosi altari realizzati nel 1668 nella cattedrale di Nardò.

Le date appena ricordate, però, a differenza di quanto era successo per il presumibile scultore neritino, non lasciano scampo e sanciscono un caso di omonimia, il che, d’altra parte, era sospettabile tenendo  conto dei titoli che nella pergamena ne accompagnano il nome.

E desolatamente bisogna prendere atto, non solo per la proprietà transitiva, che, se il notarius Buffelli non è lo scultore alessanese, nella bolla da cui siamo partiti il magister plumbi Bellotto non è lo scultore neritino. Insomma, poteva essere uno scoop, è stato un flop …

La pergamena con la firma di Francesco Bellotto direi che non viene da Nardò,o perlomeno tutti i firmatari non sono locali. Probabilmente fanno parte della Curia romana

Invece l’altra riporta i membri del Capitolo della Cattedrale di Nardò, tutti abati, che firmano la pergamena:

Gio: Francesco Nestore arcidiacono

Cesare Sizzara preposito

Leonardo Gaballo cantore

Antonio Massa tesoriere

Ercole  Sombrino arcipresbitero

Ferrero Campanella canonico

 A… Phontonius (Fontò)  canonico

Leonardo Trono canonico

Pietro Scopetta  canonico

Giulio Cesare Rapanà  canonico

Domenico Antonio Vernaleone  canonico

Gio: Antonio Giulio canonico

Vincenzo De Matteis  canonico

Domizio…  canonico

Lucio Guerrieri   canonico

Cola Piccione  canonico

Domenico Bia  canonico

Gio: Carlo Colucci  canonico

Gio: dello Pinto  canonico

Gio: Antonio de Pantaleonibus  canonico

Placido Buffelli actuarius causarum episcopalis

Placido Buffelli, notaio, nel 1596 vive a Nardò. Aveva sposato Claudia della Penta , con cui aveva generato Nicola nel 1585, Desiderio nel 1589, Virginia nel 1590, Betta nel 1583, Ippolita nel 1588. La famiglia proveniva da Alessano e viveva in Nardò “pro exercendo offitio auctuarii” nella curia vescovile di Nardò.

__________________

1 La biografia più completa è quella manoscritta di Pietro Pollidori (1687-1748) De sacris, et profanis antiquitatibus Neritinae urbis et dioecesis, anch’essa custodita nell’archivio della curia di Nardò. Una copia manoscritta fu fatta nella seconda metà del XVIII dall’abate canonico bibliotecario Michele Foggetta ed è inserita in una miscellanea custodita nelle Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi (ms_B/54, cc. 33r-59r).

2 Operazione facilitata dall’abbondante uso di locuzioni formularie agevolmente ricavabili da documenti analoghi.

3 Condivido, infatti l’osservazione contenuta nella prima delle righe in blu, che sono di Marcello Gaballo.

Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (II parte)

di Riccardo Carrozzini

 

Fig. 5 – Lo scheletro ricomposto, a Maglie (da Teresa Salomi, come le successive fino alla fig. 5e)

 

La vendita venne infine effettuata al Museo di Zoologia e di Anatomia comparata della Regia Università di Pisa, il cui direttore era il prof. Sebastiano Richiardi, che offrì un corrispettivo di lire mille più spese di trasporto a suo carico. La spedizione venne effettuata nel maggio 1903. In una lettera di quello stesso mese al Richiardi, il Presidente Garzia lo informa dell’avvenuta spedizione ed aggiunge: “Le accludo una relazione, di questo egregio giovane Sig. Salomi Liborio, appassionatissimo cultore di Scienze naturali, il quale, sotto la direzione dell’insegnante prof. Consiglio di questo Liceo ha curato la preparazione e l’imballaggio del cetaceo“. Brani di questo documento, trascritto integralmente più oltre, vengono citati nell’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi in precedenza citato. La scansione della relazione, di 8 pagine, mi è stata mandata il 22 maggio 2014 dal dott. Nicola Maio, dell’Università di Napoli, al quale è stata fornita da uno degli autori.

Fig. 5a – Particolare arto anteriore

 

Fig. 5b – Particolare parte posteriore del cranio

 

Fig. 5c – Particolare delle costole

 

Fig. 5d – Particolare delle prime vertebre

 

Fig. 5e – Particolare della mandibola

 

Da una lettera della Giunta provinciale amministrativa di Terra d’Otranto del 3 luglio 1903 (prot. 10775), che si esprime in ordine ad una deliberazione dell’Istituto Capece, risulta che il Salomi, “avendo questi col suo lavoro contribuito al maggior vantaggio dell’amministrazione”, ricevette come compenso per l’opera prestata la somma di £. 50,00.

Fig. 6 – La lettera in francese per la vendita dello scheletro (Fondaz. “Capece”)

 

Fig. 7a – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 1

 

Fig. 7b – La lettera al prof. S. Richiardi, pag. 2 (Fondaz. “Capece”)

 

Vi è poi una lettera del Prof. S. Richiardi, del Museo di Pisa, il quale aveva, evidentemente, anticipato di tasca sua le £. 1.025,00 pagate all’Istituto Capece per lo scheletro. Richiardi faceva rilevare che la quietanza di pagamento rilasciata dal Capece era sbagliata perché intestata a Salvatore e non a Sebastiano Richiardi, la qual cosa gli aveva impedito fino ad allora (10 maggio 1904) di essere rimborsato dall’Università di Pisa, e pregava il Presidente Garzia di inviargli una nuova quietanza correttamente redatta. Riferiva, nella stessa lettera, che “il Fisetere [9] è montato, mancano però l’ultima vertebra, una delle ossa del bacino, n. 8 denti, n. 3 ematoapofisi od ossa a V, n. 20 pezzi degli arti – dovrebbero essere 30+30”.

Fig. 8 – L’articolo di Braschi – Cagnolaro – Nicolosi citato nel testo

 

Do’ anche conto delle spese sostenute dall’istituto Capece in occasione del recupero di questo scheletro: si trova, infatti, tra la documentazione, un rendiconto finale (denominato “Conto cetaceo”) delle spese sostenute, che ammontarono a lire 576,85; detratte queste dalle lire 1.025,00 avute come corrispettivo, risultò un guadagno netto, per l’Istituto Capece, di lire 448,15.

Fig. 9 – Il “Conto cetaceo” (Fondaz. “Capece”)

 

ig. 10 – Il compenso di 50 lire a Salomi (Fondaz. “Capece”)

 

Lo scheletro del capodoglio è ancora esistente presso la Certosa di Calci, dove l’Ateneo pisano ha il suo Museo di Storia naturale, dotato di una stupenda galleria che contiene gli scheletri di numerosi cetacei (si vedano le foto in calce alla presente).

È trascritta infine fedelmente, di seguito, la relazione di Salomi di cui si è fatto cenno più sopra, scritta su carta intestata del Liceo – Ginnasio Capece (una pagina di questa è l’ultima foto in calce), nella quale si autodefinisce “perduto amatore di Zoologia” e dalla quale si può chiaramente evincere, dai molti particolari e dalle descrizioni, chi era, quanto a conoscenze e competenze nel settore, Liborio Salomi già a 20 anni; questo documento è il più lungo testo con firma autografa che sono riuscito a trovare [10].

 

Relazione di Liborio Salomi

Ill.mo Signor Direttore,

Prima di ogni altro mi permetta presentarmele quale un appassionato di Storia Naturale. Ho venti anni e sono in procinto di conseguire la licenza liceale in questo Liceo, dopo di che vorrò dedicarmi completamente allo studio delle scienze biologiche che ho coltivato sin da ragazzo. Ero ancora tale quando cominciai a catturare insetti e a sezionare quanti mammiferi, uccelli ed altri animali mi capitassero fra le mani; e poi ho continuato sempre più a sentirmi attratto dalle tante bellezze di cui è ricca la natura, e possiedo una discreta raccolta di insetti indigeni, di resti fossili, di uccelli imbalsamati da me stesso, di animali in alcool, fra i quali un bellissimo aborto mostruoso di Ovis Aries etc.. Qui in Maglie mi conoscevano già tutti per appassionato di Scienze Naturali, allorché un caso speciale venne a mettermi in maggiore evidenza. Fu questo l’arrivo in Otranto di un Capodoglio. Nello scorso anno infatti, nel 18 gennaio 1902 i soldati del Semaforo, addetti al servizio di Otranto nella località così detta “Palascia”, avvisarono che in alto mare galleggiava uno scafo di bastimento capovolto. A tale avviso, i poveri marinai otrantini, sperando di trovare in esso dei tesori che valessero a sollevare alquanto la loro miseria, si misero in mare con sette barche, ma grande fu la loro delusione quando, giunti al voluto scafo, riconobbero in esso un immane pesce, a dir loro già morto da parecchi giorni. Assicuratolo con una forte gomena attorno la coda lo rimorchiarono nel porto, donde il Sindaco, per ragione d’igiene pubblica, lo fece trasportare non lungi da Otranto, nella località detta “Rinule” a circa tre chilometri dall’abitato. Ben presto la notizia dell’invenimento di questo grande cetaceo si sparse per quasi tutta la provincia e da ogni parte di essa si recarono ad Otranto delle persone per vederlo. Tra queste ci fui anche io ed altri compagni di scuola, accompagnati dal sig. Giuseppe Consiglio, professore di Fisica e Scienze Naturali in questo Liceo. Dapprima vedemmo il cetaceo da sugli scogli e poscia con delle barche potemmo osservarlo da vicino. La putrefazione era già cominciata nell’interno, e ad ogni cavallone un po’ forte e quindi ad ogni conseguente muoversi del cetaceo, veniva fuori dalla sua bocca un puzzo penetrante e insopportabile. Provvisto di una discreta macchina fotografica il prof. Consiglio ritrasse l’animale, e la fotografia sebbene non molto chiara è abbastanza sufficiente per mostrare come esso giacesse sul fianco sinistro e come, ad arguirlo dalla bava bianchiccia che vedesi intorno alla bocca, fosse inoltrata in esso la putrefazione. Essendo lo Stato padrone di tali mostri che si rinvengono sulle coste italiane, il sindaco di Otranto annunziò al governo la scoperta del Capodoglio, perché si pigliassero serii provvedimenti onde distruggerlo, potendo riuscire, con la sua putrefazione, di grave danno per gli abitanti delle spiagge vicine. Si attendeva invano ordine dal Ministero, allorché il preside di questo Liceo, il sig. Giuseppe Gabrieli [11], attualmente bibliotecario all’Accademia dei Lincei, pensò che fosse conveniente all’Istituto Capece l’acquistare lo scheletro di un Capodoglio, sì importante nello studio della Zoologia ed Anatomia comparata e così raro nello stesso tempo. Si telegrafò dapprima alla Capitaneria del porto di Taranto, e avendo questa risposto che il cetaceo era in potere del Ministero di P. Istruzione, il presidente del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Capece, il sig. Cav. Raffaello Garzia, fece delle pratiche presso di esso, il quale rispose che il cetaceo era a disposizione del gabinetto di Storia naturale di Maglie. Fu così che io, alunno della 2a liceale, e perduto amatore di Zoologia, ebbi dalla Onorevole Commissione di questo Liceo il piacevolissimo incarico di andare ad Otranto per dirigere la scarnificazione del cetaceo e sorvegliare a che nessuna parte dello scheletro venisse menomamente lesa. L’operazione per denudare le ossa fu di somma difficoltà e dispendio, sia per la località che non mi permise di trarre a secco il cetaceo, sia per la poca praticità del personale addetto al lavoro, sia in ultimo per i tempi piovosi. Potei constatare subito trattarsi di un individuo di Physeter macrocephalus, di sesso femminile. La pelle era completamente intatta, ciò che esclude l’idea che l’animale fosse morto per ferita. Dei denti, in massima parte cariati, mancavano otto, ciò che, tenendo anche conto della coda completamente liscia, mi fece pensare trattarsi di un individuo assai inoltrato negli anni. La putrefazione avvenuta mi impedì assolutamente di fare qualsiasi osservazione anatomica sui tessuti molli, e mi tolse anche l’agio di constatare se nella vescica orinaria vi fossero dei calcoli, e delle incrostazioni di simil natura sulle pareti dell’intestino. Ciò che mi colpì grandemente furono i muscoli tutti invasi, nel loro spessore, da corpuscoli un po’ più piccoli dei granelli di pepe, di color bianco-giallognolo e che alla osservazione microscopica sembrano delle uova di Elminti [12]. Fosse la morte del Cetaceo stata causata dall’esistenza di qualche parassita? Mancando di libri da riscontro non ho potuto venire a conclusione alcuna, eppure potrebbe trattarsi di qualche specie nuova o poco studiata di Elminto. Circa lo scheletro fui dapprima sommamente meravigliato di trovar distaccate le ossa facciali del lato sinistro, ma ben presto potei attribuir ciò al peso della massa muscolare sopraincombente del lato destro. Ebbi massima cura di conservare le ossa del cinto pelvico tanto importanti nello studio dell’anatomia comparata. Dopo 13 giorni di continuo lavoro le singole ossa furono trasportate a Maglie ed infossate nella calce viva per farle spolpare e sgrasciare completamente. Circa un mese fa le ho tolte da essa per pulirle definitivamente ed ora sono in viaggio per Pisa. Anche l’imballaggio è costato lavoro e fastidio, ma per la scienza bisogna far tutto, ed io mi reputo fortunatissimo di aver lavorato, ancor sì giovane, per la preparazione dello scheletro di un Capodoglio che di ora in poi adornerà (me l’auguro) le ricche sale del Museo pisano, vanto e gloria del nostro chiarissimo Savi [13]. E voglio sperare che ella trovi lo scheletro in buono stato, in modo che il mio lavoro non sia andato completamente perduto, e che voglia attribuire qualche piccolo difetto alla mancanza dei mezzi necessarii per la preparazione di tali scheletri e alla mia poca pratica con essi. Prima di fare l’imballaggio ho situate le ossa alla meglio onde fare la fotografia dello scheletro intero, e fra giorni mi farò un pregio di mandargliela insieme a quella del cetaceo in mare ed altre ritraenti diverse ossa e regioni singole dello scheletro, ed una rappresentante un frammento di membrana endoteliale dello sfiatatoio [14]. Lo scheletro come le sarà facile constatare è lungo, così disarticolato, m. 10,30, ma con i dischi intervertebrali misurava m. 11, pur essendo lungo m. 12 rivestito dalle masse muscolari. Nell’imballarlo ho messo nel gabbione oltre al capo anche l’atlante l’epistrofeo saldato alle altre cinque vertebre cervicali ed al processo odontoide rudimentale, le vertebre dorsali, le lombo-caudali e le costole. Nel cassone ho messo lo sterno, il primo paio di costole, i denti, le ossa del cinto pelvico, alcune ossa del capo che trovai da esso distaccate, le clavicole, le scapole, gli omeri, le ossa, saldate verso la loro estremità, dell’antibraccio, le ossa carpali con le rispettive falangi (1) [15] ed alcune ossa articolate alla faccia inferiore delle vertebre lombo-caudali, e che non so invero cosa siano, pur avendo cercato di riscontrare varii testi di anatomia comparata. (Che anzi le sarei obbligatissimo se volesse indicarmi a quali dello scheletro umano corrispondano queste ossa e che ufficio compiano nei cetacei). Di queste ossa vi è una nel gabbione che per l’azione della calce ha l’estremità libera un po’ bruciata, ma credo che ciò non pregiudichi lo scheletro; ché nella relazione del Gasco [16] sulla Balena catturata a Taranto, ho letto come anche nello scheletro di essa alcune parti siano state sostituite da legno. È mai possibile evitare qualche piccola avaria in scheletri così colossali e nello stesso tempo risultanti da ossa spugnose e fragili in sommo grado? Avrei desiderio di scrivere una piccola monografia su questo Cetaceo, ma a causa della mancanza di materiale di studio, rimando tal lavoro al primo anno di studii universitarii, che veramente non mi son ancor deciso dove fare. Potrà darsi che venga a Pisa; è un centro di studii tanto rinomato! Giorni fa leggevo nella Mammologia [17] Italiana del Cornalia di uno scheletro di Physeter, arenato nel 1868 in Calabria e da lei egregiamente preparato per l’Università di Bologna. Credo, se non mi sbaglio, che manchi ancora in Italia un elenco completo dei cetacei giunti morti o dati a secco sulle sue spiagge; e sto curando, tanto per contributo a tale elenco, di raccogliere notizie precise su tutti i cetacei rinvenuti sulle coste della penisola salentina. Pochi anni or sono ad Ugento, sullo Ionio, dettero a secco contemporaneamente parecchi capodogli, ma per la putrefazione avvenuta, il governo, a richiesta delle autorità locali, mandò due navi per curarne il loro affondamento in alto mare.

Giorni fa fui chiamato da alcuni cavatori di pietra per vedere delle ossa che avevano trovato a nove metri di profondità: Recatomi sul luogo ebbi a constatare trattarsi dei resti di un Equus caballus mastodontico, quaternario. Ho quasi tutti i denti, che sono veramente bellissimi. Di resti di Equus ed altri animali quaternarii trovansi spesso nelle nostre cave ed io ho una discreta raccolta, ma mi mancano molti scheletri di animali odierni per farne gli studi comparativi. Se crede ella che tali resti fossili possano servirle a qualche cosa, non dovrà che avvisarmene, ed io sarò fortunatissimo di farglieli avere. E così dico pure di qualsiasi prodotto naturale della penisola salentina.

Mi permetta intanto di ossequiarla e professarmele suo dev.mo

Liborio Salomi di Angelo

Maglie il 12 maggio 1903

Fig. 11 – Lo scheletro del capodoglio alla certosa di Calci (Foto dal prof. Roberto Barbuti, Università di Pisa, come le successive fino alla fig. 14)

 

Fig. 12 – Sulla mandibola si può leggere “Otranto, gennaio 1902”

 

Fig. 13 – Un’altra vista dello scheletro

 

Fig. 14 – Una vista della Galleria cetacei con lo scheletro recuperato da Salomi in primo piano

 

Fig. 15 – Una pagina della lettera-relazione di Salomi

Note

[9] Sinonimo di capodoglio, derivata dal nome scientifico latino.

[10] Ringrazio il prof. Barbuti, già citato in precedenza, che si è messo in contatto col dott. Alessandro Corsi, direttore della Biblioteca di Scienze naturali dell’Università di Pisa; questi ha autorizzato la pubblicazione della relazione.

[11] Giuseppe Gabrieli, da Calimera (LE), padre di Francesco (quest’ultimo deceduto nel 1996, uomo di sconfinata cultura che fu uno dei più grandi orientalisti italiani e Presidente dell’Accademia dei Lincei), orientalista anch’egli, mentre era Preside del “Capece” vinse il concorso per bibliotecario dell’Accademia dei Lincei di Roma e lasciò la Presidenza del “Capece” per assumere il nuovo prestigioso incarico.

[12] Elminti: nome caduto in disuso, che non designa un gruppo zoologico definito, ma genericamente i vermi, in particolare quelli parassiti.

[13] Dall’Enciclopedia on line Treccani: Savi, Paolo. – Naturalista (Pisa 1798 – ivi 1871), figlio di Gaetano, prof. di storia naturale nell’Università di Pisa (dal 1823); socio corrispondente dei Lincei (1860). Autore di molti notevolissimi lavori sulla geologia della Toscana, in cui sostenne la teoria attualistica di Ch. Lyell, e di due importanti opere ornitologiche.

[14] Evidentemente presso l’Università di Pisa non vi è traccia di queste foto, visto che nell’articolo prima citato è stata pubblicata una foto fornita dalla dott. Elena Valsecchi, pronipote di Liborio Salomi. Forse le foto sono quelle pubblicate in questo volume, in possesso della figlia Teresa.

[15] Qui vi è la nota (1) nel manoscritto, e a piè di pagina è scritto: le ultime vertebre caudali.

[16] GASCO, Francesco Giuseppe: famoso naturalista (Mondovì 3 nov. 1842 – Roma 23 ott. 1894). Dal Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 52 (1999), di Maria B. D’Ambrosio: … Nel 1877 il G. vinse la cattedra di zoologia e anatomia comparata all’Università di Genova, e qui si occupò anche del Museo zoologico che arricchì di nuovi reperti fra cui lo scheletro di una balenottera arenatasi a Monterosso in Liguria; contemporaneamente pubblicò una relazione, iniziata a Napoli, su una balena arenatasi a Taranto nel febbraio del 1877 che identificò nella balena dei Baschi, Balaena Biscajensis (euglacialis). Nel 1878 le sue ricerche sulla osteologia dei Cetacei lo spinsero a visitare i più importanti musei europei fra cui quelli di Parigi, Londra, Copenaghen, Leida e Bruxelles, dove più ricche erano le collezioni cetologiche e molto quotati i cultori di questo ramo della zoologia. Invitato dal direttore del Museo di Copenaghen X. Reinhardt a studiare lo scheletro di un esemplare catturato nel 1854 a San Sebastiano sulle coste spagnole, giunse alla conclusione che si trattava della stessa specie della balena di Taranto. …

[17] La mammologia è la scienza che studia i mammiferi, classe di vertebrati con caratteristiche come ad esempio pellicce e un complesso sistema nervoso. La mammologia si dirama anche in altre discipline, quali la primatologia (studio dei primati) e la cetologia (studio dei cetacei).

 

Per la prima parte v. qui:

Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (I parte)

Liborio Salomi e il capodoglio di Punta Palascia (I parte)

di Riccardo Carrozzini

Liborio Salomi (Carpignano Salentino, 1882 – Lecce 1952) è lo scienziato / geologo / naturalista / tassidermista, amico e collaboratore di Cosimo De Giorgi, al quale succedette nella cattedra di Scienze naturali e nella direzione del Museo – Gabinetto di Scienze presso l’Istituto “O. G. Costa” di Lecce. Di lui mi sono occupato nel volume Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto [1]. Ne riporto di seguito uno stralcio, che vede coinvolti gli addetti al Faro di Punta Palascia (Otranto), in ciò stimolato da Cristina Manzo, che ci delizia con i suoi bellissimi articoli sui Guardiani del mare (https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/08/07/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-iv-parte/). E che in quello del 7 agosto parla proprio di quel faro, che sul web (non ricordo dove) ho trovato essere stato costruito nel 1869, sul luogo di una delle nostre tante torri cinquecentesche, all’epoca già allo stato di rudere, che fu interamente demolita. Ho un po’ ridotto e adattato il testo alle esigenze di questo sito: si tratta della vicenda (che vide Salomi protagonista nel 1902-1903) del recupero dello scheletro di un capodoglio, la cui carcassa in decomposizione venne avvistata proprio dai soldati del semaforo. Sarei curioso di sapere se esistono i diari dell’attività di quel faro (allora era presidiato) e, in caso affermativo, se in quello del 1902 la vicenda è stata riportata.

 

Poco più che diciannovenne, da studente del secondo Liceo dell’Istituto “Capece” di Maglie, Liborio Salomi mise già alla prova tutte le sue capacità partecipando attivamente al recupero e alla preparazione dello scheletro di un grosso capodoglio morto, il cui corpo venne avvistato al largo di Otranto il 18 gennaio 1902 [2].

Il corpo di questo enorme pesce (che in realtà, come si sa, è un mammifero), visto in lontananza, fu scambiato, dai “soldati del semaforo, addetti al servizio di Otranto, in località così detta Palascia”, per il profilo di un natante naufragato; alcuni gruppi di pescatori si diressero perciò, a bordo di sette imbarcazioni, verso questa sagoma indistinta visibile al largo, sperando di trovarvi chissà quale bottino.

Rivelatosi per quello che era, il corpo del cetaceo, già in stato di decomposizione, venne trainato a Otranto, da dove il Sindaco dell’epoca ordinò che venisse rimosso e spostato in località “Rinule” [3], a causa del fetore che emanava, in attesa che chi di dovere decidesse il destino di quella enorme carcassa. Esiste una foto, in possesso di Teresa Salomi (figlia dello scienziato, ancora vivente), appena leggibile e che, malgrado ciò, ho pensato ugualmente di pubblicare, del corpo del cetaceo trasportato nel porto di Otranto.

Fig. 1 – Il capodoglio nel porto di Otranto; sul molo un gruppo di curiosi (Foto da Teresa Salomi)

 

Frattanto la notizia era giunta a Maglie, dove il Presidente del Consiglio d’Amministrazione del Liceo Capece, avv. Raffaele Garzia, si interessò alla questione, manifestando il suo interesse anche presso il Ministero della Marina. Questo, con telegramma in data 24 gennaio, concesse il cetaceo al Ministero dell’Istruzione e per esso al Preside del Liceo Capece a “scopo scientifico”. Con telegramma del giorno successivo il Sindaco di Otranto comunicava al Preside che il Prefetto lo aveva reso partecipe di quanto sopra e che pertanto il cetaceo recuperato era nella disponibilità del Liceo Capece “subordinatamente intero pagamento spesa ricupero ed in caso rifiuto lo abbandoni ricuperatori”. Lo stesso giorno (25 gennaio) il Consiglio d’Amministrazione del Liceo Capece, convocato in via d’urgenza, adottava la deliberazione n. 51, con la quale si stanziavano £. 150,00 per l’acquisto “dello scheletro del cetaceo giacente nelle acque di Otranto”.

Il Salomi, già conosciuto nella sua scuola per la sua competenza e per gli interessi nel settore della preparazione di animali imbalsamati e scheletri, fu incaricato di recuperare, per l’Istituto “Capece”, lo scheletro del cetaceo, e si recò dove il corpo era stato portato, procedendo [4] alla rimozione di tutte le carni e le parti molli in decomposizione [5] e al dissezionamento dello scheletro; organizzò e sovrintese anche al trasporto dello scheletro stesso, ormai privato degli organi interni e in gran parte ripulito dalle masse carnose, a Maglie, dove le ossa vennero seppellite nella calce viva per una loro completa ripulitura.

Tra la documentazione reperita vi è poi una lettera del Presidente Garzia al prof. Giuseppe Consiglio [6] con la quale il docente veniva pregato “di compiacersi procedere al diseppellimento delle ossa del cetaceo, e provvedere per pulirle, facendosi aiutare da qualche alunno, se lo crede, per evitare spese all’Istituto”. Qui rientra in gioco il Salomi, che effettua la pulizia finale delle ossa dissotterrate e procede alla ricomposizione dello scheletro, come testimonia la fig. 5, in possesso della figlia Teresa e già pubblicata (sia pure in una versione “speculare” fornita dalla pronipote di Liborio dott. Elena Valsecchi) nell’articolo Braschi – Cagnolaro – Nicolosi (si veda la nota 2); la foto mostra lo scheletro, sommariamente ricomposto a Maglie, con accanto la figura inconfondibile del giovane Salomi [7].

Fig. 2 – Il frontespizio del fascicolo che contiene tutti i documenti della vicenda
(archivio Fondazione “Capece”, Maglie)

 

Non si capisce bene perché, ma le originarie motivazioni dell’acquisto, di cui si trova traccia nella delibera n. 51 (“per arricchire il materiale scientifico dei nostri Gabinetti”), vennero successivamente meno, tanto che venne deciso –credo unicamente per motivi economici, ma non ho trovato documentazione che confermi questa mia supposizione- di alienare lo scheletro, forse al miglior offerente, inoltrando la relativa offerta anche oltr’alpe.

Fig. 3 – La deliberazione n. 51 (Archivio Fondazione “Capece”)

 

A tal proposito si segnala una lettera a stampa in lingua francese, su carta intestata, anch’essa in francese, non si sa se mai spedita (è, infatti, senza indirizzo), che trascrivo integralmente nella mia traduzione:

“Data del timbro postale – Il nostro Istituto ha acquisito, da qualche mese, lo scheletro di un capodoglio, restituito morto dal mare Adriatico nei pressi di Otranto il 19 gennaio 1902. Si tratta di un physiter macrocephalus femmina, il cui scheletro raggiunge la lunghezza di 15 metri [8] e la circonferenza di 7 metri all’altezza della parte anteriore del tronco. Non è ancora montato, ma tutti i suoi pezzi – mancano solo 8 dei 25 denti della mandibola destra – sono stati scarnificati con cura e seccati con la calce. Desideriamo venderlo o scambiarlo con altro materiale scientifico di zoologia in buono stato. In attesa di ricevere proposte, siamo pronti a fornirvi eventuali chiarimenti richiesti (foto, inventario dei pezzi, ecc.). Il Presidente dell’Istituto Raffaele Garzia.” La lettera è indirizzata, sempre a stampa, “ai Signori Direttori d’Istituti di scienze naturali, di Musei zoologici, etc.”, senza ulteriori specificazioni.

Fig. 4 – La lettera al prof. Consiglio (Fondaz. “Capece”)

 

(continua)

 

Note

[1] R. Carrozzini, Liborio Salomi, un illustre salentino quasi sconosciuto, Ed. Milella, Lecce 2015, ISBN 978–88–7048–581–3. Chi volesse saperne di più può cercare Liborio Salomi tra gli articoli della Fondazione Terra d’Otranto.

[2] Nell’archivio della Fondazione “Capece”, la cui sede è ubicata nello stesso stabile dell’omonimo Liceo, a Maglie, si trova, nella busta n. 9, un fascicoletto con la documentazione relativa a questa vicenda; in altre buste vi è anche traccia di alcuni mandati di pagamento relativi alla stessa. Ringrazio il Presidente della Fondazione dott. Dario Vincenti e l’addetta all’archivio dott. Giovanna Ciriolo per la grande disponibilità dimostrata e per l’autorizzazione a pubblicare la documentazione in loro possesso. Altro doveroso ringraziamento al prof. Roberto Barbuti, vice-Direttore del centro Interdipartimentale – Museo di Storia Naturale e del Territorio dell’Università di Pisa per le foto dello scheletro, l’articolo sullo stesso (S. Braschi,     L. Cagnolaro, P. Nicolosi, Catalogo dei Cetacei attuali del Museo di Storia Naturale e del Territorio                       dell’Università di Pisa, alla Certosa di Calci. Note osteometriche e ricerca storica, in Atti Soc. tosc. Sci. nat., Mem., Serie B, 114, 2007) ed altre notizie fornite. Ringrazio infine il dott. Nicola Maio dell’Università di Napoli, studioso dello scheletro dei cetacei dei musei italiani, con il quale ero in contatto per altre vicende relative al Salomi e che mi ha permesso di trovare e pubblicare la lettera/relazione di Salomi che si può leggere in questo articolo.

[3] Piccola cala ubicata circa 650 metri a nord della “punta” posta sulla costa a nord dell’insenatura principale della città di Otranto, ossia dopo l’odierna Riviera degli Haethei.

[4] Con l’aiuto di manovalanza non particolarmente qualificata, vedere relazione di Salomi trascritta più oltre.

[5] Il lavoro durò complessivamente tredici giorni; Teresa Salomi riferisce di aver appreso direttamente da suo padre che in quella occasione qualcuno gli insegnò a fumare il sigaro toscano, il cui “odore” riusciva in qualche modo a coprire o almeno a mitigare gli effetti dei miasmi nauseabondi emanati dall’enorme carcassa in decomposizione.

[6] prot. n. 110 in data 31 maggio 1902, fig. 4

[7] Si vedano anche le figg. 5a, 5b, 5c, 5d e 5e che raffigurano particolari dello scheletro prima del suo assemblaggio.

[8] I pochissimi articoli finora pubblicati sul Salomi, ed anche quanto riferitomi dalla figlia Teresa, in realtà concordavano sul fatto che la lunghezza del capodoglio sarebbe stata di 22 metri; la cosa mi insospettì fin da subito per due ordini di motivi: per quanto a mia conoscenza 22 metri era una dimensione più che rispettabile persino per una balenottera (i capodogli, più piccoli, non credevo arrivassero a tale misura), ed inoltre dalla fig. 5, in cui è visibile anche il Salomi, si desume facilmente che la lunghezza doveva essere notevolmente inferiore; il prof. Barbuti mi ha scritto infatti, il 15 gennaio 2013, che “non è lungo 22 metri bensì 12,57 metri”, evidentemente così com’è ancora esposto a Pisa; nella lettera riprodotta nella fig. 6 si parla di una lunghezza di 15 metri; Salomi nella sua relazione (ved. oltre) parla di una lunghezza massima di 12 metri.

Una nuova classe feudale in Terra d’Otranto (I parte)

di Mirko Belfiore

Nel Vicereame di Napoli, dalla seconda metà del XVI secolo, si assistette allo sviluppo di uno dei più lunghi e proficui rapporti politico-economico che la storia europea ricordi, quello fra la Corona spagnola e la Repubblica di Genova.

Un gruppo di potere, rispondente alla potente oligarchia mercantile ligure, forte di una posizione privilegiata all’interno delle complesse dinamiche finanziarie iberiche, seppe sbaragliare concorrenze molto agguerrite come i banchieri toscani, portoghesi e tedeschi, inserendosi in un mercato vastissimo connesso ai domini dell’Impero spagnolo. Quest’ultimo oltre a concernere vasti territori inseriti nell’Europa occidentale (Spagna, Portogallo, Fiandre, territori tedeschi, Ducato di Milano, Vicereame di Napoli) comprendeva vasti domini siti nel Nuovo Mondo, nonché diversi punti commerciali disposti lungo le coste africane e asiatiche, entità sovranazionale passata alla storia come l’Impero dove non tramontava mai il sole.

mappa massima estensione Impero spagnolo (XVI secolo)

 

Nei primi decenni del XVI secolo, in questo complesso ed eterogeneo organismo, i genovesi si fecero spazio e divennero protagonisti, in prima battuta, tramite la fornitura di galee (navi da carico o da combattimento) e in seguito come i principali referenti di un fitto e redditizio sistema di accordi finanziari denominato asientos. Essi indicavano l’accordo stipulato fra un individuo privato o una compagnia commerciale e la Corona di Spagna, per cui la stessa concedeva nei territori soggetti al proprio governo, tramite il pagamento di diritti stabiliti, lo sfruttamento in situazione di monopolio di determinati settori commerciali.

Ritratto di Andrea Doria (Sebastiano del Piombo, 1526, olio su tavola, 153x107cm, Roma, Galleria Doria Pamphili)

 

Questo straordinario risultato fu agevolato dalla nuova linea politica che l’ammiraglio Andrea Doria, uomo forte della Superba nei primi decenni del Cinquecento, condusse nei confronti dell’alleato-padrone, l’Imperatore Carlo V d’Asburgo. Il patriziato locale riunito nel cosiddetto sistema di Alberghi, consorzio di famiglie nobili legate da vincoli di sangue o da comuni interessi commerciali, delineò un nuovo modello economico, spostando il baricentro finanziario del Vecchio Continente verso la piccola ma influente Genova, inaugurando quel periodo aureo conosciuto come il Sieglos de los Genoveses. Ricapitolando, dunque, la potenza e la ricchezza della Repubblica non fu il risultato di un’azione militare strategica su terra o su mare, ma costituì l’esito di un disegno politico-finanziario complesso di cui l’aristocrazia della Repubblica ne fu la protagonista indiscussa.

Ritratto di Carlo V d’Asburgo a cavallo (Tiziano Vecellio, 1548, olio su tela, 332×279 cm, Madrid, Museo del Prado)

 

Questa condizione favorevole permise ai genovesi di divenire, in pochi decenni, i principali partner finanziari degli imperatori Carlo V e Filippo II, i quali vista la cronica difficoltà nel reperire denaro liquido, dovettero richiedere ripetutamente enormi capitali, i quali venivano corrisposti in tempi brevi ma con tassi d’interesse dalle cifre esorbitanti.

Ritratto di Filippo II d’Asburgo (Tiziano Vecellio, 1550-1551, olio su tela, 193x111cm, Madrid, Museo del Prado)

 

Ma già alla fine del Cinquecento, a questa iniziale fase speculativa molto proficua, si sostituì una seconda, volta a contenere le continue e inesorabili interruzioni di pagamento dichiarate dal governo centrale di Madrid, sorte al manifestarsi in Europa di quei segni di una recessione economica che nei territori della Corona era figlia di un sistema coloniale basato solo sulla sistematica spoliazione delle risorse minerarie provenienti dal Nuovo Mondo e dall’immissione senza controllo di oro e argento.

Parte attiva in questa parabola discendente è sicuramente rappresentato dalla presenza di numerosi focolai di rivolta sparsi nei territori dell’Impero come la guerra contro le Sette Province Unite, i movimenti centrifughi sfociati nelle rivoluzioni del Portogallo, della Catalogna e del Regno di Napoli o la difesa delle rotte mediterranei dagli assalti turchi; tutte campagne militare dispendiose e particolarmente deleterie per le già fragili casse asburgiche. Il punto di svolta si ebbe quando alle ripetute insolvenze ad opera dell’imperatore Filippo II, intercorse durante gli anni 1575, 1596, 1607 e 1627, i banchieri liguri si convinsero a ideare strategie finanziarie alternative; se gli Asburgo non sarebbero stati in grado di far fronte ai debiti contratti, essi avrebbero pagato i numerosi debiti con terre demaniali, uffici, monopoli o donativi. I genovesi, quindi, focalizzarono le loro attenzioni in uno dei mercati fra i più prolifici del Sistema Imperiale Spagnolo, il Regno di Napoli, dove ci fu un vero e proprio radicamento sistematico e ramificato.

Immagine di Genova risalente al XVI secolo

 

Si passava dalle colture tessili e lanifere all’accaparramento di cariche pubbliche, dal commercio di grano e vino alle attività creditizie, per giungere all’ingresso nel debito pubblico di numerose Università mentre un numero considerevole di terre demaniali passò per le mani di famiglie nobiliari genovesi per un valore di quasi due milioni di ducati, comprendenti oltre un migliaio di centri abitati.

In questo contesto variopinto va inserita l’affinità che molte famiglie genovesi ebbero con l’atmosfera di omertà e di corruzione tipicamente meridionale, un elemento di costume e cultura alla quale questi nobili non rifuggirono e che, specificando le dovute eccezioni, fu una caratteristica peculiare di tutto il panorama genovese nel Vicereame.

La resa di Breda, episodio relativa alla guerra contro le Sette Province unite (Diego Velasquez, 1634-35, olio su tela, 307x367cm, Madrid, Museo del Prado)

 

Bibliografia essenziale

A. Musi, Mercanti Genovesi nel Regno di Napoli, Ed. Scientifiche Italiane, Coll. “L’identità di Clio”, Napoli 1996.

G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (XVI-XVII secolo), UTET, Torino 1994.

A Musi, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana allo stato moderno, Guida editori, Napoli 1991.

R. Villari, Storia moderna, Laterza, Bari 1987.

G. Doria, Conoscenza del mercato e del sistema informativo: il Know-how dei mercanti-finanzieri genovesi tra XV e XVII secolo, in “La Repubblica internazionale del Denaro tra XV e XVII secolo”, a cura di A. De Maddalena e H. Kellenbenz, Il Mulino, Bologna 1986.

R. Colapietra, I genovesi in Puglia nel ‘500 e 600’, in “Archivio Storico Pugliese”, Bari 1982 (XXXV).

E. Grendi, Andrea Doria, uomo del Rinascimento, in “Archivio Storico Ligure”, ns XIX, Firenze 1979.

F. Caracciolo, Il Regno di Napoli nei secoli XVI e XVII – Economia e società, Università degli Studi, Messina 1966.

G. Coniglio, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo V, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli 1951.

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (IV parte)

Faro di Punta Palascia, Capo D’Otranto, Lecce
(https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/)

 

di Cristina Manzo

Non è visibile dalla litoranea che da Otranto conduce a Porto Badisco, si trova in prossimità di una base militare. Si parcheggia l’auto in uno spiazzo sterrato e in dieci minuti, con una tranquilla camminata, ci si arriva lungo un sentiero che si fa strada in mezzo alla natura, tra rocce e vegetazione, avvolti dai profumi della macchia mediterranea e da un silenzio quasi surreale.

La vista è così suggestiva da togliere il fiato: il guardiano del mare si staglia sulla scogliera tra il blu del cielo e l’infinita distesa azzurra del mare. Non esistono parole sufficienti a spiegare la sensazione che si prova ammirando e respirando tutto questo incanto, sembra quasi di essere in capo al mondo. L’ho visitato in diversi periodi dell’anno e sempre, in ogni stagione, io sono rimasta incantata. L’ho visto al tramonto quando mi appostavo calandomi giù dalla scogliera per le nottate di pesca, l’ho visto al buio ammantato di stelle mentre la sua luce illuminava l’infinito, l’ho visto all’alba del mondo colorarsi di rosa, l’alba di tutte le albe che nasce dal mare, anzi dall’incontro di due mari, dove la sera il sole si rituffa scomparendo come una palla incandescente che sfrigola nell’acqua.

Per me resta sempre il faro dei fari, il più bello, il più speciale. Abbiamo condiviso i segreti di un grande amore custoditi per sempre tra il mio cuore e il suo silenzio. Una storia nata ai piedi di un altro faro, in verità, quello di San Cataldo, quindi sono stati ben due i guardiani del mare importanti, nella mia vita. San Cataldo, Capo d’Otranto, Porto Badisco, la Palascia, la stazione metereologica sono le parole chiave della mia giovinezza.

Negli anni novanta tantissimi giovani frequentavano quel luogo in estate, sulla piana della scogliera vi era anche un’area per i campeggiatori. Era un posto che ispirava libertà e magia. Dalla Palascia lo sguardo prendeva il volo, aprendo l’anima a un immaginario senza confini, disancorato dalle catene della vita.

La stazione meteorologica di Otranto-Punta Palascia è la stazione meteorologica di riferimento per il Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare e per l’Organizzazione Meteorologica Mondiale relativa alla località costiera di Punta Palascia presso Otranto. L’osservatorio, gestito dalla Regia Marina fino al termine della seconda guerra mondiale, è rimasto presidiato fino al 1978 presso il faro di Punta Palascia. In seguito, in conseguenza della dismissione dell’osservatorio meteorologico, è stata attivata nella medesima area di ubicazione una stazione meteorologica automatica di tipo DCP della rete del Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare[1].

Sembrerà difficile da credere ma il maggior afflusso di turisti il faro di Punta Palascìa lo registra la notte di San Silvestro. Il motivo? Ci troviamo a Capo d’Otranto, il punto più a Est della Penisola. Così la sua terrazza è il luogo d’Italia in cui, idealmente, salutare per primi il nuovo anno. D’estate, invece, il faro di Otranto è meta degli amanti delle escursioni, essendo posto alla fine di un sentiero circondato da natura e scogliere a picco sul mare. Ma è anche il punto d’accesso alla ‘Grotta dei Cervi’, insenatura naturale che custodisce testimonianze storiche del periodo neolitico. È uno dei due fari italiani – assieme a quello di Genova – tutelati dalla Commissione Europea, facente parte dei cinque fari del mar mediterraneo.[2].

Qui nasce e muore la romantica storia dell’ultimo guardiano del faro che abitò tra le sue mura prima di consegnare le chiavi alla Intendenza di finanza nel 1978 e, con la sua morte, se ne va anche un pezzo di storia del Salento. “È venuto a mancare all’età di 88 anni l’ultimo guardiano del faro di Punta Palascìa. Elio Vitiello era nato nel 1931, arrivò a Otranto nel 1956 dal faro del Molo di San Vincenzo a Napoli portando con sé la tradizione di famiglia, faristi sia il padre Agostino che il fratello Benedetto. A Otranto Elio trovò anche l’amore e si sposò e la sua luna di miele fu proprio al faro con la sua Rosina Greco, idruntina. Vent’anni di vita nel faro tra intemperie e giornate di sole, venti e isolamento. Era stato, così, l’ultimo guardiano del faro. Un mestiere da letteratura, a guardare il mare e scrutare l’orizzonte, un lavoro duro e solitario, per veri amanti dell’avventura, pronti a dare l’allarme se qualcuno era in difficoltà tra le onde”[3].

Elio si porta dietro un mondo magico che non esiste più, un mondo romantico ma duro, fatto per quelli che resistono alla solitudine, per quelli che riescono a isolarsi e a stare bene soli con il mare, occupandosi solo di un faro e della sua luce. Non sembra una storia vera, sembra la trama di un romanzo, ma non lo è. I due sposini vanno li, in quel luogo estremo. Venti anni di vita al faro, lui che non sospettava nemmeno, il primo giorno che entrò nel grande edificio dell’Ottocento, che sarebbe stato l’ultimo guardiano del faro. Nessuno più sarebbe rimasto le notti a scrutare il mare, a guardare anche il più minimo segnale per prestare soccorso.

Quando Elio cominciò il suo cammino di guardiano al faro della Palascia era un periodo difficile: ogni giorno, intorno a mezzogiorno, al limite delle acque territoriali, “a vista nei giorni di bel tempo” gli albanesi, per provocare, facevano le loro esercitazioni di tiro navale in mare”. Si sentivano le esplosioni, li, su quel faro tra la Cortina di ferro ed il mare. I suoi ricordi erano tanti: – « Pasqualino, il massaro della Masseria Caprara, ci portava il formaggio fresco e quasi sempre si fermava a pranzo, i pescatori di Otranto e Castro, i marinai della Metauro che rifornivano il faro di acqua, camminando sugli scogli in un equilibrio incredibile, sui sandali. E poi gli amici che, per tenerci compagnia, scendevano e si fermavano a condividere un pasto, prima del turno di servizio. E poi lui, il faro, quasi una creatura vivente, con i suoi tempi, i suoi bisogni: Funzionava a vapori di petrolio, una grossa lampada riscaldava il petrolio e questo evaporava bagnando la retina ed incendiandosi, né più né meno che come una grossa lampara. E poi il servizio, l’attenzione alla luce ed alla rotazione: aveva sette ore di autonomia ed era controllata da un orologio, ma ogni notte bisognava percorrere i 132 gradini che portano alla lampada e stare di vedetta, col mare in burrasca ed il vento che entrava da tutte le parti.

Solo nel 1966 arrivò l’elettrificazione» – . Dopo l’abbandono, la lente venne portata via da lì, il Faro di Palascia smise di ruotare. La lampada di Palascìa è a Messina, un’altra lampada, sempre dell’Ottocento è lì. Ma quella luce che girava lungo la costa era diversa. La vita al faro era condivisa con sei persone, loro due e la famiglia e del reggente Colaci. – «Aprivo le finestre ed i delfini saltavano sotto la riva, indimenticabile» – , raccontavano insieme, con gli occhi lucidi, lui e sua moglie Rosina. E poi, ancora, i ricordi di questo lavoro, duro e bellissimo, ma impossibile da fare senza passione. Il sistema di segnalazione lungo la costa idruntina comprendeva vari fari e fanali.

Il faro della Punta possedeva l’alloggio del fanalista (ancora oggi esistente, a pochi metri dallo stesso). Qui l’incaricato del servizio era costretto a controllarne il corretto funzionamento, ma non solo. Dalla sommità dello stesso faro, più volte ogni sera, doveva verificare se il fanale galleggiante posto presso la secca di Missipezze fosse acceso. Missipezze era un pericolo molto serio per la navigazione, almeno fino a che non entrò in funzione definitivamente il Faro di Sant’Andrea. Un mondo duro e semplice, affascinante e pericoloso, ma pieno anche di amore e romanticismo. Un ultimo saluto, dalla sua Palascìa, al vecchio guardiano che va via, questa volta per l’ultimo viaggio[4].

La bella notizia è che è partita proprio dal tacco d’Italia la riscossa dei fari, infatti quello di punta Palascia preso in carico dall’università del Salento e dal comune è diventato il primo faro-museo, sentinella della storia. In nessun’altra lanterna, prima, è stato realizzato un progetto simile e, così importante, e la torre ottocentesca che sorge in un vero paradiso naturale, può, ormai essere visitata da tutti, con la nascita di un osservatorio naturale su ecologia e salute degli ecosistemi mediterranei con una mostra sulle lagune e foci fluviali che si apre insieme alla seconda vita del faro. La nuova lanterna per la riaccensione è arrivata da La Spezia.

E così, sul sentiero ricavato tra gli scogli su cui, un tempo, il guardiano del faro passava con il suo asino per raggiungere il paese, ora arrivano studenti, turisti, studiosi dell’ecosistema marino che in questa zona sembra fatto di magia, con il vento che sibila da una parte, con i delfini e le alghe rare o i fiori selvatici che crescono profumando di salsedine dall’altra. Punta Palascìa è il luogo in cui il giorno comincia prima che nel resto dell’Italia: siamo sul lembo estremo più ad est dell’Italia (18°31’22” di longitudine) e il «nuovo corso» dei fari, che in Italia sono un po’ dimenticati, non poteva che cominciare qui. Il faro della Palascìa, costruito nel 1850 ha guidato non poche navigazioni in Adriatico. La sua storia è lunghissima. La casa a due piani sulla quale è poggiata la grande torre in carparo è stata da sempre la dimora dei faristi, due famiglie che hanno vissuto in questo eremo (collegato alla superstrada con una mulattiera) fino agli anni Sessanta. La figlia dell’ultimo guardiano del faro era una bambina quando ha lasciato questo luogo misterioso, e oggi guarda alle vecchie finestre con ammirazione. La ristrutturazione dell’edificio è stata lunga e non facile. Il luogo è bello ma certamente impervio. Grazie a fondi pubblici e ad accordi tra Comune di Otranto, Regione Puglia, Università di Lecce, Marina Militare, il faro torna alla gente. Gli ambientalisti, i cittadini hanno condotto lunghe battaglie per salvare questo angolo di Puglia: nel Capodanno del 2000 invece di festeggiare il nuovo Millennio in un ristorante, centinaia di persone furono a Palascìa a manifestare con le fiaccole contro la ventilata fine del faro. La vittoria è venuta quando il Comune di Otranto ha ottenuto in concessione il faro dall’Agenzia del Demanio, ricevendo i finanziamenti del Por 2000-2006 (600 milioni di vecchie lire) e poi i contributi di 100mila euro (programma Leader 2000-2006) oltre ai 300mila euro del «Pis 14»[5]. Quando di notte si guarda un faro, stando in mezzo al mare, non si distingue la torre bianca nell’oscurità, ma solo il fascio di luce che attraversa l’infinito, una cometa che ci guida verso il destino e la salvezza, un raggio sospeso nell’aria, lanciato da una sentinella messa lì solo per servire il prossimo. Un guardiano del mare e un guardiano del faro prigionieri del tempo e dello spazio con lo scopo di averla vinta sulla tempesta che impedì a Leandro di raggiungere Ero, senza quel fuoco che lo guidasse nel buio. Forse il primo caso di costruzioni realizzate dall’uomo per un così alto scopo altruistico. Le torri costiere sentinelle del mare. A me sarebbe piaciuto molto vivere in un faro, e a voi?

 

Note

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Capo_d%27Otranto

[2]https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/

[3] https://www.salentoflash.it/2020/06/05/palascia-addio-allultimo-guardiano-del-faro/

[4] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html di Elio Paiano

[5] https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/faro_della_palascia_otranto_guardiano_del_faro-5268695.html.

Per la prima parte:

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)

Per la seconda parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/10/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-ii-parte/

Per la terza parte:
https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/07/21/i-guardiani-del-mare-si-raccontano-e-i-piu-belli-sono-nel-salento-iii-parte/

 

Dialetti salentini: “mùsciu”

di Armando Polito

* Sarò contento quando finirai di perdere tempo in sciocchezze e andrai a comprarmi le crocchette, che sono quasi finite.

 

Correva l’anno 2000 ed il sottoscritto, ad un anno dalla pensione, non aveva perso l’atavico vizio di infarcire le sue lezioni, oltre che di riferimenti all’attualità,  con le etimologie, pure di voci salentine, così come i miei allievi quello di dirottare con scaltrezza le incombenti interrogazioni verso due percorsi certamente più attraenti , soprattutto l’attualità …, della grammatica più o  meno fine a se stessa, con quesiti posti da loro.

Siccome, poi, non ero (e tanto meno sono diventato) un Rohlfs, non sono mancati nella circostanza i casi in cui ho dovuto confessare la mia impotenza a dare una risposta scientificamente valida o a formulare ipotesi di una qualche attendibilità, chiedendo tempo per riflettere e/o documentarmi, rinviando la risposta al giorno dopo.

Così, in un giorno del bimillennio della nostra era, Luigi Scarlino1, mi chiese se mùsciu non fosse da interpretarsi come macchina per topi (testuali parole), con derivazione dal latino mus (genitivo muris), che significa, appunto, topo. e che è trascrizione del greco  μῦς (stesso significato).  L’ipotesi appariva suggestiva e semanticamente accettabile, ma restava da spiegare la parte terminale che, nel caso la proposta  di Luigi fosse stata valida, avrebbe dovuto avere un valore strumentale, che di solito nel dialetto salentino è affidato ad un suffisso aggettivale2. Inoltre dal punto di vista fonetico l’esito -sci-, che nel dialetto salentino è figlio di un originario –iz- (latino baptizo/italiano battezzo/salentino attìsciu o -ps- (latino capsa/italiano cassa/salentino càscia) o –str– (latino fenestra/italiano finestra/salentino finèscia) o -ste- (latino mùsteum/italiano moscio/salentino mòsciu), faceva supporre iniziali quanto incongruenti (nel senso che non solo non c’era corrispondente italiano ma nulla pure potevano dire dal punto di vista etimologico) *mùizu/*mussu/*mustru.

Nemmeno i derivati italiani di mus (lasciando volutamente da parte quelli, tutti dell’ambito scientifico e, in particolare medico, inizianti per mio-), aggiunsi,sarebbero potuti venire in soccorso. E, dopo aver ricordato che l’inglese mouse (nel significato originario dell’animale e in quello metaforicamente derivato dell’accessorio del pc) non era altro che il latino mus, citai l’unico che al momento mi venne in mente: muscolo, dal latino musculu(m), diminutivo di mus (alla lettera piccolo topo, per i movimenti guizzanti).

Prima di passare ad altro (ma poi il suono della campanella, tanto per cambiare, non me lo consentì …) più consono al programma ministeriale …, mi balenò micio e, sapendo che è voce infantile onomatopeica, ipotizzai che pure mùsciu lo fosse, quasi una sua variante fonetica.

All’epoca la scuola, pur avendo un’aula informatizzata, che noi puntualmente frequentavamo per la realizzazione di un cd (!) su Nardò, non era connessa ad internet e nemmeno io a casa, pur usando il pc, potevo fruire di quel formidabile strumento. Perciò quel giorno, rientrato da scuola, mi abbandonai ad un gesto rituale, cioè mi precipitai a capofitto sul dizionario del Rohlfs: ebbi  così  il conforto della conferma dell’origine onomatopeica, e, nel riferire l’esito alla classe il giorno dopo, un pizzico di modestia mi spinse a non pavoneggiarmi troppo …

La parentesi di mùsciu terminò con l’assicurazione da parte di Luigi, su mia esplicita domanda, che la sua ipotesi non era stata indotta da lettura alcuna, nemmeno occasionale. L’accertamento era necessario pèrché qualche settimana prima in combutta con un altro allievo, Antonio dell’Anna, aveva tentato di mettere alla prova le mie capacità filologiche esibendo un documento in latino, a suo dire antico, un frammento di foglio contenente quattro righe. Di antico, ma neppure tanto, quel foglietto aveva solo la carta, perché il testo era infarcito di tanti errori grammaticali (faccio presente che già nel  2000 la traduzione dall’italiano in latino non era più prevista, mentre oggi, lasciamo perdere…) che in un attimo compresi chi ne erano stati gli autori. Gradii lo scherzo, procedemmo, tra le risate via via scemanti, alla correzione del testo  e l’unico rammarico che espressi fu per il libro che, per mettermi alla prova, era stato mutilato …

Oggi, a distanza di venti anni, l’esperienza maturata nella ricerca delle fonti e l’aiuto della rete mi consentono di far rivivere provvisoriamente, prima dell’archiviazione definitiva, l’ipotesi di Luigi.

Intanto integro preliminarmente  la citazione  dei derivati italiani di mus con l’aggiunta a muscolo  di migale (o toporagno), dal latino tardo mygale(m), trascrizione del greco μυγαλῆ (leggi miugalè), composto da μῦς (leggi miùs)=topo+γαλέη (leggi galèe)=donnola . L’integrazione non comporta progressi o cambiamenti rispetto a quanto provvisoriamente a suo tempo  definito in classe.

Passo poi dal dizionario italiano al Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange, dove trovo registrato un MUSCULUS, il cui lemma riproduco in formato immagine con la mia traduzione a fronte.

A MUSCLUS 1.

A CATUS 2

Scopro poi che il MUSCULUS del tardo latino sopravvisse nell’italiano moscolo o muscolo, attestato nel Vocabolario della Crusca (seconda edizione, 1863; trascrivo il testo perché l’immagine non è molto chiara).

La parte finale delle definizione lascia sconcertati, tanto più che muscolo oggi è anche  il nome comune dei molluschi della famiglia dei Mitilidi, specialmente delle cozze. Ad ogni buon conto ecco come la macchina è rappresentata in una tavola a corredo del volume di Giusto Lipsio3 Poliorceticon sive De machinis, tormentis, telis libri quinque uscito per i tipi dell’Officina plantiniana, presso la vedova e Giovanni Moreto  ad Anversa nel 1596. Essa sintetizza graficamente quanto trattato subito prima nelle pp. 49-57. La figura A rappresenta il muscolo secondo la descrizione di Cesare (Musculus Caesaris=Il muscolo di Cesare), la B (Musculus vulgi, falsus=Il muscolo del volgo, falso) secondo quella, contestata dal Lipsio, di alcuni autori di meccanica o cose militari, ingannati dalla definizione che Isidoro di Siviglia (VI-VI secolo) aveva dato del muscolo4 , nella quale l’immagine del coniglio li aveva spinti ad immaginare che la macchina bellica avesse anteriormente un rostro acuto per perforare il muro e non scavarne le fondamenta. E il Lipsio conclude:  Credo in verità che è chiamato muscolo poiché a mo’ di quell’animaletto [il topo] scavavano sotto di esso la terra oppure perché i soldati, come topi, si accostavano sotto di esso cavo.

Mentre mi chiedo se la manovella che si vede all’opposto del rostro avesse la funzione di aggiungere alla percussione anche la rotazione,  se non fossi più che sicuro della sincerità di Luigi (e della quasi impossibilità all’epoca, del reperimento delle fonti in tempi che non fossero biblicamente lunghi), sospetterei (dopo 20 anni, bel risultato!) che proprio la figura B e la lettura di CATUS 2 gli abbiano  ispirato a suo tempo la metafora del gatto macchina contro i topi.

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1 Son riuscito a … beccarlo, con la speranza che si faccia vivo in  https://www.facebook.com/SeminarioMilano/photos/a.1158761847502454/3329254307119853/?type=3&theater 

2 Vedi , per esempio,  ‘mbruffarola in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/28/la-mbruffalora-linnaffiatoio/ e strattarola in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/

3 1547-1706, filosofo, umanista e filologo fiammingo.

4 Etymologiae, XVIII, 11, 4: Musculus cuniculo similis fit, quo murus perfoditur, ex quo et appellatus, quasi murusculus (Il muscolo è simile ad un coniglio , dal quale il muro viene scavato, dal quale pure è chiamato, quasi piccolo muro). Secondo Isidoro, dunque, musculus trarrebbe il nome da murusculus, diminutivo di murus. Va detto che murusculus è attestato solo in Isidoro, anche se la sua formazione ricalca quella di flosculus (da flos=fiore)=fiorellino e dello stesso musculus (da mus).

5 Poliorceticon, op. cit., p. 50.

Libri| Racale e il suo clero

 

Venerdì 7 agosto 2020, alle ore 20

spazio antistante la chiesa matrice di Racale

sarà presentato il volume di Mons. Giuliano Santantonio

Racale e il suo clero

Grenzi editore.

 

Relatore

Francesco De Luca, Professore Emerito di Archivistica dell’Università del Salento

Interverrà S. E. Mons. Fernando Filograna – Vescovo di Nardò – Gallipoli

 Allieterà la serata il Trio “Santa Cecilia” con: Antonella Alemanno, soprano; Alessandro Manzolelli, clarinetto; Francesco De Solda, pianoforte.

Dialetti salentini: “sine” e “none”

di Armando Polito

Nell’era del poco tempo riservato alla riflessione, qual è la nostra. probabilmente sono gli avverbi più usati. Troppo dispendioso di tempo ed energie mentali, infatti, risulta alla gente comune articolare una risposta non secca, positiva o negativa ad una domanda, come se tutta la verità o, se preferite, il mistero della vita fosse condensabile in un (in salentino sine) o in un no (in salentino none). Solo la politica ha conservato, invece, la vecchia abitudine di tergiversare girando attorno all’ostacolo per non tentare non dico di saltarlo, ma almeno di studiare il gesto tecnico da adottare, mentre chi ha posto la domanda non è in grado di farlo notare per mancanza di preparazione o, peggio ancora, per convenienza, se non preventivo accordo o ordini di scuderia …

E tra le scienze in cui l’opzione sì/no è tutt’altro che scontata, vi è la filologia e la sua branca dell’etimologia. Se immediato e pacifico è l’etimo di [dal latino sic (est)=così (è)] e di no (dal latino non (est)=non (è), quello di sine e none richiede qualche approfondimento.

A prima vista sine e none appaiono come forme rafforzate, rispettivamente, di e di no e –ne la loro particella deputata a questa funzione.  Da dove potrebbe derivare quel –ne? Il Rholfs1 non propone alcun etimo e si limita a definire sine come forma rafforzata che si usa in posizione isolata e none come forma enfatica.

Va detto pure che none appare usato nella lingua italiana a partire dal XIV secolo: fra gli altri,  Francesco di Cambio, L’Esopo di Udine e Simone da Cascina, Colloquio spirituale. Per il secolo successivo basti citare Leonardo da Vinci, Codice del volo degli uccelli, Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi. Va detto, però che none non è mai usato assolutamente, cioè da solo nelle risposte, come, invece, avviene, pure per sine, nel salentino.

Per sine e none dell’italiano antico l’opinione dei linguisti è che si tratti di un fenomeno di epitesi, cioè dell’aggiunta di qualche fonema (e e talora ne) alla fine di una parola tronca; in particolare.  per ne vengono citati come esempi sine, none e quine.

Io credo che, se per –e di faroe, ameroe, piue, etc. etc. è difficile rivendicare un valore etimologico di un solo fonema, non lo è invece, per sine e none, in cui i fonemi coinvolti sono due.

Escludendo che quel  –ne abbia un qualche rapporto col ne?, l’esclamazione interrogativa di carattere enfatico in uso specialmente in Piemonte e Lombardia2, esso potrebbe derivare dal latino nae, che significa certamente e che, a sua volta, è dal greco ναί  (leggi nai), con lo stesso significato.  Insomma, sine e none sarebbero, rispettivamente, da sic nae e non nae.  Col passare del tempo, poi, il nae, all’inizio distinto, si sarebbe fuso con il primo componente e, attraverso il passaggio intermedio si ne/no ne, avrebbe assunto  nella pronunzia le caratteristiche del suffisso. Perciò potrebbe non trattarsi di epitesi se quel –ne il valore etimologico che ho avanzato.

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1 Gherard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Corrisponde all’italiano nevvero? (abbreviazione di non è vero?) e porebbe essere abbreviazione di non è?.

Taranto ed Ebalo: un mito sempre vivo

di Armando Polito

Su Ebalo e derivati non mi pare il caso di ripetere quanto ho avuto occasione di scrivere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.

Rischierei, da parte di chi a suo tempo mi lesse, l’accusa di autoriciclaggio o, se preferite, di autocopia-incolla, oppure di avanzata arteriosclerosi …

A chi, invece, sente questo nome per la prima volta e non vuole precludersi la possibilità di comprendere più agevolmente quanto dirò, faccia una visita preliminare al link appena segnalato.

E allora? Qui integrerò aggiungendo i riferimenti testuali ad un autore lì citato con scarne notizie e presentando ex novo un altro più vicino a noi.

Tommaso Niccolò d’Aquino (1665-1721) nel 1706 entrò nell’Arcadiaed assunse lo pseudonimo di Ebalio Siruntino2. Fu sindaco di Taranto, subentrando al padre, nel 1705-1706. In vita non pubblicò nulla. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (1733-1775), che lo corredò di traduzione in endecasillabi del testo latino in esametri e di commento.

Ne riporto fedelmente i versi che ci interessano, con la mia traduzione perché quella del Carducci raramente coincide con l’estensione del verso originale:

LIBRO I

1 Oebaliae canimus silvas, bimarisque Tarenti (Cantiamo le selve di Ebalia e di Taranto dai due mari)

82 magna per Oebalios volant examina campos (grandi sciami volano per i campi ebalii)

137 explicat, Oebaliae qua surgunt moenibus arces (elargisce, per dove le rocche di Ebalia sorgono con le loro mura)

151 Oebalii exultant, et amabilis ora Phalanti (esultano gli Ebalii e l’amabile contrada di Falanto)

166 Oebaliam iuxta, nec longo dissita tractu (Presso Ebalia, né lontana per lungo tratto)

232 Oebalias parit, unda tamen sua munera nutrit ([il clima caldo] genera le ebalie [qualità], l’onda tuttavia nutre i suoi doni)

237 Perpetuus micat Oebaliae thesaurus aquarum (In Ebalia brilla il perpetuo tesoro delle acque)

244 Oebaliam propter felicibus ora fluentis (presso Ebalia una contrada dalle copiose acque)

298 Alluit Oebaliam longi molimine tractus (Bagna Ebalia un corso d’acqua dal lungo tratto con argine)

326 Oebaliam ingreditur, secum arcubus ipsa triumphans [l’acqua entra in Ebalia, trionfando essa stessa con getti arcuati)

335 civibus Oebaliis: agitant sub nocte choreas (per i cittadini ebalii: di notte intrecciano le danze)

372 appulit Oebalios fines spartana iuventus (la gioventù spartana

437 Oebalii plaudunt, tolluntque ad sidera nomen (Gli Ebalii applaudono ed elevano il nome alle stelle)

456 Instant adversi Oebalii, ferroque coruscant (Gli Ebalii oppongono resistenza e brillano nell’armatura)

493 nutriit Oebaliae divino nectare alumnos (nutrì gli allievi col divino nettare di Ebalia)

544 Oebalii: fors astra, novo seu Cinthia ([del mare] di Ebalo: per caso gli astri o la luna col nuovo)

LIBRO II

4 sit pecori: Oebalio quanta experientia nautae (ci sia per il gregge di Nereo; quanta esperienza per il marinaio ebalio)

35 Oebalius certo piscator tempore jactat (il pescatore Ebalio in tempo opportuno getta)

72 Oebalio illuxit quondam medicata veneno (trattata col veleno ebalio un tempo superò)

263 Oebaliae servant, riguo data munera coelo (custodiscono [le conchiglie] di Ebalia, doni concessi dal cielo ricco di piogge)

269 vir fuit Oebaliae quo non praestantior alter (ci fu un uomo di Ebalia del quale un altro non fu più forte)

459 Oebalio vel quae nascantur in aequore conchae (di Ebalia o le conchiglie che nascono in mare)

473 O decor Oebaliae, si quid mea carmina possunt (O decoro di Ebalia, se i miei canti possono qualcosa)

611 Oebaliam pacis regat inviolabile foedus (un inviolabile patto regga la pace ebalia)

LIBRO III

23 te vocat Oebaliae lucus, te nota Galaesi (te chiama il bosco di Ebalia, te le note del Galeso)

51 Oebalii, generose, soli tu numine vindex (tu, o generoso, vendicatore con la tua potenza del suolo ebalio)

82 quae Oebalios fines oris accedat Hyberis (che dalle coste iberiche approdi ai confini ebalii)

468 panditur Oebaliis, frondentibus undique ramis (si apre agli ebalii, mentre da ogni parte verdeggiano i rami)

LIBRO IV

12 Oebaliae assurgunt tibi prata nitentia gazis (sorgono per te i prati ebalii splendenti di ricchezze)

24 Oebalios per agros, Coelum ditavit amicum (per le campagne ebalie arricchì il clima favorevole)

35 laudibus Oebaliae certent. Rhodos aurea neve (potrebbero gareggiare con le lodi di Ebalia. né Rodi con l’aurea neve)

65 Italicus sic Oebalios ad sidera lucos (così Italicoquesti boschi alle stelle)

72 visitur Oebalium variabile floribus arvum (vien vista la campagna ebalia ricca di fiori)

111 Oebalias inter silvas celebrabitur Hymen (tra le selve ebalie sarà celebrato l’imeneo)

158 Oebaliae nunc silva, et nostri placet aura recessus (piace ora la selva di Ebalia e il clima del nostro erifugio)

168 jugiter Oebaliis spes prodiga nata secundo (subito la prodiga speranza nata agli ebalii col favorevole)

273 Oebalii vernare horti, vernare recessus (rinverdire i giardini ebalii, rinverdire i rifugi)

313 dulce solum Oebaliae, et foecunda fruge superbit (dolce il suolo d’Ebalia e sarà orgoglioso dell’abbondante messe)

359 caesa gravi, queis Oebaliae praecepta ministrans (intagliati nel duro i precetti con i quali insegnando  ad Ebalia)

393 Hannibal Oebalius tollit victricia signa (l’ebalio Annibale solleva le insegne vittoriose)

419 Oebaliam reperet, praeeritque potentibus armis (entrerà in Ebalia e dominerà con le potenti armi)

423 attulit Oebaliae, et victricia cornua miscens (

431 Oebaliae plaudent arces, collesque supini (applaudiranno le rocche di Ebalia e gli inclinati colli)

448 Hoc reget Oebaliam, gaudens sua sceptra, caputque (questo reggerà Ebalia godendo il suo scettro e la testa)

464 Hoc genus Oebaliae praeerit, vix Regis habenas (questa stirpe reggerà Ebalia, a stento le redini del re)

503 haesit et Oebalio nimium dilecta Phalanto (restò unita e troppo amata dall’ebalio Falanto)

507 gloria, et Oebalii cecidit laus pristina fastus (la gloria e cadde la primitiva lode del fato ebalio)

515 Haec super Oebaliis ludens ad barbita plectro (queste cose sugli ebalii dilettandomi col plettro alla cetra)

Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator, Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969 con traduzione in prosa dell’originale latino in esametri (uno incompleto, in gergo tecnico tibicen=puntello: il v. 18). Procedo come sopra:

106 curabo, Oebaliumque Galesum hic Arcades inter (mi prenderò cura, e qui tra gli Arcadi che l’ebalio Galeso)

116 muricis Oebalii Clamydes, haec munera tandem ([mantelli tinti col colore] della conchiglia ebalia, questi doni finalmente) 

Giuseppe Dell’Antoglietta, discendente di Francesco Maria3, nel 1846 ristampava presso l’editore Pansini a Bari con le sue aggiunte l’opera di Scipione Ammirato Della famiglia Dell’Antoglietta di Taranto,  uscita per i tipi di Marescotti a Firenze nel 1597, col nuovo titolo Storia della famiglia dell’Antoglietta scritta da Scipione Ammirato stampata in Firenze appresso Giorgio Marescotti nell’anno 1597 con licenza dei superiori arricchita ed ornata di varie altre antichissime notizie storiche.

Giuseppe pensò bene di chiudere la pubblicazione con un componimentoin onore dell’avo già pubblicato nel 1717 da Carlo Maria Lizzani detto l’Accademico Ritirato5. Ai vv. 83-84: la Signoria donò di Fragagnano/nell’Ebalia maremma6.

 

Alessandro Criscuolo7, Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887.

La voce di cui mi sto occupando non compare all’interno del volume, ma la sua presenza nel titolo al maschile ed al femminile è allusiva ai personaggi protagonisti delle undici storie raccontate ed al loro rapporto con Taranto. E sotto questo punto di vista spicca Lalla tarantata, che occupa le pp. 127-142.

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1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p.  367.

2 Per Siruntino vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/

3 Per quest’ultimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/

4 Il titolo è Composizione epiditticha d’un illustre Ingegno, ovvero dell’Accademico Ritirato riguardante l’istoria della famiglia Dell’Antoglietta dirizzata al quindicesimo Signore, e Marchese di Fragagnano D. Francesco Maria Dell’Antoglietta stampata in Napoli presso Domenico Roselli l’anno 1717 col dovuto permesso.

5 Soprannome che aveva nell’Accademia degli Infuriati di Napoli. Pubblicò Manipolo di primizie dell’ingegno, Tommasini, Venezia, 1714, dove è inserito in lode dell’Antoglietta un sonetto.

6 Nel significato etimologico (la voce è dal latino maritima) di zona marittima.

7 (1850-1938), principe del foro, brillante conferenziere e letterato tarantino. Riporto le principali pubblicazionibed alcuni frontespizi:

Intorno a due artisti tarantini, S. Latronico & figlio, Taranto, 1874

Discorso intorno alla vita di Cataldo Sebastio, Tipografia Paisiello di S. Parodi, Taranto, 1880

Efesina: ricordi della Magna Grecia, Latronico, Taranto, 1881

Discorso letto il dì 5 giugno 1881 premiandosi gli alunni del Comune, Latronico, Taranto, 1881

Per Giuseppe Garibaldi celebrandosi la civile commemorazione dalle tre società: Operaia, de’ Muratori e de’ Figli del mare, In Taranto, il dì 11 giugno 1882, Latronico, Taranto, 1882

Difesa di Giuseppe e Vito Modesto Greco, Francesco Buttai e Domenico Scudieri accusati di grassazione, Latronico, Taranto, 1883

Discorso letto nel giorno della festa nazionale 7 giugno 1885 : premiandosi gli alunni del Liceo, delle scuole Tecniche ed Elementari del Comune di Taranto, Vecchi, Giovinazzo, 1885

Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887

Ricordi di Nicola Mignona, Latronico, Taranto, 1888

Per Camillo Callari (appellato) contro G. N. De Crisci: valore di contro-dichiarazione fatta per privata scrittura contro il terzo, Latronico, Taranto, 1888

Nei testamenti la condizione di farsi prete deve aversi per non apposta? (Art. 849, C. C.) : causa Ricci contro Ricci, Latronico, Taranto, 1891

Della corruzione di persona minore dei sedici anni mediante atti di libidine che infettino malattia venerea : interpretazione degli articoli 335, 336, 351 Codice Penale, Tipografia del Commercio, Taranto, 1892

Alligazione per il sig. Augusto Pegazzano tenente di vascello querelato per rapimento, Tipografia del Commercio, Taranto, 1895

Cronaca giudiziaria tarantina, Latronico, Taranto, 1895

Bugie e pregiudizi, Mazzolino, Taranto, 1896

Il giorno augurale del nuovo Palazzo degli Uffizi in Taranto 28 giugno 1896, Martucci, Taranto, 1896

Taranto ai suoi illustri cittadini D. Acclavio e G. De Cesare, Vecchi, Trani, 1907

Giureconsulti politici e libertà italiche, Spagnolo & Guernieri, Taranto, 1910

Le Alpi: orazione pronunziata in Taranto al Teatro Orfeo il 2 marzo 1916, Società tipografica Leonardo Da Vinci, Città di Castello, 1916

Discorso del gr. uff. avv. Alessandro Criscuolo nel Foro tarantino per Luigi Perrone, L’ora nuova, Taranto, 1924

Per l’inaugurazione della biblioteca Ugo Granafei, Società tipografica Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1926

Medaglioni tarantini della storia e della leggenda, Pappacena, Taranto, 1926 (a p. 20 è trascritta la lapide in onore di Tommaso Niccolò d’Aquino collocata dal Comune di Taranto nell’aprile 1921 nella via a lui dedicata)

Discorso ai giovani, Il popolo ionico, 1927

I funerali di G. B. Vico in L’almanacco dell’avvocato 1934, La Toga, Napoli, 1934

Epigrafi, Lodeserto, Taranto, 1921 e Pappacena,Taranto, 1937

Nella ricorrenza del suo giubileo professionale : discorso pronunziato nel Palazzo di Giustizia di Taranto il 3 maggio 1925, Biblioteca dell’ Eloquenza, Roma, 1938

Maglie, un’epigrafe del 1769 dal contenuto millenario ma con l’aggiunta moderna di un errore

di Armando Polito

La seconda foto foto è di Vincenzo D’Aurelio, che qui pubblicamente ringrazio per avermi consentito di utilizzarla per scrivere questo post. L’ho trovata sul suo profilo facebook al link

https://www.facebook.com/photo?fbid=10216317774609541&set=a.1481069759265 e, come tutte le iscrizioni datate, essa ha subito suscitato il mio interesse. Riproduco il dettaglio che ci interessa, opportunamente ingrandito compatibilmente con una definizione che non ne comprometta la lettura.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

L’epigrafe, collocata in via Ospedale1, è datata 1769 ma il suo studio comporta un tuffo nel passato e l’incontro con Teognide, un poeta greco vissuto fra il VI e il V secolo a. C., che in Elegie, I, 24-26 così scrive:

Ἀστοῖσιν δ’ οὔπω πᾶσιν ἁδεῖν δύναμαι·/οὐδὲν θαυμαστόν, Πολυπαΐδη· οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων.

Traduzione: Non posso piacere a tutti i cittadini: nulla di strano, figlio di Polipao, neppure Zeus piace a tutti né quando fa piovere, né quando tiene lontana la pioggia.

Dal tempo di Teognide ci spostiamo ora a quello di Erasmo da Rotterdam (1467-1536) e precisamente all’anno 1508, quando Aldo Manuzio pubblicò a Venezia Adagiorum chiliades2 (di seguito il frontespizio ed il colophon) di colui che forse è più noto come autore dell’Elogio della follia (titolo originale Moriae3 encomium).

Riproduco da p. 157 il brano che ci riguarda.

Trascrivo e poi traduco per poter agevolare la comprensione del commento.

Ne Iupiter quidem omnibus placet.

Theognis in sententiis, Οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων. Neque Iuppiter ipse sive pluat seu non unicuique placet. Hodieque vulgo dicunt. Neminem inveniri, qui satisfaciat omnibus. Nam aliis alia probantur. Et tres mihi convivae prope dissentire videntur poscentes vario multum diversa palato. Cui simile est illud evangelicum, quod in operis initio retulimus, cum de paroemiae dignitate loqueremur:  Ὑλήσαμεν ὑμῖν, καὶ οὐκ ὠρχήσασθε, ἐθρηνήσαμεν, καὶ οὐκ ἐκλαύσατε.

 

Traduzione: Neppure Giove piace a tutti

Teognide nelle sentenze: Infatti neppure Giove piace a tutti, sia che piova, sia che non. E oggi popolarmente si dice che non si trova nessuno che soddisfi tutti. Infatti uno approva una cosa, un altro un’altra. E a me sembrano non andare d’accordo tre commensali che chiedono cibi molto diversi per il differente gusto. E mi sembra simile a questo quel detto evangelico che ho riportato all’inizio dell’opera, parlando della dignità del proverbio: Cantammo per voi e non danzaste,  ci lamentammo e non piangeste.

Appare evidente la derivazione della nostra epigrafe dalla traduzione che Erasmo a suo tempo fece del proverbio estratto da Teognide, con l’unica differenza dell’assenza in quella del QUIDEM presente in questa.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

NE IUPITER QUIDEM OMNIBUS PLACET

Tale assenza non è irrilevante, perché pone una serie di problemi, grammaticali e non.

L’avverbio nemmeno in latino si esprime con nequidem in tmesi, cioè tagliato  nei suoi componenti [nec=e non e quidem=certamente], per cui, ad esempio, nemmeno un uomo in latino è ne homo quidem, vale a dire tra le due componenti risulta sempre inserito un altro termine; infatti correttamente in Erasmo Jupiter funge, per così dire, da inserto.

Nella nostra iscrizione, mancando quidem, che non può essere sottinteso, il ne dev’essere considerato a sè stante. E allora? Intanto in latino di ne ce ne sono diversi: un ne congiunzione con valore finale (=affinché) o dopo verbi che indicano preghiera, rifiuto, timore, condizione negativa, sempre col congiuntivo (nella nostra iscrizione placet è indicativo). Oltre al ne congiunzione, poi, esiste anche un ne con valore di avverbio col significato di davvero ma anche di forse, in entrambi i casi senza alcun rapporto con il precedente e nel secondo solo come enclitica (aggiunta in coda al verbo nelle proposizioni interrogative in cui la risposta è incerta). Nel primo, in cui il significato negativo non compare neppure parzialmente, è ipotizzabile che sia trascrizione del greco ναί (leggi nai)=certamente; nel secondo di μή (leggi me)=forse.                                                                                                                              Visto, come sì è detto, che placet è indicativo, il ne dell’iscrizione può avere solo valore avverbiale e, quindi, la traduzione sarà CERTAMENTE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769 (da escludersi, per quanto s’è detto prima a proposito del ne enclitico nelle interrogative, FORSE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769. In un caso o nell’altro essa sarebbe, comunque, semanticamente diversa (totalmente la prima, parzialmente la seconda) rispetto a quella di Erasmo. Quando le epigrafi anche moderne, seppur datate, come la nostra, sono delle citazioni, non ci sono molte varianti rispetto al testo originale e, se rimaneggiamento c’è, non è tale da cambiarne o solo renderne equivoco il significato.

Quando poi, come nel nostro caso compare quello che è a tutti gli effetti un errore di grammatica, si può ipotizzare che esso sia da imputare al committente (evento presumibilmente raro in una persona che, appartenendo certamente ad un censo elevato, non avrebbe avuto alcuna difficoltà, ammesso che non conoscesse il latino, a ricorrere all’aiuto di qualcuno competente) o allo scalpellino.

Eppure sarebbe bastato aggiungere a NE una C (le dimensioni dello spazio disponibile avrebbero giustificato l’omissione di QUIDEM ma quel fonema in più sarebbe potuto entrato comodamente4)  e con NEC JUPITER OMNIBUS PLACET (Né Giove piace e a tutti) il significato prima teognideo e poi erasmiano sarebbe stato salvo.

Tuttavia, a parziale discolpa della nostra epigrafe, c’è da dire che quell’omissione assassina di QUIDEM non reca la sua paternità, stando a quanto leggo in L’Esposizione di Parigi illustrata, Sonzogno, Milano, 1878, v. I, p.  22: L’Olanda ha voluto che l’architettura della facciata della sua sezione ritraesse il carattere del suo popolo, che predilige la bellezza solida e seria. Ai Paesi Bassi toccò la sorte di aprire la sfilata imponente e grandiosa delle architetture di tutti i popoli della terra, e l’aperse colla facciata d’un piccolo monumento del Secolo XVI, dove il mattone e la pietra, ammirabilmente uniti, danno l’uno all’altro lustro e splendore. in questa costruzione sono stati impiegati più di 120 mila mattoni d’una piccolissima forma e le fasce che formano si alternano colle pietre bianche scolpite, offrendoci un aspetto veramente gradevole. E una vera casa: la casa di uno di quei ricchi ed eruditi borghesi d’Olanda che vivevano due o tre secoli fa, i quali amavano la simmetria, l’ordine, la squisita pulitezza soprattutto nelle abitazioni. Ha il tetto acuminato, nascosto in parte dal corpo mediano dell’edificio che va decorato di statue e di ornati. Presso alla casa sorge una torricella graziosa, dal cui culmine si spicca l’asta, sulla quale s’arrampica il leone, stemma del paese. E lo stemma si scorge pure sulla parte più elevata della facciata, al disopra del motto: Ne Jupiter omnibus placet.

Ho definito quasi incolpevole la magra figura perché il motto senza quidem lo esibisce, come si legge, un manufatto del XVI secolo, a dimostrazione che Erasmo veniva già allora citato piuttosto disinvoltamente. Chi, poi, ha in antipatia gli Olandesì dirà che gli organizzatori avrebbero fatto meglio a scegliere e ad esporre un altro manufatto …

Anche le opera a stampa non scherzarono di lì a poco: Georg Engelhard von Loeneiss, Aulico-politica, darin gehandelt wird 1, Remlingen,, 1622, p. 101:

Georg Engelhard von Loeneiss (1552-1622) fu uno scrittore ed editore tedesco (l’immagine che segue è un’incisione custodita nella Biblioteca Universitaria di Heidelberg).

Le sue pubblicazioni si distinguono per la ricchezza delle incisioni, ma la sua opera più famosa  Bericht vom Bergwerk (Rapporto dalla miniera) del 1617 appare come un clamoroso plagio (un copia-incolla ante litteram da Lazzaro Ercker e da Giorgio Agricola), pur avendo ricoperto l’incarico di amministratore della miniera e della ferriera di Oberharzer. Con queste credenziali è tutt’altro che inverosimile (anche per un tedesco, ma come lui …) che abbia citato Erasmo a memoria mangiandosi il QUIDEM. Succede, purtroppo, che l’autorevolezza reale o presunta, quando non viene sottoposta a controllo, propizia il perpetuarsi dell’errore, come mostrano i dettagli tratti da pubblicazioni successive e di altri autori.

Jacob Dentzler, Clavis linguae Latinae, König, Basilea, 1709, p. 957:

 

Friedrich Wilhelm Breuninger, Johann Christian Neu , Fons Danubii, A spese degli autori, Tübingen, 1719, p. 2:

 

Joachim Ernst von Beust, Consiliarius in compendio, Mevio, Jahr, 1743, p. 196:

Georg Engelhard von Loeneiss, Hof-Staats und Regier-Kunst, s. n., Francoforte sul Meno, 1679:

La citazione risulta, invece, correttamente incisa in questo bicchiere della prima metà del XVIII secolo come motto (ingrandito nel dettaglio) della famiglia Van Hogendorp, il cui blasone è rappresentato nella parte superiore.

 

___________

1 Aiutandomi con Google Maps credevo di aver individuato come numero civico il 45 e tale data avevo riportato nel testo. Successivamente, grazie al commento di Andrea Cagnazzo, il 41 ha preso il posto del 45 e, ispirato dal commento di Francesco D’Agostino, ho aggiunto in testa una foto d’insieme. Infine, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di aggiungere altri documenti emersi nelle ultime ore.

2 Alla lettera: Migliaia di proverbi. Già nel 1500 Jean Philippe a Parigi aveva pubblicato di Erasmo una silloge di proverbi latini col titolo di Adagiorum collectanea (Raccolta di proverbi) ma nell’opera del 1508 risultano inserite parecchie citazioni greche, con la sua traduzione in latino, fra cui quella che qui ci interessa.

3 Non attestato in latino, è creazione erasmiana, trascrizione del greco μωρία (leggi morìa).

4 A tal proposito JUPITER (variante del più ricorrente jUPPITER) da un lato obbedisce a questa esigenza di gestione dello spazio e dall’altro a quella di mantenersi fedele al modello erasmiano.

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (III parte)

di Cristina Manzo

Faro di punta San Cataldo, Lecce (1)

 

Questo antico faro che domina la frazione marittima di San Cataldo, dista circa dieci chilometri dalla città di Lecce ed è situato nell’insenatura che ospita i resti di un antico molo edificato intorno al II secolo d.C. dall’imperatore Adriano, al tempo in cui la città di Lecce era una colonia romana, denominata “Lupiae”. Originariamente, infatti, questo punto di approdo era chiamato Porto Adriano in nome dell’imperatore che ne aveva ordinato la ricostruzione. Qui sbarcò Ottaviano dopo aver appreso la notizia della morte di Cesare. Il suo nome attuale, secondo la leggenda, deriva da un monaco irlandese che, tornando da Gerusalemme, naufragò in quest’area e si salvò miracolosamente. Da allora il porto prese la sua attuale denominazione, diventando Porto San Cataldo di Lecce.

“ Il faro è costituito da una torre di forma ottagonale alta poco più di 23 metri a da una struttura in muratura, che in origine era destinata ad alloggio dei fanalisti e magazzino. La costruzione di un faro a San Cataldo fu proposta nel 1863 dal Consiglio Provinciale di terra d’Otranto al Ministero dei Lavori Pubblici. Il primo progetto fu presentato nel 1865; intanto, in attesa della costruzione del faro, fu installato un fanale provvisorio sopra un fabbricato comunale. L’approdo conobbe il suo periodo di maggiore attività nel XVI secolo grazie agli scambi commerciali tra Lecce e la Repubblica di Venezia. Dai Ragguagli sui viaggi di Ferdinando IV di Borbone a Lecce nel 1797 si legge che il re, salito sul campanile del Duomo, vide il porto di San Cataldo, promise di ripararlo e di aprire una strada in linea retta da Lecce in detto luogo… . « concludiamo degnamente questa strada » – !”[1]

Caduta in disuso, Salapia (nome latino di San Cataldo) si trasformò in palude, la cui bonifica avvenne solo in epoca fascista da parte dell’Opera Nazionale Combattenti. Del tram che collegava la vicina città di Lecce non rimangono che alcune fotografie in bianco e nero. Oggi l’antico porto romano è stato completamente abbandonato e il mare lentamente lo sta distruggendo. Del suo splendore restano solo i resti insabbiati e recentemente riportati alla luce dagli scavi archeologici. Qualche muro affiorante dall’acqua testimonia anche il maldestro tentativo dei primi del ‘900 di riportare il porto all’antico splendore, prolungando il molo. I lavori produssero un insabbiamento del porto e subito si dovette desistere dal tentativo, abbattendo parte del nuovo manufatto.

San Cataldo è immersa nel verde di una lussureggiante pineta. La località è circondata da importanti risorse naturali. A nord, oltre la darsena vi è una vasta zona paludosa caratterizzata da un bacino artificiale di bonifica e da depressioni che subiscono l’entrata di acque meteoriche e marine che si estendono fino a Torre Veneri. A sud, vi è invece l’area delle Cesine che costituisce il sistema di lagune e paludi più vasto del Salento. In direzione del capoluogo, vi è il Bosco Fiore, uno dei rimasugli della grande “foresta di Lecce” che un tempo caratterizzava il Salento da Brindisi a Otranto[2].

 

Il faro di Santa Maria di Leuca, Castrignano del Capo, Lecce[3]

Alto 47 metri rispetto al livello del suolo e 102 sul livello del mare, il faro di Santa Maria di Leuca, frazione del Comune di Castrignano del Capo (Lecce), offre una visuale emozionante a chi accede alla sua sommità, raggiungibile attraverso una scala a chiocciola di 254 gradini: lo dimostrano gli scatti di Roberto Rocca, che catturano le prospettive offerte da questa visuale unica e suggestiva. Nelle immagini si ammirano la basilica di Santa Maria de finibus terrae e la Marina di Leuca. Un emozionante viaggio fotografico compreso tra punta Mèliso a est, per convenzione nautica il punto di divisione tra mar Adriatico e mar Ionio, e punta Ristola, estremo lembo meridionale del Salento, a ovest (Luca Guerra)[4]

Vista dall’alto del faro di Santa Maria di Leuca[5]

 

Secondo la convenzione nautica, proprio ai piedi del promontorio, si trova il punto di incontro tra i due mari, l’Adriatico e lo Ionio. I raggi del faro superano le trenta miglia. La struttura, massiccia e imponente, situata a pochi passi dalla Basilica Santa Maria De Finibus Terrae, sovrasta la cittadina offrendo la possibilità di ammirare un panorama sempre più apprezzato per la sua unicità. Di giorno, quando il cielo è terso e l’aria è limpida è possibile sfiorare, con lo sguardo, le coste greche e i monti Acrocerauni situati al confine tra Albania e Grecia. Fu progettato dall’ingegnere Achille Rossi, i lavori durarono tre anni e si conclusero l’11 agosto 1866 per poi essere azionato il 6 settembre sotto la guida di tre faristi.

La struttura, bianchissima e di forma ottagonale, sostituì la vecchia Torre anti corsara fatta costruire da Federico II. All’interno del Faro i 254 gradini che compongono la scalinata, attraversandone il “corpo” giungono alla Gabbia dell’apparato di protezione; da qui si apre una vista sconfinata. Nel corso degli anni, il guardiano del mare ha subito numerosi interventi di manutenzione, nel 1937 il vecchio sistema di alimentazione a petrolio ha lasciato il passo al più moderno impianto elettrico; lanterna e apparato rotatorio sono stati sostituiti per garantirne sicurezza ed efficienza. La lanterna emette fasci di luce ogni 15 secondi ed è dotata di 16 lenti di cui 10 oscurate; queste permettono la giusta alternanza di segnali luminosi, bianchi e rossi, al fine di dare ai naviganti le corrette informazioni per viaggiare in sicurezza. Nell’occasione dei 150 anni dalla sua costruzione, (nell’estate del 2016), per ricordare l’importante ricorrenza, ogni martedì del mese di agosto è stato possibile visitare il Faro grazie alla gentile concessione del Comando Zona Fari dello Ionio e del basso Adriatico di Taranto e per la cortese disponibilità del farista Antonio Maggio. Numerose sono state le richieste giunte da tutta Italia per ammirare questo piccolo scorcio di Mediterraneo da una prospettiva differente[6].

«I pescatori del tratto di mare tra la Torre del Serpe e la Palascìa raccontano che in certe giornate, quando le nuvole in cielo sono gonfie di pioggia e il sole le illumina come fossero vele, sulla superficie dell’acqua si può scorgere un brillio: i riflessi dorati di qualcosa di simile a una tromba»

(Roberto Cotroneo, E nemmeno un rimpianto, Mondadori, 2011)

 

Note

[1] https://www.viaggiareinpuglia.it/at/4/castellotorre/5545/it/Faro-di-San-Cataldo-Lecce-(Lecce)

[2] i https://it.wikipedia.org/wiki/San_Cataldo_(Lecce).

[3]https://bari.repubblica.it/cronaca/2017/04/27/foto/salento_la_magia_di_santa_maria_di_leuca_vista_dal_faro-164042161/1/#1

[4] https://bari.repubblica.it/cronaca/2017/04/27/foto/salento_la_magia_di_santa_maria_di_leuca_vista_dal_faro-164042161/1/#1Idem

[5] Idem

[6] https://www.ilgallo.it/attualita/il-faro-di-leuca-una-guida-da-150-anni/

 

 

Per la prima parte:

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)

Per la seconda parte:

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (II parte)

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (terza parte)

Del melanismo del Geco comune (o, in alcuni casi, del suo mimetismo al contrario)

di Sandro D’Alessandro

La possibilità di cambiare colore si accorda bene con le caratteristiche del Geco, che è un animale relativamente lento, corpulento a maturità ed inadatto a mantenere a lungo un incedere di una certa velocità.

La sua andatura a scatti lo rende un animale facilmente predabile da tutta una serie di organismi, per cui esso si avvantaggia non poco di una capacità come  quella  del mimetismo;  il discorso  è ovviamente  analogo  se lo  si  riferisce  all’esigenza  che  il  Geco  ha  di  non  essere  scorto  dalle  sue potenziali prede. Per contro, in modo diametralmente opposto, il Geco “non teme” di apparire ben evidente, scurendo la sua colorazione nel corso dei suoi bagni di sole che lo rendono estremamente visibile.

In ciò si potrebbe forse ravvisare un mimetismo che lo affianca ad animali velenosi, come avviene ad es, per i falsi serpenti corallo, che, imitando la colorazione del temibile “cugino”; possono godere di una relativa tranquillità da parte dei predatori. Così, mentre animali inermi hanno tutti i vantaggi nel passare inosservati, altri animali in possesso di ben altre potenzialità offensive evidenziano anzi la loro presenza con una livrea più appariscente; una terza categoria di animali, pur non essendo dotata di mezzi offensivi, assomiglia a tali animali “pericolosi”. Allo stesso modo, il Geco melanico assume la somiglianza con un Anfibio, la Salamandra, che alcuni predatori evitano di predare in quanto provvista di tossine nella sua cute.

Come ben documentato nelle foto che fanno parte integrante del paragrafo che segue, il Geco ha quindi la possibilità di adattare il proprio colore a quello dell’ambiente in cui esso si trova. E, cosa ancora più notevole, esso lo fa in maniera pressoché immediata, adattandosi all’istante al colore del substrato sul quale è l’animaletto.
A ben considerare, esistono tutti i presupposti perché un animale come il Geco sia, fra tanti animali terrestri, uno di quelli in grado di trarre maggior vantaggio da una caratteristica del genere.

Questo corpulento Geco comune al sole sul muro di una casa colonica diroccata ha assunto le tonalità del muro, riproponendo sul suo corpo, in chiazze, addirittura le sfumature e gli accostamenti di colore dei Licheni presenti (foto: S. D’Alessandro)

 

Il cambiamento di colore e quella strana funzionalità delle zampette dei Gechi (tutti)

Innanzitutto, è, insieme agli altri Gekkonidae, l’unico Vertebrato terrestre in grado di salire su superfici pressoché lisce. E mentre sale, su un muro o su un albero, il Geco è allo scoperto, pertanto è facilmente individuabile.
La possibilità di assumere una colorazione che lo renda poco appariscente o del tutto invisibile nel contesto ambientale in cui esso si trova ha pertanto un’importanza molto rilevante.
Esistono, è vero, altri Rettili che salgono sugli alberi, come ad es. alcuni Serpenti in misura maggiore o minore arboricoli, ma questi, oltre ad avere delle potenzialità offensive che il Geco non ha, hanno movimenti più fluidi, mentre il Geco, con i suoi movimenti a scatto, risulta ben più facilmente scorgibile. Poi, spesso, il Geco si ferma. Evitare di essere individuato è quindi per lui di fondamentale importanza.

Un Geco comune appeso sulla superficie di una ondulina, ahimè di eternit, all’interno di un vecchio cascinale: i suoi toni ed anche gli “stacchi” nella sua colorazione appaiono incredibilmente concordi, quasi delle prosecuzioni, con quelle che sono le caratteristiche cromatiche dell’ambiente (foto: S. D’Alessandro)

 

La duplice funzione di predatore e preda: dai rifugi oscuri ai muri privi di riparo

Ancora, il Geco compartecipa della già ricordata duplice natura di animale “da tana” e di animale che vive allo scoperto, per quanto le sue attività si esplichino ben maggiormente allo scoperto: la tana assolve alle sue esigenze di protezione nei confronti di predatori o di riparo nei confronti degli estremi termici legati ad una eccessiva insolazione. Essendo spesso allo scoperto, e pertanto facilmente visibile, diventa pertanto ben opportuno per il nostro Geco potersi celare alla vista degli altri organismi ad esso correlati ecologicamente in qualche maniera (prede, competitori, predatori…).

Un giovane Geco comune, dalle dimensioni ben inferiori di quello riportato in fig. 12, sorpreso di sera dalla luce del flash su un muro nello stesso atteggiamento del primo (foto: S. D’Alessandro)

 

Rispetto al “Cyrtodactylus”, altro Gekkonide “trasformista” a livello di colorazione, il Geco comune è un animale più tendenzialmente notturno, e nelle ore di piena insolazione tende spesso a rifugiarsi in zone al coperto o all’ombra; a differenza del primo, che è in grado di raggiungere buone velocità e di mantenerle per un certo periodo, esso è inoltre più goffo nei movimenti, con fughe si risolvono in scatti destinati a raggiungere mete poco lontane.
Allo stesso modo, la scarsa illuminazione del suo tipico periodo giornaliero di attività – che si protrae ad una fase crepuscolare o schiettamente notturna – fa sì che esso non abbia la necessità, come invece avviene in modo diametralmente opposto per il “Cyrtodactylus”, di inseguire le prede, né debba avere uno scatto  bruciante:  gli  è  sufficiente  nascondersi,  modificando  l’aspetto  del  suo  corpo  e  la  sua colorazione[1].
Alla luce di queste diverse caratteristiche, va da sè che il metodo di caccia che meglio si adatta al Geco comune è la caccia “all’agguato”, tecnica predatoria in cui l’animaletto risulta sicuramente avvantaggiato dalla possibilità di sfruttare in qualche modo il fattore sorpresa.
E la possibilità di cambiare colore, conformandosi all’ambiente circostante, è di certo un elemento che va a favore dell’animale.
Non vanno trascurate, nelle considerazioni relative alla “coerenza” di una fisiologia come quella qui descritta per il Geco comune, le correlazioni con le sue dimensioni relative: il Geco è molto più grande  degli  Insetti,  il  che  mal  si  adeguerebbe  con  un  effetto  “sorpresa”,  ma  la  sua  superficie bitorzoluta contribuisce forse a determinarne, di concerto con le proprietà mimetiche dell’animale, la scomposizione dell’immagine, che viene percepita probabilmente dagli ocelli[1] dell’entomofauna come una “montagna” inanimata e immobile.

Un massiccio Geco immobile al sole sullo scalino di una vecchia casa colonica; benché l’immagine sia bene a fuoco, appare difficoltoso distinguere il profilo del suo dorso dallo sfondo a causa dell’evidente analogia dei colori (foto S. D’Alessandro)

 

Si potrebbe ipotizzare che la superficie corporea del Geco – superficie che, come le foto documentano, si caratterizza per molteplici protuberanze variamente colorate – possa sortire una specie di “effetto confusione” nell’Insetto che il Rettile si appresta a predare. Il fatto poi che tali protuberanze possano essere variamente colorate potrebbe indurre un maggior disordine nella percezione visiva dell’Insetto stesso.
La possibilità di mimetizzarsi da parte del Geco Comune è pertanto conforme con la loro possibilità di salire su superfici verticali prive di ripari e la cui “frequentazione” richieda quindi una qualche protezione per le più piccole creature che lo percorrono abitualmente. Si tratta di ambienti che, ancorché privi di “nascondigli” che non siano le varie colorazioni dovute a Muschi e Licheni, configurano come estremamente vantaggiose le possibilità da parte alcuni organismi ivi presenti di sfruttare tali formazioni vegetali come “riparo”. E l’unica di tali possibilità è quella di potersi mimetizzare con esso, meglio ancora se la creatura che lo fa abbia la possibilità di adattare, oltre che la colorazione del corpo, anche la forma del corpo stesso tramite la presenza delle già menzionate appendici, che si prestano in modo a volte sorprendente a ricalcare le asperità del territorio.
Nel caso di organismi necessariamente legati a substrati “terrestri”, al suolo o in prossimità di questo, in un ambiente in cui le differenti colorazioni sono determinate dalla presenza di vegetazione, pietre, anfratti, ecc., la possibilità di cambiare colore non è strettamente  necessaria per nascondersi[2].

Le cose sono ovviamente diverse sulle superfici, spesso uniformi, di costoni rocciosi, muri, tronchi, ecc., di norma non offrono né rifugi né ripari per potersi occultare; se pure non appare determinante la possibilità  di  predare  nel  corso  degli  spostamenti  su  tali  superfici  (cosa  che  il  Geco  comune  è comunque in grado di fare),  è opportuno, o per lo meno vantaggioso, non rivelare in modo evidente la propria presenza nel corso dei tragitti allo scoperto. Ed il poter fruire di variazioni cromatiche può essere spesso risolutivo, al fine della mancata individuazione da parte della preda (e/o del predatore).
A conferma di quanto riferito sopra, si mette qui in evidenza che tutti gli organismi in grado di adattare il proprio colore assumendo le stesse tonalità dell’ambiente in cui vivono sono sempre in grado di spostarsi nelle tre direzioni dello spazio, o perché vivono in un ambiente acquatico (Sepia, Octopus, Solea, ecc.), o perché sono in grado di arrampicarsi su alberi o su superfici verticali (Chamaeleon, Gekkonidae spp., ecc.).

 

 Note

[1] Occhio semplice degli insetti e di altri artropodi, che consta di una lente e di uno strato cellulare sensibile (rètina); negli insetti sono tipicamente in numero di tre, situati nella regione dorsale del capo, fra gli occhi composti (http://www.treccani.it/vocabolario/ocello/)

[2] – questa possibilità non è tuttavia tale da ingenerare nell’animale un senso di protezione legata ad una illimitata fiducia nel proprio mimetismo: benché debitamente occultati dalla concordanza del proprio colore con i colori del substrato, a differenza dei ben più flemmatici Camaleonti, che confidano fino alla fine nel proprio mimetismo, i Gechi comuni sono prontissimi a fuggire ed a rifugiarsi in qualche buco del terreno o dei tronchi stessi.

 

Per la prima parte:

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (prima parte)

Per la seconda parte:

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (seconda parte)

Quando i concorsi di poesia erano una cosa seria e non un affare

di Armando Polito

 

Non bastavano i maghi e gli indovini ad approfittare della credulità popolare ed ecco farsi avanti persuasori più sofisticati a sfruttare il narcisismo di persone che, consapevoli di non potersi collocare nella categoria dei santi e dei navigatori, presumono di essere poeti. In fondo cosa costa mettersi in gioco quando la posta potrebbe essere la celebrità e il costo corrisponde solo alla cifra, non certo astronomica, richiesta per partecipare? E cosa costa comporre una commissione di sedicenti esperti che, bene che vada, sono autori di una sola pubblicazione per la quale si sono dissanguati e che nessuno ha letto e mai leggerà? Ecco, così, da qualche decennio a questa parte imperversare concorsi letterari in un paese in cui gran parte della popolazione non sa esprimersi correttamente e non capisce neppure il significato letterale di ciò che legge, ammesso che sia in grado di compiere correttamente pure tale operazione. Per me è un’attività ai limiti del lecito, come tutte quelle (alle quali non sono estranee banche, compagnie telefoniche, etc. etc.) che giocano sui grandi numeri. Nella fattispecie supponendo, al ribasso, una quota minima di partecipazione pari a 20 euro e 200 partecipanti, s’incassano già 4000 euro, più che sufficienti a coprire tutte le spese di organizzazione. Con la cultura autentica non si mangerà, ma con quella fasulla si sbafa …

Non vorrei apparire come un laudator temporis acti, un nostalgico (aggettivo pericoloso …, comunque da me distante anni luce) del tempo che fu, ma come non trarre le dovute  conclusioni dal documento presentato nell’immagine di testa e tratto da Rassegna pugliese di Scienze, Lettere ed Arti,  Anno XXX, novembre-dicembre 1913, vol. XXVIII, nn. 11-12, p. 479?

Il lettore che voglia approfondire troverà al link https://books.google.it/books?id=B08osAbEIb4C&pg=PA479&dq=non+credo+che+alcuno+dei+componimenti&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwi-5-79mNHqAhWR16YKHb3lAncQ6AEwAHoECAQQAg#v=onepage&q=non%20credo%20che%20alcuno%20dei%20componimenti&f=false i dettagli del concorso, compresi tutti i 21 titoli delle poesie partecipanti, con motivazione per due di esse dell’esclusione e per le rimanenti del giudizio, che nei casi migliori è sempre parzialmente negativo. Ne ricordo di seguito il nome degli estensori, tutti personaggi di spicco, come, fra l’altro, dimostrano le loro pubblicazioni: Pasquale De Lorentiis1, appassionato paleontologo, nonché padre di Decio, fondatore nel 1960 del Museo Paleontologico di Maglie; Arturo Tafuri2, Giuseppe Macario3, Umberto Bozzini4,  Nicola Serena Di Lapigio5.

Il loro giudizi negativi sono confermati da quello conclusivo e decisivo  del presidente della commissione esaminatrice, Armando Perotti6, personalità di certo non da meno delle altre appena nominate, la cui fama dovrebbe andare ben al di là di ciò che possono evocare toponimi come Punta Perotti a Bari con il suo ecomostro rimasto in vita per troppo tempo o, in questo caso senza superfetazioni mostruose, Piazza Perotti a Castro.

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1 Commemorazione dei caduti supersanesi nella guerra d’Italia del 1915-1918, Diena, Matino, 1920

Discorso funebre per armando Perotti, in Per Armando Perotti: onoranze rese in Castro il 7 settembre 1924, Raeli, Tricase, 1924

Grotta Romanelli: stazione paleolitica in Terra d’Otranto, Tipografia La modernissima, Lecce, 1933 

2

Parva favilla, La tipografia cooperativa, Lecce, 1899

Sebetia Venus: poema lirico, Treves, Milano, 1900

Poema della folla: lirica nova, Nerbini, Firenze, 1904

Luci ed ombre : poesie, Giannotta, Catania, 1911

Ortiche: 1908-1914,  Editoriale italiana contemporanea, Arezzo, 1928

Stelle cadenti: nuove liriche, Contemporanea, Arezzo, 1930

Ave, Salento,  Quaderni di poesia di Emo Cavalleri, Milano- Como, 1932

l pellegrinaggio di un’anima: poema eroico, Cavalieri, Como, 1935

Odi bizantine : Napoli 1888-1893, Tipografia Sorace e Siracusa, Catania, 1937

Scrasce e paparine te la serra, Editrice salentina, 1968

3

L’amante: romanzo, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902

Al lavoro: ode, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902

Per la guarigione della mia bambina: ode, Stabilimento tipografico vesuviano, Napoli, 1902

Ode al suicida,  Società editrice Meridionale, Napoli, 1904

L’offerta: versi, Società Editrice Meridionale, Napoli, 1905

4

Fedra: tragedia in quattro atti, Mancino, Lucera, 1910

Manfredi: poema drammatico in un prologo e tre episodi, Mancino, Lucera, 1911

ll cuore di Rosaura: capriccio comico in 3 atti in versi, Lapi, Città di Castello, 1914

Ritmo antico, Cappetta, Lucera, 1922

5

Piccole anime e piccole cose: novelle, Cogliati, Milano, 1909

Le isole Tremiti, Frattarolo, Lucera, 1915

Panorami garganici, s.n., s.l., 1933

Vecchi motivi: racconti, Il solco, Città di Castello, 1933

6

Sul Trasimeno: 15 sonetti, Vecchi, Trani, 1887

Il libro dei canti, Vecchi, Trani, 1890

Castro: terze rime, Tipografia Alighieri, 1904

Giorgio Antonio Paladini : uomo d’arme nel secolo XVII, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905

Ricerche etimologiche sui nomi diversi in Terra d’Otranto, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905 (Estratto dalla Rivista Storica Salentina, n. 9 e 10).

Tricase : note e documenti, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1906

Bari ignota : curiosità e documenti di storia locale, Vecchi, Trani, 1907

Da Le Nereidi : nuovi canti del mare (estratto dalla Rassegna Pugliese, v. 23, 1907, n. 5-8).

Bari ignota: curiosità e documenti di storia locale, Vecchi e C., tRANI, 1908

Bari 1813-1913, Laterza, Bari, 1913

Onoranze al barone di Castiglione d. Filippo Bacile in Spongano il 14 settembre 1913: discorso commemorativo, Lecce, Martello, 1913

Il coro della Cattedrale di Bisceglie, in Napoli nobilissima, v. I (1920), pp. 97-100

Bibliografia storica della Terra di Bari per gli anni dal 1915 al 1920, Società tipografica editrice barese, 1921

Storie e storielle di Puglia, Laterza, Bari, 1923

 

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (seconda parte)

di Sandro D’Alessandro

 

Piccole storie di piccoli Gechi alla ricerca di una vitamina

Ma, alla luce delle possibilità dell’affine Geco comune di cambiare colore non solo nel senso del melanismo, ma di un vero e proprio considerevole mimetismo, appare più che plausibile l’ipotesi (suffragata peraltro dalla foto riportata) che il Geco di Kotschy sia dotato anch’esso, e forse a maggior ragione, di potenzialità mimetiche di alto livello.
Nel caso del Geco verrucoso (Hemidactylus turcicus), con la cautela che accompagna chi fa delle affermazioni inedite, riportai che, più che di un melanismo che procede di pari passo all’aumento della luminosità, si potesse parlare al contrario di una riduzione della pigmentazione in concomitanza di ridotte illuminazioni (in condizioni di ridotta luminosità il corpo di questo Geco, specie se si tratta di un individuo giovane, appare quasi trasparente). Ma si trattava ragionevolmente di un eccesso di prudenza, dato che in questo Geco la depigmentazione non si limita a far assumere all’animale un colore semplicemente più chiaro, ma si spinge ben più oltre, fino a rendere evidenti gli organi interni; è poi la possibilità del piccolo Sauro di assumere una colorazione differente a rendere meno visibili i suoi organi interni. Ciò indica senza dubbio una capacità di cambiare colore di livello superiore rispetto a quella della semplice depigmentazione, per quanto in tale specie non si evidenzi una netta tendenza al mimetismo allo stesso modo che nel Geco comune.

Un Geco verrucoso, rinvenuto da chi scrive al coperto nel periodo invernale, risultò quasi privo di colorazione, al punto da rendere possibile vedere gli organi interni attraverso la pelle. Se la cosa può essere messa in relazione con le basse temperature, essa può però, forse a maggior ragione, essere connessa con le basse intensità luminose della stagione, di solito caratterizzata anche da cielo coperto, e con il fatto che l’animaletto era stato sorpreso in un pozzetto, con illuminazione pressoché assente.
Per quanto riguarda il melanismo vero e proprio, documentato per il Geco di Kotschy e rilevabile da chiunque nel Geco comune, è difficile dire se la variazione di colore sia legata in qualche modo anche alla temperatura ambientale. Di fatto, il rendersi più scuro ha fra i suoi effetti quello di assorbire maggiore radiazione calorifica, esistendo un fenomeno fisico che sancisce effettivamente una relazione diretta fra la colorazione ed il riscaldamento corporeo.
Non va però dimenticato che, almeno in apparenza, il colore scuro del Geco comune sia in relazione diretta non tanto con la temperatura ambientale, quanto con la luminosità dell’ambiente; in tal modo, la possibilità di diventare più caldo sarebbe un effetto secondario della variazione cromatica dell’animaletto.

È questa un’osservazione molto interessante, poiché non limita il discorso al solo immagazzinamento di calore (che, essendo il corpo del Geco di piccole dimensioni, oltre che dotato di numerosi elementi di dissipazione della temperatura -coda, bitorzoli, zampette, ecc.-, avrebbe effetti di breve durata e pertanto poco significativi dal punto di vista dell’efficienza metabolica dell’animale), ma si estende ad una “intelligenza di specie” che fa sì che essa adotti un comportamento avente importantissimi effetti sulla metabolizzazione della vitamina D. Il che, in un animale tendenzialmente notturno e sempre pronto a rifugiarsi all’interno di cavità oscure, è quanto di più opportuno ci possa essere.

 

Giovane Geco fotografato su uno scarpone. Si noti la concordanza fra il colore dell’animaletto ed il colore del substrato cementizio, su cui l’animale era prima di salire sullo scarpone (foto: S. D’Alessandro)

 

Sorprendenti scoperte sul più comune dei Gechi: il… Geco comune

Nel Geco comune (Tarentula mauritanica) – di seguito chiamato semplicemente “Geco” – che compartecipa sia della possibilità di diventare più scuro in funzione della luminosità ambientale   che della possibilità di cambiare colore nel senso di un vero e proprio mimetismo, la caratteristica della possibilità di variazione cromatica si annida in processi che sono forse più complessi rispetto a quanto avviene in altri Gechi ed avvicina in maniera alquanto singolare l’animaletto al ben più proverbiale Camaleonte.

Con questo il Geco condivide la capacità di assumere lo stesso colore del substrato sul quale l’animale si trova, o per lo meno un colore molto  simile,  adattando  inoltre  le  sue  tonalità  a  quelle  dell’ambiente,  del  quale  è  in  grado  di riprodurre le linee, le chiazze, le sfumature.

Un Geco comune dal colore molto scuro particolarmente appariscente sul muro chiaro di una casa diroccata. (foto: S. D’Alessandro)

 

Il colore, di norma concorde con l’ambiente, soggiace però alla regolazione cromatica del Geco in funzione della luminosità, il quale si giova, nelle giornate assolate, di un inscurimento della sua colorazione al fine dell’assorbimento di una maggior quantità di radiazioni solari, anche a scapito di un suo evidentissimo risalto sul substrato, magari molto chiaro, su cui esso si trova.

 

Mimetismo, melanismo o entrambi? Una speculazione su un interessante dilemma

E’ l’animale in grado di modulare la sua variazione di colore, optando per il melanismo anziché per il mimetismo? Difficile dirlo.
E’ un fatto che, quando l’illuminazione è molto bassa, è possibile rinvenire dei Gechi comuni il Geco comune pressoché candidi[1] nelle ore serali o notturne[2]. Ciò, che è stato rilevato da chi scrive su muri bianchi, avviene nelle ore notturne, come dimostra per contro la foto sopra che, scattata anch’essa su un muro molto chiara, evidenzia un Geco comune estremamente scuro alla piena luce del giorno.

E’ possibile presumere due meccanismi diversi, entrambi finalizzati alla conservazione dell’animale:

  1. – uno, il melanismo dovuto alle forti intensità luminose, destinato ad esplicare i suoi vantaggi nel medio e lungo termine, legato all’acquisizione di luce necessaria per il buon funzionamento della vitamina D,  che svolge un ruolo fondamentale nel regolare l’omeostasi fosfo-calcica e in particolare i processi di mineralizzazione ossea, efficace rimedio contro il rachitismo, destinato a garantire la sopravvivenza dell’animale nel corso della sua vita;
  2. un altro, il mimetismo, con effetti nell’immediato, avente la funzione di nascondere l’animale alle potenziali prede ed ai potenziali predatori;
  3. una via intermedia è quella del melanismo per motivi di mimetismo, come ad esempio si verifica su tronchi dalla corteccia scura, quali ad esempio gli alberi di Olivo; in tal caso si ottiene il massimo del vantaggio per l’animale, che si trova contemporaneamente nelle situazioni ottimali, potendo massimizzare sia il metabolismo della vitamina D che il mimetismo per motivi di predazione o di protezione.

 

Un Geco comune quasi completamente privo di pigmentazione, fotografato di notte su un muro alla luce flebile di un lampione (Foto: S. D’Alessandro)

 

 

[1] Il fenomeno è, come detto, ancora più appariscente nel Geco verrucoso, che decolora la sua pelle a tal punto da permettere quasi di vedere i suoi organi interni. Va detto a tal proposito che il corpo dell’Emidattilo è, a maturità, molto meno massiccio  di  quello  del  Geco  comune  e  che  pertanto  si  presta  a  dare  maggiore  risalto  a  ciò  che  lo  costituisce internamente, ma la sua pelle, indubbiamente molto più sottile e meno scabrosa di quello del “cugino maggiore”, gli permette di dare un ben maggiore rilievo alle differenze cromatiche (per quanto non strettamente “mimetiche”) che l’animale manifesta.

[2] La cosa va in direzione opposta a quanto rilevato in altre occasioni, in cui l’assunzione di colore da parte dell’animale risente del colore di ciò che appare nel suo campo visivo: di sera il Geco vede colori molto scuri, ma in questo caso l’animale non sembra concordare con essi.

Nuove scoperte sullo straordinario mondo dei Gechi (prima parte)

 

di Sandro D’Alessandro[1]

 

Premessa

L’osservazione appassionata della natura può permettere a volte di rilevare dei fenomeni che non sono mai stati descritti e che non ci si sarebbe aspettati di riscontrare. È sorprendente verificare come dei processi che per loro natura ed accessibilità sono alla portata di tutti siano stati così a lungo ignorati.

In un mondo come il nostro, in cui tutto sembra essere stato codificato, come dimostra un mio articolo pubblicato nel mese di maggio del 2014[2], in cui per primo rilevai la capacità del Geco comune di mimetizzarsi, c’è ancora spazio per piccole ‘scoperte’ che rendono conto dell’immensa, variegata complessità del mondo vivente.

Ad una prima, semplificata analisi, il mondo vivente si divide in due grandi categorie: il Regno vegetale ed il Regno animale, il primo dei quali fornisce le basi necessarie all’esistenza del secondo, che non potrebbe esistere senza il primo. L’esistenza delle piante è un dato di fatto, scontato se vogliamo, che verifichiamo inconsciamente ogni qualvolta compiamo un atto respiratorio; l’esistenza degli animali è pure quotidianamente accertabile dai nostri sensi, essendo le nostre giornate interessate da una miriade di animali che, piccoli e grandi, dai cieli alla terra, sono rilevabili dai nostri sensi: Insetti, Uccelli, Mammiferi, Rettili…. In particolare l’ultima delle categorie elencate è di per sé notevole, in quanto, se è frequente leggere di Mammiferi e Uccelli che “si inurbano”, questo termine non è altrettanto spesso­ utilizzato per i Rettili, anzi non lo è proprio mai. Eppure, al di là delle sistematiche persecuzioni a cui i Rettili vengono sottoposti dall’Uomo ogni volta che questo vede un Ofide -il più delle volte inoffensivo-, alcuni degli appartenenti a questa troppo bistrattata categoria di animali realizzano in determinati casi con l’Uomo una vera e propria coabitazione, che giunge fino ad arrivare per alcune specie quasi a una sorta di simbiosi. Parole del genere possono suonare inaspettate, ma già ad una prima analisi ci si rende conto che non lo sono più di tanto, se si considera che il Rettile è un animale a sangue freddo che si avvantaggia dell’esposizione alla luce solare, e che quest’ultima è disponibile in maggior quantità laddove vi siano pochi elementi in grado di ombreggiare: un campo aperto, i margini delle strade, le stesse costruzioni degli Uomini…

A tutti sarà capitato di vedere, sui muri di vecchie case coloniche, animaletti che si crogiolano al sole e che sono prontissimi a rifugiarsi in qualche cavità non appena ci si avvicina ad essi; si tratta di animali assolutamente inoffensivi, la cui superficie bitorzoluta può destare in alcuni una certa ripugnanza, animali che a lungo sono stati erroneamente considerati velenosi per via di un inveterato errore di fondo (a cui sarà forse il caso di dedicare delle considerazioni approfondite in un altro contributo).

 

Caratteristiche poco note dei Gechi: una recentissima scoperta

Mi riferisco ai gechi, ed in particolare al Geco comune, un piccolo animale con cui tutti hanno familiarità e che si è rivelato in possesso di inattese quanto sorprendenti capacità mimetiche, che consentono di collocarlo a pieno titolo fra altri organismi ben più noti per tale caratteristica. Eppure, fino al 2014, anno in cui fu pubblicato il mio articolo “Il mimetismo nel Geco comune”, tuttora disponibile online, sorprendentemente nessuno ne aveva mai fatto menzione. Era ben nota la possibilità del Geco di effettuare un viraggio della colorazione verso toni più scuri – fenomeno che va sotto il nome di melanismo e che è differente dal ben più complesso mimetismo-, ma alla sua possibilità di cambiare colore, adattandolo a quello dell’ambiente circostante, nessuno aveva mai fatto alcun riferimento. È fin troppo facile – e mi fermo qui – ricordare a tale proposito le parole “Ci sono più cosa in cielo e in terra di quante possa comprenderne la tua filosofia” rivolte a Orazio da Amleto nell’omonima opera shakespeariana. Mi limito solo ad aggiungere che la filosofia viene sviscerata, nei suoi vari significati ed aspetti, per il semplice fatto che è sufficiente aprire un libro per farlo; l’osservazione della natura, se per fini non utilitaristici, semplicemente non viene fatta, qualora non si intravedano in questo degli spunti utili per fare carriera e/o per legare il proprio nome a qualche scoperta. Salvo poi fregiarci tutti, indistintamente, della qualifica di amanti della natura e di accorte sentinelle dell’ambiente.

 

Il mimetismo nel Regno animale… e nei Gechi in particolare

Il mimetismo, processo ben noto nel Regno animale, vede rappresentanti in pressoché tutte le categorie di tale Regno; senza entrare nel linguaggio tecnico, accanto a delle livree cosiddette “eclissali”, che pur non modificandosi fanno sì che l’animale si confonda nell’ambiente (femmine di variate specie di Uccelli, Felidi di macchia e di foresta, ecc.), esiste un mimetismo per così dire “dinamico”, in cui l’animale assume la colorazione dell’ambiente circostante adattando istantaneamente la propria a quella di questo.

Accanto ad un mimetismo universalmente conosciuto come quello del Camaleonte, noto al punto da essere stato preso in passato a simbolo del trasformismo opportunista, c’è un’altra categoria di animali, ad esso affini e ben più comuni, che appare in grado di cambiare colore, assumendo toni simili a quelli dell’ambiente circostante: alcuni membri della Famiglia dei Gekkonidae.
Nell’ambito di tale Famiglia, ben quattro specie vivono in Italia; di queste, almeno tre, ossia il Geco comune (Tarentula mauritanica), il Geco verrucoso (Hemidactylus turcicus) ed il Geco di Kotschy (Cyrtopodion kotschyi o – per indicarlo con il nome, oramai desueto, che gli fu assegnato dal suo classificatore, il grande Theodor Kotschy, “Cyrtodactylus” kotschyi) sono in grado di cambiare colore.

Sulla quarta specie, il Tarantolino (Euleptes europaeus) chi scrive non ha alcuna notizia al riguardo, ma non ha nessuna difficoltà ad immaginare che non ci sia nessun motivo per cui questa specie si differenzi dalle altre tre in merito alla sua possibilità di effettuare un qualsiasi cambiamento di colore.

 

Gechi, “Tarantole”, Camaleonti….

Malgrado tutto quanto esposto prima in merito alla diffusione ed alla facile accessibilità a questi animaletti da parte dell’Uomo, a dire il vero, ed a dirlo tutto, neanche sulle altre tre specie sopra enunciate fu possibile a chi scrive reperire nei canali ufficiali la minima notizia al riguardo: era possibile, all’epoca, (parlo di soli sei anni fa) possibile rinvenire solo dei semplici accenni ad un possibile melanismo “indotto” dalle elevate luminosità nel Geco di Kotschy.
Ciò non potè che spingermi a fare l’osservazione – doverosa – che, mentre il Camaleonte era universalmente riconosciuto per le sue incredibili possibilità di mimetizzarsi, poco o niente si sapeva dei Gechi, di questi umili animaletti così strettamente ed incredibilmente associati – anche a livello etimologico – alla Tarantola, al punto da essere ancora, nella terminologia corrente, tuttora confusi con essa.
Così, in assenza di documentazione “ufficiale” che lo attestasse, chi scrive,  che  aveva  avuto  in  svariate  occasioni  la possibilità di osservare e di documentare fotograficamente la variabilità cromatica del Geco, trovò  quanto  meno  singolare il fatto che queste piccole creature, talmente comuni da essere considerati banali, avessero delle incredibili quanto inattese – e sorprendenti! – capacità di cambiare colore, e non solo: ancora più singolare trovò che tale caratteristica non fosse documentata.
L’excursus personale sull’argomento, in merito all’interesse per questa categoria di animali ed a quanto ad essa correlato, nacque in concomitanza delle mie personali ricerche a proposito del Camaleonte salentino, quando mi resi conto delle strane concordanze fra l’areale di questo e quello di uno dei quattro Gechi italiani, il “Cyrtodactyluskotschyi, organismo la cui peculiare diffusione fu da me analizzata per ipotizzare un processo di importazione similare, ma per certi versi ben  differenziata, a quello ipotizzato per il Camaleonte.

“Cyrtodactylus” kotschyi orientalis (foto da wikimedia)

 

Il Geco di Kotschy, un italico endemismo salentino (e di Matera)

Da queste strane considerazioni in merito alla possibile importazione a partire dalle coste mediterranee orientali derivò il mio interesse per il piccolo Geco di Kotschy (che tuttora, malgrado i miei molteplici tentativi, finora non sono mai riuscito a vedere di persona); questo strano Geco dalle dita prive di ventose e dalle caratteristiche più simili a quelle delle Lucertole che a quelle dei Gekkonidae, al punto da formare, in alcune  isole  greche,  colonie  insieme  alla  Podarcis  milensis,  la  Lucertola  di  Milo,  con  la  quale condivide l’habitat, le prede, il territorio e persino l’etologia.
Di questo termofilo Geco che, forse a causa delle sue apparentemente scarse possibilità di salire su muri completamente lisci – è privo di cuscinetti adesivi, avendo delle zampe in tutto e per tutto simili a quelle delle Lucertole – si trova meno frequentemente nei pressi delle abitazioni umane.
A proposito di questo Geco è accennata in letteratura la capacità di cambiare colore, che tende al nero in corrispondenza delle ore più luminose della giornata; a parere di chi scrive, potrebbe sì trattarsi di una variazione legata alla sola termoregolazione (fatto che potrebbe risultare anche controproducente ai fini di un’eventuale mimetizzazione dell’animale, rendendolo spesso ben più appariscente che non se fosse rimasto con la livrea pressoché “eclissale” che lo caratterizza quando non diventa scuro).

Ma potrebbe più probabilmente, alla luce delle considerazioni che saranno fate da qui a breve, trattarsi di un fenomeno, ben più complesso, molto vicino a quello descritto in queste pagine per il Geco comune.

Nel caso  del  “Piccolo  Geco  dei  muretti  a  secco” (così si intitolava un mio articolo, presente online per diversi anni e attualmente non più disponibile, sul Geco di Kostschy), qualora limitato ad un semplice melanismo, questa  caratteristica  non  apporterebbe infatti, presumibilmente, alcun vantaggio in fase predatoria, in quanto il colore nero risalta notevolmente sul colore chiaro dei susbstrati, siano essi sassosi o murari, di calcarenite (fatto questo che il che lo renderebbe ben visibile da parte delle prede e, allo stesso modo, dei predatori). Un aiuto in tal senso certamente viene al “Cyrtodactylus” dall’essere più veloce e meno flemmatico degli altri Gechi, tanto che esso riesce a sfuggire ai predatori ed a rincorrere le prede con un’efficienza tale da annullare gli eventuali effetti sfavorevoli derivanti da un’eccessiva visibilità.

(continua)

 

[1] Sandro D’Alessandro, residente a Brindisi, laureato in Scienze Forestali, è autore dei libri La Vallonea  Quercia di Chaonia – un viaggio nell’ecologia, nella storia e nella mitologia della Falanida salentina. albero delle civiltà mediterranee, Il Serpente simboli miti etologia – dalla Sacara con le corna al Malpolon in Terra d’Otranto e Il Lupo e altri Lupi – Il Lupo di Gubbio e la Bestia di Gevaudan, il Lupo cerviero e la Lonza, nonché coautore di altri libri a firma di svariati autori e di numerose pubblicazioni, tutte a sfondo naturalistico, pubblicate su riviste sia cartacee che telematiche del settore naturalistico-ambientale.

[2] S. D’Alessandro, Il mimetismo nel Geco comune, in “Silvae”, Rivista tecnico-scientifica del Corpo Forestale dello Stato, maggio 2014, poi su “Natura”, Rivista dell’Arma dei Carabinieri, http://www.carabinieri.it/editoria/natura/la-rivista/home/tematiche/ambiente/il-mimetismo-nel-geco-comune

 

 

La Madonna di Pasano (Sava) e le sue miracolose guarigioni

Pasano, icona della Madonna prima del restauro degli anni ’90

La leggenda del “preti stroppiu” e altre storie di guarigioni di infermi nella tradizione della devozione alla Madonna di Pasano (Sava)

di Gianfranco Mele

 

“Ecco quel preti stroppiu:crazia ca li dumanda,

sanu ca lu rimanda e allecru, alla sua città!”

 

Questi, i versi recitati intorno al 1978 dalla anziana Giovanna Marino di Sava, all’epoca 91enne. Furono raccolti in occasione di una intervista condotta dagli associati al Gruppo Culturale Salentino di Sava, che si occupava di raccogliere informazioni intorno a tradizioni e storia del territorio, e apparvero in una pubblicazione ciclostilata.[1] Le “Note” del Gruppo Culturale Salentino, che venivano redatte e stampate a cadenza irregolare, venivano distribuite ad associati, amici e simpatizzanti. Questi ciclostilati erano composti di 25-30 pagine l’uno, e furono concepiti e distribuiti tra il 1977 e il 1979: non avevano numerazione e data.

 

Il frontespizio dei ciclostilati del Gruppo Culturale Salentino di Sava

 

I versi di cui sopra, tramandati oralmente di generazione in generazione, si riferiscono ad un “miracolo” operato dalla Madonna di Pasano nei confronti di un sacerdote del leccese; altri particolari di questa leggenda, li racconta Gaetano Pichierri in un articolo intitolato “La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso”. La storia è ripresa, nel caso del Pichierri, da una pubblicazione di anonimo del 1897, intitolata “I miracoli di Maria SS. Di Pasano”, stampata dalla tipografia D’Errico di Manduria.[2]

Non è chiara la datazione del presunto miracolo, ma secondo le ricostruzioni di Gaetano Pichierri è riferito al 1660 circa.[3]

Questa, la leggenda così come il Pichierri la riporta traendola direttamente dall’anonimo ottocentesco:

Un sacerdote leccese, da gran tempo infermo e pieno di piaghe, menava amaramente i suoi giorni di vita. Quando in vision gli comparve adorna di folgoranti stelle una Nobile Signora che era appunto Maria Vergine di Pasano: lo sveglia, lo anima, lo incoraggia a farsi condurre al suo Tempio. Egli, pieno di gioia, si dispone con rassegnato spirito alla tanto desiata partenza. Lo adagiano su un legno, e giunti alla Cappella di Pasano, si prostra al privilegiato altare ove riacquista la salute. Rendendo infine grazie, mosso dal Divino Spirito Santo ne offrì due messe, facendo lieto ritorno alla patria sua, di cui restarono ammirati dal miracolo ottenuto”.[4]

In altro manoscritto ottocentesco, attribuito in parte all’ Arciprete Luigi Spagnolo, si legge:

“In uno dei paesi di là da Lecce si trovava da più anni in letto un sacerdote stroppio di mani, e di piedi, a cui comparendo la Beatissima Vergine di Pasano disse, che venisse a visitare la sua cappella di Pasano, che guarirebbe. Fattosi condurre il sacerdote ed inginocchiato avanti la sua Immagine, dopo aver pianto dirottamente ebbe la grazia, e celebrò messa nel suo altare, che tanto non avea potuto vedere” [5]

Di questa leggenda esisteva una rappresentazione pittorica, oggi purtroppo non più visibile.[6] Difatti, nel libello anonimo del 1897 vi è la descrizione di un grande quadro che si trovava “sul sommo della porta di entrata” della chiesa di Pasano, e che, a detta dell’autore dello scritto

“rappresenta due miracoli della Vergine di Pasano, l’uno, a destra di chi guarda, è quello di un uomo gettato in un pozzo; l’altro a sinistra, di un sacerdote del Capo”.[7]

La Madonna di Pasano come protettrice e guaritrice degli infermi ha una lunga tradizione miracolistica, documentata, tra l’altro, dai numerosi ex voto che sino alla fine dell’ Ottocento venivano posti ai lati dell’ altare maggiore, e consistevano nella riproduzione di particolari anatomici.[8] Di questa caratteristica, ci offre un quadro ancora il Pichierri, traendola dall’autore ottocentesco:

La devozione a quella sacra immagine non era sentita solamente da parte degli abitanti del nostro paese, ma anche dei paesi circonvicini e di altri pure più lontani. Cosicchè le pareti del Santuario erano piene di ex voto per grazie ricevute. Ecco, a proposito, quanto si legge nell’elenco dell’autore anonimo: “A destra e a sinistra dell’ Altare Maggiore, una gran quantità di mani, di busti, teste, piedi di votivi tutti di cera vi sono appesi.”[9]

Degli ex voto anatomici di Pasano è scomparsa traccia, ma in alcuni testi di storia locale è fotografato e descritto un dipinto ex-voto dedicato alla Madonna di Pasano nella seconda metà dell’ Ottocento,[10] che rappresenta una savese, Maria Pesare “Romita” (= eremita, nella accezione di custode e abitante dell’eremo di Pasano) guarita dalla Madonna. Nell’ iscrizione si legge:

“Miracolo […] fatto a Maria Pesare Romita di questa Cappella, soffriva una spina ventosa a l’intero braccio per lo spazio di anni 24 …”.

Dipinto ex voto (seconda metà dell’Ottocento) dedicato alla Madonna di Pasano

 

Nel manoscritto dello Spagnolo si raccontano diversi “miracoli” operati dalla Vergine di Pasano, tra cui quello, più noto, dello “schiavo”[11], quello di un uomo scampato a una lapidazione per intercessione della Madonna,[12] e quello di un giovane che, in punto di morte, fu portato dal suo genitore in Pasano e là miracolato:

“ … un divotissimo padre, vedendo boccheggiante il suo amatissimo figlio, tutto vivezza di fiducia verso la Vergine prende in braccio il moribondo suo pegno, parte improvviso, lo conduce in Pasano, su dell’altare lo sdraia; e dove col morto suo figliuol tutti si aspettavano vederlo ritornare, è ammirato con istupore di tutti, venire il suo fanciullo appiè seguito, ed accompagnato”.[13]

La Madonna di Pasano è ritenuta specialista nel guarire molti malanni e infermità, e anche nell’intervenire prodigiosamente nei confronti di calamità naturali[14]:

Le apoplasie, le asme, le febbri, gli spasimi, le cecità, le stroppiature, e tutta quella serie di mali, che per il peccato del nostro progenitore inonda il gran mondo; i terremoti, le inondazioni, la mancanza d’acqua, l’insetti divoratori, i rettili velenosi, i fulmini, le saette, l’archibuggiate, o al tatto di qualcun de’ suoi voti, che pendono dalle sacre pareti alla gran Donna dedicati, o all’unzioni degl’ ogli delle sue lampade, o al religioso esercizio, o per l’usanza di mandare alla sua Cappella tredici verginelle, o alla sola interna invocazione del suo Sacro Santo Nome, retrocedono, e fuggono, e spariscono”.[15]

Frontespizio del manoscritto dello Spagnolo

 

Note

[1]
Giuseppe Lomartire, Pasano ieri e oggi – vicende varie del Casale e del Santuario, in: Note del Gruppo Culturale Salentino di Sava, ciclostilato in pr., s.d.

[2]   Anonimo, Dei miracoli e dei prodigi operati dalla Vergine SS. Di Pasano (opuscolo dedicato a Monsignor M.T. Gargiulo Vescovo di Oria), Manduria, 1897, pag. 13. Ho ripreso questa citazione di seconda mano, dal testo di Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano attraverso la lettura di due documenti del secolo scorso, in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri, Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1994, pp. 206-209 (trattasi di raccolta postuma di articoli e saggi di G. Pichierri)

[3]   Gaetano Pichierri, La devozione alla Vergine di Pasano, op. cit., pag. 206

[4]   Ibidem

[5]   Luigi Spagnolo, Manoscritto “Orazione Panegirica in lode della Prodigiosissima Vergine Maria sotto il Titolo di Pasano, Primaria e Speciale Protettrice della Terra di Sava”, s.d.. Il documento contiene in calce al frontespizio la scritta aggiunta “”Recitata da mio zio arciprete don Luigi Spagnolo di anni 18 essendo accolito nel seminario di Oria“, e in allegato 3 fogli contenenti la storia di Pasano e dei “miracoli” attribuiti alla Madonna, con citazioni e trascrizioni di passi di Domenico Antonio Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1686 al 1722), Alessandro Maria Calefati (Vescovo della Diocesi di Oria dal 1781 al 1793, anno della sua morte), Luigi Spagnolo (Arciprete in Sava dal 1800 al 1828), Pasquale Cantoro Melle (che, da una annotazione dell’autore – nipote del Luigi Spagnolo, sappiamo morto nel 1790). Il manoscritto è conservato ad Oria nella Biblioteca De Leo ed è là censito con “data stimata: 1801-1900”.

[6]   v. anche Gianfranco Mele, Tra storia e leggenda: l’uomo gettato nel pozzo e lapidato nei pressi di Pasano (Sava), in La Voce di Maruggio, sito web, 23 febbraio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/tra-storia-e-leggenda-luomo-gettato-nel-pozzo-e-lapidato-nei-pressi-di-pasano-sava.html

[7]   Tratto da Gaetano Pichierri, op. cit., pag. 206

[8]   Gianfranco Mele, L’antica tradizione degli ex voto a Pasano, in La Voce di Maruggio, sito web, 23 gennaio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/l-antica-tradizione-degli-ex-voto-a-pasano.html#:~:text=Molte%20volte%20gli%20ex%20voto,(votum%20feci%20gratiam%20accepi).

[9]   Gaetano Pichierri, op. cit., pag. 206

[10] Mario Annoscia, Il Santuario della Madonna di Pasano presso Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1996, pag. 56

[11] Gianfranco Mele, La vera e triste storia dello schiavo di Pasano, in La Voce di Maruggio, sito web, 6 agosto 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/la-vera-e-triste-storia-dello-schiavo-di-pasano-nessun-miracolo-ma-un-accadimento-di-ordinaria-amministrazione-edulcorato-dalla-diplomazia-ecclesiastica.html

[12] Gianfranco Mele, Tra storia e leggenda: l’uomo gettato nel pozzo e lapidato nei pressi di Pasano (Sava), op. cit.

[13] Luigi Spagnolo, op. cit.

[14] Gianfranco Mele, Il terremoto del 20 febbraio 1743 nell’interpretazione popolare e religiosa, e in un antico canto dialettale savese, Fondazione Terra d’Otranto, sito web, 20 febbraio 2020 https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/20/il-terremoto-del-20-febbraio-1743-nellinterpretazione-popolare-e-religiosa-e-in-un-antico-canto-dialettale-savese/

[15] Luigi Spagnolo, op. cit.

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (II parte)

di Cristina Manzo

Faro di Torre San Giovanni, Ugento
https://www.viaggiareinpuglia.it/at/4/castellotorre/5546/it/Faro-di-Torre-San-Giovanni-158-(LE)

 

Il faro di Torre San Giovanni rappresenta il sito più antico dell’intero villaggio e costituisce, oltre che un punto di riferimento terrestre e marittimo di grande utilità e importanza, anche una testimonianza dell’influenza che Ugento e il suo territorio esercitavano nel Salento.

La torre originaria voluta da Carlo V nel XVI secolo come sito di difesa contro i Saraceni, si trova su un piccolo promontorio proteso in mare che divide a metà la costa ugentina. A nord infatti, si estende la parte rocciosa, piuttosto bassa quasi ovunque, mentre a sud, oltrepassata la zona del porto, iniziano le splendide e celebri coste di sabbia bianca e finissima. Nel corso dei secoli, la sua funzione è mutata. Da torre di vedetta è diventata faro, per aiutare i naviganti che storicamente incappavano nelle pericolosissime secche, situate proprio in prossimità del segnale luminoso.

Attualmente è di proprietà della Marina Militare in quanto è sede della Guardia Costiera. Ai suoi piedi, oltre le mura messapiche, ogni anno a Natale viene allestito un piccolo presepe all’aperto. Nel periodo estivo invece, nella piazzetta sottostante, si tengono varie feste che caratterizzano l’estate ugentina: in particolare, degna di nota è la Festa dell’Emigrante, generalmente la prima settimana del mese di agosto.

Molto caratteristico l’aspetto dell’edificio: la piastrellatura bianca e nera, disposta in foggia di una grande scacchiera, oltre a rendere la torre visibile da grande distanza in mare, la identifica nell’immaginario collettivo[1].

L’isola di Sant’Andrea si estende per circa 50 ettari e dista poco più di un miglio dal centro storico della cittadina salentina di Gallipoli. È completamente pianeggiante e la sua altezza massima non supera i tre metri. Questa caratteristica porta l’isola a essere spazzata dai marosi in caso di forte vento e la rende poco adatta a ospitare una ricca vegetazione. Per questa ragione i Messapi la chiamavano Achtotus (terra arida). Il vecchio nome messapico venne dimenticato con la conquista dei Romani della città di Gallipoli (267 a.C.) e probabilmente prese il nome di Sant’Andrea solo alcuni secoli più tardi quando i bizantini vi costruirono una cappella dedicata al santo. In passato l’isola era usata dagli abitanti di Gallipoli per pascolare le greggi, che venivano trasportate tramite imbarcazioni. Ciò era possibile per la presenza di una fonte di acqua dolce a nord dell’isola. L’isola, oggi completamente disabitata, rappresenta un patrimonio unico dal punto di vista naturalistico. L’area rappresenta, infatti, l’unico sito di nidificazione, del versante ionico ed adriatico d’Italia, della specie di gabbiano corso.

Collocata al centro di un’area marina interessata da habitat particolarmente sensibili, come la prateria di posidonia, l’isola è inoltre tappa dei percorsi migratori dell’avifauna e luogo botanico di elevato valore scientifico, in quanto ospita specie endemiche come lo statice iapigico salentino (limonium japijicum). L’isola è stata riconosciuta dalla direttiva CEE detta «Rete natura 2000», quale habitat naturale di importanza comunitaria, è stata individuata area naturale protetta dalla legge regionale della Puglia n.19 del 24 luglio 1997, ed è stata inoltre qualificata di particolare interesse storico e artistico, ai sensi della legge n. 1089 del 1939, con nota del Ministero per i beni e le attività culturali. Sul versante settentrionale è presente una zona paludosa ricca di giunco, che per evitare diventasse fonte di malaria venne collegata al mare con l’apertura di due brevi canali sulla costa. Notevole anche l’importanza archeologica per la presenza di insediamenti risalenti all’Età del Bronzo.

Il Faro dell’isola di Sant’Andrea, Gallipoli (2)

 

Sull’isola ci sono due approdi, situati uno a nord-est e uno a sud-est, e un grande faro costruito nel 1866. Il faro è sempre stato in attività, dotato di un congegno a sei lampeggianti, con un fascio luminoso che raggiungeva le due miglia marine. Alla fine del 2005, su intervento del sottosegretario alla difesa, il senatore Rosario Giorgio Costa, sono stati avviati lavori di ristrutturazione. Il nuovo impianto è entrato in attività il 26 marzo 2006 (alle 18.15) con una lampada da 1000 Watt alimentata da pannelli fotovoltaici. La sua portata oggi è di quasi 20 miglia marine. L’intervento di recupero, interamente a carico del Ministero della Difesa, è costato 180.000 euro. Nel 1997, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell’11 agosto, all’epoca Romano Prodi, a seguito della legge finanziaria, l’isola di Sant’Andrea è stata inserita in un elenco di beni, predisposto su proposta del Ministero della Difesa, dei quali veniva disposta la vendita a privati. Nel dicembre 2000, rappresentanti di partiti politici e di associazioni varie hanno però chiesto e ottenuto dal tribunale di Lecce la sospensione della vendita dell’isola di Sant’Andrea [3].

ph Lycia Perrone

 

Note

[1] https://www.viaggiareinpuglia.it/at/4/castellotorre/5546/it/Faro-di-Torre-San-Giovanni-158-(LE)

[2]  https://www.nauticareport.it/dettnews/turismo_e_ormeggi/isola_di_santandrea__gallipoli_le-18-6254/

[3]  Idem.

 

Per la prima parte:

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)

Libri| La leggenda di Cria

Mirko Giangrande, 1 Gennaio 1547 – La leggenda di Cria, Amazon Libri, 2020, pp. 48

Ogni agosto ad Avetrana, nell’Alto Salento, si svolge la “Giostra dei Rioni”, in onore a quella originaria bandita nel lontano 1547 dalla Famiglia Baronale dei Pagano, Signori del Casale della Vetrana, per ringraziare l’Onnipotente per lo scampato pericolo dell’invasione turca. “1 Gennaio 1547 – La leggenda di Cria“, narra gli eventi accaduti nel capodanno del 1547. Una spedizione di corsari ottomani sbarcò nei pressi della Columena, diretti ai villaggi della Vetrana. Cria, un soldato turco ma di origini veterane, colpito da nostalgia e sensi di colpa, dirottò la spedizione al vicino villaggio di San Pancrazio Salentino. Ma la storia non fu per Cria a lieto fine…

Nell’introduzione, il personalissimo inno all’amore per la propria terra da parte dell’autore:

Ad Avetrana,

figlia del Salento,

Terra dove le mie radici

Salde si ancorano.

Culla di mille ricordi,

lacrime e sudore.

Altro non vedo

che viti e ulivi

e un mare sconfinato.

Mia prima casa,

mia prima madre,

mia ultima dimora

Il libro è acquistabile su Amazon in formato E-book o cartaceo:

https://www.amazon.it/1-Gennaio-1547-leggenda-Cria-ebook/dp/B089KP5MGL/ref=sr_1_3?dchild=1&qid=1594138592&refinements=p_27%3AAvvocato+Mirko+Giangrande&s=digital-text&sr=1-3

oppure contattando direttamente l’autore:

mirkogiangrande@hotmail.it

I guardiani del mare si raccontano e i più belli sono nel Salento (I parte)

di Cristina Manzo

 

Ora erano molto vicini al Faro. Eccolo che si stagliava, nudo e dritto,

abbagliante di bianco e nero, e si vedevano le onde rompersi in schegge

bianche come vetro infranto contro gli scogli. Si vedevano le venature e le

spaccature degli scogli. Si vedevano chiaramente le finestre; un tocco di

bianco su una di esse, e un ciuffo di verde sullo scoglio. Un uomo era uscito

e li aveva guardati con il cannocchiale ed era rientrato. Ecco com’era,

pensò James, il Faro che per tutti quegli anni avevano visto attraverso la baia; era

una torre nuda su una roccia deserta.

(Virginia Woolf, Gita al faro)

 

Faro dello scoglio Mangiabarche, Isola di Sant’Antioco, Carbonia-Iglesias
https://www.repubblica.it/viaggi/2018/08/30/news/tra_fari_e_lanterne_le_sentinelle_del_mare_piu_importanti_d_italia-205243146/

 

I fari, luoghi che nei romanzi appaiono set di misteri e di amori, i fari che imponenti si ergono a guardia dei mari resistendo anche alle peggiori mareggiate, hanno catturato, da sempre, l’immaginario collettivo. È così romantico guardare dal basso un faro arroccato che si affaccia sul mare. Solletica l’idea di poterlo visitare arrampicandosi su centinaia di gradini per ammirare, una volta in cima un panorama mozzafiato che si perde nell’orizzonte mescolando mare e cielo. Ma, proviamo a immaginarci suoi guardiani in una notte di burrasca con le onde che arrivano fin sopra la cabina dove trova ricovero la sua luce, quando bisognava comunque arrampicarsi su una altissima scala fin lassù, per alimentare il combustibile che la teneva accesa, quando dalla capacità di farlo dipendevano le vite di tante persone disperse in mezzo a quella burrasca.

I grandi guardiani del mare erano luce di speranza nel buio e nella tempesta per migliaia di pescatori che, con i loro pescherecci, cercavano la via sicura dell’approdo per fare ritorno a casa. Hanno storie antichissime e tutte importanti, come importanti e passionali sono le storie di coloro che li hanno abitati, assumendosi l’impegno di guardiani dei fari; perché se non possedevi la forza per affrontare il mare gigante, infinito, e i suoi misteri, la voglia di sfidarlo, il senso d’avventura e la generosità per il prossimo, non potevi riuscire a dedicargli la vita, con amore, senso di dovere e grande responsabilità.

Ora essi sono in disuso, molti sono diventati patrimonio artistico e culturale da custodire ma, anticamente, era a loro e ai loro guardiani che era affidata la salvezza dei naufraghi ed anche dei villaggi. In caso di attacchi dal mare, infatti, fungevano da torri costiere, ed erano i guardiani, sentinelle nell’avamposto, i primi a poter dare l’allarme. All’inizio essi erano dei semplici falò, delle torce tenute accese per fare segnali, in prossimità delle zone di sbarco.

Ci sono testimonianze che risalgono molto indietro nel tempo, a raccontare il loro mito: nella visione di Virginia Woolf descritta nel romanzo del 1927,“Gita al Faro”: «Il Faro era allora una torre argentea, nebulosa, con un occhio giallo che si apriva all’improvviso e dolcemente la sera”. Omero nel XIX libro dell’Iliade ( parliamo dell’VIII secolo a.C.) paragona lo sfavillio dello scudo del grande Achille ad “uno di quei fuochi che dalle alture rendono sicura la via ai naviganti”.

Diventano un vero mito con antichi autori, come Ovidio che nelle Eroidi, una raccolta costituita da 21 lettere d’amore o di dolore, in distici elegiaci, che si immaginano essere scritte da famose eroine ai loro mariti o innamorati, racconta la storia di Ero, la sacerdotessa di Afrodite e di Leandro, il suo amante segreto, che per vederla attraversa a nuoto, ogni notte, l’Ellesponto guidato dalla fiaccola che lei, tra le mani, regge per illuminargli la via. Ma, la storia vuole che una notte il vento spenga la fiamma e Leandro, senza più la sua guida luminosa, si perde tra i flutti del mare dove Ero, disperata si tuffa seguendolo nella triste sorte.

Quando nel 1200 i Fenici, arrivati nel Mediterraneo, hanno l’esigenza di incrementare il commercio per mare, nasce il bisogno di protrarre i tempi della navigazione anche durante la notte, così si improvvisa, sulle coste, la costruzione di impalcature a torre dove posizionare delle ceste in cui accendere i falò, con uomini di guardia per alimentare sempre il fuoco.

I primi due mirabili fari dell’antichità nascono nel 300 a.C., uno è il Colosso di Rodi, una gigantesca statua alta trentadue metri situata all’ingresso del porto di Mandraki, il dio Helios, (protettore di Rodi) che recava nella mano destra un faro, costruito da Carete di Lindo in un lasso di tempo di dodici anni ( già il suo maestro Lisippo aveva costruito una statua di Zeus nell’antica agorà di Taranto famosa per la sua altezza di quaranta cubiti, diciotto metri), e per sessantasette anni, prima di venire distrutta da un terremoto restò a guardia dell’isola.

(Quando si va a Rodi, così come ho fatto io, è decisamente il primo luogo che sei portato a voler visitare. La guida mi condusse su un altopiano da dove si poteva vedere l’imboccatura del porto indicandomi il punto in cui sorgevano gli alti pilastri di marmo profondi quindici metri, dove i piedi del gigante erano poggiati, e lì mi insegnò a ballare il sirtaki).

Il secondo è il Faro di Alessandria che rimase funzionante sino al IX secolo, poi distrutto anch’esso dai terremoti. La sua costruzione fu voluta da un mercante greco di nome Sostrato di Cnido, per aumentare la sicurezza del traffico marittimo, in entrata e in uscita, reso pericoloso per la presenza di banchi di sabbia all’ingresso del porto di Alessandria. Venne costruito proprio sull’isola di Pharos, all’imboccatura del porto ed è da lì che si origina il suo nome. Era costituito da un alto basamento quadrangolare, che ospitava le stanze degli addetti e le rampe per il trasporto del combustibile. Ad esso si sovrapponeva una torre ottagonale e poi una costruzione cilindrica sovrastata da una statua di Zeus sostituita, in seguito, da quella di Helios. La costruzione del faro consentiva di segnalare la posizione del porto alle navi di giorno, con l’uso di speciali specchi di bronzo lucidato che riflettevano la luce del sole fino al largo e, di notte, con l’accensione di fuochi. Si stima che la torre fosse alta 134 metri e poteva essere visto a 48 km di distanza, praticamente il primo grattacielo della storia. Vista la sua utilità se ne cominciarono a costruire in molti altri luoghi del Mediterraneo.

Faro di Alessandria d’Egitto
https://www.studiarapido.it/faro-di-alessandria-primo-faro-della-storia/

 

Colosso di Rodi, porto di Mandraki
https://www.saggiasibilla.com/2019/01/28/le-sette-meraviglie-il-colosso-di-rodi/

In seguito, anche i Romani diffonderanno in tutte le loro conquiste imperiali la costruzione di queste torri di pietra con in cima il fuoco. Torri che possiederanno, vicino ai porti, anche le quattro Signorie delle Repubbliche marinare, in Italia. Dopo il crollo dell’impero romano, invece, saranno i campanili dei monasteri costruiti in cima alle rocche a svolgere questa funzione, soprattutto al nord Europa. Durante il rinascimento e l’epoca barocca vedono la nascita in Francia o in Inghilterra, all’ingresso della Manica, fari stupendi paragonabili a castelli, situati in mezzo al mare ma, tuttavia, poco funzionali. Tra la fine del 1700 e il 1800 i fari assumeranno, infine, la connotazione che noi conosciamo. Il Faro di New York, donato dalla Francia agli Stati Uniti, e conosciuto da tutti come la famosa Statua della Libertà, è stato a tutti gli effetti il faro degli Stati Uniti, gestito dal servizio fari americano, in funzione sino al 1902 ed il primo ad essere elettrificato, alla fine del 1800. Prima del petrolio e poi dell’elettricità le sostanze usate per alimentare i fuochi dei fari sono state svariate: legna, carbone, candele di spermaceti, (la materia grassa che si trova all’interno del cranio dei capodogli che bruciando non fa fumo) e olio di balena e di oliva, a seconda delle latitudini. Si può assolutamente dire che, in tutto il mondo, non esistono due fari uguali. Ognuno possiede le sue peculiari caratteristiche, ognuno custodisce delle diversità, il numero dei suoi gradini per arrivare alla luce, una storia, un segreto, ogni faro è “il faro” del suo pezzo di mare e di mondo.
Il loro aspetto esteriore serve a riconoscerli da lontano di giorno, mentre di notte la loro luce invierà segnali sempre differenti uno dall’altro, luce – eclisse, eclisse – luce, con una frequenza che servirà a far riconoscere la struttura nel buio. Su tutti i portolani, i libri che si portano a bordo e che indicano tutto sulle coste e sui loro pericoli, ogni faro viene indicato con la sua particolare luce. Nella penisola italiana, dove la costa si sviluppa per una lunghezza di 7458 km circa, vi sono dei fari bellissimi con bellissime storie, fari che sono diventati luoghi da visitare e mete turistiche molto ricercate. Il faro più antico conosciuto è il Fanale dei Pisani, nella città di Livorno, costruito nel 1302 dopo che il porto pisano alla foce dell’Arno si era insabbiato. Questo faro ha una storia drammatica poiché venne distrutto durante la ritirata dei tedeschi nel 1944 per poi essere ricostruito su volontà dei livornesi e inaugurato nel 1956. Per la sua ricostruzione sono stati utilizzati sia i materiali originali recuperati sia i conci della Verruca, materiali estratti dalla cava di San Giuliano da dove provenivano anche le pietre usate nella sua prima costruzione sulla base dei progetti dell’architetto Giovanni di Nicola Pisano che lo aveva costruito nel modello originale. Questo faro, sulla cui cima si recava Galileo Galilei per le sue osservazioni, era stato cantato da Dante Aligheri e da Francesco Petrarca nelle loro poesie. Il faro, alto 52 metri, ha un’ottica rotante che emette 4 lampi ogni 20 secondi ed ha una portata di 24 miglia marine (1). Il sito di Hundredrooms ha stilato la lista dei sedici fari più belli della penisola tra cui vi sono:
– Faro della Vittoria – Trieste, Friuli Venezia Giulia
– Faro di Capel Rosso – Isola del Giglio (Grosseto), Toscana
– Fanale di Livorno – ( di cui abbiammo accennato), Livorno, Toscana
– Faro di Ponza o Faro della Guardia – Isola di Ponza (Latina), Lazio
– Faro di Punta Carena – Isola di Capri (Napoli), Campania
– Faro del Porto di Ischia – Isola d’Ischia (Napoli), Campania
– Faro di Genova, Liguria
– Faro di Camogli, (Genova), Liguria
– Faro dello Scoglio di Mangiabarche – Isola di Sant’Antioco, Sardegna
– Faro di Capo Spartivento – Chia, Sardegna
– Lanterna del Montorsoli – Messina, Sicilia
– Faro di San Vito Lo Capo – Trapani, Sicilia
– Faro di Strombolicchio – Isole Eolie (Messina), Sicilia (2).
Ma, la regione che in assoluto vanta le location più ricche di fascino, nonché quelle più ricercate dai turisti è la Puglia, con il Faro di Vieste, che sorge sullo scoglio di Sant’Eufemia, in provincia di Foggia, con il faro di San Vito a Taranto e, di San Cataldo, a Lecce, di Punta Palascia a Otranto, di Santa Maria di Leuca, di Torre San Giovanni, a Ugento, dell’isola di Sant’Andrea a Gallipoli, di Porto Cesareo,  che fanno tutti parte del Salento.

Faro di Torre San Giovanni, Ugento
https://www.viaggiareinpuglia.it/at/4/castellotorre/5546/it/Faro-di-Torre-San-Giovanni-158-(LE)

 

Note

  1. Cfr. I fari di Ana Maria Lilla Mariotti, https://www.ilmondodeifari.com/index.htm

2. https://www.salento.com/2019/10/12/i-fari-piu-belli-d-italia/

(continua)

Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)

di Mario Spedicato

La ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stata segnata da una ricca produzione storiografica che ha interessato anche la provincia salentina. Un bilancio definitivo ancora non si è potuto fare perché si attendono le pubblicazioni di atti di convegno e di monografie, nate spesso sulla scia di ricerche di settore che non hanno trovato posto in volumi miscellanei e/o dell’acceso dibattito multidisciplinare che hanno alimentato. Certamente si è vissuta una stagione intensa e proficua sul piano delle conoscenze e degli approfondimenti storici, soprattutto nel campo delle indagini periferiche, quelle che hanno affrontato il processo dell’unificazione nazionale con particolare riguardo alle ricadute politiche, sociali, economiche sulle popolazioni meridionali e, nel nostro caso, specificatamente salentine.

Tra queste ultime, le ricerche di Salvatore Coppola sono tornate di grande utilità non solo perché focalizzate tra il prima e dopo l’Unità, ma anche perché orientate a verificare l’impatto dello Stato nazionale nel primo decennio post-unitario, quando cioè si passa rapidamente dall’illusione alla delusione popolare, dagli slanci idealistici di tanti patrioti ai maneggi di basso conio e alla rassegnazione politica.

In questo volume si raccolgono alcuni saggi di Salvatore Coppola meritori di aver aggredito con indagini di largo respiro, costruite cioè su una pluralità di archivi centrali e periferici, il tema dell’Unità nel Salento, in una provincia periferica del Mezzogiorno anticamente denominata Terra d’Otranto. Pochi altri studiosi hanno avuto la sensibilità di compulsare una documentazione così diversa e così vasta, amalgamandola in un ordito in cui il racconto storico non perde certamente la sua inevitabile complessità, ma si arricchisce anche di dettagli non trascurabili e di dense riflessioni storiografiche che le sole carte conservate nell’archivio di Stato di Lecce non avrebbero aiutato a fare emergere e ad elaborare. Coppola si è avvalso della sua instancabile e collaudata esperienza di ricercatore per allargare in maniera mirata l’orizzonte delle sue indagini, scegliendo di seguire e di interrogare anche le tracce documentarie superstiti conservate nell’Archivio del Museo Centrale del Risorgimento di Roma, nella Biblioteca della Camera dei Deputati, nell’Archivio Feltrinelli di Milano (Fondo Macchi) fino ad arrivare alle carte dell’Archivo Histórico del Ministerio de Asuntos Exteriores di Madrid, una novità inimmaginabile per gli studi disponibili, ma che, letta in un contesto più ampio, lega la storia del Salento a quella dell’Europa. Basterebbero queste poche ed essenziali segnalazioni archivistiche per qualificare le ricerche del Coppola, studioso che unisce al rigore scientifico una indubbia passione civile che ne esalta la statura umana. Dentro questo quadro di riferimenti documentari si snoda l’analisi del Coppola, che non a caso sceglie di aggrapparla al percorso biografico-politico di noti ed eminenti uomini del Risorgimento salentino, come Sigismondo Castromediano, Liborio e Giuseppe Romano, Giuseppe Libertini, Giuseppe Pisanelli, Bonaventura Mazza-rella, Oronzio De Donno ed altri, per declinare il difficile e contrastato processo di unificazione nazionale. Proprio attra-verso l’attività parlamentare svolta da alcuni di essi nel primo decennio post-unitario si riesce a comprendere il paradosso che sorregge il consolidamento dello Stato unitario, avvenuto a danno del Mezzogiorno, emarginato dai processi produttivi, incapace di far decollare la sua economia troppo esposta alla concorrenza interna ed estera, deluso dai mancati sostegni governativi, segnato da un disagio sociale diffuso e spinto verso forme di violenza alimentate dal clero e dalle forze più retrive legate al passato regime borbonico.

Un dato appare oramai accertato sul piano scientifico, al di là dei revisionismi di maniera che favoleggiano un regno delle Due Sicilie all’avanguardia in Europa (per porti, infrastrutture, ferrovie, fabbriche, ecc.) di una Napoli capitale al passo con Parigi, Londra, Vienna, ecc. Forse si può pure convenire che la città di Napoli al momento dell’Unità offriva un quadro in superficie “moderno” per i suoi lampioni, per il lungomare abbastanza curato e per qualche fabbrica tecnologicamente avanzata. Ma restano esempi isolati che nascondono la miseria e l’indigenza sociale delle classi meno abbienti. Se si volge poi lo sguardo al resto del regno rimane la triste realtà di un paese al collasso dal punto di vista sociale ed economico con strade di grande comunicazione pressoché inesistenti, ferrovie limitate ai 15 Km della Napoli-Portici (costruita per le passeggiate domenicali della famiglia reale), mentre in Toscana, Piemonte, Lombardia e persino nello Stato pontificio i Km ​di strade ferrate risultano, alla vigilia dell’Unità, molti di più. L’Unità andava costruita diversamente per ridurre il diverso sviluppo tra Nord e Sud d’Italia e di questo si mostrano fermamente convinti i parlamentari salentini che tuttavia scontano una certa impotenza se il loro impegno non va oltre la denuncia. Il fatto che tutti provano delusione e scoramento ne é una attendibile prova. Lo provano sia gli uomini schierati a Destra come Castromediano e De Donno, sia quelli della Sinistra moderata come Giuseppe e Liborio Romano, senza escludere quelli della Sinistra estrema e radicale come Libertini.

Le complesse regole di funzionamento del sistema parlamentare limitano invero la portata di alcune coraggiose iniziative promosse in particolare dal Castromediano e dai fratelli Romano (tra cui la liberalizzazione della coltivazione del tabacco, la cancellazione delle decime residuali, l’ampliamento della rete ferroviaria, la creazione di infrastrutture stradali e portuali efficienti, la concessione delle terre demaniali ai contadini, ecc.) che non trovano un positivo approdo per la resistenza delle potenti oligarchie politiche e finanziarie delle Deputazioni piemontese, lombarda e toscana. Non solo le innovative battaglie parlamentari dei politici moderati (di Destra e di Sinistra), ma anche quelle portate avanti dalla Sinistra estrema e radicale non producono risultati certi e significativi. Lo stesso Giuseppe Libertini, rappre-sentante autorevole di questo schieramento, pur ripetutamente eletto, rinuncia al protagonismo istituzionale, rifiutando di utilizzare il Parlamento come tribuna per portare avanti le battaglie per il riscatto del Mezzogiorno. Il suo radicalismo lo spinge persino a negarsi al giuramento in nome del re Vittorio Emanuele e, di fatto, a non partecipare alla vita del Parlamento, nonostante gli appelli di un altro mazziniano di primo piano (Agostino Bertani) a rivedere la sua posizione al fine di utilizzare l’aula parlamentare per far sentire le istanze delle popolazioni meridionali. L’azione politica del Libertini dentro queste contraddizioni si riduce a ben poca cosa e non sempre appare encomiabile, se si limita dopo il 1861 a “favorire” l’elezione di amici della Sinistra estrema, cercando con questo escamotage di emanciparsi dalle sue pregresse responsabilità e lasciando ad altri di realizzare “la rivoluzione interrotta”.

Sono queste alcune sommarie riflessioni suggerite da una rapida lettura dei saggi raccolti in questo volume. Ma Coppola offre un’analisi molto più articolata e complessa di quanto si è potuto brevemente richiamare. Per questa ragione siamo con-vinti della bontà di questa operazione scientifico-editoriale, le cui positive ricadute continueranno non solo ad alimentare il dibattito storiografico sul Risorgimento italiano, ma anche a suggerire approfondi-menti che riguardano il personale politico che ha rappresentato il Salento nel primo decennio post-unitario (ed oltre).

 

Confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare

Morgincap o “mar’a a ci ccappa”?

Toponimi di confini, strade, contrade e masserie tra interpretazioni storiche e tradizione popolare

 

di Gianfranco Mele

In agro di Latiano è presente il toponimo Malcicappa; in agro di Francavilla Fontana, similmente, Maraciccappa, entrambi fatti derivare da diversi studiosi dal vocabolo morgincap o mongergabe, che si traduce con “dono del mattino”, un istituto dell’antico diritto germanico consistente nel dono che il marito faceva alla sposa in una cerimonia mattutina in presenza di amici e parenti.

La contrada Malcicappa a Latiano si trova nella zona individuata da tali stessi studiosi come attraversata dal cosiddetto Limitone dei Greci, e precisamente a nord del limitone, nel territorio ipotizzato come longobardo. Allo stesso modo, Maraciccappa nel francavillese si troverebbe in prossimità del confine tra longobardi e bizantini.

 

Agro di Latiano, nei pressi della località Malcicappa: cippo con croce incisa

 

Latiano, strada vicinale Malcicappa, cripta detta di Sant’Angelo o di San Giovanni (XI-XII sec.)

 

Maracicappa e Malcicappa vengono dunque considerate località poste sul confine tra longobardi e bizantini, più o meno a ridosso del famoso Limes. Ma la questione dell’origine, del percorso, della storia e della stessa reale esistenza di un “Limitone dei greci” in Terra d’Otranto è un gran rompicapo, ed oggetto di dispute tra storici ed archeologi.[1] Nella intricata e dibattuta storia di questa opera (detta in gergo il “Paretone”) o di questa serie di opere (i “paretoni” presenti, appunto, a tratti – e in vari tratti del Salento e più in generale della Puglia) si avvicendano, insieme alle interpretazioni degli studiosi, le leggende e la tradizione popolare che attribuiscono a queste strutture ed ai luoghi circostanti altre origini, simbologie e significati.

Così, a Sava “Lu Paritoni di li Sierri” che è un tratto di muraglia presente nei dintorni del monte Magalastro, già descritta dagli storici come delimitazione facente parte del percorso del mitico Limitone, insieme con il tratto ancora presente in zona Pasano (nelle contrade Camarda, Morfitta, Curti di l’oru), secondo la versione popolare è stato invece “costruito dai diavoli in una sola notte”, come mi racconta Cosimo Schifone, un informatore depositario di molte delle più antiche tradizioni orali del posto. Tale paretone difatti è detto anche, sempre secondo il resoconto dell’intervistato, “Parete del Diavolo”. Allo stesso modo, tratti di antiche muraglie presenti in altre località son dette “Paretone del diavolo”: è il caso di Mottola (San Basilio), Gioia del Colle, Noci, e altre località.

In competizione con le ipotesi dotte attorno alle origini e alla paternità della costruzione del Limitone si insinua anche la questione delle presunte derivazioni dal termine longobardo morgincap delle già citate località in territorio di Francavilla e di Latiano. Anche qui, la spiegazione fornita dalla tradizione orale si discosta assai da quella derivata dalle teorie dei ricercatori: Maraciccappa è un posto maledetto, e, povero appunto chi ci capita: tra fantasmi, malombre e occhiature che fanno morire o sparire le persone, nell’ immaginario popolare di un tempo si guardavano con timore e diffidenza questi posti.

Francavilla Fontana, interno masseriola in località Maraciccappa

 

Nel 1933 Giovanni Antonucci pubblica su “Japigia” un articolo dal titolo “Il Limitone dei Greci”, dal quale riporto il seguente passo (il corsivo è mio per evidenziare la parte nella quale parla di Malcicappa in territorio di Latiano):

Nel febbraio del 1915 io e l’amico Cosimo De Giorgi visitammo gli avanzi del Limitone esistenti nella masseria Scaloti e insieme constatammo che la grande muraglia era ridotta alle più meschine proporzioni: pietre informi ammassate le une sulle altre per un’altezza di circa un metro, coperte di terra e di erbe selvatiche, di rovi di scille di asfodeli. A tanta distanza di tempo ricordo benissimo che il muretto ad un certo punto subiva un’interruzione decisa e recisa, sena la minima traccia di continuità: originaria tale interruzione, o derivata da asportazione del materiale? Ipotesi l’una e l’altra ugualmente attendibili.Rileggendo oggi il bozzetto che nell’occasione fu steso dal De Giorgi e poi pubblicato nella Rivista storica salentina (an. X, pag. 5 e segg.), mi torna chiaro alla memoria il sorriso di compiacenza che animò il volto dell’illustre amico quando io richiamai a proposito della tradizione salentina i perduranti toponimi di due masserie in territorio di Mesagne, la Camarda e la Camardella, immediatamente a sud del Limitone, accennanti, secondo il Racioppi, ad accampamenti greco-bizantini. Il De Giorgi non tacque, e, osservata la carta dell’Istituto geografico militare che teneva stesa fra le mani, mi segnalò subito il toponimo Morgingappa (da Morgengabe) tradotto erroneamente in Malch’incappa, e che designa una masseria a nord del Limitone in territorio di Latiano; nonché l’altro Campi dei Longobardi, oggi Campi distrutto, a nord di Mesagne, verso S. Vito.[2]

Copertina della rivista Japigia

 

Del Morgincap francavillese parla invece Cesare Teofilato, in un suo articolo del 1947[3], e il Rholfs, nel suo Vocabolario dei Dialetti Salentini inserisce il vocabolo Maru-c’incappa così definendolo: “nome di una masseria tra Francavilla e Sava (‘povero chi ci capita’, deform. dal longob. morgangaba ‘dote’?)”. [4]

Maraciccappa è in effetti una località in agro di Francavilla Fontana, attraversata dalla strada provinciale Sava-Francavilla Fontana e dalla strada comunale San Marzano-Oria. Qui si trovano la Masseria Maraciccappa e la Masseria Trentavagliuni, la Specchia Tarantina con la sua grotta carsica, e nelle contrade circostanti sorgono altre suggestive masserie, edicole votive e antiche case rustiche.

Del toponimo Maraciccappa, definendolo di origine longobarda in quanto derivato da morgengabe (o morgengab, morgingab, morgincap) parlano anche la Uggeri Patitucci[5] e lo storico locale savese Gaetano Pichierri,[6] inserendolo in una lista di toponimi presenti in diverse località situate appunto sul confine tra Longobardi e Bizantini. Tra Torre Santa Susanna, Mesagne e Latiano esistono “Camarda” e “Camardella” (tende, accampamenti bizantini) , “Farai” (guarnigioni di militari), “Maraciccappa” (doni della prima notte). A Francavilla Fontana Maraciccappa (detto anche Mali a ci ccappa e Marucincappa) e Guardiola (warta in longobardo), a Sava Camarda.

Tuttavia, nel suo saggio “Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, il Sabatini va cauto nella attribuzione del toponimo Marucincappa ad un etimo longobardo: lo inserisce difatti in una lista di toponimi dalla incerta derivazione.[7]

 

targa incassata nel muro del cortile di una masseriola sulla strada Maraciccappa

 

Come abbiamo già detto, secondo gli assertori della derivazione longobarda del toponimo, Maraciccappa o Maruciccappa, Marucincappa, Malicicappa (e varianti similari) deriverebbe da mongergabe (morgengab, morgingab, nei documenti latini spesso morgincap, morgincapitis) che sta a significare “dono del mattino”, ed era il regalo che il marito faceva alla sposa il giorno dopo la prima notte di nozze. Questo dono, oltre a sancire l’unione coniugale, veniva concepito anche come risarcimento alla donna della verginità perduta (per questo motivo, era detto anche pretium virginitatis).

Abbiamo visto però che il Sabatini mette in dubbio la derivazione di Maraciccappa da morgengabe, e certamente il toponimo attribuito a queste località dalla tradizione popolare sottende qualcosa di più che un mero “erore di traduzione” come lo definisce l’ Antonucci. Che si tratti del riadattamento o della rielaborazione di un termine e di un toponimo più antico o che sia semplicemente il toponimo coniato in origine non possiamo affermarlo con certezza, ma la tradizione attribuisce alla località e al toponimo stesso ulteriori significati. In occasione di alcune interviste da me condotte sulle credenze popolari locali alcuni anni fa, Cosimo Schifone, contadino savese (condussi la mia intervista nel 2014, e Cosimo, oggi scomparso, all’epoca aveva 84 anni), mi racconta della “strada di mar’a ci ccappa” o “mali a ci ccappa”, situata tra Sava e Francavilla Fontana, in prossimità di Francavilla: “Dalle parti della strada Sava-Francavilla c’è la “strada di mali a ci ccappa”. La chiamavano così, perchè si dice che ci fossero le malombre: potevi uscirne morto, da quella strada, si raccontava …”. Nella prosecuzione del racconto, Cosimo, dopo aver abbozzato un sorrisetto imbarazzato, mi dice, razionalizzando: “… ma io non ci credo: la spiegazione è nel fatto che da lì passavano i briganti, e assalivano la gente che si avventurava in quelle strade”. Mi espone però, anche , un antico detto popolare: “Alla strata ti mali a ci ccappa, si mori pi la fami e pi la secca”. “Perchè questo detto ?”, gli chiedo. – “ Perchè, appunto, là ti assalivano le malombre e non ti lasciavano più andare, secondo la diceria”.

Se trattasi dunque di rielaborazione popolare, è assai originale; c’è da chiedersi, deriva da una attribuzione toponomastica dei luoghi fondata su altre, slegate leggende? Oppure prende spunto dal “morgincap” e affonda fantasiosamente le sue radici nella storia dei luoghi rievocando i fantasmi dei suoi antichi abitatori?[8] Dunque “è tutto vero”, nel senso che la tradizione popolare ha arricchito di fantastiche simbologie e leggende la storia di questi posti, tanto intrisi di magia quanto le vicende che li hanno caratterizzati? Sono luoghi che in effetti trasmettono e suscitano inquietudine, curiosità e senso di mistero: caratteristica e inquietante al tempo stesso è un antica masseriola situata lungo la strada Maraciccappa (tra la masseria Trentavagliuni e la masseria Monte Ciminiello), all’interno della quale vi è una targa numerata con la denominazione della contrada. La costruzione, in cattivo stato di conservazione e attualmente piena all’interno di cumuli di rifiuti e di residui di eternit là abbandonati, è assai suggestiva ed è dotata di un muro di cinta di antichissima fattura.

 

Mura di cinta masseriola in località Maraciccappa

 

Masseriola in località Maraciccappa, particolare

 

Masseriola in località Maraciccappa

 

La masseria Trentavagliuni (detta anche Trentavagnuni) situata nei paraggi, è citata nel 1893 nella Rivista delle Tradizioni Popolari italiane curata da Angelo De Gubernatis. Chi ne parla è, con lo pseudonimo di Duchessa D’Este, Caterina Barbara Forleo (1874-1935), nobile napoletana trapiantata a Francavilla Fontana.

Caterina Barbara Forleo

 

La Forleo fu apprezzata poetessa, giornalista e scrittrice con una grande passione per l’etnografia. In un articolo dal titolo Usanze, credenze e superstizioni pugliesi scrive:

si sa che nella masseria Trenta vagnuni (ragazzi) vi è una grotta chiamata grotta del cane; le si da questo nome perchè – si dice – che nemmeno un cane resiste ad avvicinarsi all’imboccatura di essa senza morire. Un signore, amico nostro, asserisce ch’esso vi è entrato, quando era piccolo, e che la volta è ornata tutta di stalattiti. I contadini dicono che là dentro vi è lu contra jentu (contra vento) e nessuno osa entrarvi”.[9]

Nei paraggi le cavità naturali abbondano, e probabilmente la grotta alla quale la Forleo si riferisce è una diramazione della nota “Grotta Tarantina” o “Grotta Specchia Tarantina” situata a poca distanza dalla masseria.

Imboccatura Grotta Tarantina, immagine tratta da Catasto Grotte e cavità Artificiali FSP – Federazione Speleologica Pugliese

 


Masseria Trentavagnuni o Trentavagliuni

 

La masseria Maraciccappa invece è una struttura in buona conservazione, risalente al XVII-XVIII secolo sul cui lato frontale è inglobata una imponente cappella in stile tardo-neoclassico. Qui, è interamente ambientato il testo di una canzone popolare nota tra Francavilla Fontana, San Marzano, Sava e altri paesi della zona. La canzone è intonata su una melodia di pizzica in minore e si apre con la citazione, nella prima strofa, del detto popolare di cui abbiamo già parlato (“alla strata ti mara a ci ccappa si mori pi la fami e pi la secca”: in questo caso, varia leggermente riferendosi alla masseria “questa è la masseria ti mara a ci ccappa, si mori ti la fami e ti la secca”). Le strofe seguenti raccontano di un giovane lavoratore della masseria vessato dai suoi gestori, e si configura da una parte come canto di dileggio, e al tempo stesso di malizioso corteggiamento da parte del giovanotto verso la sua datrice di lavoro. Si tratta di una versione locale della nota canzone “Mamma la rondinella”. L’intero testo differisce completamente dalle versioni eseguite dai moderni gruppi di pizzica e musica popolare, eccetto che nel ritornello “mamma la rondinella, mamma la rondinà”, mentre la melodia è identica in questa e in tutte le altre versioni. Lo riporto a seguire (ringrazio Corina Erario per averlo rintracciato e avermelo fornito):

“Questa è la massaria mara a ci ccappa

si mori ti la fami e ti la secca

ninà ninà ninà l’ora è rrivata

allu patrunu li mu fattu la sciurnata

antera antera facci ti galera

fa scapulà li femmini ca è sera

e ci cu me uè canti aza la voci

ca lu palazzu è iertu e no si senti

e ci lu palazzu è iertu fallu bbasciàri

ca voci no ni tegnu pi cantari

com’aggia fa lu pani crammatina

mi manca lu luatu e la farina

ninà ninà ninà tu non la vinci

pani ti casa mia tu no ni mangi

lu pani ti casa tua aggià mangiari

e allu liettu tua m’aggià curcari

mamma la rondinella mamma la rondinà

mamma la rondinella gira e vota e se ne va”

 

 

Masseria Maraciccappa, Francavilla Fontana

 

Piantina zona Maracciccappa, tratta dalla cartografia PUG Francavilla Fontana

 

 

Note

[1]  Via via, nelle ipotesi e negli studi dei vari eruditi, storici, ricercatori ed archeologi salentini e non, “il Paretone” è passato da Magnus Limes eretto dagli abitanti della Magna Grecia, a opera difensiva messapica, da Limes bizantino a muro di confinamento tra il Principato di Taranto e la Foresta Oritana, sino al negazionismo di chi la identifica come “muraglia immaginaria” eretta come un fantasioso puzzle dagli stessi studiosi che avrebbero “messo insieme” e in un (più o meno) unico (ma anche cangiante) percorso, grosse muraglie originate dalla spartizione tra feudi. Vedi: Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”, in “Archeologia Medievale, XXVII, pp. 333-355

[2]  Giovanni Antonucci, Il Limitone dei Greci, Japigia Rivista Pugliese di Archeologia Storia e Arte, IV, 1, 1933, pp. 79-80

[3]  Cesare Teofilato, Confine Longobardo di Terra d’Otranto e ‘Morgincap’ Francavillese nel secolo VIII, in: Libera Voce, Lecce 1947 (V, 20-21-22). Ho rintracciato note su questo scritto ma non sono riuscito a visionarlo.

[4]  Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) Volume Primo, Accademia bavarese delle scienze di Monaco di baviera, 1956, ristampa a cura di Congedo Editore, Galatina, 2007, pag. 322

[5]  Stella Uggeri Patitucci, La necropoli longobarda di Gennarano sul confine bizantino di Terra d’Otranto, Università degli Studi di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1974, pp. 5-31

[6]  Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: G. Uggeri, Notiziario Topografico Pugliese, I, Contributi per la Carta Archeologica e per il censimento dei Beni Culturali, Brindisi, 1978, pag. 152

[7]  Francesco Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale”, in: Carlo Ebanista e Marcello Rotili (a cura di), “Aristocrazie e società fra transizione romano-germanica e alto medioevo”, Atti del Convegno internazionale di studi Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012 , Tavolario Edizioni, S. Vitaliano (NA), 2015, pag. 407

[8]  Angelo Sconosciuto (pseud.), Là dove San Pietro ferma il tempo, Alceo Salentino, luglio 2005 http://www.alceosalentino.it/l-dove-san-pietro-ferma-il-tempo.html

[9]  Caterina Barbaro Forleo (pseud. Duchessa D’Este), Usanze, credenze e superstizioni pugliesi, in “Rivista delle Tradizioni Popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis”, Anno I, fasc. I, Forni Editore, Bologna, 1893, pag. 319.

Libri| Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870)

di Alessio Palumbo

Con la presa di Roma del 1870, il processo di unificazione nazionale raggiungeva uno degli obiettivi più attesi ed agognati. Le terre (le celebri terre irredente) ottenute sui tavoli della conferenza di Versailles segneranno un ulteriore passo in questa eccezionale opera politica e militare, tuttavia fu forse Roma, con il suo valore storico, culturale e simbolico a rappresentare la conquista più prestigiosa e sperata da generazioni di patrioti italiani. Una conquista avvenuta a soli dieci anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, dopo una serie di tentativi falliti. Dieci anni di estrema importanza per la nascita e la strutturazione del nuovo stato unitario.

Il volume da poco edito da Salvatore Coppola, Noi speravamo. La costruzione dello Stato unitario tra forme di ribellismo e crisi delle certezze. Il caso Salento (1861-1870), Castiglione Salentino, Giorgiani 2020, esamina questo decennio cruciale attraverso una serie di saggi incentrati sul ruolo avuto dai patrioti salentini nell’opera di consolidamento del processo unitario. Ciascuno con la propria storia e con le proprie idee: dai moderati unitari come Castromediano e Oronzio De Donno, ai repubblicani radicali come Libertini, dai federalisti-unitari come Giuseppe e Liborio Romano a uomini come Pisanelli, Mazzarella e altri che hanno accettato il compromesso con i Savoia pur di raggiungere l’Unità.

A centocinquanta anni da quelle idee e da quegli avvenimenti, è per Coppola giunto il momento di riflettere sulle delusioni e sulle crisi delle certezze di molti di quei protagonisti. L’accentramento invece del decentramento federale; la repressione manu militari dei fenomeni di ribellismo delle masse contadine al posto delle riforme sociali ed economiche auspicate soprattutto dai Romano, ma anche da Castromediano; il compromesso con l’Impero francese sul destino di Roma (Convenzione di settembre), che segnò il divorzio tra mazziniani radicali e governo centrale; la mancata attuazione di riforme strutturali nel Mezzogiorno; tutto questo (e altro ancora) ha portato la gran parte dei patrioti salentini a rimanere “delusi” per quanto in quel decennio si stava realizzando. Di qui il Noi speravamo, del titolo. Una delusione, quella studiata nei saggi di Coppola, che va oltre le banalizzazioni di certo revisionismo neoborbonico tanto di moda. Una disillusione che erompe in chi ha fieramente creduto nell’ideale nazionale, salvo poi vedere quello stesso ideale ridimensionato o cancellato nelle complesse dinamiche (governative, parlamentari, politiche) che animarono il primo decennio di vita del neonato Regno d’Italia.

Da qui l’importanza e la significatività di questo ulteriore studio di Salvatore Coppola nel contesto storico del Salento all’indomani dell’unificazione nazionale.

Erano Sallentini o Salentini?

di Nazareno Valente

 

Poi alla fine qualcuno di noi scoprirà che i suoi avi erano più precisamente Calabri, e che con i Sallentini o i Salentini — come dir si voglia — avevano solo comunanza di stirpe. Comunque sia intriga ugualmente il quesito posto dall’amico Armando Polito nel suo recente interessante intervento, “Salentini o Sallentini?”, su quale di questi due termini debba considerarsi corretto.

Premetto che, per me, la forma da preferirsi è Sallentini.

E cercherò di avvalorare questa mia scelta partendo, visto che si tratta di antichità, da lontano.

La prima volta che le fonti narrative antiche citano la nostra terra non ne menzionano la denominazione, ma unicamente la zona geografica dove essa era collocata. È infatti riportato che è quella parte della Iapigia («Ἰηπυγίης») che sta a sud dell’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος»)1.

Erodoto — che, mi piace pensare, introdusse questo passo mentre in una serata estiva d’un anno vicino al 440 a.C. declamava le sue “Storie” ai concittadini Turini, tradizionali alleati dei Brindisini — non dà pertanto un nome al nostro popolo né alla nostra terra. Utilizza infatti un più generico toponimo, Iapigia, che caratterizzava una regione ben più vasta, pressappoco coincidente con l’attuale Puglia e quella parte della Lucania che si affaccia sul mare Ionio, e che comprendeva quindi anche la penisola che noi chiamiamo salentina.

Iapigia e Iapigi, risultano rispettivamente il più antico coronimo ed etnico utilizzati per definire la nostra terra ed i nostri antenati. E, cosa meno nota, erano termini utilizzati dalla gente del luogo per definire sé stessi, quando nel II millennio i Greci non avevano fatto ancora capolino in quelle contrade.

Quando i colonizzatori greci alfine arrivarono, causarono una piccola grande rivoluzione nella società iapigia che incominciò a differenziarsi e, nel corso del tempo, finì per formare al proprio interno gruppi etnici con differenti specificità.

Al riguardo la tradizione maggiormente accolta è quella di matrice greca che prevede la ripartizione degli Iapigi in Dauni, Peuceti e Messapi i quali ultimi occupavano la Messapia, i cui confini erano appunto all’incirca delimitati a nord dall’istmo che collega Brindisi a Taranto.

Tale percezione divenne sempre più esplicita in età ellenistica fino a trovare una sua compiuta definizione nella tradizione divulgata da Nicandro di Colofone2 il quale narra come Licaone, che ebbe per figli Iapige, Dauno e Peucezio, raccolto un grosso esercito in gran parte composto da Illiri guidati da Messapo, giunse sulla costa adriatica e scacciò gli Ausoni. Effettuata la conquista, divise l’esercito e il territorio in tre parti, denominati in base al nome di chi li comandava, Dauni, Peucezi e Messapi, e la regione che si protendeva nella parte estrema dell’Italia al di sotto di Taranto e Brindisi fu chiamata Messapia.

In definitiva la ripartizione canonica della regione Iapigia, vale a dire grosso modo dell’attuale Puglia, in Daunia, Peucezia e Messapia, accolta anche da storici del calibro di Polibio3 e da geografi tipo Strabone4, e che soggiace di fatto alla visione egocentrica con cui i Greci erano soliti vedere tutto ciò che era di là dai propri confini.

Era tipico della spocchia greca che le terre ed i popoli fossero ridefiniti con nuovi termini, del tutto diversi da quelli usati dagli indigeni. Così, ad esempio, gli Etruschi diventavano per loro i Tirreni. Allo stesso modo, i nostri progenitori divennero Messapi. Queste operazioni erano poco accettate dalle comunità locali, in genere molto legate alle proprie tradizioni e denominazioni, però prendevano piede e finivano per creare una specie di sudditanza al mondo ellenico, che era appunto l’obiettivo ultimo di chi si poneva di svolgere azione colonizzatrice.

In questo modo si sono perse memorie e termini antichi, dando luogo anche ad aspetti per certi versi ridicoli: mentre i nostri antenati sarebbero andati su tutte le furie a sentirsi definire con un etnico diverso da quello da loro scelto, noi ne andiamo quasi orgogliosi. I Toscani si guarderebbero bene dal dirsi discendenti dei Tirreni, mentre sono fieri d’essere stati Etruschi. Noi, invece, gonfiamo il petto a dirci Messapi e, magari, neppure sappiamo che non era l’etnico natio, avendo di fatto assorbito, senza averne cognizione, questa forma forzata di integrazione culturale che ha eclissato le nostre origini.

Probabilmente molti di noi neppure sanno quali erano i coronimi e gli etnici coniati dai nostri antenati.

Ebbene, chi volesse scoprirli, ricorra a Strabone che, per nostra fortuna, ce ne ha lasciato memoria. Il geografo pontico ci fa infatti sapere che la denominazione geografica di Messapia è di origine greca («Μεσσαπίαν καλοῦσιν οἱ Ἕλληνες»), mentre la gente del luogo («ἐπιχώριοι» epicórioi) ripartisce la Messapia nel territorio dei Salentini («Σαλεντῖνοi») e in quello dei Calabri («Καλαβροὶ»). Successivamente6 ci fa sapere che gli indigeni chiamano la propria terra Calabria («Καλαβρία»).

In definitiva, i nostri progenitori non usavano le denominazioni greche, Messapia e Messapi, ma quelle da loro ideate, vale a dire Calabria, per definire la terra che noi chiamiamo Salento, e Calabri e Salentini, per indicare le genti che la popolavano. Quindi, di fatto, un solo coronimo, Calabria, e due etnici, Calabri e Salentini.

In merito a questa ripartizione dei popoli che l’abitavano, lo stesso Strabone specifica, sia pure in modo generico, che la terra dei Salentinoi è attorno a Capo Iapigioτὸ περὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»7) — lasciandoci così intendere che gli insediamenti Salentinoi sono limitati attorno al Capo di Santa Maria di Leuca — e che il resto della regione è abitato dai Calabroì. Grazie all’apporto di altri geografi e storici dell’antichità si viene a conoscenza di altri particolari che consentono di definire con una qual certa precisione quali erano in epoca classica gli stanziamenti di questi popoli consanguinei8.

Senza dilungarci, riassumiamo le conclusioni cui si è pervenuti.

Località Calabre: Ostuni, Carovigno, Caelia (forse Ceglie Messapico), Brindisi, Scamnum (forse Mesagne), Oria, Manduria, Valesio, Lecce, Rudiae, Statio Miltopes (forse San Cataldo), Fratuentum, Portus Tarentinus, Otranto.

Località Salentine: Soleto, Vaste, Castrum Minervae (probabilmente Castro), Vereto, Capo di Santa Maria di Leuca, Ugento, Alezio, Gallipoli, Nardò, Senum.

 

Sin qui abbiamo consultato solo autori di lingua greca i quali ribadiscono quanto già è a nostra conoscenza, vale a dire che le fonti elleniche utilizzavano in maniera esclusiva il termine Salentini.

Le fonti latine incominciano ad interessarsi della nostra terra, solo quando essa entrò nell’orbita romana e, a differenza delle fonti letterarie greche – che, come visto, privilegiavano termini di propria ideazione – facevano in maniera quasi esclusiva uso della terminologia indigena.

Di fatto il mondo latino accantonò i termini di matrice greca per divulgare solo quelli d’origine autoctona.

Era questo un approccio del tutto diverso da quello attuato dai colonizzatori greci. Un approccio che aveva una chiara impronta politica: far comprendere ai popoli conquistati che non si volevano deprimere i loro usi, i loro costumi e le loro più antiche tradizioni che, anzi, s’intendevano valorizzare.

Era il modo usuale d’agire dei Romani che concedevano ampio spazio gestionale alle città sottomesse, lasciandole libere di fare al proprio interno ciò che ritenevano meglio. Di là dai confini cittadini, però, non avevano più alcun potere, nel senso che non potevano avere una propria politica estera. Anche il dissidio più banale tra comunità vicine doveva essere infatti composto da un’autorità romana. E lo stesso avveniva per qualsiasi attività contrattuale, salvo gentile concessione di Roma.

Non fu pertanto a caso che, l’apparato augusteo, nel delineare un possibile scenario geografico delle popolazioni italiche, utilizzò in maniera diffusa i vocaboli indigeni.

La nostra terra fu quindi conosciuta nel mondo antico con il nome di Calabria9, che era il coronimo di derivazione locale creato dai nostri antenati, ed i popoli che vi abitavano venivano chiamati Calabri10 e Sallentini, anch’esse voci di origine autoctona.

In effetti occorre ricordare che quest’ultimo termine era privilegiato dagli storici e dai letterati latini che l’usavano in prevalenza anche per definire chi in effetti era più propriamente Calabro11. Sicché i Brindisini venivano, a volte, detti Sallentini, sebbene fossero in realtà Calabri.

In definitiva il termine in origine era di matrice indigena. E, nella traslitterazione in lingua greca, era stato reso con una lambda — corrispondente alla “l” latina — (Σαλεντῖνοi, Salentinoi), mentre in quella latina con una doppia lettera “l” (Sallentini).

Pertanto, constatato che il vocabolo è autoctono, il quesito può essere posto in questi termini: quale di queste due trascrizioni è più corrispondente alla voce originaria?

Già per il fatto stesso che i Romani, a differenza dei Greci più propensi a filtrare ed a modificare ogni cosa secondo il proprio metro di giudizio e le proprie convinzioni, fossero in genere rispettosi delle tradizioni dei popoli con cui venivano a contatto, indurrebbe a credere che la forma più fedele al termine originario sia quella latina. E quindi con una doppia “l”.

Si aggiungono poi due ulteriori considerazioni che avvalorano ancor più questa ipotesi.

Tra i tanti autori latini che impiegano il termine Sallentini ci sono pure Marco Porcio Catone12 e Cicerone13. Il primo un tradizionalista per antonomasia; il secondo un attento divulgatore delle forme linguistiche in uso. Entrambi pertanto, sia pure per motivi diversi, poco disposti ad impiegare un termine in maniera palesemente scorretta.

Ma quel che più conta è che quando il vocabolo s’impose veniva veicolato per lo più in forma orale, non certo in forma scritta.

Ora la doppia consonante viene espressa con un suono che, pur essendo singolo, è reso in modo più continuato e più lungo. Tuttavia, per chi ascolta, fare l’analisi dei suoni in determinate circostanze non è un’operazione del tutto banale, e questo a maggior ragione avviene quando gli interlocutori si esprimono in linguaggi diversi e magari la parola che si ascolta presenta delle difficoltà. Una di queste è insita nel suono allungato che si deve riconoscere per comprendere che si ha a che fare con una consonante doppia. Si pensi ad esempio ai Veneti, portati nel loro dialetto a non usare quasi mai le doppie, e che hanno qualche difficoltà a percepirne l’utilizzo anche nella lingua italiana che adoperano usualmente.

Un qualcosa del genere avviene anche per i Greci moderni che pronunciano le doppie in modo un po’ più prolungato ma mai continuato come facciamo noi. Per cui le consonanti doppie — e tra queste anche la lettera lambda (λ), come già detto corrispondente alla lettera latina “l” — sono da loro espresse come se fossero singole. Di conseguenza, ad esempio, il termine Ελλάδα (Elláda) lo pronunciano Eláda.

Ora è vero che non sappiamo se questa abitudine dei greci moderni possa essere attribuita pari pari a quelli del tempo antico, tuttavia non pare insensato ipotizzare che il Sallentini, pronunciato dai nostri avi, sia stato riportato oralmente dai Greci senza far sentire la doppia e di conseguenza traslitterato in lingua greca con una sola lambda. In pratica il termine originario Sallentini – contenente una doppia “l” – divenne traslitterato in greco Σαλεντῖνοi (Salentinoi), con una sola lettera lambda.

Mi pare, in definitiva, che ci sia più d’un motivo per credere che la forma latina sia quella più corrispondente al termine originario. E che, quindi, “Sallentini” sia l’interprete più fedele dell’antica espressione coniata dai nostri avi.

 

Note

1 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

2 NICANDRO DI COLOFONE (II secolo a.C.), conservato presso ANTONINO LIBERALE (…), Metamorfosi XXXI, fr. 47 Schneider.

3 POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo A.C.), Le Storie, III 88, 3.

4 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 1.

5 Ibidem, VI 3, 1.

6 Ibidem, VI 3, 5.

7 Ibidem, VI 3, 1.

8 N. VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, in Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6 – 7, Nardò 2018.

9 L’aspetto un po’ curioso è che molti cronisti brindisini – al pari dei redattori di Wikipedia – ritengono tuttora che Calabria è denominazione d’invenzione romana.

10 Altro aspetto curioso è che molti cronisti e storici brindisini affermano che i nostri progenitori erano Calabresi. Questo è l’etnico degli abitanti della Calabria attuale; gli abitanti della Calabria di epoca romana erano detti Calabri. Il termine Calabresi, infatti, neppure faceva parte del latino classico.

11 Per una più ampia analisi, si veda: VALENTE, La penisola salentina nelle fonti narrative antiche, pp. 104 e 105. Consultabile al link https://www.academia.edu/35875669/La_penisola_salentina_nelle_fonti_narrative_antiche

12 CATONE (III secolo a.C. – II secolo a.C.), De Agricultura, VI 1.

13 CICERONE (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Pro Sesto Roscio Amerino, 132.

La chiesa di S. Giovanni Battista a Presicce

di Andrea Erroi

 

La chiesa di S. Giovanni Battista di Presicce, nota ai più come “Carmine”, è indissolubilmente legata ai padri carmelitani, presenti sino alla soppressione del 1809.

Nel 1559 Martino Alfarano lasciava eredi testamentari di tutti i suoi beni i carmelitani di Lecce, con l’obbligo di fondare in Presicce un convento del loro ordine e di intitolarlo a S. Giovanni Battista. La scelta del santo indicato dal benefattore potrebbe derivare dalle origini acquaricesi dell’Alfarano: S. Giovanni Battista, infatti è stato il protettore di Acquarica del Capo sino al ‘600 per poi essere sostituito da S. Carlo Borromeo.

Ampliato e rimaneggiato più volte nei secoli, il complesso originale doveva apparire assai diverso da quel che vediamo oggi. Dai documenti, dall’iscrizione del portale e dall’epigrafe settecentesca sulla controfacciata, si apprende che l’edificio fu riedificato nel 1695 per poi essere rimaneggiato nel 1790.

 

La chiesa si sviluppa con uno schema longitudinale ed è scandita da tre campate, una delle quali più stretta e più alta, che sovrasta l’area del coro. Nelle campate dell’aula liturgica si aprono quattro cappelle con altari in stucco, coeve agli stucchi settecenteschi.

La decorazione del 1790, voluta da fra’ Policarpo Torselli, padre priore del convento, probabilmente mosso dall’entusiasmo della recente riedificazione della parrocchiale (1781), ha interessato l’intero edificio: sia gli intradossi delle volte, sia le partiture architettoniche, sia le quattro cappelle laterali sono caratterizzate da una decorazione a stucco policromo, di gusto rococò che già guarda alle novità neoclassiche, caratterizzato dalle tinte pastello delle campiture sulle quali si stagliano gli stucchi bianchissimi.

 

Durante i restauri del 2015 si è appreso che l’edizione decorativa settecentesca si sovrappone su di un ciclo pittorico del ‘600 (del quale sono visibili alcune porzioni) che interessava l’intero edificio ecclesiastico. Della chiesa seicentesca rimane il superbo altare maggiore in pietra leccese. Con il recente restauro l’esuberante modellato e le dodici statue di angeli, santi e profeti che lo costituiscono hanno recuperato l’originale policromia barocca. Quando nel Settecento si rinnovarono le decorazioni dell’edificio, l’altare venne integrato agli stucchi con la realizzazione di un nuovo tabernacolo, con mensa e paliotto in stucco dipinto a finto marmo, secondo il gusto del tempo.

particolare con le pitture a monocromo

 

particolare dell’altare maggiore con angelo musicante

 

Per la complessità dell’edificio che, come accennato, è caratterizzato dalla successione di epoche e stili che si stratificano gli uni agli altri e le differenze materiche costitutive dei manufatti (sculture lapidee, litoidi, perni metallici originali, inserti lignei, ceramiche, dipinti murali, ecc.) le operazioni di restauro sono state precedute da uno studio stratigrafico e analisi di laboratorio, necessari a comprendere la storia degli apparati decorativi.

Alle indagini preliminari hanno seguito le operazioni di conservazione e restauro, condotte su tutte le superfici murarie interne che si presentavano ricoperte da svilenti tinteggiature contemporanee, da numerose scialbature di calce e ridipinture manutentive che nel tempo si erano sovrapposte sulle pareti, sugli stucchi e sull’altare maggiore.

Nel 1711 mons. Tommaso De Rossi, in visita nella chiesa, visita l’altare e lo definisce “bene ornatum et ex lapide liciensis confectum”. Esso si sviluppa nel presbiterio dividendo l’aula ecclesiastica dal coro. Come annota il presule, è realizzato in pietra leccese ed è caratterizzato da un complesso programma iconografico che mostra un modellato ricercato con putti, cherubini ed esuberanti decorazioni barocche, con uccelli e decorazioni fitomorfe. Quattro colonne tortili reggono la trabeazione, sulla quale appare una gloria di angeli musicanti e le sante carmelitane Teresa d’Avila e Maddalena de’ Pazzi. Nel registro inferiore e sulle paraste sono collocate le statue dei santi carmelitani Angelo martire e Alberto, mentre tra i profeti Elia ed Eliseo, al centro dell’altare, vi è la statua del Battista. Inoltre, l’altare accoglie in un’edicola, dalla cornice quadrilobata, un dipinto su tela raffigurante la Madonna del Carmine.

particolare dell’altare maggiore con statua di Santa Teresa

 

Sulle due porte che immettono nel coro, sormontati dai profeti vi sono due clipei, chiusi da un vetro, retti da angeli, un tempo adibiti ad accogliere reliquie: infatti, durante la citata visita pastorale del De Rossi, egli, non trovando documentazione certa circa l’autenticità delle reliquie, le fece rimuovere dai frati.

 

 

 

paliotto dell’altare maggiore

L’altare è un prezioso manufatto lapideo, testimonianza delle tecniche artistiche e della sensibilità cromatica del XVII sec. La ricca policromia, emersa dopo un lungo e delicato intervento di restauro, ci racconta che il barocco leccese, caratterizzato per la tenera pietra, quasi sempre accompagnava alla scultura il gusto per il colore.

Salentini o Sallentini?

di ArmandoPolito

Credo che, se questa domanda fosse posta a chi è mio conterraneo o a chi non lo è, quasi tutti risponderebbero: – Salentini, no? -.  E io ribatterei: – Perché?-. La risposta, questa volta, sarebbe forse più scontata della prima: – Perché è da Salento e non da Sallento -.

Eppure, se cercate nell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/sallentini/) non troverete la voce Salentini, ma digitando Sallentini apparirà la schermata che riproduco.

Perché questa secondarietà di Salentini rispetto a Sallentini, tanto da renderne impossibile il reperimento diretto? E perché, se anziché nell’enciclopedia cerco nel vocabolario, sempre on line (http://www.treccani.it/vocabolario/salentino/) non trovo nulla per sallentino e invece compare quanto segue per salentino?

La spiegazione dell’apparente contraddizione sta anzitutto nella natura prevalentemente scientifica di un’enciclopedia rispetto ad un comune vocabolario e nello specifico tutto è dichiarato nell’antica che accompagna la definizione di Sallentini.

La sfortuna sembra accanirsi contro di noi perché, contrariamente al solito (potete provare con altri nomi propri), l’enciclopedia non mi propone alcun etimo, mentre il vocabolario mi dà il Salentinus, anche, se più correttamente, sarebbe dovuto essere Salentinu(m), che essendo un etnico, cioè un nome di popolo (comunque un aggettivo derivante da un nome proprio), suppone la derivazione da un toponimo, nel nostro caso Salentum.

Trasferendo il processo alla voce dell’enciclopedia, ci saremmo aspettato di leggere: da Sallentum o Salentum. Dico subito che né SallentumSalentum è attestato da qualche fonte1, mentre l’etnico Sallentini o Salentini lo è ampiamente, ma nel modo che segue (riporto gli autori in ordine cronologico e nella tradizione manoscritta più accreditata):

SALLENTINI 

Polibio (II a. C.), Storie (in greco), frammento citato da Plinio (vedi più avanti) in Naturalis Historia, III, 5, 75.

Il Sallentinos che vi compare, però, non è detto che corrisponda ad un originale greco Σαλλεντίνους (leggi Sallentìnus) e non Σαλεντίνους (leggi Salentìnus), tanto più che nella Naturalis Historia Plinio usa costantemente la forma con doppia l.

Varrone (I a. C.), De re rustica, I, 24, 1 e II, 3, 10

Virgilio (I a. C.), Eneide, III, 400

Sallustio (I a. C.), Storie (per tradizione indiretta: citato da Servio (IV-V d. C.)nel suo commento al passo dell’Eneide di Virgilio prima citato)

Ovidio (I a. C.-I d. C.), Metamorfosi, XV, 51

Livio (I a. C.-I d. C.), Ab urbe condita, IX, 42, 4; X, 2, 1; XXIII, 48, 3; XXIV, 20, 16; XXV, 1, 1; XXVII, 15,4; XXVII, 22, 2; XXVII, 36, 13; XXVII, 40, 10

Mela (I), Chorographia, II, 59; II, 68

Plinio (I), Naturalis historia,  II, 107, 240; III, 5, 38; III, 11, 9; III, 11, 104; III, 11, 105; III, 23, 145; XV, 4, 20

Silio Italico (I), Punica, VIII, 573

Frontino (I-II), Stratagemata, II, 3, 21

Floro (II), Epitome delle Storie di Tito Livio, I, 15

Festo (II), De verborum significatu, frammenti  alle  pp. 196 e 441 dell’edizione Lindsay

Solino (III), Memorabilia, 2, 10

Eutropio (IV), Breviarium ab Urbe condita, II, 17

Macrobio (IV-V ), Saturnalia, III, 20, 6

Servio ((IV-V ), Commento all’Eneide di Virgilio, III, 121); Commento alle Georgiche di Virgilio, IV, 119

Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 639

Giulio Capitolino (V?), Vita di Marco Aurelio Antonino il Filosofo (in Historia Augusta, 1, 8)

Scholia Bernensia in Vergilii Georgica  (VII-IX), III, 1

Stefano Bizantino (V-VI), Ethnica (in greco), alla voce Σαλλεντία (leggi Sallentìa)

 

SALENTINI

Varrone (I a. C.), frammento delle Antiquitates rerum humanarum citato dallo Pseudo Probo (probabilmente V d. c.), nel suo commento alle Bucoliche (VI, 31) di Virgilio, ma il Salentini che vi compare contrasta con il Sallentini usato, come abbiamo visto, da Catone nel De re rustica e non appare, dunque, come voce originale attendibile.

Dionigi di Alicarnasso,  ( I a. C.), Antichità romane (in greco), I, 51, 3

Verrio Flacco (I a. C.-I d. C.), citato da Festo (II) nel De verborum significatu

Strabone (I a. C.-I d. C.), Geographica (in greco), VI, 3, 1; VI, 3, 5

Tolomeo (II), Geografia (in greco), III, 11 ; III, 67

Tabula Peutingeriana (la redazione originale risale al IV secolo), VI 5- VII 2)

Jordanes (VI), De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum,  161

Guidone (XII), Geographica , 28 (citando Virgilio, Eneide, III, 400) e 67

 

Quanto finora riportato mostra la prevalenza della forma con una sola l negli autori greci, di quella con due nei latini e nella statistica globale. Per quanto riguarda la cronologia il primato spetta ai greci con Polibio, pur con tutti i limiti della tradizione indiretta di cui s’è detto. Se escludiamo Polibio, il conto, dal punto di vista cronologico, è pari, essendo dello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso da una parte e Varrone, Virgilio e Sallustio dall’altra.

Conclusioni: Salentini e Sallentini appaiono entrambe forme corrette e in ambito scientifico l’uso dell’una o dell’altra potrebbe essere ispirato, più che dalla maggiore simpatia riservata alla cultura greca o a quella latina, dalle risultanze statistiche che fanno prevalere Sallentini su Salentini. Per questo motivo, se la voce dev’essere scomodata, mettiamo, per dare un nome latino ad una collana di pubblicazioni, potrebbe porsi, per esempio, il dilemma: la chiamiamo Sallentina fragmenta o Salentina fragmenta? Non sarei intellettualmente onesto se continuassi a spacciare tale dilemma  come esempio e non come esperienza vissuta, nel senso che avevo optato per la seconda soluzione, quando non un illustre sconosciuto, ma Marcello Gaballo mi ha orientato verso la prima, obbligandomi, senza volerlo, a scrivere questo post (se nel leggerlo la noia è progressivamente montata, sapete con chi dovete prendervela …).

Tutt’altra piega ha preso, com’è noto, la voce nell’uso comune, in cui domina incontrastato Salentini, non certo, credo, per suggestione della forma greca ma per scempiamento di –ll– interpretato, forse, come una volgare geminazione, fenomeno che contraddistingue molti dialetti meridionali, in primis il salentino; e non mi riferisco solo al raddoppiamento della consonante iniziale: bbinìre (venire), bbitìre (vedere), etc. etc.

Così  Sallentini, la forma filologicamente e storicamente (se riferita al mondo romano) più corretta, divenne un ricordo sempre più sbiadito, essa che aveva avuto un uso costante nelle pubblicazioni a stampa dalla sua invenzione fino al secolo XIX; di seguito due esempi: il frontespizio del manoscritto autografo dell’Atlante Sallentino di Giuseppe Pacelli (1803) custodito nella Biblioteca Marco Gatti di Manduria (MS. Rr/5) e quello di una pubblicazione del 1833.

 

___________

1 È creazione del tutto moderna, anzi contemporanea, il Sallentum nel quale ci si può imbattere: dal titolo di un libro o di una rivista,

alla proposta di uno stemma territoriale o a quello di un club,

e, per citare prodotti più volatili,  il Salentum di una serie di deodoranti per l’ambiente e di un profumo per l’uomo dinamico e carismatico,

nonché, e poteva mancare?, il Salenzio di cui ho avuto già occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/16/tuttal-piu-me-lo-bevo-ma-non-me-la-bevo/.

La Torre del Tempo. Racconto fantastico dedicato a Torre Inserraglio e ai due Capitani d’Otranto

Porto Selvaggio, vista dalla torre dell’Alto in S. Caterina di Nardò (Lecce), (ph Cristina Manzo)

 

di Clara Rizzi

 

Nell’estate del 1480 due Capitani si incontrarono ad Otranto. Entrambi furono inviati per difendere la città dagli Ottomani. Uno morì il giorno precedente all’altro. 

L’antica sentinella abbagliante si ergeva svigorita sul bordo del mare. Un avamposto possente, privo di merlatura ad ornamento. La pianta quadra.

Sferzate di tramontana ebbra di sale avevano per secoli graffiato la superficie delle solide mura. Solchi scavati dai rigoli della storia disegnavano i contorni delle vecchie pietre.

Stava immobile ad anelare dal mare un Nemico, l’assalitore scellerato che un tempo la insigniva di gloria e di ragion d’essere. Credo sapesse che non sarebbe mai più tornato.

Forse per questo mi parve triste. Più che per le file di formiche indifferenti che scorrazzavano all’ombra del lato nord. Più che per la grigia porta levatoia scardinata e predata dalle catene, accasciata a terra come un soldato morto, rinsecchita da polvere di scoglio.

Si, credo sapesse che era stato per il primo il Nemico ad averla abbandonata. Ma può una Torre desiderare di essere attaccata? Ero immerso in questi assurdi pensieri quando mi resi conto che qualcosa era cambiato: la luce era scomparsa. Era notte, troppo buio per tornare sui mie passi. Gli anfratti che bucavano gli scogli mi avrebbero spezzato una caviglia, o addirittura una gamba. Mentre osservavo uno di quei pertugi olezzanti di alghe in decomposizione che sputava i suoi cadaveri, mi accorsi di un bagliore di torcia all’interno delle mura.

Il timore e la curiosità si contesero per un istante la decisione di darsela a gambe finché tra i litiganti vinse l’incoscienza. Mi arrampicai all’interno dalla porta levatoia senza porta. Una scala in legno nero scendeva da una botola al piano inferiore. Scesi i gradini senza vederli.

Al di sotto, la luce di una seconda torcia ballava con la sommità della volta a botte. Ticchettii di gocce d’acqua a intervalli lenti, regolari giungevano da uno degli angoli semibui. Mi sembrò che contassero il tempo, come l’asta di un pendolo eterno cui l’orologiaio aveva dimenticato di collegare l’orologio. Le gocce penzolavano a lungo da una fonte infilzata nel muro e si lasciavano cadere in una pietra cava.

All’interno delle pareti vi era una cisterna di preziosa pioggia, pensai.

Giunse dal di fuori uno scalpicciare di zoccoli d’animale mischiato a quegli sbuffi che emanano le narici quando grondano di fatica e fiato breve.

Trattenni il respiro. Gli occhi spalancati verso la scala che scendeva dalla porta levatoia senza porta.

Un cavaliere bardato di corazza e stendardi dipinti a mano scese la scala e si piantò di fronte a me.

Appoggiò la pesante spada alla parete e si tolse l’elmo. La fiamma della torcia balenò negli occhi scuri.

“Chi sei?” mi ordinò. Pensai che il suo volto doveva essere stato bello, un tempo.

Lineamenti proporzionati si intuivano sotto la barba incolta, bruna sulla pelle abbronzata. La statura non gigantesca ne esaltava le nobili movenze. Odorava di giornate a cavallo, di fumo e di sangue.

Pensai che non doveva contare più di 36 o 37 anni.

“Mi sono perso” risposi stupito da quel travestimento. Ripresomi chiesi “perché indossi quell’armatura e porti quelle effigi?”

“Sono le effigi del Casato di Pulsano”

La sorpresa divenne spavento.

“Il Casato di Pulsano non esiste più da secoli…Signore” incespicai nelle parole, troppo tardi per fermarle

“Sono stato inviato a combattere contro gli Ottomani. Io e il nobile Francesco della casata Zurlo, combatteremo fianco a fianco”

“Signore, in che anno siamo?” la voce tremolava

“E’ l’estate dell’Anno Domini 1480. Ignobili misfatti stanno per essere compiuti”

Balbettai qualcosa che non riuscii io stesso a comprendere. Dunque la Torre mi aveva trascinato in un altro tempo? Sarebbe bastato ripercorrere a ritroso quei gradini uno più sgangherato dell’altro per ritornare a casa?

Il cavaliere mi sembrò ancora più mesto. Si sedette su una pietra.

“Sono Giovanni Antonio Delli Falconi, Signore di Pulsano. Ogni notte ripercorro la via verso Otranto con i miei 400 fanti. Getteremo le chiavi della città a mare pur di non arrenderci all’infamia. Ci nutriremo di cani e topi pur di resistere ai barbari invasori”. Poi risvegliatosi come da una trance, con l’aria sfinita di chi non può opporsi al suo destino impugnò la spada, risalì la scala e si precipitò all’esterno dove la porta che un tempo era levatoia stava accasciata a terra, come un soldato morto.

Lo seguii fin sulla soglia. Montò sul cavallo che portava le sue stesse effigi, spronò la bestia con piglio fermo. Il cavallo nitrì e si impennò. Galopparono nel chiaroscuro dei raggi della luna finché scomparvero nel buio.

Il mattino seguente pensai di aver sognato.

Il 12 Agosto 1480 Giovanni Antonio Delli Falconi, Capitano, raggiunse Francesco Zurlo, Capitano, ucciso il giorno precedente.

Ogni notte, affacciata verso il mare, una Torre triste per la perduta gloria, dona l’ ultimo riparo ad un nobile Cavaliere. Entrambi attendono il Nemico, ognuno senza più ragione, in un tempo senza fine.

La Xylella e il passato che non ritorna

di Armando Polito

L’immagine è un’incisione di Philippe Galle su disegno di Jan Van Der Straet e fa parte di una serie di venti tavole a corredo di Nova reperta (Nuove scoperte), opera uscita ad Anversa nel 1589. Dal titolo OLEUM OLIVARUM (L’olio delle olive) raffigura tutte le fasi della produzione dell’olio cronologicamente ordinate dallo sfondo (raccolta delle olive) fino al primo piano (trasporto del prodotto finito). La didascalia recita: Decussae olivae adhuc acerbae, ex arbore, pressaeque, pinguis dant olivi copiam (Le olive scosse dall’albero ancora acerbe e pressate danno abbondanza di pingue olio).

Chi nel XVI secolo, celebrando quell’impianto allora avveniristico, avrebbe immaginato che nel XXI proprio nel Salento nello stesso tipo di impianto, anch’esso al passo con i tempi, sarebbe giunto il tempo della desolazione e dell’abbandono?

 

Gallipoli 1856. Disposizioni sanitarie per contagi

Antoine Roux, Brick Schooner (1829)

 

GALLIPOLI. DISPOSIZIONI SANITARIE PER IL CONTENIMENTO DEI CONTAGI IN UN EPISODIO DI COMMERCIO MARITTIMO DEL 1856

 

di Ennio Ciriolo

Anno 1856, marzo[1]

Testimoniale del capitano e verbale di addebiti dei Deputati della salute della Città di Gallipoli Brick-Schooner “Antonino”[2], Capitano: Angelo Caporale di Torre del Greco. Rotta: Palermo-Gallipoli.

Carico: zolfo, caffè e zucchero

 

«Giorno 18 marzo corrente anno 1856 siamo partiti da Palermo, io e la mia ciurma di dodici uomini, con un carico di sacchetti di zolfo in una stiva e altri di caffè e zucchero nella seconda, da consegnare in questa Città di Gallipoli al mercadante Salvatore Filieri, che aveva noleggiato il nostro Scuner denominato Antonino.

Spirando venti di Ovest contrarissimi alla nostra rotta e per cagione dei tempestosi flutti che facevano beccheggiare pericolosamente la nave, fummo costretti a poggiare nel porto di Reggio Calabria.

La mattina del giorno 28, il vento cambia e così, senz’altra novità, fatta vela da Reggio Calabria siamo giunti in questo porto. Faccio perciò richiesta di poter procedere al disbarco della merce».

Questo laconico costituto[3] di approdo apparve sospetto agli ufficiali del porto, ai funzionari della dogana e al Supremo magistrato di sanità marittima della Città di Gallipoli, i quali decisero di indagare sulla condotta del capitano e dell’equipaggio durante il viaggio, ai sensi del nuovo Regolamento di servizio sanitario marittimo nel Regno delle Due Sicilie emanato nel 1853 dal Re Ferdinando II di Borbone.

La lunga permanenza dello Scuner Antonino a Reggio Calabria fu il primo motivo che insospettì le autorità del porto. La sosta imprevista di circa dieci giorni durante un percorso abbastanza breve era difficile da giustificare.

Controllata la patente di sanità[4]dell’equipaggio esibita dal capitano, i magistrati della pubblica salute, attenti ad evitare ogni possibile causa di diffusione di malattie contagiose, trovarono che

«non era a tenore dell’ordinativo delle reali disposizioni, mancandovi in detta patente l’annotazione delle mercanzie a bordo, il luogo di nascita e l’età dei marinai, la bandiera e il tonnellaggio del naviglio, le generalità di un passeggero clandestino presente sul veliero, la provvista di viveri e di acqua necessari all’equipaggio.

Oltre di ciò, ispezionate le stive, scoprirono che nel fondo di detto vascello vi erano armi molto soprannumerarie rispetto a quelle annotate sulle polizze di carico, prive di attestazioni di controlli doganali pregressi e quindi di illecita provenienza».

La nave venne sottoposta a sequestro cautelare per le irregolarità della documentazione, per la presenza di uno sconosciuto a bordo, per le armi non dichiarate, per il sospetto che la loro incerta provenienza potesse essere causa di diffusione di malattie contagiose: peste, febbre gialla, colera, tifo petecchiale o esantematico.

Quelle armi potevano infatti provenire da luoghi infetti o da equipaggi suscettibili di infezioni che, a causa dei commerci illeciti in mare, lontano dai porti, avrebbero trafficato con gente equivoca, capace di sottrarsi al rigido controllo sanitario previsto dai Regolamenti di sanità marittima.

Il capitano dello Scuner Antonino venne richiesto di fornire le sue controdeduzioni riguardo a quanto gli veniva addebitato e di rispondere in maniera chiara e puntuale all’interrogatorio cui era sottoposto.

A discolpa sua e dell’equipaggio, egli addusse le seguenti motivazioni.

«Avendo esso capitano paventato che durante il di lui viaggio il suo Scuner potuto avrebbe incontrarsi con vele nemiche e venire alla pugna, come che a bordo la propria artiglieria di difesa era scarsa assai e debole, saggiamente pensò premunirlo con altre armi con cui potuto avesse far fronte all’inimico.

E data essendosi l’occasione nel porto di Reggio Calabria, allor che si partiva, di far compra di schioppi numero 200, cioè 170 posti già in armeggio e atti all’intutto per dar fuogo all’inimico, e gli altri trenta forniti dei propri ordegni pronti all’impiego per difesa nostra o per respingere i Legni barbareschi che interamente il vasto mare dappertutto infestano».

Ma ormai, alle autorità preposte, non interessavano tanto gli attacchi di pirateria che in effetti erano di molto scemati durante il 1800, quanto le condizioni di salute dell’equipaggio e il controllo della regolarità del carico della nave per evitare ogni eventuale possibilità di contagio che poteva provenire dai traffici marinareschi. Era convinzione comune che i viaggi per mare potessero compromettere la pubblica salute attraverso gli approdi dei bastimenti, i naufragi sulle coste, la tipologia delle merci trasportate, il transito nelle città di mare di gente forestiera sbarcata nel porto, specialmente se provenente dalle coste dell’Africa, dal Levante ottomano, da altri luoghi soggetti al dominio turco, da Tripoli, Tunisi, Marocco.

Possibili portatori di infezioni contagiose erano considerati in primo luogo «l’uomo e tutti gli altri animali pelosi, pennuti e lanuti». Erano poi ritenuti suscettibili di contagio diversi generi di commercio tra cui: lana, cotone, canapa, lino, stoppa, stoffa, tappeti, tabacchi, spugne, carta, libri, qualsiasi tipo di pelli e di cuoi. Anche i metalli, «semplici o manifatturati», potevano risultare contagiosi «per ragion della ruggine e dell’untume che naturalmente concepiscono nell’essere maneggiati»[5].

Nel caso dell’Antonino si giunse facilmente alla conclusione, anche per le reticenti spiegazioni del capitano e dell’equipaggio, che il carico di fucili era stato acquistato illegalmente e che allo stesso modo poteva essere venduto. Per cui, non potendone appurare né la provenienza né le condizioni igieniche, a causa del passaggio nelle mani di organizzazioni clandestine di numerosi trafficanti che inducono condizioni propizie alla ruggine, alla polvere, a germi altamente morbiferi, i Deputati della salute confermarono il sequestro della nave e dell’intero carico.

Al Pretore del Mandamento di Gallipoli venne demandata, per competenza, la valutazione dei risvolti penali dell’intera vicenda e delle sanzioni che andavano applicate.

Il capitano, l’equipaggio e il passeggero rimasto ignoto vennero posti, come richiedevano la prevenzione quarantenaria, la pratica di isolamento e le altre strategie di contenimento dei contagi, entro il recinto del lazzaretto, o ospedale del porto, delimitato da un sicuro cordone di custodia sanitaria, da un alto muro e un fossato.

Certo le malattie contagiose non risparmiavano Gallipoli né le altre città di mare. Basti qui ricordare le infezioni di tifo petecchiale con emorragia cutanea del 1804 e del 1848, che indussero vuoti paurosi nella densità della popolazione, causate, secondo le cronache storiche della città, da partite di grano infestato da petecchia e da altri virus patogeni sbarcate nel porto e panificate per il pubblico consumo. Anche allora, come oggi per il Corona virus, alcuni solerti medici perdettero la vita a causa del morbo che cercavano di debellare. Tra questi, Salvatore Marzo e Salvatore Demitri. Illustre vittima del contagio fu il vescovo Giuseppe Maria Giove, che molto si era prodigato «a pro dei veri poveri minacciati dalla malattia e di una morte quasi inevitabile per difetto di efficaci soccorsi»[6].

In assenza di qualsiasi intervento dello Stato, le imprese commerciali, spinte dalla necessità di sostenere l’economia, mettevano a disposizione della ricerca sanitaria gli indispensabili mezzi finanziari. A Gallipoli, le ditte francesi Auverny & Co. e la Emile Vienot, la Henry Stevens, inglese, la Mac Donald, olandese, sostennero la ricerca medica con propri finanziamenti allo scopo di conoscere meglio il virus del tifo petecchiale e combatterlo in maniera mirata.

L’odierna pandemia del Corona virus fa ripensare, mutatis mutandis, alle strategie sanitarie adottate in altre simili situazioni per arginare le conseguenze devastanti di malattie che, nella storia di lungo periodo, hanno aggredito e falcidiato la vita di intere generazioni. Per cui, senza esprimere giudizi di merito e traendo spunto dalle vicende sopra riportate, ritengo cosa utile riproporre alcune norme sulle urgenze sanitarie imposte dal Regio Decreto del 1853 per il Regno di Napoli. Ognuno può fare confronti e riflettere sugli accorgimenti anticontagiosi posti in essere nel passato e su quelli che vengono proposti oggi.

I reclusi del lazzaretto, sospetti di contagio, venivano sottoposti a diverse visite mediche, comunque non meno di due, una all’inizio e l’altra al termine della quarantena.

I medici, gli assistenti e i custodi del lazzaretto dovevano «essere coperti di una sopraveste di taffettà incerata, con cappuccio e maschera, calzati di zoccoli di legno e non si permetteranno mai di toccare gli infermi, né le loro robe, né i loro letti.

A tal fine porteranno sempre in mano un bastone con punta di ferro uncinato nel fine di scoprire gli ammalati quando occorra osservarli e far sì che nessuno si avvicini a essi.

L’infermiere e le guardie di servizio avranno, invece del bastone, lunghe mollette di ferro onde somministrare agli infermi i cibi ed i medicamenti prescritti, o per raccogliere da terra gli stracci, i fili, le carte e immediatamente bruciarli.

Tutto il personale sanitario, prima e dopo le visite, deve lavarsi le mani e il viso con acqua mista ad aceto antisettico e replicare queste lozioni frequentemente […] anche con soluzioni cloriche e saponate calde.

[…] Se un infermo viene a guarigione se gli debbono far recidere da lui medesimo i capelli ed i peli di tutte le parti del corpo. Indi si deve far passare in una sala di convalescenza ed ivi lavarsi diligentemente con un bagno tiepido e dargli dell’olio tiepido, acciò se ne unga per tutta la superficie del corpo, compresa la faccia e la testa». Doveva inoltre restare in osservazione per 40 giorni.

Le camere dei lazzaretti, a mano a mano che si rendevano libere o per causa di morte o, eccezionalmente, per guarigione dei reclusi, venivano imbiancate e disinfettate con calce. Il pavimento, sottoposto a ripetuti strofinamenti con la sabbia, era poi lavato con acqua di mare, con aceto antisettico e con “fumigazioni” nitriche o cloriche.

Le “robe” dei deceduti, non escluso il letto che avevano occupato, subito venivano date alle fiamme.

Se la morte fosse intervenuta per causa di peste, febbre gialla, colera o tifo petecchiale, il cadavere doveva essere preso con uncini di ferro, riposto nudo in una fossa cosparsa di calce viva, ricoperto ancora con calce e con acqua sufficiente per portarla allo stato di sobbollimento e, quindi, la fossa veniva colmata con almeno otto “palmi” di terra[7].

Poiché siamo in tema di contagi non è superfluo ricordare che la pandemia di Covid 19, che è la prima del XXI secolo, è comparsa puntualmente a distanza di cento anni, un secolo esatto, dall’ultima pandemia dell’età moderna: la Spagnola degli anni 1918-1920, quando le attuali irrinunciabili (o irresponsabili?) movide erano ancora di là da venire.

E diciamo ancora che la Spagnola trovò terreno fertile alla fine del primo conflitto mondiale, che aveva devastato l’intera Europa, mentre il Corona virus è stato preceduto da decenni di violenza sistematica e persistente perpetrata dall’uomo ai danni del pianeta Terra.

Che il Covid 19, come tante altre pandemie, abbia messo in ginocchio l’economia mondiale è fuor di dubbio. Ma è fuor di dubbio anche la nostra colpevole noncuranza riguardo ai livelli di qualità della vita che lasceremo a chi verrà dopo di noi.

 

Note

[1] AS LE, Verbali di avaria in mare, anno 1856.

[2] Scuner in italiano.

[3] «Il costituto è un atto legale, con cui il Capitano di un bastimento è obbligato a deporre innanzi alle Autorità sanitarie su tutte le circostanze della navigazione eseguita dal momento della sua partenza da un luogo fino a quello dell’approdo nel luogo ove se gli domanda il costituto». Dal Regolamento di Servizio sanitario esterno per il Regno delle Due Sicilie, 1853, Titolo II, Capo II, art. 27.

[4] «La patente è una carta autentica che le autorità sanitarie rilasciano ai Capitani o Padroni di bastimenti allorché essi sono per partire da un luogo. La patente deve indicare: il nome e l’età del Capitano del bastimento a cui si rilascia; la denominazione del bastimento e la bandiera di cui è coperto; i nomi e l’età di tutti gli altri individui che vi sono imbarcati, sia come formanti l’equipaggio sia come passeggeri; la specificazione del luogo per cui è diretto; la natura delle merci di cui il carico si compone», cit., Titolo II, Capo I, articoli 17 e 20.

[5] Ibid, Titolo I, Capo II, articoli 9-13.

[6] Cfr., F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli, Tomo II, Mario Congedo Editore, Galatina 2007, p. 761.

[7] Regolamento generale di servizio sanitario esterno pel Regno delle Due Sicilie, 1853,Titolo III, Capo I, articoli 76-78.

Ruggero Flores: templare pirata e ammiraglio brindisino (I parte)

Immagine di Ruggero Flores da Brindisi, in Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata dei loro rispettivi ritratti compilato da diversi letterati nazionali
Napoli, 1819 Presso Niccola Gervasi 22

 

di Gianfranco Perri

 

Era trascorso giusto un secolo dai tempi in cui Margarito da Brindisi – il famoso arcipirata divenuto poi grande ammiraglio – scorrazzava in lungo e in largo nei mari mediterranei con le sue flotte sempre vincitrici incutendo timore e rispetto, quando ecco apparire un altro brindisino che sembra voler ricalcare sugli stessi scenari quelle rocambolesche gesta marinare. Si tratta di Ruggero Flores e per lui, il pirata e poi il grande ammiraglio furono preceduti nientemeno che dal templare.

Ruggero de Flor nacque a Brindisi nel 1267, ultimo figlio di un militare tedesco che si crede fosse stato un falconiere dell’imperatore svevo Federico II re di Sicilia, Riccardo Blum – latinizzato in Flor e poi in Flores – e di una ricca dama dell’alta società brindisina. Riccardo, combattendo dalla parte dei ghibellini, nel 1268 trovò la morte nella battaglia di Tagliacozzo, quella in cui Corradino di Svevia, ultimo dinasta degli Hohenstaufen, fu sconfitto e poi fatto decapitare dall’angioino Carlo I, nuovo re di Sicilia.

A seguito di quegli eventi, che in varie regioni del regno erano stati preceduti da una lunga e aspra guerra civile, i beni della famiglia Blum, così come quelli di tante altre famiglie brindisine del partito ghibellino, vennero interamente confiscati lasciando la madre di Ruggero in povertà e costretta ad alloggiarsi con i figli in una umile casa nei pressi del porto.

Tutto ciò d’accordo al racconto che ne fa nelle sue cronache catalane Ramòn Muntaner, che fu per molti anni compagno d’armi e luogotenente di Ruggero, unica fonte disponibile per il primo periodo della vita di Ruggero Flores. Una fonte forse non sempre del tutto affidabile – perlomeno non proprio sulla veridicità di tutti i dettagli di quello che racconta – spesso incline a corredare di una certa coloritura fantastica e leggendaria la vita dei vari personaggi narrati.

Quando Ruggero aveva circa otto anni, il templare frate Vassayl nativo di Marsiglia e comandante di marina dell’Ordine del Tempio, mentre svernava nel porto di Brindisi per stivare la propria nave e farla riarmare nel rinnovato arsenale brindisino, notò il vispo ragazzino che evidentemente gironzolava tutt’intorno e intuitone le potenziali qualità se lo fece affidare dalla madre per introdurlo all’Ordine e al mestiere marinaro.

Certo è comunque, che Ruggero fece una carriera velocissima: solo quindicenne venne considerato uno dei migliori mozzi della flotta e quando anni dopo prese il manto di frate-converso, era già un esperto navigante, probabilmente il migliore dell’intera marineria templare, tant’è che appena ventenne gli fu affidato il comando del Falcone del Tempio, la più bella e moderna nave della flotta templare, acquistata dai Genovesi ed impiegata nelle rotte del commercio mediterraneo e nel trasporto di pellegrini in Terrasanta.

Ruggero de Flor, al comando di quella sua nave si trovava nei pressi di San Giovanni d’Acri – l’attuale Akko in Israele – nella primavera del 1291, mentre dal 5 aprile era in corso l’assedio poi culminato il 18 maggio con la caduta della città nelle mani degli assedianti Mamelucchi. Nel corso dell’evacuazione che seguì all’assedio e alla conquista musulmana, la Falcone del Tempio di Ruggero riuscì audacemente ad imbarcare numerosi facoltosi profughi civili cristiani che con i tanti beni recuperati furono condotti in salvo. Alcuni degli evacuati si fermarono a Cipro e gli altri proseguirono fino a Mont-Pélerin in Francia.

Quel viaggio dovette certamente fruttare ingenti guadagni per le arche del Tempio, ma presto si sparsero pesanti dicerie rispetto al capitano della nave, Ruggero, il quale fu finalmente e formalmente accusato dai gerarchi templari di aver trattenuto illegalmente per sé buona parte di quei guadagni, tradendo in tal modo il Tempio. I detrattori del giovane e prestigioso capitano brindisino – molti dei quali probabilmente non del tutto esenti da una qualche dose di invidia nei suoi confronti – ebbero la meglio sui difensori e convinsero della veridicità delle loro accuse il gran maestro Jacques de Molay, il quale espulse Ruggero dall’Ordine e ne predispose la cattura.

A quel punto a Ruggero de Flor non restò altro che levare le ancore, e con il Falcone del Tempio si diresse a Marsiglia. Poi, senza l’abito templare, ricomparve a Genova dove comprò a messer Ticino Doria – a detta di Muntaner R. grazie al denaro prestatogli da amici – una galera, l’Olivetta, allestita la quale pensò bene dirigersi a Sud e prestare i suoi servizi di capitano marinaro di ventura nel regno angioino ‘di Napoli’ del re Carlo II d’Angiò, ormai privato della Sicilia, che dopo la rivolta dei Vespri del 1282 era passata agli Aragonesi.

Dipinto raffigurante la galea Olivetta capitanata da Ruggero Flores

 

E proprio nell’aragonese Sicilia, sul finire del 1300, finì per approdare da rinomato corsaro il condottiero di mare Ruggero Flores per porsi al servizio del re Federico III in permanente conflitto – nella ventennale guerra dei Vespri – contro gli Angioini di Napoli.

Nella primavera del 1301, con una flottiglia di cinque navi, condusse una fruttuosa spedizione contro gli Angioini sulle coste della Puglia, nella quale riuscì ad impadronirsi ripetutamente di navi cariche di granaglie che, predate, furono impiegate per soccorrere diverse città della Sicilia colpite dalla carestia, ovvero vendute per pagare le guarnigioni aragonesi dislocate in Sicilia e in Calabria. Quindi, non disdegnò nuove azioni di più franca pirateria, che condusse principalmente lungo le coste della Provenza delle Baleari e della Catalogna, appartenenti tutte al regno d’Aragona dell’antagonista re Giacomo II.

Poi, alla fine dell’estate di quello stesso 1301, al comando di dieci galee, prese parte alle operazioni condotte per la liberazione di Messina assediata dalla potente flotta angioina di Ruggero Lauria e dall’esercito di Roberto, principe d’Angiò. Liberazione per la cui riuscita risultò fondamentale il contributo di Ruggero de Flor.

Tutti quei considerevoli successi ottenuti sul mare dall’ormai famoso condottiero brindisino, indussero Federico III a nominarlo viceammiraglio della flotta siciliana e a conferirgli la signoria sui castelli di Tripi e Licata, nonché le entrate dell’isola di Malta.

Poi, quando finalmente la guerra dei Vespri giunse al termine con la pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302, che formalizzò il teoricamente ‘temporale’ riconoscimento della Sicilia agli Aragonesi, il corsaro Ruggero de Flor restò senza una formale occupazione e l’inquieto ed ancor giovane condottiero di mare cominciò a volgere il suo sguardo verso altri lidi.

D’altra parte, le sue turbolenti milizie catalane, con gli almogavari parcheggiati senza occupazione in Sicilia, costituivano un potenziale problema per il re Federico III e questi vide subito di buon occhio l’idea prospettatagli da Ruggero Flor di ‘prestarle’ all’imperatore d’Oriente Andronico II Paleologo, il quale si era mostrato interessato al loro ingaggio per combattere la crescente avanzata dei Turchi che erano riusciti a sottomettere quasi tutta l’Asia minore e a ridurre il dominio bizantino a una sottile fascia costiera tra Nicea ed Efeso.

«Gli Almogavari erano soldati della Corona d’Aragona reclutati prevalentemente in Navarra Aragona e Catalogna, che nel trascorso dei secoli XIII e XIV operarono su vari fronti iberici ed europei e la cui origine – nonché lo stesso nome – ebbe certamente qualcosa di arabo. Fanti leggeri senza corazza, indossavano corte braghe di cuoio molto spesso ed erano armati con due pesanti giavellotti un grosso coltello ed una spada corta. Erano soldati di professione, al servizio di chi era disposto alla loro remunerazione, praticamente milizie mercenarie. Quando in seguito ai Vespri siciliani il re Pietro III d’Aragona appoggiò la rivolta e mosse guerra a Carlo I d’Angiò, gli almogàveres formarono l’elemento più efficace del suo esercito. La disciplina e la ferocia, unite all’abilità con cui lanciavano i loro giavellotti contro i cavalli, li resero formidabili contro la cavalleria pesante sulla quale riportarono sistematiche vittorie.»

Ruggero de Flor colse al balzo quella ghiotta occasione, e nella primavera del 1303 stipulò accordi con l’imperatore che previdero: per le truppe della sua ‘Grande Compagnia Catalana’ riorganizzata ad hoc, quattro mesi di stipendio anticipato e per se, il titolo di megadux – megaduce, comandante della flotta – nonché la mano della nipote dell’imperatore e figlia dello zar bulgaro Ivan Asen, Maria. All’inizio di agosto il fiammante megadux prese il largo con ben 36 navi e circa 6000 almogavari alla volta di Costantinopoli, dove fu ricevuto con grandi onori e dove fu fastosamente celebrato il matrimonio convenuto.

(1. continua)

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Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (VII)

Porto Selvaggio, vista dalla torre dell’Alto in S. Caterina di Nardò (Lecce), (ph Cristina Manzo)

 

di Cristina Manzo

Il Salento non lo puoi spiegare.

Il Salento lo devi vivere, perché ti entra nell’anima, ti avvolge e non ti lascia più.

Fabrizio Caramagna

 

Il desiderio chiede al territorio spazi di libertà. Vuole essere slegato dai torpori del quotidiano, dai pesi economici, dalle angustie dei poteri e chiede di abitare luoghi in cui sia possibile realizzare i sogni[1].

E torniamo ancora a parlare della Bufalaria, perché la casa che era stata il cuore pulsante di Helen e di Arno è tornata, dopo la loro scomparsa, a rivivere ancora attraverso gli occhi di altri. Qui, ora, è la casa di Klaus ….Questo luogo fa ancora suoi i termini ricorrenti di “società di artisti”, “Repubblica”, “utopia” e “comunità”, perché sono stati le parole chiave di Helen e del suo fermento intellettuale ancora presente nella casa; Klaus e Ulrike lo sentono forte, è come se fosse rimasto impigliato tra le trame magiche della natura, nell’odore della terra, in quel gioco di luci che ella riusciva a catturare e riprodurre nelle sue sculture.

Giunto nel 1968 alla Masseria, con la moglie Ulrike, per visitare gli amici artisti Arno Mandello e Helen Ashbee, Klaus decide di esplorare un ambiente che diventa luogo di ricerche e fecondi contatti. Ne rimane tanto affascinato da metterci le radici, e comunicarne la bellezza attraverso i suoi romanzi e i suoi film, dove personaggi reali raccontano strane storie di vita che riviste oggi a distanza di tanti anni permettono ancora di riconoscersi appieno, di capire dal caleidoscopio di immagini in bianco e nero o a colori che si fa ancora parte della cultura del tempo, mai andata perduta, a cui si guarda sempre con un piglio nostalgico e affettuoso.

Nel suo primo cortometraggio Klaus Voswinkel racconta il Salento (Landpartie “Scampagnata”, 44 min, 1977) attraverso due episodi. Nel primo si sofferma sui preparativi per un banchetto pasquale organizzato in un agrumeto di Sternatia da una benestante famiglia leccese. Nel secondo un gruppo di amici festeggia in collina la Madonna della Campana a Casarano, al suono della pizzica[2]. – « Hanno suonato e noi li abbiamo amati» – dice, – «Anni dopo ho compreso che questo film costituiva una grande testimonianza, perché questi musicisti rappresentano la vecchia generazione dei suonatori di pizzica[3]» – Il suo secondo lavoro è dedicato al profilo di Norman Mommens, scultore geo-astronomo e della sua compagna Patience Gray, scrittrice-orafa-rabdomante, (anche loro ormai scompars). Il suo titolo è “Sonne, Mond” (Sole-Luna, 44 minuti, 1983), una preziosa testimonianza, ed è stato realizzato insieme alla moglie Ulrike. I due artisti sono ripresi non solo nei loro luoghi di lavoro: a Masseria Spigolizzi, sulla collina dove ricercavano selci, ma anche sul barcone, in processione a Torre Pali o sulla serra del “Paiorone” di Pozzo Mauro, dal quale Norman, grande conoscitore della cultura salentina, era partito per studiare le corrispondenze tra toponimi e astronomia. Il documentario si conclude con l’ascolto di Casta Diva, durante la festività di Sant’Andrea di Presicce.

Con il terzo documentario “Piazza”, (44 min., 1984), Klaus ci porta in Sicilia, ai piedi dell’Etna, per seguire da vicino la vita dei cantastorie siciliani e la grande festa di Sant’Alfio a Trecastagne. Straordinaria, tra l’altro, la sequenza dell’incontro col “poeta delle piazze” Ignazio Buttitta che declama i suoi versi sull’insostituibilità del patrimonio dialettale. Si ritorna sul tema-conduttore del folklore, della festa e della musica con La Banda, del 1987. Questa volta viene inseguita nelle sue varie performance un’orchestra di quaranta uomini, guidata da una giovane direttrice, Grazia Donateo di Surbo, la prima in tutta Italia (che fu invitata molte volte a Stoccarda dopo che il lavoro di Klaus si diffuse in Germania, ma non ci andò mai, per via dei suoi tanti impegni con le feste patronali). Chiude la rassegna il lungometraggio “Ragazzi” o “L’invenzione della commedia”, un gruppo di aspiranti attori in cerca di identità, che intrecciano il loro vissuto di provincia e la loro voglia di fare teatro.

In questi suoi lavori Klaus restituisce la verità dei paesaggi, delle situazioni e dei personaggi, senza enfasi e senza forzature, riuscendo a fare “poesia” con le immagini, con i suoni, i colori e i tagli fotografici. Un’indagine condotta sapientemente su ciò che di più autentico possiede il nostro territorio, in un linguaggio cinematografico dal tono asciutto: nello scavare l’humus delle tradizioni e della cultura salentina si avverte il carattere essenziale di un mondo fermo nel tempo, in un passato prossimo, oggi sempre più minacciato dalla globalizzazione e dalla omologazione imperante, eppure ancora vivo nel presente.

 

Una interessante ricerca quella di Klaus, molto apprezzata, tra l’altro, dai nostri connazionali in Germania. Molti salentini, entusiasti dinanzi alle inaspettate immagini della loro terra, mandate in onda dalla tv tedesca, hanno subito telefonato agli amici del Capo per dimostrare apprezzamento.

É da un punto di vista inedito che Klaus Voswinkel osserva il Sud nei suoi documentari degli anni Settanta: un Salento, aspro come le pietre dei muretti a secco, sospeso nel tempo come i suoi ulivi. I documentari di Klaus sono uno spaccato sociale sugli aspetti demo-antropologici della cultura meridionale, con una particolare attenzione alle tradizioni popolari delle feste in provincia, un mondo culturale che ha affascinato il regista di origine tedesca (nato ad Amburgo nel 1943), fin dal suo primo arrivo nell’estremo sud della penisola salentina[4].

 

Klaus, Ulriche e la figlia Esther (nella cui voce si può, forse, scorgere una certa inflessione salentina), tutti qui hanno il loro posto, il loro angolo solitario di paradiso dove meditare o dedicarsi alla propria attività di pensiero o di scrittura. Ulriche che cura programmi per una radio tedesca, in cui parla di scrittori e letteratura, trova il suo spazio con la macchina da scrivere eletta a “Deus ex machina” dello spirito, posizionata di fronte ad una finestra che è sguardo aperto su questo lembo di terra. La scrittrice ha pensato molte volte di presentare degli autori salentini. Una volta ha coinvolto in una rassegna a Monaco, l’amico Tommaso Di Caiula: – «appena ci conoscemmo, gli abbiamo detto che eravamo innamorati della Puglia e lui ha risposto: io vorrei vivere in Germania» – . Il posto preferito da Klaus, invece, è sotto un albero, su una sdraio, protetto da un gran cappello di paglia. C’è uno spazio immenso che si lascia abitare docilmente e culla le menti, non si può desiderare null’altro alla Bufalaria. Il mare vicino trasporta il suo odore di salsedine che si mischia con quello del giardino. La sera poi, la casa si riempie di accordi musicali e di voci recitanti, li a ridosso di un costone di roccia che declina a semicerchio, quasi nella forma di un piccolo anfiteatro naturale: fra i gradoni in pietra e cemento, in questa terra dove la gente ama la banda, ci si muove al ritmo della pizzica che sovrasta le voci della campagna. Qui per ascoltare la banda, le persone farebbero anche le due di notte.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Fiori_gialli,_sasi_e_ulivi.jpg

 

Ulriche ricostruisce nel suo racconto la fitta rete di passioni intellettuali e umane cresciuta intorno ad Helen Ashbee e a Normann Mommens e a Patience Gray: – « Piano piano, abbiamo fatto qui tante esperienze. E poi sono venuti gli amici, molti amici. Come Helmut e Christina. Loro sono venuti per incontrarci e sono venuti nel meridione da Milano. Hanno conosciuto Arno ed Helen ed hanno deciso anche loro di comprare la masseria in cui vivono. Dopo Helmut è venuto Binder, poi Mirjam ed Enzo. Enzo è venuto perché amico di Binder. Binder è venuto perché amico di Helmut. È così[5]».

Le esperienze di vita e arte di questi salentini d’adozione e elezione hanno animato per decenni le campagne vicino al mare di Torre Mozza, inusuale agorà culturale in dialogo con il Mediterraneo e l’Europa, e ancora oggi continuano a raccontare l’unicità di questo territorio, luogo di ispirazione da vivere e difendere[6].

Torre Mozza, marina di Ugento[7]

 

 Giungiamo, così, alla storia breve ma intensa della stilista Cinzia Ruggeri, anche lei innamorata del Salento, al quale si rivolge durante l’apice del successo, per staccare la spina e ritrovarsi, ospite di Michael Binder.

Ha precorso il tempo, confrontandosi con straordinaria visionarietà con tutti i linguaggi della progettazione. L’arte per Cinzia Ruggeri era un modo di ridisegnare il mondo e le cose, specialmente quelle di tutti i giorni, quelle nel quotidiano di tutti, arredi e oggetti, ambienti, abiti e accessori, che sapeva puntualmente arricchire di eloquenza, di eleganza, d’impagabile humour e provocazione.

“Non l’ho conosciuta, come molti, negli anni 60, 70 e 80, quando lei già era una bionda seducente, eccentrica e rivoluzionaria protagonista della scena milanese e internazionale. Tuttavia avevo memoria di lei, delle sue sfilate fuori dai canoni, dei suoi interventi sulle pagine di Domus e di Vogue, delle sue collaborazioni per molte industrie del design, dei suoi progettuali sodalizi con Studio Alchimia e Occhio Magico. E, quasi per volontà del destino, il desiderio di incontrare Cinzia mi è cresciuto dentro, quasi ossessivo. Così ho cominciato a cercarla, a chiedere di lei, che dopo il grande successo già riscosso aveva abbandonato tutto, per vivere dieci anni dove la terra precipita nel mare, nella punta estrema dello sperone, in Salento. Un humus che la rasserenava, una certezza di benessere anche, che aveva maturato da ragazza nelle lunghe vacanze in barca con il padre”[8] – . Cinzia, era periodicamente ospite di Michael Binder. Era giunta in questa terra per la prima volta negli anni sessanta, convinta di poter cambiare il mondo. Fuggiva dall’alienazione di una città come Milano ed era attratta dal profondo sud immaginandolo come un posto magico in bilico tra i due mari, tra il sorgere e il tramontare del sole. Immaginava nella sua fervida fantasia una lunga fila di automobili che una volta giunte a Santa Maria di Leuca, col finire della strada precipitavano a capofitto nel mare e che, quindi, sotto al faro si potesse scorgere una lunga fila di automobili che sporgevano dall’acqua. Una sorta di avamposto nel nulla dove avrebbe potuto dialogare con la natura. Nella sua creatività il linguaggio della (e con ) la natura era fondamentale sorgente di ispirazione trasferita, per esempio, nei suoi bellissimi abiti floreali intessuti di fitte foglie e ramoscelli. Il primo amore per il Salento era avvenuto solennemente al cospetto del Ciolo dove, sosteneva, che ci si potesse costruire una casa semplicemente con quattro stracci e le cose portate dal mare. In seguito, attraverso l’amicizia comune dello stilista Ken Scott, aveva stretto amicizia con Helen Ashbee e Arno Mondello, decidendo di stabilirsi alla Bufalaria. Erano i primi anni novanta e Cinzia si era lasciata contagiare dal sogno di Helen. Quel sogno di costruire una comunità di artisti in osmosi con la natura. Uno status che più avanti qualcuno identificò come “Glocal”, ovvero quello stato di dover vivere senza rinunciare mai alla propria identità culturale, pur guardando con entusiasmo al mondo. Ma, invero una teoria del baratto culturale era stata azzardata anche dal salentino Eugenio Barba quando, nel 1974, l’Odin Teatret era sbarcato a Carpignano Salentino[9]: Il loro proposito di rinchiudersi in un posto dimenticato da Dio si sgretolò e desiderarono di costruire un ponte tra il Teatro con la t maiuscola e la teatralità spontanea di quei luoghi. Da allora, da quasi cinquanta anni, si ripete ogni anno nel paese questa festa, che può considerarsi quasi l’antesignana di tutte le sagre, dove il centro storico di Carpignano diventa quasi un teatro a cielo aperto. Un luogo di musica, danza, ronde e amore per la tradizione; una tradizione mai ignorante, ma ubriaca di cultura e arte[10].

Baratto di cultura, arte e tradizione, Carpignano Salentino[1
  • Si trattava di una compagnia teatrale norvegese, alla ricerca di un posto remoto dove lavorare al futuro spettacolo. La faccenda andò un po’ diversamente. Quei professionisti del teatro subirono tutto il fascino di un mondo contadino, di un paese dal centro storico bellissimo, dai campi coltivati a vigneti, ulivi e tabacco. Trovarono la purezza di una storia in cui il Teatro ufficiale non era mai approdato, eppure il potenziale mimico degli abitanti si manifestava in ogni occasione, durante le festività, nei canti spontanei, nella gestualità accesa, nei rituali del lutto.

 

Il periodo del trasferimento alla Bufalaria fu un buon momento per la produzione creativa di Cinzia, presero forma straordinari e originalissimi pezzi di design come l’armadio Rocco, che si ispirava ai colori rosso e nero delle confraternite religiose che sfilavano nelle processioni del venerdì santo, l’aspirapolvere proboscide e il ventilatore orecchie d’elefante. Con le sue installazioni sfrontate e trasgressive partecipò anche ad alcune mostre a Lecce. Sempre in quel periodo anche Helen Ashbee organizzò una memorabile mostra, quella dei suoi gioielli annidati ed esposti tra i rami degli alberi della masseria. Poi, si passò dalla fase di euforia e speranza a quella di una cocente delusione, perché come sostenevano Michael e Cinzia, mancava l’appoggio delle istituzioni, mancavano dei sostegni concreti e ogni bella iniziativa si andava a spegnere nell’indifferenza. Helen nel suo sogno era rimasta isolata, e dopo la sua morte era svanita ogni aspettativa. Forse il territorio e gli artisti che avevano creduto in quel sogno non erano ancora pronti ad affrontarsi, forse si trattava di un Salento dormiente, che non aveva ancora chiarezza sulle sue infinite possibilità. Era come se il Salento dapprima tagliato fuori a causa dell’inadeguatezza della politica locale, si fosse poi ritrovato a essere tagliato dentro, come un’isola che non ha un retroterra. Così Cinzia, che dopo la morte di Helen aveva sofferto la solitudine, per non andare oltre, chiuse la sua parentesi lunga dieci anni legata a questa terra e, ripartendo per il nord, al Salento disse addio.

 

Note

[1] Verso Sud, 2008.

[2]   https://www.iltaccoditalia.info/2007/02/18/lo-sguardo-di-klaus/ visitato il 30, maggio 2020, ore 15,50.

[3] Verso Sud, 2008.

[4] https://www.iltaccoditalia.info/2007/02/18/lo-sguardo-di-klaus/ visitato il 30, maggio 2020, ore 15,50.

[5] Cfr. Verso Sud, 2008.

[6] https://www.baiadoro.it/torre-mozza-tra-arte-e-utopia/

[7] https://www.fulltravel.it/guide/ugento-e-le-sue-3-marine/32622

[8] https://globelife.com/beautynews/116326/addio-a-cinzia-ruggeri-vogue.html

[9] Cfr Verso Sud, 2008.

[10] https://salentoexp.wordpress.com/2016/08/31/1974-odin-teatret-sbarco-in-salento-e-fu-subito-festa-te-lu-mieru/

[11] Idem.

Per la prima parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri

Per la seconda parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (II)

Per la terza parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)

Per la quarta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (IV)

Per la quinta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (V)

Per la sesta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (VI)

 

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (VI)

Scorcio di paesaggio rupestre e marino di Santa Caterina, Nardò, (Lecce) (ph Cristina Manzo)

 

di Cristina Manzo

«Sulle pianure del Sud non passa un sogno.

Sostantivi e le capre senza musica,

con un segno di croce sulla schiena, un cerchio,

quivi accampati aspettano un’altra vita.

Tutto è evidenza e quiete,

e si vedrebbe anche un pensiero, un verbo,

con il bigio sgomento d’una talpa

correre tra due pietre.»

Vittorio Bodini[*]

 

Il Salento è una magia da scoprire che affascina e cattura quanti realizzano la possibilità di conoscerlo. Si lascia penetrare fin nei più piccoli segreti e apre il cuore a ogni viaggiatore interessato alla sua storia e, pian piano, si insinua dentro e ruba l’anima.

Attraversata la Serra delle Fontane, a sud di Ugento, c’è la Bufalaria, una delle poche masserie salentine in cui si allevavano bufali che, si dice, potrebbero essere stati introdotti in Italia nell’epoca sveva e normanna. Alle spalle della casa vi è un boschetto di pini. In Salento pochissimi allevatori si erano dedicati a questa scelta, che prese invece piede in Sicilia e in Campania. Si allevavano i bufali esclusivamente per il loro latte, per ricavarne i prodotti caseari ma, vi era ripugnanza a mangiare la loro carne. “Una vita grama, quella dei bufalari, sempre in lotta con la malaria, che come paga riceveva poco burro alla settimana e il diritto di contendere al bestiame la cicoria selvatica[1]

Ma, andiamo con ordine, riprendiamo il nostro viaggio itinerante nella Mancha del Salento, esattamente da dove si era interrotto con l’ultima storia, quella di Michael Binder, artista della Baviera che aveva scoperto il Salento su invito di Helmut Dirnaichner, fino a farne la dimora della sua arte e della sua vita. Andò in questo modo la storia d’amore tra Helmut e Christine Dirnaichner e il Salento:

Un interminabile viaggio da Lecce a Gallipoli e poi da Gallipoli a Ugento. Da soli, in tutto un vagone del treno della Sud Est, mentre oltre i finestrini, corrono ulivi e pietre e all’orizzonte si snoda il nastro azzurro del mare. Tutto il tempo necessario per rimanere folgorati da un vero e proprio colpo di fulmine. Nel 1979 fu il loro primo viaggio, la loro prima volta nell’affacciarsi da quel finestrino sulla poesia del Salento, e bastò a fargli decidere di farne la loro seconda patria.

Helmut e Christine, tedeschi della Baviera, come altri degli artisti di cui abbiamo parlato si trasferirono circa quarant’anni fa nell’entroterra di Torre San Giovanni, presso Gemini, con il loro bambino, tra le pietre e gli ulivi di una campagna primordiale dove, dicono con orgoglio, non è mai entrato un trattore. Nella masseria tutto è lasciato alla sua selvatica e naturale bellezza, le antiche e nude mura architettoniche e la vegetazione: un misto di alberi e macchia mediterranea, agavi, fichi d’India, capperi, menta, basilico e altro ancora. Persino il serpente insediato nelle fessure della colombaia può restare indisturbato e la natura, dona in cambio del loro rispetto, una vastità enorme di frutti e ortaggi da non aver quasi bisogno di nulla altro.

Christine, oltre ad essere un’intellettuale, diventa una capace vestale della casa e una massaia formidabile, che impara a sfruttare appieno tutte le risorse di quella generosa terra, così come era già accaduto a Michael, a Patience e Mommens, a Gerhard e Rita, ad Heinz e Mirjam. Helmut e Christine sentono intensamente il valore dell’ospitalità e il piacere della conversazione.

La loro casa è un punto di incontro e di scambio, un cenacolo dove costruire progetti e nuove situazioni. Helmut intrattiene rapporti di dialogo di vari livelli con i suoi vicini, non solo per i problemi dell’agricoltura, ma anche per scambi culturali, facendo della masseria un luogo d’incontro e dibattito. Nella persona di Helmut nei panni di profeta, sembra essersi trasferito lo spirito che già aveva animato le scelte e lo stile di vita degli abitanti di Spigolizzi e della Bufalaria: quell’identico legame profondo con la terra e la struttura contadina, quel desiderio di essere attenti e rispettosi verso i luoghi e il desiderio di socializzare il proprio lavoro. Helmut rispetto a Normann ha dovuto affrontare più spostamenti, a causa degli studi del figlio e di alcune necessità che lo hanno ricondotto a singhiozzo a Milano e a Monaco ma, sin dal principio si era creato un sodalizio perfetto tra lui e Normann, le feste, i raccolti, le vendemmie condivise, i discorsi sull’arte e anche le mostre insieme: la prima fu “Costellazioni Terra e Pietra” a Palazzo D’Elia a Casarano nel 1986, la seconda fu “Materia sorgente”, al Circolo “La Scaletta”, a Matera nel 1989.

Nato nel 1942 a Kolbemoor in Germania. Dal 1970 al 1976 studia all’Akademie der Bildenden künste a Monaco. Nel 1978 arriva a Milano con una borsa di studio del DAAD. Il suo lavoro artistico è incentrato sulle terre e sui minerali di cui ricerca materia, colore e storia in stretto rapporto con lo spazio. Quando nel 1979 conosce il Salento, e acquista la casa presso Ugento, vi trascorre lunghi periodi collaborando con le realtà culturali del luogo. Globe trotter con esperienza di vita e d’arte a Monaco e a Parigi, a Mosca e a Londra, ad Amsterdam e a New York, in Spagna, Messico, Egitto e un lungo percorso italiano da Milano a Firenze, da Roma a Matera, individua in quel di San Giovanni l’essenza della sua futura vita. Come Federico II di Svevia, il suo conterraneo, Helmut sente profondamente il fascino di questa terra di Puglia, da sempre luogo di transito di civiltà di cui conserviamo tracce ovunque, come nei misteriosi graffiti di porto Badisco, nelle memorie dei messapi, greci, romani, monaci basiliani e nello Zeus di Ugento. Terra che da sempre, essendo centro di esodi e di approdi, ha irradiato cultura nella cultura, come il paziente e minuzioso lavoro degli amanuensi di Casole.

Helmut venera e rispetta la terra, ne fa la materia privilegiata dei suoi lavori. Per lui la terra racconta, ha una storia, una memoria. Come un alchimista manipola le polveri preziose di lapislazzulo, malachite, acqua marina tormalina e il cinabro, di origine magmatica, già noto ai greci, che usa in pittura per produrre il pigmento vermiglione. E ancora, preleva per le sue magie la ricca terra rossa del Salento, la terra grigia di palude, sedimentata vicino al mare, le argille gialle, le nere ceneri dell’ulivo bruciato che lega con la cellulosa.

Il tutto viene disposto con ordine nell’ambiente più bello della masseria che dopo alcuni restauri è diventato il suo studio, una grande stanza con il soffitto a botte, cinquecentesca, dove entra una luce chiara che accende di colore i minerali preziosi che usa per esprimere la sua arte. Le forme dei lavori di Helmut, semplici e minimali, sono suggerite dalla natura: l’ovale del frutto, la forma lanceolata delle foglie, l’anello della chioma d’ombra dell’ulivo.

Così l’artista ritrae il Salento, esattamente nel modo in cui lo ama e tutto il suo lavoro racconta la mappa del paesaggio e ne racconta la forma sotterranea e originale. La sua opera è pittura e struttura, corpo plastico e figura astratta. Si articola nello spazio e si costruisce sulla memoria di architetture reali e spazi concreti ma, se si indaga oltre, si scopre che i suoi lavori sono veri distillati del mondo che oltrepassano il confine fisico del visibile per andare oltre la materia, percependo l’infinito e vestendolo di poesia. Quando trasforma i suoi elementi, Helmut lo fa immergendosi nella ricerca di una ricostruzione del paesaggio passando per un percorso di rarefazione della materia prima, per poi concettualizzarlo in modo che non perda la sua naturalità espressiva. Insomma non è un alchimista alla ricerca della pietra filosofale ma un artista che mette la sua anima nella profondità dell’oggetto per arrivare alla sua essenza e sentirsi un tutt’uno con essa. Ed è proprio questo che dona alla sua opera una profonda aria di sacralità. Esattamente come Piet Mondrian, il pittore olandese famoso per i suoi quadri “non rappresentativi” che in realtà erano frutto di una instancabile ricerca di equilibrio tra linee e colori, Helmut vuole raggiungere l’essenza dei materiali e delle cose e renderla visibile allo spettatore, mettendolo a parte così, della magia che caratterizza ogni singola creazione[2]. Nel 2005 ha tenuto uno stage all’Accademia di Belle Arti di Lecce.

Le sue mostre hanno visto come sedi Dresda, New York, Monaco, Milano, Bonn, Mittwock ma anche Lecce, Casarano, Copertino, Matera, Presicce e Nardò, nella primavera del 2018, come ci racconta l’intervista del Tacco D’Italia:

Dopo la partecipazione alla manifestazione tenutasi nel luglio scorso a Presicce, dove aveva fatto ammirare alcuni suoi lavori, magica combinazione sintetica di colori e materia, di forme sospese nell’aria, l’artista bavarese ritorna nel Salento con una mostra delle sue opere più recenti, installate a Nardò, presso la galleria L’Osanna. Risponde con piacere ad alcune nostre domande.

Helmut Dirnaichner

 

Dopo l’esposizione di Presicce, si ritorna a Finis terrae: quale valore ha per Lei questo estremo lembo tra due mari?

– E’ stato affascinante per me constatare come le mie opere, con i colori minerali, sono entrate in corrispondenza con gli affreschi dell’ex convento degli Angeli a Presicce. Nel convento, rinato a nuova vita in occasione della manifestazione “Insediamenti“, nei mesi di luglio-agosto, grazie all’entusiasmo dell’Associazione Nous, si è creata un’atmosfera magica e meditativa. Da quasi quarant’anni sono legato al Salento come importantissima fonte della mia ispirazione artistica. La luce, il senso della materia, la forza meditativa e i rapporti di amicizia mi fanno sempre tornare di nuovo.

Un’opera di Helmut Dirnaichner (foto: Galleria Osanna Nardò)

 

Non è la prima volta che espone opere nella galleria d’arte neretina.

– Volentieri torno, dopo otto anni, a Nardò per continuare la collaborazione con la galleria L’Osanna, presentare il mio sviluppo artistico e portare avanti la comunicazione con le persone interessate all’arte.

 

Ogni mostra è sempre una sfida per creare un tutt’uno con lo spazio, in questo caso con la volta a stella. La Sua carriera artistica è in continua evoluzione e richiama un interesse sempre maggiore da parte della critica. Quali sono gli elementi innovativi che caratterizzano i Suoi ultimi lavori ?

– Nell’ultimo periodo mi occupo di un pensiero che avevo agli inizi del mio lavoro artistico e cioè il tratto del pennello, come l’acquarello, che con massima concentrazione descrive un andamento lungo e insieme profondo. Nei miei lavori attuali le pennellate hanno acquistato un corpo, creato a mano con i minerali di forma lanceolata; tali forme, sospese, si muovono con le correnti dell’aria. Nei vari periodi della mia evoluzione artistica ho costantemente inseguito lo stesso silenzio contenuto nella pennellata contemplativa, che oggi nell’installazione “Meteore” trova la sua espressione attuale.

 

Come non rimanere incantati dai lavori di Dirnaichner ?

Nelle sue opere parte da elementi presenti in natura per trasformarli in combinazioni di forme e colori di grande eleganza estetica. Rigore ed essenzialità sono alla base della sua ricerca, prima che luce e materia si schiudano in scrigni d’arte. Così Helmut riesce a emozionare e suggestionare: mettendo insieme cellulosa ed elementi attinti alla natura, siano pietre o minerali, erbe o vegetali, una sintesi che racconta lo spazio e il tempo. Di ciò che è in natura studia le qualità intrinseche, ne evidenzia le trasformazioni: le reazioni ad ogni movimento dell’aria, alla luce cangiante di cui si impregna la materia. Vivono di luce i colori delle sue installazioni di pittura-scultura,” mossi dal vento, dalla pioggia, dall’arcobaleno”, come meteore e particelle di un cosmo infinito che non smette mai di sorprenderci[3].

La sintesi della realtà concettuale dei lavori di Helmut è contenuta e documentata nei suoi libri artistici. Essi sono esposti anche nella preziosa biblioteca di Alessandria d’Egitto, il luogo mitico in cui era collocata anche una delle sette meraviglie dell’antichità. E persino nelle pagine dei suoi libri è tangibile come la carta diventi soggetto di un processo manipolatorio in cui il bianco puro divetta colore appena percettibile, dando vita a forme elementari e antiche legate alla cultura del luogo. Nel 2001 l’artista, con la collaborazione della moglie Christine, pubblica sulla rivista “A Contrappunto”, la rievocazione di una sua conversazione sull’arte con Normann, scomparso l’anno prima, e una sorta di lettera-diario di viaggio da lui inviata dalla Spagna all’amico, datata in successione 19/XII- 29/XII/1992-5/I 1993[5].

Sul finire degli anni sessanta, avevamo detto… Normann Mommens, scultore-scrittore-astronomo-archeologo-contadino, e Patience Gray, scrittrice e giornalista, insieme alla coppia Arno Mandello, fotografo e pittore, ed Helen Ashbee, scultrice e orafa, si fermarono nella campagna tra Salve e Ugento al termine del loro viaggio verso sud alla ricerca di pietre e di luoghi persi. Qui avevano trovato una pietra povera e docile, per le sculture di Normann ed Helen, e per tutti l’illusione di essere giunti in un isola di vita antica, intatta[6].

I quattro amici, tutti di cultura ed esperienze cosmopolite, vennero rapiti dalla magia del luogo, dall’ospitalità semplice e spontanea della gente, dal cibo sano e genuino, dal senso di libertà che derivava da quella che Patience avvertiva come “ la meravigliosa mancanza di tutto”. Quello che sentivano di voler realizzare era proprio uno stile di vita che tenesse al di fuori tutto ciò che era un bisogno inutile costruito meramente dalla società. Aspiravano a costruire una comunità stanziale di spiriti itineranti attraverso la condivisione della cultura e dell’arte, e il rispetto della natura e di tutto quello che offriva. E, avrebbero fatto conoscere il Salento a molti amici artisti, ancora ignari della sua esistenza, invitandoli a trascorrere del tempo in quel luogo. Giusto il tempo di innamorarsene come era accaduto a loro.

Decisero quindi di scegliere due masserie vicine e farne la loro casa, dando vita ognuno alla propria vocazione personale e dando il via a questo meraviglioso progetto di identità. Le masserie Spigolizzi e Bufalaria divennero questo centro di aggregazione a cui molto presto si unirono altri salentini e altri artisti venuti dal loro paese o da altri luoghi stranieri. Tutti sensibili a questi principi. Un tentativo davvero eroico per il luogo e per i tempi, che molte volte, si scontrava con troppa burocrazia generando insofferenza, che alcune volte, mancava di concretezza, che ogni tanto, gettava nello sconforto perché, pareva di dover intraprendere una lotta per tante cose come quando, Don Chisciotte in sella a ronzinante, si era lanciato contro i mulini a vento credendoli dei giganti, finendo disarcionato per terra. Quando la sua lancia si era conficcata tra le pale che, mosse dal vento facevano muovere la macina, credendole braccia di giganti nemici, di difficoltà insormontabili, Don Chisciotte si era reso conto che Sancho aveva ragione, i mulini non si dovevano combattere, ma solo aggirare e proseguire in cerca di nuove avventure.

E così anche i nostri amici avevano continuato a proseguire la loro impresa nella mancha del Salento con desiderio e tenacia. Negli anni Settanta, si sa, i problemi del Mezzogiorno erano ancora tanti. Questi meravigliosi artisti che avevano lasciato tutto per cominciare il loro sogno ci misero tanto impegno. Per farla diventare una vera comunità però, oltre all’entusiasmo occorreva più diffusione e più sostegno. Senza una rendita stabile l’agricoltura della Bufalaria poteva solo mantenere i primi membri della comunità, producendo frutta, verdura, vino e olio.

La Bufalaria era stata trovata dopo ben tre mesi di ricerca, attraverso tutta la penisola salentina, era disabitata e in rovina con un’antica aia per battere il grano, quindici ettari di terreno trascurato, qualche albero di olivo e un bosco di pini alle spalle, e aveva di fronte una vista stupenda sul mare. Dopo lunghe trattative diventò la loro nuova “home”. Poco a poco, almeno in parte il “sogno” cominciava a realizzarsi. Gli androni principali della vecchia costruzione diventavano la casa con un “atelier” per Arno Mandello, l’amico di Man Ray, Pablo Picasso e Joseph Roth. In un edificio separato, che originariamente era la stalla dei buoi, fu creato un laboratorio di scultura per i lavori di saldatura e di fusione di Helen Ashbee, che già si prevedeva di ampliare grazie allo spazio magnifico intorno.

Nello stesso tempo si riparavano muri diroccati si piantavano cipressi come frangivento, si curavano gli ulivi rimondati, si piantavano frutteti e vigneti e si scavava un pozzo.

La vecchia stalla di capre, accanto al laboratorio, era stata trasformata in foresteria per amici e ospiti interessati a vedere quello che la masseria poteva offrire, per studenti venuti per contribuire con il loro lavoro nei mesi di vacanza alla realizzazione del “sogno” o addirittura, per rimanere e diventare una parte integrante del gruppo.

Nei primi tre anni di soggiorno nel Salento una grande scultura slanciata dorata fu ordinata per la sala di esposizione della “Olivetti” a Lecce, e una prima “manifestazione” o mostra dei vari lavori di entrambi gli artisti ebbe luogo alla Bufalaria nel 1972: tutto questo con l’aiuto e l’interessamento del Sindaco di allora S. Corvaglia, dell’Ente del Turismo, del Comune, di Ugento e della Pro loco, con la collaborazione del giornalista C. Pizzinelli[7].

Così, la campagna che circonda torre mozza, nella marina di Ugento, diventò negli anni settanta il set principale di un sogno, il sogno sognato da una donna, Helen Ashbee, che dopo la sua odissea nel mondo europeo approdava lì. Un percorso quello della Ashbee che avveniva esattamente in direzione contraria e originale partendo da uno dei centri culturali e artistici tra i più fervidi e importanti del secolo, come quello di Parigi, dove incontrò il suo maestro Giacometti, per giungere, in un angolo sperduto del mondo nel profondo sud che sapeva di Grecia e di miti ancestrali, alla ricerca di una autenticità senza compromessi.

Quando si arriva a Salve, Ugento, Santa Maria di Leuca è inevitabile fermarsi, siamo giunti a Finis terrae, oltre non c’è più niente…o meglio c’è solo il mare, e le colonne d’Ercole verso l’Oriente. In un ondata di emigrazione intellettuale verso sud, oltre un secolo prima, c’erano stati altri artisti che avevano compiuto quei viaggi in cerca di ideali, di poesia, di identità, e non tutti possedevano già fama e gloria; alcuni partivano portando con sé solo l’urgenza di ritrovare se stessi.

C’era stato Ferdinand Gregorovius, giovane trentenne in cerca delle tracce materiali di quel mito che lo caratterizzava e che sentiva essere il suo proprio destino. Segno di distinzione sono proprio le memorie raccolte nei suoi diari di viaggio, che ponevano attenzione ad ogni aspetto letterario, artistico e sociologico dei luoghi che attraversava e grazie ai rapporti intessuti con le persone con cui veniva a contatto, uno storico, non un pittore.

Il quinto volume della sua raccolta di viaggi è quello dedicato alla Puglia, “Apulische Landschaften”,(Lipsia, F. A. Brockhaus, 1877),dove si recò nel 1874 e nel 1875. C’era stato anche Johann Wolfgang von Goethe, da prendere come modello di attenzione e di sensibilità. Aveva viaggiato a lungo nel bel paese, ma a causa della ferrovia che all’epoca era ancora in buona parte da costruire, egli non arrivò mai nel Salento. Anche per lui valeva lo stesso discorso: « Lo scopo di questo mio magnifico viaggio non è quello d’illudermi, bensì di conoscere me stesso nel rapporto con gli oggetti.»

Il viaggio in Italia consentì a Goethe di compiere «il passaggio definitivo da una visione soggettivistica e passionale a una visione oggettiva e serena della realtà», al punto che, secondo Pareyson, l’esperienza estetica maturata dal poeta tedesco divenne da allora inseparabile da quella scientifica e filosofica. Sarà infatti proprio di ritorno dal viaggio che Goethe inizierà a dedicarsi con slancio allo studio scientifico della natura, andando oltre le ristrettezze materialistiche degli scienziati del suo tempo, limitate a una concezione meramente meccanicista dei fenomeni, producendo opere di spessore come la Metamorfosi delle piante e la Teoria dei colori[8].

Ma se solo Goethe avesse conosciuto la nostra terra, sono sicura che molte delle sue poesie ne avrebbero parlato, egli, l’ultimo “uomo universale” a camminare sulla terra, come nessun altro, avrebbe tradotto la magia dei nostri luoghi in parole, in versi, in musica, in immagini, di un incanto perenne. E c’era stato anche Paul Bourget:

“Se il leggendario stivale che forma l’Italia portasse uno sperone, la cara città da dove scrivo queste righe occuperebbe proprio il posto della rotella. […]L’occhio è affascinato fino a essere abbacinato, lo spirito è preso fino al rapimento da questa ricercatezza di pietra che posa come un merletto, come un ricamo su tutta la piccola città. Questa capitale della terra d’Otranto è una città della fine del XVII secolo napoletano, rimasta intatta, con ogni sorta di particolari dovuti dapprima agli architetti di Carlo V, poi agli ultimi allievi del Rinascimento.[…] Qui si sognano musiche leggere, mascherate, feste voluttuose e facili, una Spagna italianizzata e felice. […]Gli abitanti hanno una sobrietà di gesti che contrasta coi popoli vicini del rumoroso Mezzogiorno. Nelle particolarità della strada, ci son gentilezze in cui si è lieti di trovar la prova d’una razza raffinata – come il ponticello di legno montato su ruote che si mette tra un marciapiede e l’altro nei giorni di pioggia perché si possa passare senza salirvi; – e quando, come ora, è giorno di pubblico mercato, la forma delle lampade di terra col loro becco allungato, quella dei vasi, stavo per dir delle anfore, destinate all’olio e al vino con le due anse, basta a ricordarvi che questi contadini, venuti dalle pianure vicine, sono i moderni eredi dei coloni cretesi sbarcati con Idomeneo, e gli ultimi nipoti degli antichi sudditi di Dauno, il suocero di Diomede. […]Eccomi dunque in piena Magna Grecia, già ho potuto veder sorgere sopra una porta le statue di Dauno e di Idomeneo. Gli stessi nomi delle strade serbano qui la traccia di quei lontani ricordi e di altri quasi ugualmente remoti, ma più autentici. Sono di nuovo Dauno e Idomeneo, favolosi eroi della leggenda; è Ennio, il poeta che nacque a Rudiae, vicinissima; è Augusto, che apprese a Lecce la morte di Cesare; sono Adriano e Marco Aurelio, che s’occuparono del porto ai tempi in cui la città era più vicina al mare. Essi hanno fatto da padrini a queste strade e a queste piazze, e i loro nomi s’alternano con quelli di Goffredo, di Boemondo, del re Tancredi, di Manfredi, di Gualtiero di Brienne, di Federico II. […] Bisogna scendere fino all’XI secolo e al periodo dei re normanni, per trovare una reliquia, veramente grandiosa, questa. Si tratta della chiesa dei Santi Nicola e Cataldo, fuori di Porta Napoli. Cominciata dal re Tancredi nel 1180, s’ingrandì poi d’un chiostro e fu posseduta dagli Olivetani dei quali riconosco gli stemmi. Le tre montagne con la croce e gli alberi mi ricordano i miei lunghi e tranquilli soggiorni nel convento di Monte Oliveto. […] Se ho mai rimpianto di non aver ricevuto o di non essermi procurato quella special educazione che permette di discernere al primo sguardo il valore tecnico d’un pezzo d’architettura, fu in altri tempi in Inghilterra, davanti a cattedrali come quella di Canterbury, ed è qui, davanti a questa facciata normanna. Malgrado ciò io l’ho sentita bellissima. […]Le più romanzesche leggende, di cui si compiacquero le immaginazioni dei novellieri cari un tempo all’ingegnoso Hidalgo nel suo castello della Mancia, non superano in inverosimiglianza la vera storia degli avventurieri normanni dei quali questo religioso re fu quasi l’ultimo erede. […]Il mare ondeggia senza posa all’orizzonte, d’un azzurro marezzato di brividi, ed ecco, di là dal mare, spuntar fuori la costa albanese, color viola, infarinata di neve. Il treno si ferma ai piedi d’una città che ammucchia le case a ridosso di una collina cinta di spalti e di bastioni: è Otranto che sembra non esser per nulla mutata dall’anno famoso in cui i Turchi le dettero il sanguinoso assalto. Ah! Che immediato, delizioso incanto di colori! Gli uliveti che circondano Otranto sono grigi, ed essa è costruita di pietre dorate e rossicce. Il mare, in questa rientranza del golfo, e all’orizzonte, sfoggia profonde sfumature di zaffiro. Non una nube vagola per il cielo, che sembra di turchese.

Le montagne della penisola greca, viste così da lontano, con riflessi d’argento e d’ametista, mostrano perfino i crepacci del più intenso lilla in cui vagheggia la chiara macchia dei villaggi. Questa è la Finisterra d’Italia, o quasi, giacché il capo d’Otranto fa – con quello di Leuca, l’antico Japyx, e Gallipoli, – un triangolo che chiude la penisola dal lato della Grecia[9].

 

Note

[*] Vittorio Bodini, Foglie di tabacco (1945-1947), in Macrì O. (a cura di), Tutte le poesie, Lecce, Besa Editrice, 1997, p.61.

[1] Curiosità: Il consumo della carne di bufalo, invece, sembra fosse discretamente diffuso a Napoli, soprattutto presso la comunità ebraica, così come avveniva a Roma. Nel 1852, Vito Antonio Ascolesi definiva la carne di bufala “dura e disgustosa al palato, e ripugnante all’odorato, anche quando l’animale è giovine”, mentre nel 1903, per Giuseppe Santini, “quella dei bufalotti è assai pregiata e, mangiata inconsciamente, può senza dubbio passare per carne di bovino”: insomma, da qui potrebbe derivare il termine… “bufala”, intesa come “fregatura”. https://www.lacucinaitaliana.it/news/in-primo-piano/storia-della-bufala-dalla-mozzarella-alla-carne/

[2]   Cfr. M. Cataldini, M. Pizzarelli, (testi), Caterina Gerardi (foto), Verso Sud, Anima Mundi edizioni, Otranto, 2008.

[3]  https://www.iltaccoditalia.info/2018/05/11/lo-spazio-infinito-nelle-opere-di-dirnaichner/ di Antonio Lupo, maggio, 11, 2018, visionato il 22 maggio, 2020, ore 17,33.

[4] Immagini relative a https://www.iltaccoditalia.info/2018/05/11/lo-spazio-infinito-nelle-opere-di-dirnaichner/ di Antonio Lupo, maggio, 11, 2018,

[5]   Cfr. Verso Sud, 2008, “A Contrappunto” Edizioni Leucasia di Levante Arti Grafiche, Presicce, (Le), anno IX, nn. 1e2, aprile 2001.

[6] Verso Sud, 2008.

[7] http://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/1978/III/art/R78III028.html. Visualizzata il 27 maggio 2020, ore 16,35.

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Viaggio_in_Italia_(saggio)#Tappe_del_viaggio_di_Goethe

[9] Paul Bourget, Sensations d’Italie (Toscane – Ombrie – Grande Grèce). Con traduzione italiana dei capitoli XVI-XXIV / Paul Bourget ; edizione anastatica e traduzione a cura di Alessandra De Paolis – Edizioni digitali del CISVA, 2010 – 404 p. – integralmente riprodotto. http://www.viaggioadriatico.it/biblioteca_digitale/titoli/scheda_bibliografica.2011-02-08.6502316502 ( direttore Giovanna Scianatico), (dominio dell’Università del Salento), visualizzato il 26 maggio 2020, ore 18,31.

 

Per la prima parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri

Per la seconda parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (II)

Per la terza parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (III)

Per la quarta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (IV)

Per la quinta parte:

Tornando a Sud: viaggi in un Salento che diventa casa, attraverso gli occhi degli altri (V)

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (II parte)

di Salvatore Coppola

 

La verità giudiziaria

Il 19 maggio 1962 si concluse dinanzi al Tribunale di Lecce la prima fase di un lungo e tormentato iter giudiziario che si sarebbe concluso (tra appelli, ricorsi, sentenze di rinvio e nuovi ricorsi) nel maggio del 1969. Sul banco degli imputati finirono Berardino Cecchini (vice brigadiere dei carabinieri addetto, insieme con l’appuntato Paolo Logoluso, alla sorveglianza delle operazioni di disinfestazione e alla «prevenzione di incidenti»), Oronzo Zaccaria Pranzo (amministratore della ditta Villani Costantino & C. nonché titolare della licenza per l’utilizzo di solfuro di carbonio), Donato Colopi (chimico, direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro), Raffaele Martina (tecnico patentato preposto alle operazioni di disinfestazione) e il dr. Vincenzo Tommasi (ufficiale sanitario). I primi quattro dovevano rispondere dei reati di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose plurime (determinati da «negligenze, imprudenza, imperizia e inosservanza di leggi, ordini e discipline») oltre che di una serie di contravvenzioni per la mancata osservanza di norme e regolamenti in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e alla violazione di una serie di prescrizione in materia di impiego di gas tossici. Il dr. Tommasi doveva rispondere del reato di falso ideologico per avere «attestato falsamente in un certificato rilasciato il 21/5/1960 che i locali della ditta Villani Costantino e C., siti in Calimera alla via Martano 11, erano separati ed allestiti con tutte le cautele previste dall’art. 45 e segg. del Regolamento Speciale del 9/1/1927 sui gas tossici»[1].

La tragedia si consumò in pochi attimi alle 7.40 di un giorno festivo per Calimera (S. Antonio). Le operaie erano intente a «travasare il solfuro di carbonio da un bidone posto su di un cavalletto in recipienti piccoli, così da potere gli stessi, riempiti del liquido, essere avviati (col sistema del passamano a catena) nell’interno degli ambienti e posti un po’ dovunque, sulle ballette di tabacco ivi ammassate», quando un cerino incautamente acceso dal vice brigadiere Cecchini per dare fuoco alla sigaretta che teneva in bocca provocò lo scoppio improvviso del liquido, cui seguirono l’incendio e l’emissione di vapori tossici. Le operaie più vicine furono avvolte dalle fiamme, le altre furono soffocate dal gas. Natalina Tommasi, ridotta a una torcia umana, ebbe la forza di gridare all’indirizzo del brigadiere: “Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”. Luigia Bianco, anche lei avvolta dalle fiamme, gridò “u brigadiere è statu”. Il Tribunale così descrive la drammatica scena:

[…] Le fiamme innanzi la porta d’ingresso, essendo la stessa stretta e con una impannata chiusa, crearono una barriera per chi si trovava dentro, ove per giunta, alcuni dei recipienti pieni si rovesciarono, aumentando il fuoco, il gas tossico e il panico. Le persone che erano all’interno restarono in trappola, chiuse nei vani, dalle fiamme che divampavano sul pianerottolo, impossibilitate a saltare dalle finestre sulla strada, in quanto queste erano munite di inferriate fisse, né vi erano altre uscite […][2].

 

Il Tribunale riconobbe la responsabilità del vice brigadiere Cecchini («con fare disattento ed inconsiderato, come avviene al fumatore che accende la sigaretta senza accorgersene, meccanicamente, mentre era in corso il travaso dell’infiammabilissimo liquido, si mise a fumare. Diede fuoco con un cerino alla sigaretta provocando immediato lo scoppio del solfuro che in gran copia era nei recipienti scoperti»). La sua mancanza di «ogni elementare norma di prudenza» che si materializzò nella «inopinata accensione del cerino» non furono, tuttavia, da Tribunale, Corte d’Appello e Cassazione ritenute sufficiente da sole a provocare la catastrofe se non si fossero determinate tutta una serie di concause di cui furono chiamati, con pari grado di responsabilità, a rispondere gli altri imputati. L’inosservanza, infatti, di una serie di norme poste a tutela dell’incolumità dei lavoratori fu giudicata altrettanto grave quanto il gesto incauto del vice brigadiere, la cui presenza sul posto doveva essere di garanzia della regolarità e sicurezza delle operazioni.

In sede giudiziaria fu acclarato che l’operazione di disinfestazione del tabacco – di per sé pericolosissima – avrebbe dovuto svolgersi in locali lontani dal centro abitato e non in quelli di proprietà Lefons (presi in affitto dal Pranzo per conto della ditta Villani Costantino & C.) che si trovavano vicini al centro abitato, in via Martano 11. Gli stessi erano privi di uscite di sicurezza al primo piano. All’interno non c’erano estintori, né indumenti di protezione dalle fiamme e maschere antigas, di cui avrebbero dovuto essere dotate le operaie. Il luogo dove si effettuava il travaso da un fustino metallico collocato su un cavalletto in piccoli recipienti che dovevano essere trasportati ai piani superiori era un angusto pianerottolo posto in cima ad una scala da cui si accedeva al primo piano attraverso una sola porta d’ingresso di dimensioni non regolamentari (larghezza inferiore a 1 metro e 10 centimetri). Le fiamme sprigionatesi davanti all’unica porta d’ingresso crearono una barriera che intrappolò le povere donne chi vi si trovavano dentro «senza altra possibilità di uscita». Anche le finestre che davano sulla strada erano sigillate dall’interno («sbarrate con rete metallica») e chiuse all’esterno da una «robusta cancellata in ferro». Non c’era alcuna via d’uscita dall’inferno di fuoco che avvolse e spense le giovani esistenze di quelle povere e infelici donne. A parere dei giudici, in mancanza di porte apribili dall’interno non si sarebbe dovuto mettere le operaie di fronte ad un rischio a cui le stesse non erano tenute in base alle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Il direttore tecnico responsabile dell’impiego del solfuro (il chimico Colopi), cui spettava l’obbligo «morale e giuridico» di assistere e dirigere le operazioni di solfurazione, era assente («l’opera che si stava eseguendo e che non si portò a termine stante l’accaduto, avrebbe dovuto compiersi alla presenza del direttore tecnico, Colopi, dal principio alla fine»). Egli aveva lasciato il controllo e la gestione dell’intera operazione al tecnico patentato Martina che si fece coadiuvare dall’operaio Murra. A parere dei giudici, se egli fosse stato presente non avrebbe consentito che le operaie – personale non idoneo e non autorizzato – partecipassero alle operazioni «inerenti alla solfurazione» e non avrebbe permesso che il travaso del liquido fosse eseguito in un luogo inidoneo qual era lo strettissimo ballatoio collocato davanti all’unica porta d’ingresso ai locali, peraltro molto piccola:

[…] Il Colopi avrebbe potuto consentire il lavoro solamente se le porte dei locali avessero potuto permettere la rapida uscita delle persone ed essere agevolmente apribili dall’interno durante il lavoro. Siccome questi presupposti non sussistevano il direttore tecnico non doveva permettere la solfurazione. Non sembra al Tribunale che, non potendosi disporre del congruo numero di uscite, si dovessero porre le operaie di fronte ad un rischio che la legge sugli infortuni vieta debba essere affrontato; nella peggiore delle ipotesi, la solfurazione non doveva farsi in quel giorno ed in quel luogo […]. Non sarebbe stato difficile predisporre, con alcune finestre situate nel retro del fabbricato al primo piano comunicanti con due terrazze, delle uscite di sicurezza[3].

 

Il Tribunale ritenne che la colpa del solfuratore patentato Raffaele Martina consisté nell’essersi fatto aiutare, nell’operazione di disinfestazione del tabacco, da personale non abilitato (quali erano l’operaio Achille Murra e le undici operaie tabacchine):

[…] Ciò non avrebbe dovuto fare per ragioni di prudenza di facile comprensione, per non esporre quel tipo di personale, per di più quasi tutte donne, ad un rischio mortale. Consisté la colpa nel non avere considerato il Martina (negligenza, imprudenza) che, senza porte di sicurezza, era pericoloso porre al lavoro le persone, stante il pericolo di incendio e di emanazione di vapori mortali. La manovra del travaso del solfuro, dall’imputato organizzata ed eseguita in luogo angusto, fu altra imperdonabile imprudenza e negligenza, dovendo facilmente, il Martina, prospettare a sé stesso l’ipotesi di una combustione del liquido proprio in quel punto, sì che avrebbe chiusa ogni via di scampo a coloro che lavoravano nell’interno […][4].

Quanto all’amministratore Pranzo (titolare della licenza per l’impiego del solfuro), egli – a parere del Tribunale – non avrebbe dovuto consentire che venisse utilizzato per un’operazione così pericolosa personale non abilitato, quali erano le operaie, che egli aveva assunto per il tramite della capo operaia Maria Assunta Pugliese:

[…] La licenza per l’impiego del solfuro era stata rilasciata dal Questore a Pranzo in persona, sicché doveva il titolare della licenza personalmente presenziare alla solfurazione […] a lui incombeva fra gli altri l’obbligo di non impiegare personale non abilitato durante la solfurazione […]. Pranzo diede ordine alla capo operaia Pugliese di assumere le tabacchine per la disinfestazione […]. I lavori di sistemazione dei locali erano stati compiuti il 12 giugno, mentre restava solo da distribuire il liquido velenoso nei singoli vani: da ciò la necessità di chiamare undici tabacchine, che lavorarono col sistema del passamano a catena per far giungere i barattoli pieni di solfuro dal pianerottolo ove avveniva il travaso fin nel più lontano locale […] egli non doveva affidare a personale non abilitato a termini di regolamento lavori strettamente inerenti all’impiego del liquido tossico […] alle tabacchine, invece, fu dato ordine di permanervi, pur non essendo patentate, per tutto il tempo necessario alla distribuzione dei recipienti pieni, nei dodici ambienti […]. Fra gli accorgimenti tecnici, sarebbe bastato munire i locali del magazzino di tante uscite proporzionate al numero delle operaie, facendo sì che le aperture […] avessero trovato sfogo all’aperto, in atrii, terrazzi, cortili contenuti, questi, come accessori scoperti, entro l’ambito cintato e circoscritto del magazzino […][5].

Il cerino acceso da Cecchini – queste le conclusioni del Tribunale – non fu da solo sufficiente a determinare l’evento («la causa sopravvenuta posta in essere non sarebbe stata sufficiente da sé sola a determinare l’evento» senza il concorso di cause «precedenti, immediate, dirette poste in essere dagli altri tre imputati»):

[…] Così avvenne, quanto a Pranzo e Colopi, che predisposero gli ambienti senza possibilità di scampo o di fuga per chi si fosse trovato dentro; che fecero lavorare delle persone non abilitate al rischioso uso del solfuro di carbonio; che non le munirono di maschere antigas, né di indumenti refrattari al fuoco; che non corredarono i locali con meccanismi atti ad estinguere gli incendi […] Martina, dal canto suo […] si rese conto che le tabacchine non erano adatte a quel genere di lavoro, a loro vietato, tanto che la legge ne escludeva l’impiego. Pur vide, infine, che le tabacchine ed il suo aiuto Murra non avevano né maschere, né indumenti protettivi […]. La sola azione del Cecchini non avrebbe sortito l’effetto mortale, sol che il personale fosse stato munito di indumenti protettivi, non attaccabili dal fuoco e di maschere atte alla respirazione, in ambienti infestati da gas venefici; sol che avesse avuto, ognuno dei presenti, via libera per fuggire […] certamente le conseguenze non sarebbero state così disastrose; perché, se non tutti, si sarebbero salvati molti, specie dalla morte, con la fuga, con la respirazione attraverso le maschere antigas, con gli indumenti resistenti al fuoco[6].

 

Il Tribunale, sulla base del principio giuridico «ogni singola causa è causa dell’evento» inflisse ai quattro imputati la medesima condanna. Per il reato di omicidio colposo plurimo la pena inflitta fu di 6 mesi per ogni operaia morta (totale 36 mesi). Per le lesioni più gravi fu inflitta la pena di 9 mesi (3 mesi per ognuna delle tre persone ferite); per le lesioni meno gravi la pena inflitta fu di 4 mesi (1 mese per ognuna delle quattro persone ferite). In totale la pena complessiva fu determinata in 4 anni e 1 mese, cui si aggiunsero le ammende per l’inosservanza dei regolamenti e il risarcimento a favore delle parti civili calcolato in un milione per ognuna delle operaie morte. Il Tribunale assolse con formula piena (il fatto non costituisce reato) il dr. Tommasi giudicando che egli, nel rilasciare il certificato, aveva ritenuto «in sua scienza e coscienza, essere il magazzino di via Martano 11 in Calimera attrezzato in maniera idonea all’uso dei gas»; egli pertanto non aveva avuto intenzione di «attestare cosa fuori dalla concreta realtà»[7].

La Corte d’Appello, con sentenza del 15/12/1962, riconobbe agli imputati alcune attenuanti generiche e ridusse la pena a due anni di reclusione, applicando nel contempo il beneficio della prescrizione per alcune contravvenzioni inflitte a Pranzo e Colopi. La vicenda giudiziaria si protrasse ben oltre le sentenze di primo, secondo e terzo grado (Cassazione, 25/6/1963). A seguito del rinvio (limitatamente a una parte della sentenza della Corte d’Appello di Lecce) il processo finì davanti alla Corte d’Appello di Bari che si pronunciò il 22/5/1964. Un nuovo ricorso in Cassazione si concluse (5/2/1967) con un altro rinvio del processo alla Corte d’Appello di Bari, che con sentenza del 20/12/1968 accordò agli imputati Colopi e Martina il beneficio della prescrizione in merito al reato di delitto colposo. Un nuovo ricorso in Cassazione e la pronuncia della Suprema Corte (19/5/1969) posero la parola fine alla vicenda.

I nomi delle tabacchine di Calimera rimarranno per sempre scolpiti, oltre che nel cuore dei calimeresi e dei salentini tutti, anche sul monumento ideale al lavoro e al sacrificio di quanti nel Salento sono Caduti per pane e lavoro.

Note

[1] Asle, Tribunale civile e penale, Sentenze penali, sentenza n. 614 del 19/5/1962.

[2] Ivi.

[3] Ivi.

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] Ivi.

[7] Ivi.

 

Per la prima parte vedi qui:

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie, una tragedia annunciata (I parte)

 

“Na bruciate, ci cu rraggia; se stia bbona e bbessia lia sparare”.

Calimera, 13 giugno 1960: il sacrificio di sei operaie,

una tragedia annunciata

 

di Salvatore Coppola

La storia delle tabacchine salentine è stata segnata da momenti di grandi lotte e di altrettanto grandi conquiste sociali, ma anche da immani tragedie, le più gravi delle quali sono state, in epoca fascista, la repressione a Tricase della manifestazione del 15 maggio 1935 (quando vennero uccise Maria Nesca, Cosima Panico e Donata Scolozzi), e, negli anni della democrazia, l’incendio che si sviluppò nel magazzino di proprietà di Giuseppe Lefons di Calimera, gestito (per le sole operazioni di disinfestazione del tabacco), dalla ditta Villani Costantino & C.[1].

Il 13 giugno del 1960 un incendio divampò all’interno del locale provocando la morte di cinque operaie, quattro delle quali (Natalina Tommasi di anni 30, Luigia Bianco di anni 34, Luigia Tommasi di anni 22 e Maria Assunta Pugliese di anni 46) perirono a causa delle gravi ustioni patite tra il 13 e il 14 giugno; un’altra (Epifania Cucurachi, di anni 27) morì il 16 luglio a causa dell’intossicazione, e l’ultima (Lucia Di Donfrancesco, di anni 30 al momento della catastrofe) cessò di vivere il 14 gennaio del 1962, dopo un lungo periodo di malattia e di ricoveri in diversi ospedali. Luigia Bianco, Natalina (Lina) Tommasi e Lucia Di Donfrancesco erano nubili. Luigia Tommasi (moglie di Pantaleo Garrisi) lasciava orfani Brizio Antonio di anni 5 e Domenico di anni 1; Maria Assunta Pugliese (moglie di Paolo Greco) lasciava un figlio di anni 20; Epifania Cucurachi (moglie di Pasquale Palano) lasciava orfani Carmelo di anni 7 e Antonio di anni 2. Rimasero ferite le tabacchine Gaetana Tommasa, Cristina Di Mitri, Elvira Castrignanò, Cesaria Lucia Perrone, Paola Lucia Montinaro e gli operai Achille Murra di San Pietro in Lama (aiutante del tecnico Raffaele Martina preposto alle operazioni di disinfestazione del tabacco) e Paolo Greco (marito della Pugliese) che cooperava a dette operazioni. Restarono leggermente feriti anche Paola Lucia Montinaro (madre di Lina Tommasi), Vincenzo Gabrieli e il sindacalista della CGIL, nonché assessore comunale, Brizio Niceta Di Mitri, tra i primi ad accorrere sul luogo del disastro per prestare soccorso.

Nel pomeriggio del 13 giugno, la Prefettura informò il Ministero degli Interni sulla tragedia che si era consumata a Calimera:

Verso ore 7.30 stamane, Comune Calimera, mentre procedevasi, con regolare licenza, at disinfestazione tabacco in foglie fabbrica Villani Costantino, mediante impiego solfuro carbonio, per cause non ancora accertate, sviluppavasi violento incendio causato da combustione gas. Circostanza sette persone riportavano gravissime ustioni et intossicazione, per cui venivano ricoverate presso Ospedale Civile con prognosi riservata. Di esse due versano imminente pericolo vita, mentre condizioni altre permangono gravissime. Successivamente altre cinque persone venivano ricoverate stesso nosocomio per intossicazione, ma loro stato non est preoccupante. Sul posto si sono recati immediatamente Vigili Fuoco per operazioni soccorso et spegnimento incendio. Autorità Giudiziaria, collaborazione Organi Polizia, procede accertamenti per stabilire cause grave sinistro. Ho visitato degenti Ospedale Lecce et disposto assistenza at favore famiglie infortunati […][2].

 

Il Comune (era sindaco Giovanni Aprile) si accollò le spese per i funerali delle povere vittime[3].

Si trattò di una tragedia annunciata, come risulta dal verbale redatto dall’ingegnere Antonino Fiorica, comandante dei Vigili del Fuoco di Lecce, che denunciò la mancata osservanza delle più elementari norme in materia di sicurezza e di prevenzione degli infortuni sul lavoro, con riferimento soprattutto al DPR n. 547 del 27/4/1955 e al R.D. n. 147 del 9/1/1927; nel verbale inviato al Ministero degli interni e alla Prefettura, si legge, tra l’altro:

[…] Il locale dove si effettuava la disinfestazione è costituito da due grandi vani al primo piano ai quali si accede attraverso un vano di disimpegno che comunica con un’unica scala. Essi vani sono sovrastanti ad abitazioni ed i locali del pianoterreno adiacenti a queste ultime sono anch’essi adibiti ad abitazioni. Ai magazzini del primo piano si accede attraverso una scala a sbalzo in pietra leccese, che smonta ad un pianerottolo antistante al vano di disimpegno. I locali per disposizione dell’Ufficio Compartimentale Tabacchi sono dotati di un solo accesso e privi quindi di altra uscita, che, in caso di sinistro, possa servire come uscita di sicurezza nell’eventualità che venga a trovarsi ostruita la normale via di accesso (art. 13 del decreto DPR 27/4/1955, n. 547). Ciò si è verificato nel caso che si espone. Quella mattina si stava procedendo alla disinfestazione del locale con solfuro di carbonio, il quale venendo adoperato per le specifiche proprietà tossiche, è soggetto alla regolamentazione di cui al R.D. 9/1/1927 n. 147. Il titolare del magazzino, pertanto, in ottemperanza a quanto disposto dal sopracitato R.D. si era rivolto alla ditta Perrone e Colopi al fine di disinfestare sia il locale che il tabacco con solfuro di carbonio, il quale passando allo stato gassoso emette vapori tossici ed infiammabili. Essi vapori mescolandosi all’aria in determinate percentuali possono provocare anche esplosioni […]. Le operazioni relative all’impiego del gas tossico erano state iniziate alle ore sette circa, in assenza del Direttore Tecnico, e senza aver provveduto ad allontanare dai locali il personale non abilitato alla esecuzione delle operazioni relative all’impiego del gas tossico, come disposto dall’art. 46 del sopracitato R.D. Sembra anzi che gli operai si trovavano nell’interno del locale per aiutare il sig. Martina, unico abilitato alle operazioni di impiego del gas tossico, a trasportare e depositare sulle ballette di tabacco i recipienti contenenti solfuro di carbonio. E’ stato rilevato inoltre che nessun cartello con lo scritto “E’ vietato l’ingresso, Pericolo di morte”, […] era stato apposto all’ingresso dei locali. Gli operai non erano stati dotati di apparecchi per la protezione individuale contro l’azione tossica del gas (art. 40 R.D. sopracitato) e nemmeno tali apparecchi si trovavano nel locale, come prescritto dall’art. 369 del decreto del Presidente della Repubblica del 27/4/1955, n. 547. I recipienti in cui era stato trasportato il solfuro di carbonio non portavano i contrassegni relativi all’infiammabilità e alla tossicità del gas. L’incendio del solfuro di carbonio che ha causato le ustioni e le intossicazioni degli operai che si trovavano all’interno del locale si è verificato mentre si procedeva al travaso del liquido infiammabile da un fustino metallico in recipienti di latta. Detta operazione di travaso veniva effettuata sul pianerottolo della scala, antistante all’unico accesso ai locali per cui gli operai che si trovavano nell’interno si sono venuti a trovare con l’unica uscita sbarrata dalle fiamme e tutte le finestre chiuse e sigillate all’interno, con carta convenientemente incollata (per evitare fuoruscita dei vapori del solfuro di carbonio) e sbarrate con rete metallica e robusta cancellata in ferro all’esterno […][4].

 

La relazione indicava come possibili cause dell’incendio «l’incauto uso di fiamme libere sulla scala e nell’androne di ingresso sito al piano terreno», o le scintille provocate dallo «strofinio dei cerchi metallici del fustino con il pavimento del pianerottolo», o quelle provocate «dall’urto del fusto con i barattoli metallici» oppure le scintille provocate «dall’urto di scarpe chiodate o forzate con il pavimento in cemento»[5].

Lucia Di Donfrancesco, costretta a continui ricoveri negli Ospedali di Lecce, Bari e Napoli a causa dell’intossicazione patita, il 13 gennaio del 1961 indirizzò un accorata appello al prefetto per lamentare le gravissime condizioni di salute ed economiche in cui versavano lei e i propri genitori (Brizio Maria e Maria Addolorata Lefons che erano entrambi anziani e pensionati):

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto, anzi tutto mi scuso se mi rendo seccante, avevo saputo che doveva venire la Signoria Vostra a Calimera ed avevo mandato la mamma sul municipio ma invece le hanno detto che per questa domenica non l’è stato possibile, le cerco una preghiera quando verrà a Calimera che vorrei parlarle direttamente, sono sempre la solita martire che venne a trovarmi all’ospedale di Lecce, mi portarono di nuovo a Napoli credendo di migliorare, ma invece ho peggiorato son tornata di nuovo a Calimera che proprio oggi sono trascorsi 7 mesi di pene, è già un mese che sono a casa mia, con la mia vecchia mamma che mi assiste e mio padre pure è vecchio, ci campiamo con la loro vecchiaia, fin adesso ho avuto solo il suo aiuto e pregherò sempre per la sua bontà, non dimenticate che una sua visita è forse la mia salvezza desidererei tanto vederlo un’altra volta giacché speravo una mia guarigione per venire io personalmente a ringraziarlo di tutto, ma non ho più speranza sto peggio di prima, e di nuovo con l’ossigeno, e non so ancora quando finisco di soffrire, sono molto stanca. Le chiedo con tutto il cuore un suo conforto e se non le sarà possibile almeno un suo scritto che da oggi conto i giorni che ho scritto, aiutatemi. Distinti saluti, Lucia Di Donfrancesco, via Martano n. 55 […][6].

 

Il successivo 17 marzo, Lucia scrisse nuovamente al prefetto:

[…] Sua Eccellenza signor Prefetto. Anzi tutto chiedo scusa se mi rendo seccante, sono Lucia Di Donfrancesco l’operaia che sono stata la più grave di tutte, credo che si ricorda quale sono, che Sua Eccellenza è venuta pure a trovarmi all’ospedale di Lecce, avevo scritto due mesi or sono ma non ho avuta riposta, se fossi in condizioni un po’ migliorate sarei venuta a trovarlo personalmente, ma le condizioni di salute non lo permettono, la prego ancora di non dimenticarmi che ho tanto bisogno ci campiamo con la vecchiaia dei miei vecchi genitori, non so a chi rivolgermi, la prego aiutarmi, non credo che non si ricorda chi sono, l’operaia del magazzino incendiato di Calimera […][7].

 

Lucia Di Donfrancesco cessò di vivere il 14 gennaio del 1962. Fu la sesta vittima dell’immane tragedia che aveva colpito Calimera il 13 giugno del 1960; non risulta che alle sue accurate lettere il prefetto avesse mai risposto. Qualche giorno dopo la sua morte, egli comunicò al sindaco che aveva disposto a favore dei genitori (74 anni il padre e 68 la madre) l’erogazione di un contributo di lire 50.000 e lo pregò di porgere loro il proprio cordoglio[8].

Note

[1] Sul drammatico episodio di Tricase, S. Coppola, Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà, Giorgiani, Castiglione 2015.

[2] Asle, Prefettura, Gabinetto, II versamento, b. 266, fasc. 3111 (telegramma del prefetto Di Cuonzo).

[3] Ivi, comunicazioni del prefetto e del comandante della Compagnia provinciale dei Carabinieri Aldo Favali; la Prefettura e l’APTI erogarono un contributo alle famiglie delle vittime e a quelle di coloro che erano stati ricoverati.

[4] Ivi, relazione redatta il 20/6/1960.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, lettera del 13/1/1961.

[7] Ivi, lettera del 17/3/1961.

[8] Ivi, lettera del 15/1/1962.

Ritrovamenti messapici e greci a Sava

SAVA, 1889: I RITROVAMENTI MESSAPICI E GRECI, LA VISITA

DEL PROF. VIOLA E L’INDAGINE ARCHEOLOGICA OMESSA

 

di Gianfranco Mele

In un articolo apparso su “La Voce di Maruggio” ho parlato esaustivamente del manoscritto di Achille D’Elia “Sava e il suo feudo”, della storia antica di Sava raccontata dal D’Elia (ma anche dall’ Arditi e dal Coco), e della figura del D’Elia stesso fornendo una biografia dell’autore che mostrava la serietà e il peso culturale del personaggio.[1]

Con questo scritto intendo dimostrare come alcune annotazioni dello studioso circa l’archeologia e la storia savese siano assolutamente da rivalutare, sulla base di una serie di interconnessioni con le vicende che coinvolgono la ricerca storico-archeologica nel territorio in quegli anni ed i protagonisti di quella ricerca.

Dobbiamo prendere in considerazione due diversi aspetti dell’analisi fornita dal D’Elia in merito alla Sava antica: le certezze documentarie, e le congetture, senza accavallare e confondere tra loro questi suoi due distinti e distinguibili contributi.

Ora, il D’Elia fornisce, per ciò che concerne le certezze, una serie di dati fondamentali: 1) l’esistenza, in Sava, di quelli che egli chiama “Castelli Castrum Munitum Messapici”; 2) i rinvenimenti di “ monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive”; 3) l’esistenza, ancora all’epoca in cui scrive, delle “fondamenta d’epoca evidentemente ciclopica”; 4) il rinvenimento di una serie di reperti visionati anche nell’agosto del 1889 dal “chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto”; 5) l’esistenza di un sepolcreto messapico a 500 metri dal rione Castelli.

Vedremo più avanti, nei dettagli, per quale motivo le notizie suddette sono da considerarsi certezze. Per quanto riguarda le congetture, invece, il D’Elia finisce con l’identificare il territorio di Sava con la mitica “Sallentia urbs messapiorum”, e qui entriamo sicuramente nel campo dell’ indimostrabile, sebbene lo storico savese Gaetano Pichierri riprenda con slancio e passione nelle sue ricerche, arricchendole di ulteriori speculazioni, queste ipotesi affascinanti ma un po’ visionarie del D’Elia.[2]

A causa di queste conclusioni (che peraltro lo stesso D’Elia presenta come dato ipotetico, quasi fantasioso, e non come convinzione), sia il Coco che storici successivi non prendono troppo sul serio l’opera del D’Elia. Ma c’è di più: ciò che viene considerato veramente inspiegabile e perciò contribuisce a non dar troppo credito a tutto l’impianto del manoscritto è la notizia che il D’Elia fornisce circa le parole attribuite al professor Viola durante la sua visita a Sava: ciò che il Viola vede, lo dichiara, stando a quanto riportato dal D’Elia, “di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene“. Come mai, ci si è chiesto spesso, se Viola resta così stupefatto dei reperti rinvenuti in Sava, non ne raccoglie e diffonde documentazione, non li prende con sé esponendoli al Regio Museo, non pubblica un report, non cita e non pubblicizza la scoperta?

La risposta sta proprio nella figura del professore e nella sua biografia, costellate di imbarazzanti contenuti ed episodi. Nel corso di questa esposizione ci soffermeremo a lungo sulla storia del personaggio e su alcuni momenti-chiave del suo operato.

Andiamo ora per ordine, riportando 1) quanto esposto nel manoscritto del D’Elia, 2) i dati e le evidenze a supporto dei contenuti del manoscritto, 3) la questione della visita del Prof. Viola a Sava e della omissione della rendicontazione di quanto osservato.

Contrada Agliano, Sava: un ritrovamento dagli scavi condotti nel 2008 dalla Cooperativa Museion

 

La copertina del libro di Evans nel quale son citati i ritrovamenti numismatici avvenuti a Sava

 

Il manoscritto del D’Elia

La più esaustiva fonte descrittiva dell’ agglomerato antecendente l’attuale Sava e denominato Castieddi, sullle rovine del quale quale viene fondata Sava, consiste in un manoscritto del 1889 di Achille D’ Elia andato perduto ma del quale Primaldo Coco fornisce vari stralci nella sua opera “Cenni storici di Sava”. Il Manoscritto aveva per titolo Sava e il suo feudo, storia paesana”.

Prima del D’Elìa sarà l’Arditi a parlare, seppur fugacemente, dei “Castelli”, e successivamente, oltre al Coco, ne parleranno il Del Prete e il Pichierri che forniranno ulteriori descrizioni.

Riporto a seguire i più importanti passaggi dell’opera del D’Elia:

La storia di Sava non è gran che negli annali civili di questa provincia; essa è circoscritta alla più esigua cronaca militare di una rocca. Non potrebbe però convenevolmente parlarne chi trascurasse rifarsi e discutere dei Castelli Castrum Munitum Messapici, o Salentini ora distrutti e ridotti in un bel giardino ad Oriente della novella Sava […] Ch’essi Castelli fossero costruzione vetustissima – non ben accertato se messapica o salentina per mancanza d’ iscrizioni – lo attestano le monete della vecchia Orra quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero; la irregolarità delle forme nei massi tufacei delle fondamenta ancora visibili – d’epoca evidentemente ciclopica e certi cocci di una tal terraglia pesante come ferro del color della ghisa è bastante che il chiarissimo Professore Viola del Reg. Museo di Taranto in una breve visita fattavi nell’ultimo agosto (1889) dichiarasse di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messena.”[3]

Come si è visto, qui il D’Elia cita la visita in Sava del Prof. Viola, argomento sul quale torneremo nel seguito di questo scritto per chiarire cosa accadde dopo quella visita. Da notare che il manoscritto è redatto nello stesso anno della visita di Viola, presumibilmente pochi mesi dopo. Il D’Elia prosegue:

“Questi Castelli erano in comunicazione sotterranea con un piccolo fortino sito in contrada Specchiodda e forse anco con quello di Uggiano Montefusco, e di Manduria: ciò che prova che essi rappresentar dovessero un intero sistema di fortificazioni di confini dei due regni Messapico e Tarantino. […]Tale sarebbe la versione più modesta che potrebbe darsi alle dicerie corse sui nostri Castelli. Ci sarebbe dell’altro però. Dalla lunghezza della via sotterranea di forma poligonale, visibile anche oggi in casa Testa e nel giardino Melle, ci sarebbe da arguire che essa servisse alle comunicazioni segrete fra i vari forti.

Dai sepolcri messapici – con la facciata del cadavere sempre rivolto ad Oriente – trovati in gran numero a mezzo chilometro dai vecchi Castelli e ad un metro di profondità in quel tratto di terreno che va dal convento di S. Francesco sino alla via provinciale, ci sarebbe da inferirne che qui fosse un sepolcreto da quelli dipendente.”[4]

Sin qui, il resoconto obiettivo del D’Elia. Con poche righe successive e conclusive entra poi nel campo della congettura:

Ora ditemi: non potrebbe per un momento venire in mente all’erudito di vecchie cronache che qui davvero – sul confine dei tre regni Messapico, Salentino e Calabro – fosse stata edificata la città di Sallenzia Urbs Messapiorum ?” [5]

 

I dati a supporto delle tesi del D’Elia

Dell’antico casale Castelli fornisce per primo alcune notizie Giacomo Arditi:

Il territorio si appoggia sul sabbione e sul calcare di varia specie; nel predio Castelli, appo l’abitato, sogliono scavando rinvenirsi delle monete di tipo greco […] Qui d’appresso esisteva una volta il casale appellato Castelli, e ne fan fede il nome che ancora dura nella contrada, le due vecchie vie che esistono e che chiamano Vetere o Portoreale, e i ruderi e le monete accennate di sopra. Distrutto Castelli nel sec. XV, o per vecchiezza, o per incidenza delle guerre e dei conflitti allor combattuti tra Spagnuoli e Francesi, i suoi abitanti eressero vicin vicino quest’altro appellato Sava […] “ [6]

Copertina dell’opera di Arditi

 

Il Coco a sua volta riprende la maggior parte delle descrizioni dell’antica “Castelli” dal manoscritto del D’Elia, accettandone la ricostruzione dei fatti, ma rigettando l’ipotesi della identificazione di “Sava-Castelli” con la antica e leggendaria Sallenzia, però conclude :

Quanto poi riferisce l’autore circa la forma dei Castelli, la via sotterranea, i sepolcreti e le monete trovate, merita fede avendo io – le stesse cose – sentite narrare da altri testimoni oculari[7]

Del resto, sempre il Coco cita alcuni ritrovamenti avvenuti alla sua epoca:

“ Salvatore Schifone trovò in un suo podere non lungi da Sava una grande quantità di monete greche in bronzo.

Sotto l’abitazione del sig. Pietro Schifone furono rinvenuti alcuni antichi vasetti in un sepolcro scoperto a caso. Alcune tombe sono state scoperte nella contrada del paese detta “Castelli” mentre si cavavano le fondamenta di alcune case e vi si trovarono non poche monete di vaolre e oggetti preziosi. Quivi e nei dintorni della masseria di Pasano si osservano tuttora dei cunicoli e dei grandi recipienti scavati nel masso, che i proprietari adibiscono a depositi d’acqua”.

Ad Aliano poi, nel luogo ove sorgeva l’antico paese, oggi di proprietà del sig. Giovacchino Spagnolo, si osservano tuttora molti rottami di argilla, di vasi, di tegole, piccoli idoletti, amuleti, giocattoli per fanciulli, lucerne di creta di varie forme, monete, e altre cosette. Fino a poco tempo fa si osservavano anche avanzi di un antico edificio a ferro di cavallo dai grossi macigni, che divisi e suddivisi in 18 parti sono stati adibiti per nuove fabbriche.

Pare, da ciò che ne riferisce l’attuale proprietario, che dovesse essere un antico tempio pagano.

Altri avanzi di antichi edifici vi erano ai principi del secolo XVIII e furono abbattuti dal feudatario signor Giuseppe De Sinno, che, nella speranza di trovar tesori, intraprese degli scavi, che certo gli fruttarono qualche cosa.

Tutto quanto però si è trovato nei detti casali e dintorni e quanto era rimasto dell’antico è andato soggetto a vandalica distruzione per ignoranza, oper ingordigia”. [8]

Il libro di Primaldo Coco

 

Riguardo alle vie sotterranee esiste poi un resoconto di Pasquale Del Prete[9] e altre testimonianze raccolte da Gaetano Pichierri, mentre rispetto a tombe, ritrovamenti e sepolcreto c’è un’ampia ricostruzione del Pichierri stesso corredata da testimonianze, e anche da foto di reperti trovati in una tomba.[10]

Della Sava messapica parla anche lo studioso francavillese Cesare Teofilato, laddove nel suo scritto su Allianum la descrive come caratterizzata da una cinta megalitica distrutta:

“Quell’ antico braccio della Via Traiana che partendo da Taranto costeggiava il Sinus Tarantinus prende tuttora, nel tratto che attraversa gli agri di Sava e Manduria, il nome tradizionale di Via Consolare. Quivi, lungo il suo percorso, toccava tre stazioni di vita messapica: Allianum, la cinta megalitica di Sava, barbaramente distrutta o seppellita, e la più celebre muraglia di Mandurium.”[11]

Sava, via S.Filomena: Skyphos a vernice nera del IV sec. a. C. rinvenuto in una tomba (foto G. Pichierri)

 

Fondamentali, rispetto alla documentazione sulle monete ritrovate, una serie di testimonianze di Attilio Stazio e altri ricercatori che riassumo a seguire. Abbiamo già citato l’opera del 1879 dell’Arditi, nella quale, a proposito di Sava, riferisce di ritrovamenti di antiche monete “di tipo greco” nel rione Castelli; dieci anni dopo, come abbiamo visto, il D’Elia sempre parlando dei Castelli riferisce i ritrovamenti di “monete della vecchia Orra, quelle di Metaponto ed altre molte primitive ivi rinvenute, miste con alcune della repubblica Tarentina e con quelle romane del basso impero”. E’ molto probabile che entrambi gli autori siano a conoscenza e si riferiscano – tra l’altro – ad una scoperta sensazionale avvenuta alcuni decenni prima dell’uscita dei loro scritti, che fece scalpore nel mondo della ricerca archeologica e numismatica dei tempi (sino ad essere citata ancora oggi nel Notiziario del Portale Numismatico dello Stato[12] ).

Difatti, in un testo editato nel 1863 Sambon riferisce con dettagliata descrizione in merito a ritrovamenti avvenuti in Sava pochi anni prima, nel 1856: monete incuse di Sibari, Crotone, Metaponto, Siris, Taranto.[13] Il ritrovamento, di grande importanza, viene citato successivamente da Evans nel suo “The Horsemen of Tarentum” edito nel 1889[14] . Riprende la citazione della scoperta Attilio Stazio, specificando:

“Quando, sul finire del sec. VI a.C., Taranto dette inizio alle sue emissioni monetali, nella tecnica “incusa” caratteristica della Magna Grecia e secondo il sistema ponderale in uso nell’area achea di Sibari, Crotone, Metaponto e Caulonia, nessun altro centro della regione Puglia coniava moneta. Tuttavia sin dall’inizio del secolo successivo in alcune zone della Puglia è documentata la presenza di monete della Magna Grecia, giuntevi evidentemente per il tramite di Taranto, la cui costante rivalità con le popolazioni indigene confinanti non impedì certamente rapporti di scambio, come non impedì – e in un certo senso, anzi, favorì – influssi culturali spesso profondi e determinanti sul piano linguistico, religioso, artistico, ecc. “[15]

A tutt’oggi le monete rinvenute a Sava sono tra le più antiche tra quelle ritrovate. Difatti lo Stazio così prosegue:

“E a questo proposito può essere significativo ricordare che i più antichi tesoretti monetali della regione sono stati rinvenuti a Sava e a Valesio, cioè lungo quella naturale via istmica di collegamento tra il mar Ionio e il mar Adriatico, che poi, in età romana, sarà la via Appia”.[16]

La pagina del testo di Sambon che fa riferimento alle monete ritrovate in Sava nel 1856

 

Non mi dilungo, in questo scritto, con le citazioni dei ritrovamenti ben più documentati e frequenti nella contrada savese di Agliano, distante pochi km dal centro abitato di Sava,[17] nonché nella vicina altra contrada di Pasano[18] (ne ho parlato in altri scritti e a quelli, qui inseriti nelle note, rimando), e sul monte Magalastro situato tra feudo di Sava e Torricella.[19] Rispetto ad Agliano, è interessante notare come il Teofilato la inserisca all’interno di una triade insediativa comprendente Manduria, Sava e la stessa “Allianum”; in occasione di una sua indagine sul campo, lo studioso vi scorge inoltre una iscrizione messapica segnalata al Prof. Ribezzo e “al dottor Ciro Drago del R. Museo di Taranto e all’ispettore onorario di Manduria dottor Michele Greco”. Il Ribezzo parlerà difatti di questa iscrizione nel Nuovo Corpus Inscriptionum Messapicorum, citando il Teofilato, ma senza aggiungere note di rilievo e interpretazioni in quanto non aveva visionato di persona l’opera.[20]

Teofilato scorge in Agliano anche i resti di un antico tempio citato anche dal Coco, e resti di costruzioni consistenti in “ enormi massi squadrati, come quelli delle mura di Manduria”.[21]

La cosa curiosa è che gli storici locali, ad eccezione del Teofilato, hanno tenuto separati gli studi e la storia di queste località dell’agro di Sava da quelli riguardanti Sava-Castelli, attribuendo a quest’ultima presenza messapica, e a quegli altri siti magno-greca. Si tratta in realtà di siti che distano pochissimi km dal centro abitato di Sava, e che sembrano parte di una storia antica comune e coerente non solo per questioni di datazioni dei ritrovamenti e per prossimità geografica, ma anche perchè, quand’anche il territorio di Sava fosse stato spaccato in due, in un dato momento storico, da una espansione della Chora tarantina sino a queste terre, prima della presunta espugnazione di parte del territorio ad opera dei tarantini, si sarebbe trattato comunque di una unica comunità messapica insediata, appunto, tra l’attuale centro storico di Sava, la sua periferia, e le vicinissime contrade di Agliano, Pasano, Magalastro, Tima,[22] ed altre. Devono aggiungersi a questi siti anche quelli di contrada Petrose[23] e contrada S. Giovanni, ancor più prossimi al centro del paese, e si deve tener presente che la distanza tra il cosiddetto sepolcreto messapico e la zona indicata come di insediamento magnogreco non supera i 2 km.

Corredo tombale in contrada Agliano, Sava (foto G. Pichierri)

 

Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)

 

Luigi Viola e la ricerca non divulgata

Sebbene vi siano precedenti importanti e significativi, la ricerca archeologica sistematica e continuativa in area ionico-tarantina inizia nel 1880 con l’invio in Taranto, da parte ministeriale, del professor Luigi Viola, professore di greco ed esponente della Scuola Italiana di Archeologia.[24] Già nel 1881 Viola pubblica resoconti delle sue attività in quest’area nella prestigiosa rivista “Notizie degli scavi di Antichità” della Regia Accademia dei Lincei, e dal quel momento e per una serie di anni successivi continuerà a pubblicare dettagliate relazioni. Nel 1882 viene istituito un Ufficio speciale per le Antichità e nel 1884 il comune di Taranto stipula grazie a Viola una convenzione per l’istituzione di una collezione museale tarantina. In precedenza tutti i reperti ritrovati erano stati inviati, depositati ed esposti presso il Museo Nazionale di Napoli. Tuttavia l’invio di materiali a Napoli non cessò neanche negli anni successivi, poiché tra il 1891 e il 1898 la Direzione del Museo di Napoli annesse a sé la Direzione scientifica ed amministrativa del Museo di Taranto.[25]

Luigi Viola (1851-1921)

 

Il Viola è ricordato come personaggio competentissimo ma anche assai discusso, e vedremo perchè.

Intanto è bene ricordare che a quei tempi l’acquisizione museale dei reperti era condizionata da leggi non ancora adeguate alla situazione attuale. Tutto ciò che si ritrovava nei terreni di proprietà privata, era considerato di appartenenza del proprietario del suolo, che poteva liberamente vendere qualsiasi anticaglia rinvenutavi, previo un nulla osta dello Stato, la qual clausola però era, tra l’altro, facilmente e sistematicamente elusa.[26]

Si creò il fenomeno della caccia ai reperti e del loro traffico e vendita incontrollati.

Nel 1885 Luigi Viola sposa Caterina Cacace, figlia del latifondista Carlo Cacace, il quale si ritrovava nella stessa posizione di molti altri uomini del suo status: i ricchi latifondisti dell’epoca e della zona erano tacciati di speculare sui reperti ritrovati nei numerosi suoli che possedevano. Di più, il Viola inizia a collaborare con il suocero in questo genere di attività.[27]

Difatti, Luigi Viola iniziò a subire diverse critiche all’epoca, per i suddetti motivi e perchè improvvisamente dedito più alla politica che alla professione (nel 1889 divenne anche Sindaco), ma soprattutto, per quel che ci riguarda, perchè era accusato di disattenzioni nel suo operato di archeologo: testualmente, Fedele, Alessio e Del Monaco riportano che

gli veniva infatti rimproverato non solo di non dare più notizie al mondo scientifico delle notevoli scoperte di cui era fortunato spettatore, ma anche di non documentare in maniera sufficiente gli scavi fatti, dei quali non registrava l’ubicazione, non traeva disegni dei monumenti, non teneva separati i materiali”.[28]

Questo periodo particolare e discusso del Viola coincide con la sua visita a Sava, che, come riportato dal D’Elia, risale al 1889. E’ esattamente il periodo delle “distrazioni” del professionista e della sua elusione dalla rendicontazione di osservazioni e scoperte.

A seguito di questi motivi e delle critiche e accuse subite, pare, nel 1891 il Viola viene trasferito a Napoli, ma nel frattempo il rapporto con il Ministero si inasprisce sempre di più e nel 1895 rassegna le sue dimissioni. Da questo momento diviene un dichiarato e accanito antagonista del Museo, e addirittura si dedica apertamente e ancor più intensamente, a quanto riportato, al commercio di reperti archeologici per conto del suocero e di altri privati:

Da quel momento Viola divenne un accanito antagonista del Museo, collaborando con il suocero in attività poco chiare di reperimento e di commercio di oggetti archeologici e svolgendo inoltre il ruolo di consulente di privati in contrattazioni di vendita con il Museo, nell’interesse dei quali, e per proprio tornaconto, giocava sempre al rialzo delle valutazioni”.[29]

A questo punto è chiaro il motivo per il quale pur avendo dichiarato Il Viola nella sua visita a Sava insieme al D’Elia di aver visto cose interessanti “ di origine remotissima qual solamente vide a Sparta e Messene”, non vi fu un seguito a livello di trasparenza, documentazione e ricerca archeologica ufficiale in merito a quanto osservato. E forse, a seguito di ciò si spiega anche il motivo per il quale il manoscritto del D’Elia non fu mai dato alle stampe. Il D’Elia era un autore particolarmente prolifico e proprio in quel 1889 edita difatti ben due opere per i tipi della Parodi di Taranto e Lazzaretti di Lecce, e a distanza di soli 2 anni ne edita altre tre sempre per Parodi.[30] Qualcosa o qualcuno dunque dovette indurre l’erudito a desistere dal completare e pubblicare “Sava e il suo feudo”: l’impossibilità di provare gran parte dei contenuti dello scritto, o una qualche pressione a non divulgare più di tanto?

Sta di fatto che di sicuro il Viola non compie disinteressatamente la sua visita a Sava, proprio negli anni del suo maggiore invischiamento in operazioni di ricerca non istituzionale, e sta di fatto che della visita e delle scoperte fatte in Sava da parte del Viola non viene fatta menzione alcuna in articoli, riviste, documenti. Questo riserbo certamente non è da imputare al caso, quanto alla coerenza con quell’atteggiamento di commerciante di oggetti archeologici e di consulente di privati.

Nel 1895 il Museo di Taranto è diretto dal prestigioso archeologo Paolo Orsi, il quale in una relazione dell’anno successivo pubblicata in “Notizie degli Scavi di Antichità” lancia un feroce j’accuse al Viola scrivendo:

“…E’ stata una vera jattura per l’archeologia in genere, e specialmente per la topografia tarentina, che delle frequentissime scoperte dell’ultimo ventennio non siasi tenuto un diario minuzioso ed esatto…”[31]

 

Note

[1]
Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html

[2]    Gaetano Pichierri, I confini orientali della taranto greco-romana, in: Omaggio a Sava, raccolta postuma di saggi a cura di Vincenza Musardo talò, Edizioni Del Grifo, 1994, pp. 251-256; si veda anche: Gianfranco Mele, Sulle tracce dell’antica Sallenzia: le ipotesi di Achille D’Elia e Gaetano pichierri concernenti l’agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-e-il-suo-feudo-il-contributo-di-achille-delia-alla-storia-antica-locale.html

[3]    Achille D’Elia, Sava e il suo feudo, Storia paesana, Mss. di f.3, 1889, citato e trascritto da Primaldo Coco in Cenni Storici di Sava, Stab. Tip. Giurdignano, LE, 1915 ( ristampa a cura di G.C.S., Marzo Editore, 1984), nota (1) pp. 58-60

[4]    Ibidem

[5]    Ibidem

[6]    Giacomo Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’ Otranto, 1879, pp. 548-549

[7]    Primaldo Coco, Cenni storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdignano, Le, 1915 – ried. Marzo Editore, Manduria, 1984, nota a pag. 60

[8]
Primaldo Coco, op. cit., nota 1 a pag. 16. Laddove riferisce di “Aliano”, trattasi di contrada savese altrimenti detta Agliano, a pochi chilometi dal centro di Sava. Agliano fu anche fattoria romana e casale medievale.
[9]
Pasquale Del Prete, Il Castello federiciano di Uggiano Montefusco, Archivio Storico Pugliese,Bari, Società di Storia Patria per la Puglia a. XXVI, 1973, I-II, pp. 41-42; vedi anche Gianfranco Mele, Sava: “Li Castieddi” e i camminamenti sotterranei, La Voce di Maruggio, sito web, novembre 2018, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-li-castieddi-e-i-camminamenti-sotterranei.html

[10]
Per un riepilogo dei vari e numerosi scritti di Gaetano Pichierri in merito ai camminamenti sotterranei savesi e ai ritrovamenti effettuati nell’area, si veda: Gianfranco Mele, Sava-Castelli, la città sotterranea e la necropoli. Documenti, tracce e testimonianze di un antico centro abitato precedente la Sava del XV secolo, Terre del Mesochorum, Storia, Archeologia e Tradizioni nell’ area ionico tarantina, sito web, luglio 2015, https://terredelmesochorum.wordpress.com/2015/07/19/sava-castelli-la-citta-sotterranea-e-la-necropoli-documenti-tracce-e-testimonianze-di-un-antico-centro-abitato-precedente-la-sava-del-xv-secolo/

[11]  Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi. Allianum, in Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38 , sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII, pag. 2

[12]
Notiziario del portale Numismatico dello Stato – Ministero per i Beni e le Attività Culturali: “Contributi/Vetrine e Itinerari/Dossier n. 1, 2013, pag. 36: “… Sambon aveva potuto dare notizie di un ritrovamento di monete della Magna Grecia avvenuto a Sava nel 1856, fornendo l’elenco delle monete scoperte e disperse solo sulla base di una notizia ricevuta “par un tèmoin oculaire” ed entrando peraltro solo in possesso di pezzi scelti”.
[13]
Arthur Sambon, Recherches sur les anciennes monnaies de l’ Italie meridionale, Neaples, Cataneo, 1863, pag. 11

[14]
Arthur Evans , The Horsemen of Tarentum – a contribution towards the numismatic history of Great Greece, London, 1889, pag. 2, nota 4

[15]
Attilio Stazio, Per una storia della monetazione dell’antica Puglia, in Archivio Storico Pugliese, 28, 1972, pag. 42

[16]
Ibidem

[17]
Per brevità qui riporto due miei articoli, nei quali sono citati tutti gli altri studi compiuti sul sito di Agliano: Gianfranco Mele, Agliano al confine tra Magna Grecia e Messapia. Un sito ancora da indagare, in: Cultura Salentina, Rivista di pensiero e cultura meridionale, sito web, ottobre 2014, https://culturasalentina.wordpress.com/2014/10/15/agliano-al-confine-tra-magna-grecia-e-messapia-un-sito-ancora-da-indagare/ ; Gianfranco Mele, Allianum cittadella messapica, avamposto di Sava e Manduria, Fondazione Terra D’Otranto, sito web, settembre 2016, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/30/allianum-cittadella-messapica-avamposto-sava-manduria/

[18]  Gianfranco Mele, Pasano e dintorni: aspetti storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, marzo 2019 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/pasano-e-dintorni-aspetti-storico-archeologici.html ;

Gianfranco Mele, Sava: tombe e rinvenimenti in Pasano e contrade limitrofe, La Voce di maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/sava-tombe-e-rinvenimenti-in-pasano-e-contrade-limitrofe-camarda-grava-ecc.html

[19]  Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico, luglio 2018, pp. 14-28

[20]  Francesco Ribezzo, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 105

[21]  Cesare Teofilato, op. cit.

[22]  Gianfranco Mele, Per una ricostruzione della storia della masseria Tima in agro di Sava e luoghi circostanti, La Voce di Maruggio, sito web, maggio 2020, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/per-una-ricostruzione-della-storia-della-masseria-tima-in-agro-di-sava-e-luoghi-circostanti.html

[23]  Gianfranco Mele, Antichi insediamenti in contrada Petrose, in agro di Sava, La Voce di Maruggio, sito web, febbraio 2019, https://www.lavocedimaruggio.it/wp/antichi-insediamenti-in-contrada-petrose-in-agro-di-sava-di-gianfranco-mele.html

[24]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, Archeologia, civiltà e culture nell’area ionico-tarantina, Banca Popolare Jonica, Grottaglie, 1992, pag. 307 e nota (2) a pag. 326

[25]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit., pp. 307-308

[26]  Biagio Fedele, Arcangelo Alessio, Orazio Del Monaco, op. cit.,pp.309-310

[27]  Ibidem (pag. 310)

[28]  Ibidem

[29]  Ibidem

[30]  Gianfranco Mele, “Sava e il suo feudo”: il contributo di Achille D’Elia alla storia antica locale, op. cit.

[31]  Paolo Orsi, Relazione sopra alcune recenti scoperte nel Borgo Nuovo, Notizie degli Scavi di Antichità, 1896, pag. 107.

Melissano e la statua di Sant’Antonio di Padova

La tela seicentesca che diede origine al culto di S.Antonio di Padova a Melissano

Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano

 

di Fernando Scozzi

La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)

Melissano, la facciata dell’antica chiesa parrocchiale di S. Antonio (sec. XVII) (foto Fernando Scozzi)

 

Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.

Mons. Antonio Sanfelice che commissionò la statua di Sant’Antonio di Padova per la chiesa parrocchiale di Melissano (da fondazioneterradotranto.it)

 

L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale  ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Padua cum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).

Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.

Melissano, anni Sessanta del secolo scorso – La statua di Sant’Antonio addobbata con gli ori offerti per grazia ricevuta

 

Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.

Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.

La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)

Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.

L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)

La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.

Melissano, chiesa parrocchiale – La statua del Santo dopo il restauro del 2008 (foto R. Lanza)

 

Note

  1. I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
  2. Maura Sorrone https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/26/giovanni-antonio-colicci maestro-di-legname/
  3. “La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
  4. Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
  5. Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.

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