Nardò: Alberico Longo e la sua inedita (doppiamente…) versione di un mito

di Armando Polito

Sul neretino Alberico rinvio per una nota leggera a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/. Sulla sua morte violenta segnalo http://bitesonline.it/wp-content/uploads/2015/06/Bites_003_Catelvetro.pdf e quanto si legge in Biblioteca modenese, a cura di Girolamo Tiraboschi, Società tipografica, Modena, 1781, v. I, pp. 443-447 (https://books.google.it/books?id=ZC1fAAAAcAAJ&pg=PA446&dq=alberico+longo+pubblicati&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwivnZO9xonlAhUB2qQKHRTLA7sQ6AEIYTAJ#v=onepage&q=alberico%20longo%20pubblicati&f=false). Sui sentimenti  che essa suscitò in chi lo stimava rinvio ad una lettera di Annibal Caro del 13 luglio 1555 indirizzata da Roma a Vincenzo Fontana (in Lettere scelte di Annibal Caro, Barbera, Firenze, 1869,  pp. 90-91: https://books.google.it/books?id=LDg-AQAAMAAJ&pg=PA90&dq=alberico+longo&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjinrPp_YflAhVPPFAKHUtLDFgQ6AEIOzAD#v=onepage&q=alberico%20longo&f=false.

Il mito è quello di Polifemo e Galatea1. La bella e al bestia, se non fosse il titolo di una fiaba più recente, si adatterebbe molto bene a sintetizzare l’infelice storia d’amore tra Galatea, graziosa nereide (ninfa delle fonti) e il giovanissimo e bellissimo pastorello Aci. Ma della ninfa si era innamorato pure il rozzo e brutto gigante Polifemo che, senza successo, tentava di fare colpo su di lei ogni volta che ne aveva l’occasione. E venne il giorno fatale in cui pensò di attirare la sua attenzione con una serenata fatta con la siringa mentre era seduto su una roccia (sarà poi questa la composizione ricorrente nei pittori che hanno celebrato il mito). Neppure questa volta Galatea lo degnò di una sguardo, anche perché impegnata in effusioni con Aci. Polifemo, allora, reagì violentemente scagliando loro addosso un grosso masso, che colpì mortalmente Aci. Il mito non ci dice se Polifemo tornò alla carica, ma solo che Galatea trasformò il sangue del giovinetto in una sorgente.

Questa storia ebbe grande successo come soggetto artistico, dalla pittura alle tavole a corredo di libri a stampa.  Di seguito, in ordine cronologico, alcune tra le più significative testimonianze.

Tavola a corredo di: Raffaello Regio, P. Ovidii Nasonis Metamorphoseo vulgare, s. n., Venezia 1521

Siamo in presenza di una tecnica cinematografica ante litteram, titoli in sovrimpressione (leggi didascalie) compresi: partendo da sinistra, il primo fotogramma (o, per usare il linguaggio digitale, frame) mostra Polifemo che seduto su una roccia suona la siringa (lo strumento musicale, anche perché nessuna fonte ci ha tramandato un Polifemo tossicomane …), mentre Galatea ed Aci si abbracciano sulla riva del mare; il secondo vede il ciclope nell’atto di lanciare un masso contro Aci, che (e siamo al frame finale) fugge verso il mare, dove già si è rifugiata Galatea; sullo sfondo una città.

Tavola a corredo di: Niccolò degli Agostini, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradotti dal littelario (sic!) verso vulgar con le sue Allegorie in prosa, Giacomo da Leco, Venezia, 1522. Composizione identica a quella della tavola precedente, con l’aggiunta del bastone posato per terra.

Tavola a corredo di: Ludovico Dolce, Le trasformazioni (uno dei tanti volgarizzamenti delle Metamorfosi di Ovidio), Venezia, Giolito de Ferrari, 1553, p. 273. Qui il frame che mostra Polifemo suonare la siringa mentre Galatea ed Aci si abbaracciano è sostituito da quello del suo accecamento da parte di Ulisse; nel secondo il ciclope è ritratto di spalle nell’atto di lanciare il masso contro Aci che sembra essere caduto sulla riva , mentre Galatea si tuffa in acqua. Sullo sfondo in alto a destra la nave di Ulisse.

Olio su Tela di Nicolas Poussin risalente alla prima metà del XVII secolo e custodito a Dublino nella  National Gallery. Siamo ben lontani dalla drammaticità delle rappresentazioni precedenti, ma è il momento che precede la tragedia:quello in cui Polifemo intona la sua serenata a Galatea mentre è tra le braccia di Aci. La scena corrisponde ai versi ovidiani (Metamorfosi, XIII, 778-804 (è Galatea che racconta):  Prominet in pontum cuneatus acumine longo/collis utrumque latus circumfluit aequoris unda;/huc ferus ascendit Cyclops mediusque resedit,/lanigerae pecudes nullo ducente secutae./Cui postquam pinus, baculi quae praebuit usum,/ ante pedes posita est, antemnis apta ferendis,/sumptaque harundinibus compacta est fistula centum,/senserunt toti pastoria sibila montes,/senserunt undae; latitans ego rupe meique/Acidis in gremio residens procul auribus hausi/talia dicta meis auditaque verba notavi:/“Candidior folio nivei, Galatea, ligustri,/floridior pratis, longa procerior alno,/splendidior vitro… (Si protende in mare un colle a forma di cuneo dall’alta vetta e l’onda del mare lo circonda da entrambi i lati. Qui sale il feroce ciclope e si siede al centro, mentre le lanose bestie lo seguono senza guida. Dopo che il pino, atto a reggere vele,  che gli offrì l’uso di bastone, fu deposto ai suoi piedi e fu presa in mano la siringa composta da cento canne tutti i monti sentirono i fischi pastorali, li sentirono le onde. io nascondendomi dietro una roccia mentre stavo tra le braccia del mio Aci da lontano colsi con le mie orecchie tali parole e ricordo a memoria le parole sentite: “Galatea, più candida di un petalo di ligustro, più fiorente dei prati, più slanciata di un alto ontano, più splendente del vetro …)

Ancora di Nicolas Poussin questo schizzo a penna sullo stesso tema. In primo piano Galatea seduta su una roccia ha le braccia intorno al collo di Aci che a sua volta appoggia il braccio sinistro sulla spalla di Eros che gli sistema il manto. In alto a sinistra Polifemo sfdraiato su una roccia con la siringa vicino sembra giardare verso il mare, dove, a destra, si vede il carro di Apollo, dio del sole. Al centro a destra una nereide fa il bagno.

Il mito conobbe pure una versione inventata da Properzio2 (I secolo a. C.) e ripresa da Nonno di Panopoli3 (V secolo d. C.), secondo la quale Galatea avrebbe corrisposto all’amore di Polifemo. Le rappresentazioni artistiche di questa versione sono in numero decisamente minore e la maggior parte, come ora vedremo, molto antiche.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa della caccia antica) e custodito nel Museo Nazionale di Napoli. Bacio sensuale tra la ninfa e il ciclope. Dettagli distintivi: l’ariete, la siringa e il bastone.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa delle pareti rosse). Qui non compaiono (oppure non si leggono più) segni distintivi ma è chiaro che la situazione è l’evoluzione di quella precedente …

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Pompei (Casa del sacerdote Amandus). Perfettamente distinguibili Galatea, Polifemo, le pecore e in alto a destra la nave di Ulisse. L’artista sembra essersi ispirato ai versi ovidiani precedentemente citati, a parte l’assenza di Aci.

Affresco del I secolo a. C. proveniente dalla villa di Postumo Agrippa a Boscotrecase e custodito a New York nel Metropolitan Museum of Art. Parecchi dettagli sono in comune con l’affresco precedente, ma questo è scomponibile in due metà-sequenze: nella prima il ciclope esegue la sua serenata a Galatea che certamente non si nasconde; nella seconda si vede il gigante lanciare un masso contro la nave di Ulisse.

Affresco del I secolo d. C. proveniente da Ercolano e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Cupido recapita a Polifemo una lettera, si presume, di Galatea (foto di Stefano Bolognini).

Mosaico del II secolo d.C. rinvenuto a Cordova durante la sistemazione della piazza della Corredera e custodito in quella città nel palazzo Alcazar de Los Reyes Cristianos.

Roma, Palazzo Farnese, dettaglio della volta della Galleria. Affresco della scuola di Antonio Carracci (XVII secolo). Segni distintivi: la siringa e il bastone. La ninfa sembra gradire la serenata del ciclope.

Nella stampa che segue, anch’essa del XVII secolo (disegnatore e incisore Pietro Aquila, editore Jacopo de Rubeis) l’intero dipinto.

Fuori campo in basso al centro quattro esametri: Ardet amans, scopuloque sedens POLYPHEMUS acuto,/ad numerum inflatis calamis,dat sibila cantu;/concomitata choro gaudet GALATEA sub antro,/et latitans rauci suspiria ridet amantis. (Arde l’innamorato Polifemo e, sedendo su uno scoglio, ritmicamente gonfiate le canne, e mette sibili col canto; accompagnata dal coro Galatea si compiace sotto una grotta e nascondendosi deride i sospiri del roco innamorato).

Da notare una certa discrepanza tra la descrizione emergente da  questi versi  e il dipinto, in cui Galatea certamente non si nasconde, tanto meno in una grotta.

Un ribaltamento ancora più spinto (rispetto alla versione dominante del mito, l’unica ricorrente a livello letterario nel XVI secolo ed in quello successivo, come dimostrano gli esametri appena esaminati)  è quello operato da Alberico Longo, che ci presenta un Polifemo suicida per amore. E lo fa in un componimento in quattro distici elegiaci, come nove altri parzialmente inedito4, tramandatici nel manoscritto Vat. lat. 9948 custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (integralmente leggibile in https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.9948).  Di seguito riproduco il dettaglio della carta 41v con il componimento che prima trascrivo e poi traduco.

 

Alberici Longi Salentini                                                          

Non per te rigidam, non per fera numina ponti:               

per vada, per scopulos, quos Galatea colis.                        

Non per me miserum, non per pia numina ruri,                

per iuga, per fontes, quos Galatea colo.                             

Non vivam: at nostro si torva leaena cruori                        

insidiisque inhias artubus, emoriar.                                     

Dixit et intuitus  fluctus Polyphemus amarus                     

transfixit gladio pectus, et interiit.                                        

 

(Del salentino Alberico Longo

Non (vivrò) per te inflessibile, non per i feroci numi del mare,

per i guadi, per gli scogli che tu, Galatea, abiti.

Non (vivrò) per me infelice, non per i virtuosi numi della campagna,

per i gioghi, per le sorgenti che io, Galatea, abito.

Non vivrò: ma se tu crudele leonessa al mio sangue

e alle membra con le insidie aspiri, sparirò -.

Polifemo disse e, dopo aver guardato i flutti, triste

trafisse il petto con la spada e morì.)

 

Una sorta di originale, rivoluzionario (la figura dell’uomo suicida per amore, magari subito dopo che, sempre per amore …, è stato un omicida, pardon …, femminicida, è l’ultimo, recente portato dei nostri tempi) divertissement mediante l’ironica, garbata  dissacrazione di quanto di più stabile e di intoccabile all’epoca si potesse immaginare: il mito. Neppure i poeti successivi (Alberico morì nel 1555) osarono tanto e si limitarono a cantare le intenzioni suicide del gigante (ma non la loro attuazione), come, per esempio, Giovan Battista Marino (1569-1625), L’Adone, XIX, 216, 7-8: Vuol uccidere se stesso o nel’aperta/gola del mar precipitar dal’erta. E la sottile ironia io la colgo anche nello strumento che il Longo fa utilizzare a Polifemo per suicidarsi: la spada, sulla quale, dopo aver appoggiato l’impugnatura sul terreno (con colpi  inferti direttamente la morte non sarebbe stata, quanto meno, immediata), gli eroi greci la facevano finita con la vita. E non mancano nel mito propriamente detto casi simili, addirittura con duplice morte5. C’è da chiedersi dove il ciclope potesse mai aver trovato un gladium, il cui significato, in alternativa a quello di spada, è pure quello di lama dell’aratro. Polifemo era un pastore e, per evitare qualsiasi interpretazione ironica, sarebbe stato sufficiente farlo morire trafitto dal suo stesso bastone preventivamente appuntito e usato a mo’ di spada oppure facendolo precipitare dalla cima dello stesso  colle da dove, ad un’altitudine intermedia, aveva trasmesso il suo personale festival  della canzone.

La composizione si presenta originale anche dal punto di vista formale, tutta costruita com’è sul concetto chiave (la decisione di farla finita) espresso con una inconsueta litote. Com’è noto, questa figura retorica consiste nell’esprimere un concetto diluendo la parola utilizzata nel suo contrario preceduto da un avverbio di negazione, con finalità eufemistica: non bello per brutto. Qui si ha da una parte non con sottinteso vivam (da vivere), cui, con una litote pedissequa dovrebbe corrispondere moriar (da mori, che significa morire).  Invece Alberico utilizza emoriar (da emori, composto dalla preposizione e che significa lontano da) e dal citato mori. Il composto aggiunge così, se possibile, un’ulteriore nota di allontanamento che coincide con la volontà di Polifemo di sparire senza lasciar traccia alcuna, nemmeno, se possibile, del suo corpo.

______________

1 Riporto in ordine cronologico le fonti antiche con l’indicazione bibliografica e, per non appesantire il tutto, una volta tanto, senza il relativo testo; per Properzio e Nonno di Panopoli vale quanto specificato nella trattazione.

CALLIMACO (IV-III secolo a. C.), Epigrammi,  XLVI

TEOCRITO (IV-III secolo a. C.), Idilli, VI e XI

VIRGILIO (iI secolo a. C.), Eneide, IX, 103-104; Bucoliche, I, 27-32; VII, 37-40 e IX, 37-43

OVIDIO (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorfosi, XIII, 738-897

PROPERZIO (I secolo a. C.): Elegie, III, 2, 7

ORAZIO (I secolo a. C.), Satire, l, 5

APOLLODORO (I-II secolo d. C:), Biblioteca, I, 2-7

LUCIANO (II secolo d. C.), Dialoghi degli dei del mare, I

NONNO DI PANOPOLI (IV-V secolo d. C.), Dyonisiaca, 300- 324

2 Elegie, III, 1, 29-34: Orphea detinuisse feras et concita dicunt/flumina Threicia sustinuisse lyra./Saxa Cithaeronis Thebas agitata per artem/sponte sua in muri membra coisse ferunt./Quin etiam, Polipheme, fera Galatea sub Aetna/ad tua rorantes carmina flexit equos. (Dicono che Orfeo con la lira tracia  incantò le fiere e fermò i rapidi fiumi. Dicono che le rocce del Citerone spintesi verso Tebe grazie alla sua arte spontaneamente si unirono in parti di muro. Anzi, o Polifemo, la crudele Galatea piegò ai suoi versi gli umidi  cavalli [sono i cavalli marini che accompagnano Galatea]).

3 Dionisiache, VI, 300- 324: Καὶ τότε κυματόεσσαν ἰδὼν ὑπὸ γείτονα πέτρην/νηχομένην Γαλάτειαν ἀνίαχε μυδαλέος Πάν·/‘Πῇ φέρεαι, Γαλάτεια, δι᾽ οὔρεος ἀντὶ θαλάσσης;/μὴ τάχα μαστεύεις ἐρατὴν Κύκλωπος ἀοιδήν;/πρὸς Παφίης λίτομαί σε καὶ ὑμετέρου Πολυφήμου,/μὴ κρύψῃς δεδαυῖα βαρὺν πόθον, εἰ παρὰ πέτραις/νηχομένην ἐνόησας ἐμὴν ὀρεσίδρομον Ἠχώ./Ἦ ῥά σοι ἶσον ἔχει διεπὸν δρόμον; ἦ ῥα καὶ αὐτὴ/ἑζοθένη δελφῖνι θαλασσαίης Ἀφροδίτης,/ὡς Θέτις ἀκρήδεμνος, ἐμὴ ναυτίλλεται Ἠχώ;/δείδια, μή μιν ὄρινε δυσάντεα κύματα πόντου·/δείδια, μή μιν ἔκευθε μέγας ῥόος· ὣς ἄρα δειλὴ/ἄστατος ἐν πελάγεσσι μετ᾽ οὔρεα κύματα βαίνει·/ἥ ποτε πετρήεσσα φανήσεται ὑδριὰς Ἠχώ./Ἀλλὰ τεὸν Πολύφημον ἔα βραδύν· ἢν ἐθελήσῃς,/αὐτὸς ἐμοῖς ὤμοισιν ἀερτάζων σε σαώσω·/οὔ με κατακλύζει κελάδων ῥόος· ἢν ἐθελήσω,/ἴχνεσιν αἰγείοισιν ἐλεύσομαι εἰς πόλον ἄστρων.’/Ὤς φαμένῳ Γαλάτεια τόσην ἀντίαχε φωνήν·/‘Πὰν φίλε, σὴν ἀνάειρε δι᾽ οἴδματος ἄπλοον Ἠχώ·/μή με μάτην ἐρέεινε, τί σήμερον ἐνθάδε βαίνω·/ἄλλον ἐμοὶ πλόον εὗρεν ὑπέρτερον ὑέτιος Ζεύς./Καὶ γλυκερήν περ ἐοῦσαν ἔα Κύκλωπος ἀοιδήν./Οὐκέτι μαστεύω Σικελὴν ἅλα· τοσσατίου γὰρ/τάρβος ἔχω νιφετοῖο καὶ οὐκ ἀλέγω Πολυφήμου.’ (E allora Pan madido, avendo visto sotto un a vicina rupe Galatea che nuotava, esclamò: “Dove vai, Galatea, attraverso il monte davanti al mare?  Non brami forse l’amato canto del Ciclope? Ti prego, per la dea di Pafo [Venere che a Pafo, città dell’isola di Cipro, aveva un tempio]e del vostro Polifemo [Thoosa, ninfa che con Poseidone generò il ciclope], non nascondere di bruciare di un grande desiderio, se presso le rupi hai visto nuotare la mia Eco che corre per i monti. Forse ha un agile movimento simile al tuo? O anche lei, la mia Eco, seduta su un delfino della marina Afrodite, naviga senza velo come Teti? Ho paura che l’abbiano turbata le terribili onde del mare, ho paura che una grande corrente l’abbia sommersa. Forse infelice insicura attraversa o mari dopo i monti. Eco un tempo montana apparirà marina. Ma tu lascia il tuo lento Polifemo; se vuoi ti salverò sollevandoti sulle mie spalle, la rumorosa corrente non mi sommerge. Se vorrò giungerò alla volta del cielo con i piedi caprini. A lui che così diceva Galatea rispose gridando con tali parole: ” Caro Pan, solleva dal flutto la tua Eco che non sa nuotare; non chiedermi invano perché oggi qui mi aggiro: Giove pluvio ha trovato per me un’altra navigazione. E lascia che il canto del Ciclope sia dolce. Non desidero più il mare siciliano: infatti ho paura di siffatta pioggia e non mi prendo cura di Polifemo”.

4 Solo l’incipit di ciascuno ne riporta Mario Marti in Dal certo al vero, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1962, p. 273 e seguenti.

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/15/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi-13/

 

 

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