Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. IV)*

di Alessio Palumbo

Capitolo IV

 

Passarono una decina di giorni scarsi e una mattina, mentre assonnato a causa della notte passata in bianco per il caldo si trovava ancora nell’altare di san Nicola per rinfrancarsi con un po’ di frescura, udì i cardini del portone della chiesa cigolare e nuovi passi veloci e leggeri susseguirsi sulla navata. Non poteva essere il servitore che era andato via da poco e neanche da giovane si era mosso con tanta agilità.

Si affacciò sulla corta navata del vecchio tempio e vide con sconforto la vedova Resta avanzare con la sua andatura spedita. Rassegnato le andò incontro. Si incontrarono all’altezza del confessionale di sinistra e don Celestino fece cenno alla donna di accomodarsi sull’inginocchiatoio

“Non voglio confessarmi” disse lei decisa

“Ah. E che volete?”

“La voce è tornata”

Don Celestino allargò le braccia

“Questa notte?”

“Si questa notte e anche le notti prima”

“E perché non siete venuta a dirmelo?”

“Perché voi non mi credevate papa”

“E bene? Cosa volete ora? Perché siete venuta a parlarmi di nuovo di questa voce?”

“Perché stavolta ho visto anche l’anima in pena che piange e si lamenta”

Don Celestino la squadrò dall’alto. Cercò di leggerle sul volto i segni della demenza, ma la vedova Resta pazza non era o almeno non lo sembrava. Appariva sicurissima di quel che diceva e, cosa più degna di nota, per nulla impressionata.

“In che senso l’avete vista?”

“L’ho vista, l’ho vista. Era come un’ombra che si muoveva con attorno una luce giallina”

“Finora non avevi mai visto questa luce?”

“Mai. Da quando sono venuta a confessarmi la prima volta, ho trascorso le notti alla finestra. Sentivo di tanto in tanto il lamento, leggero, lontano, ma luci nessuna. Questa notte l’ho vista. È durata poco, ma non la scordo”

“Maria” fece comprensivo “Non è che vi siete addormentata e avete sognato..”

“Cosa sognato? Cosa?” urlò la vedova sollevando le mani al cielo “Io oramai dormo il giorno per poter essere sveglia la notte. Guardate come sono sveglia e lucida, non come voi, papa, che state cascando in piedi”

“Calma Maria, calma. Non vi agitate”

“Ora dovete venire a benedire la casa dei Mauro”

“Come la casa dei Mauro?” chiese sorpreso il prete

“E certo. L’anima non sta in casa mia, ma nella casa che era di donna Petronilla Mauro e che sta addossata alla mia”

“Ma non ci abita nessuno?”

“No. Donna Petronilla è morta parecchi anni fa e il figlio mi sa che andò a stare dal padre che era del capo di Leuca”

“Ho capito. Ma come facciamo ad entrare in casa dei Mauro se non c’è nessuno”

“La benedite dalla finestra di casa mia” rispose netta la vedova che non aveva nessuna voglia di continuare quella discussione. “Vi aspetto stasera dopo la funzione. Sia lodato Gesù Cristo”

“Oggi e sempre sia lodato” rispose confuso il cantore.

La vedova uscì e don Celestino tornò sulla sua sedia nell’altare di San Nicola. Osservò con sguardo vuoto la porzione di navata che la prospettiva gli consentiva di vedere. Il sole, che in quel momento si trovava alle sue spalle, era alto e la luce che penetrava dalle finestre a forma di bocciolo poste sulla sua testa ne testimoniava l’eccezionale potenza. In quel bagliore giallo, le pareti della chiesa, i suoi arredi, le poche suppellettili spiccavano in tutta la loro miseria. L’umidità chiazzava di verde le vecchie mura; dai finestroni pendevano ragnatele e tracce di infiltrazioni solcavano dall’alto in basso il tempio. Puntualmente i vescovi avevano chiesto all’arciprete di turno di sistemare quel misero tempio, di acconciarlo e renderlo degna della sua funzione. Ma con quali denari? Il paese era povero. La chiesa stessa era povera e a costo di sacrifici si riusciva a tenerla almeno decente in qualche sua parte. Col terremoto del quarantatré si era lesionata e allora l’Università aveva dovuto vendere terre e beni per poterla mantenere in piedi. Del resto era il destino di tutte le chiese del paese. L’Annunziata era crollata più volte e ancora pericolava. Il Crocifisso, poco più di una cappella, era anch’esso ammorbato dall’umidità. Stessa cosa per la Madonna delle Grazie e per quella di Costantinopoli. Per non parlare della chiesa dello Spirito Santo, ancora interdetta. E cosa dire di tutte le chiese che, alcuni dicevano, erano esistite in passato e di cui oramai non c’era più traccia se non in qualche moncone di muro rimasto in piedi o in qualche vago ricordo dei più vecchi che ne avevano sentito parlare dai loro nonni.

Lui stesso se n’era sempre disinteressato. Aveva avuto cura dei propri paramenti, aveva sempre ottemperato con scrupolo al proprio ufficio ed infatti nessun vescovo, in tanti anni, gli aveva mosso il minimo appunto. Però non era andato mai oltre. Ducati ne aveva da parte, ma non li aveva mai spesi per sistemare la chiesa, per donarle un arredo, una tela, una statua.

“Magari in morte” concluse a mezza voce e tornò a leggere il breviario.

A sera, terminata la funzione, pose i paramenti con ordine in una delle casse della sagrestia, prese secchiello ed aspersorio e ritornò nell’aula dell’edificio sacro. Si avviò verso l’uscita e, passando accanto al fonte battesimale, prese un po’ d’acqua dal catino per versarla nel secchiello; ripose la bacinella d’ottone nel fonte e abbandonò il tempio.

Un leggero grecale addolciva l’aria e la luce rossastra del tramonto colorava le pareti delle case intorno al sagrato, omogeneizzandole in un comune tono roseo che camuffava crepe, macchie di umido e segni del tempo. Percorse la stretta via che portava in piazza e, giuntovi, superò la piccola chiesa del Crocifisso che si trovava alla sua destra. Bussò quindi ad una bassa porta di un bel verdone brillante.

“Chi è?”

“Don Celestino”

“Entrate, è aperto”

Il vecchio cantore spinse l’uscio ed entrò. La casa della vedova Resta, come d’altronde la gran parte delle case della gente comune del paese, si componeva di una sola stanza, con la madia, due o tre sedie, il camino in un angolo, stracci appesi ai chiodi e una tenda per celare i letti. La discreta ricchezza che il marito aveva accumulato, anche grazie a lei, la si poteva dedurre da un piccolo mobile lavorato posto in un angolo, con sopra una statua di san Rocco alta due o tre palmi, che al collo portava appesa una catenina d’oro con un anello nuziale. Sicuramente quello del povero Pietro Chiriace.

“Accomodatevi” fece “Di qua” e così scostò la tenda che separava la stanza dalla zona adibita a dormitorio. Accanto al canterano, posto al lato del letto, don Celestino notò una finestra aperta su un giardino.

“Questa l’aprì mio marito buonanima. Dà proprio sul cortile della casa dei Mauro” spiegò la vedova “È da qui che sento le voci. È da qui che ho visto la luce l’altra notte”

Il sacerdote si avvicinò e si affacciò. Il cortile era oramai in ombra. Era una sorta di rettangolo irregolare con due o tre alberi che, alla poca luce residua, ipotizzò essere di limone. Si capiva che era abbandonato da tempo, perché la vegetazione attorno agli arbusti cresceva alta e rigogliosa, coprendone quasi per intero i tronchi.

“Dove avete visto la luce?” chiese don Celestino

“Lì” indicò la vecchia ponendosi accanto, nel ristretto spazio della finestra.

Il dito, corto e nodoso, puntava ad una finestra al secondo piano. Quella parte della facciata dell’edificio era ancora in luce perciò il cantore poté osservarla con attenzione. L’intonaco attorno alla finestra era pressoché caduto. Resisteva solo un piccolo riquadro, abbastanza regolare, proprio sotto l’apertura. L’interno della stanza era celato da una tenda consunta.

“Avete visto la luce nonostante la tenda?” chiese sempre più dubbioso

“Si, ve lo giuro sul sacramento, papa” rispose rapida

“Lasciate stare i sacramenti” rispose un po’ spazientito

“La luce l’ho vista nitida perché la tenda non copre tutta la finestra. Quella è la finestra della vecchia camera da letto di donna Petronilla Mauro. Quando morì lei e la casa venne abbandonata, mio marito aprì questa finestra per fare entrare un po’ di aria e di luce in casa nostra. Non l’avesse mai fatto, pace all’anima sua”

“Va bene” fece accondiscendente don Celestino e, afferrato l’aspersorio, tracciò una croce nell’aria in direzione della casa dei Mauro, recitò alcune preghiere in latino poi si voltò e ripeté il rito a favore nella casa della vedova la quale, una volta zittitosi il sacerdote, si fece il segno della croce.

“Ora cercate di stare tranquilla” le disse “Riposate e non state sempre alla finestra”

Così dicendo chiuse lui stesso lo scuro. Nel farlo sentì però una sorta di fitta alla testa che lo spinse a portarsi la mano a semicerchio attorno alla fronte.

“Che avete papa?”

“Niente, niente. Con i vostri discorsi mi avete rintronato. Cercate di stare tranquilla”

“Me lo avete già detto”

“E allora fatelo” chiuse don Celestino ed uscì.

In piazza alcuni contadini discorrevano animatamente; accanto a loro passò il medico Matteo De Pandis a cavallo di una mula: proveniente dal suo comprensorio di case nel borgo fuori le mura, puntava verso l’abitazione di qualche ammalato o moribondo nel paese. I contadini si levarono il cappello per omaggiarlo.

Don Celestino percorse velocemente lo spiazzo e anche lui fu omaggiato dagli uomini in piazza. Li salutò con un breve cenno della mano. Giunto dal lato opposto si voltò per osservare la casa della vedova Resta. Lo sguardo puntò poi in alto: da lì vedeva, oramai quasi completamente al buio, il lato destro del palazzo dei Mauro e la finestra della camera che era stata di donna Petronilla. Fissò per un breve momento la fenditura nel muro celata dalla tenda consunta e la fitta si ripropose.

“Sono stanco” disse, senza però esserne convinto.

Giunse a casa, mentre per strada uomini e donne prendevano a sedersi vicino agli usci per trascorrere un paio di ore raccontandosi fatti della giornata e dei tempi passati. Sull’ingresso incrociò il servitore che accendeva il lume per rischiarare la misera stanza.

“Ancora insistete ad accendere lumi, con tutte le zanzare che ci sono” lo rimproverò il cantore

“A me le zanzare non mi toccano. Ho il sangue cattivo” rise il vecchio “Ma che avete?” aggiunse incupendosi. “Vi vedo pallido, avete gli occhi affossati. Non vi sentite bene?”

“Dammi una sedia e un boccale di acqua. Mi gira la testa”

“Volete due fichi anche?”

“No, solo da bere”

“Allora state proprio male” pensò il servo versandogli da bere da un otre di creta che aveva accanto al letto. Don Celestino bevve velocemente e si lasciò andare sulla sedia impagliata che il vecchio gli aveva messo vicino

“Cosa avete?” provo a chiedere nuovamente

“Te la ricordi donna Petronilla Mauro?” chiese di rimando il sacerdote

“Certo che me la ricordo” rispose il vecchio che in quelle storie di tempi passati ci scialava “Donne così belle non ne rinascono. Aveva due occhi neri che facevano innamorare. E quanti le fecero la corte prima che si accasasse! Bella e ricca com’era non era pane per gente del posto e infatti don Domenico, il padre, la diede al figlio di un signore del capo di Leuca. Poveretta” sospirò il vecchio dopo una breve pausa “tanto bella quanto sventurata”

“Perché?” chiese il cantore

“Il matrimonio non fu fortunato. Una figlia, Teresa, le morì che era piccolina e non aveva neanche dieci anni. Già allora donna Petronilla sembrò perdere la testa. Poi altri dolori glieli provocò l’altro figlio, Michele, che era uno scapestrato, si azzuffava con tutti i peggiori elementi del paese. Ma del resto la madre lo aveva cresciuto così, gli aveva passato tutti i vizi e tutti i lussi. Quando lei morì, una quindicina di anni fa, il padre lo prese e lo portò con sé nelle terre di famiglia. Abbandonarono tutto: quella bella casa che avevano in piazza, che se la vedete ora vi piange il cuore per come sta cadendo a pezzi, le terre, il mulino. Una fortuna buttata”

“Chi era il marito di donna Petronilla?”

“Don Francesco Letizia di Alessano. Dicono un uomo ricchissimo. Ma perché tutte queste domande su donna Petronilla?”

Il cantore gli raccontò la faccenda della vedova Resta, naturalmente ciò che non era coperto dal vincolo del confessionale.

“È possibile” sentenziò il servitore

“Cosa?” chiese il padrone

“Che l’anima di donna Petronilla Mauro si disperi ancora per la propria sorte. Povera donna. Bella com’era avrebbe meritato un’altra fine, papa”

Il sacerdote si alzò stancamente. L’acqua e le chiacchiere col servo gli avevano fatto passare quella morsa che gli aveva serrato con tanta violenza la fronte. Percepiva però ancora una sensazione di malessere. Forse avrebbe dovuto accettare qualcuno dei fichi che il servitore gli aveva offerto.

“Mi dai un fico?” chiese

“Ora sì che siete tornato in voi. Mi stavate facendo preoccupare” fece l’uomo porgendogli un grosso frutto verde

“Buona notte e grazie” si limitò a dire il cantore iniziando a salire la ripida scala che portava alle proprie stanze

“Buona notte, papa”.

 

[*] Illustrazioni di Andrea Palumbo. Ringrazio l’associazione Arataion.it per avermi fornito lo spunto e le basi documentali per raccontare questa vicenda.

Qui i primi tre capitoli:

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)

Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)

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