Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)

di Alessio Palumbo

La storia che vado a raccontare è vera e falsa allo stesso tempo,

come del resto lo sono tante.

Quanto vi sia di reale e quanto sia frutto della fantasia,

chi avrà la pazienza di seguirne la trama

lo scoprirà solo alla fine, carte alla mano.

Per il momento posso solo dire che i fatti si svolsero ad Aradeo

tra il luglio e l’agosto di quasi due secoli e mezzo fa.

Come suol dirsi, correva l’anno 1780

Capitolo I

Oltre le mura la prima luce del giorno rischiarava le campagne più lontane; le stelle erano sparite già da un po’, mentre la luna sembrava volersi attardare ancora. Il caldo era soffocante, l’aria ferma, umida, vischiosa.

Il vecchio servitore, con i gomiti poggiati al parapetto, volse lo sguardo alla propria destra, verso le case dei Vasquez D’Acugna: le finestre erano spalancate, ma dentro era ancora buio.

“I signori dormono” mormorò

“Cosa hai detto?” chiese don Celestino Giuri, cantore della chiesa di San Nicola, appuntando l’ultimo bottone

“Niente papa Celestino. È tardi, stamattina siete più lento del solito”

“Che fretta hai. Tanto anche stamattina la messa la dirò solo per me, per te e qualche vedova insonne”

“Se vi sentisse l’arciprete”

 

Il vecchio cantore rise leggermente e diede due colpi sulla schiena ingobbita del servitore.

“Andiamo” disse “sono pronto”.

In quel momento delle urla squarciarono il silenzio che ancora avvolgeva il quartiere. Un litigio, poi altre urla prolungate.

“Che succede?” chiese don Celestino al vecchio che nel frattempo era tornato alla finestra

“Non vedo nulla”

“Scendiamo, presto” ordinò il sacerdote “Fammi strada con il lume”

“Ma…” provò ad obiettare il vecchio

“Sbrigati”

Scesero lungo la scala ripida con la velocità che l’età consentiva loro.

“Piano papa, piano”

“Ti ho detto di correre”

Sull’uscio svoltarono a destra e, al lume della lampada ad olio, dopo una decina di passi presero la strada a sinistra, verso la piazza. Percorsero pochi metri e furono nel vicinato dei Mauri. Addossato alla porta della bottega da ciabattino che era stata di Giacomo Francone, videro un corpo riverso.

Don Celestino strappò la fiamma di mano al servitore e si avvicinò all’uomo. Alle sue spalle sentiva le prime voci delle donne richiamate dalle urla.

Il cantore si inginocchiò. L’uomo respirava a fatica. Con la debole luce della lampada vide la smorfia di dolore sul viso dell’uomo. La camicia aperta era imbrattata dal sangue che veniva fuori copioso da uno squarcio sotto il cuore che l’uomo cercava inutilmente di tamponare con le mani.

“Non ti conosco” gli disse come prima cosa il prelato

“Sono Alfonso Castriota, di San Pietro in Galatina” rispose a voce bassa

“Chi è stato” incalzò

“Miche… Michele.. Le..Letia” provò a scandire, ma la voce era flebile e il respiro si strozzò in gola, soffocato da un fiotto di sangue che espulse violentemente tossendo addosso al sacerdote. Don Celestino non si scompose. Troppi ne aveva visti di malati e di morti per avere disgusto degli umori umani.

“Di Galatina anche lui?” chiese, poiché quel nome non gli ricordava nessuno

Castriota si limitò a scuotere la testa. Aprì e chiuse la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Il prete capì che la fine era vicina.

“Ti penti dei tuoi peccati?” chiese

L’uomo fece cenno di sì col capo, poi una sorta di ruggito sembrò levarsi dal suo interno, scuotendo tutto il corpo. Cercò di trattenerlo, stringendo i denti che spiccarono con il loro candore tra la barba nera e poi tacque. Alle proprie spalle il cantore sentì rumoreggiare. Segnò l’uomo sulla fronte, poi alzò la destra al cielo e lo benedisse. Le donne si segnarono e tacquero.

Nell’abbassare la mano notò sul collo uno strano segno. La luce del sole ora cominciava a rischiarare la strada. Ruotò quindi il viso di Alfonso Castriota per vedere meglio e sul collo, proprio dove terminava la barba e cominciava la pelle nuda, notò una grossa macchia di un blu intenso. Un blu brillante e acceso, come quello di una pietra preziosa o di un tessuto.

“Vado a chiamare l’arciprete e a prendere gli oli santi” disse al vecchio servitore sollevandosi “Tu aspetta qui e non farlo toccare da nessuno”.

Si fece largo tra le donne.

“Papa Celestino, chi è?”

“Papa Celestino, che ha detto? Non è di Aradeo?”

Le ignorò e si diresse verso la piazza. Altra gente accorreva in direzione opposta alla sua. Nonostante una certa dolenza nei muscoli, dovuta allo strapazzo della corsa e alla concitazione del momento, cercò di accelerare il passo. Attraversò lo spiazzo, costeggiò la cappella del Crocifisso senza neppure segnarsi, quindi tra i bassi caseggiati che delimitavano le sporche vie del paese giunse ai piedi dei tre scalini che introducevano alla chiesa di San Nicola.

“Devo decidermi ad usare un bastone” pensò.

Colmò il piccolo dislivello e, spinto il portone di legno oramai consunto dall’umidità, fu nel tempio.

 

Nell’unica navata, i raggi del sole nascente si intrecciavano sul pavimento chiazzandolo di luce. In piedi, quasi addossate alla balaustra, quattro donne attendevano l’inizio della messa.

“Papa Celestino, oggi non celebrate?” chiese una di queste, avvedendosi di lui che procedeva spedito lungo gli altari di sinistra. Il cantore non rispose ed imboccò la porta della sagrestia.

Nell’antro umido, dalle pareti chiazzate da enormi macchie verdastre che sembravano trasudare acqua, puntò sicuro ad una piccola cassa di legno rivestita. La scoperchiò e prese una chiave.

“Sia lodato Gesù Cristo”

La voce alle sue spalle lo colse di sorpresa. Lasciò cadere di scatto il coperchio che chiuse rumorosamente la cassetta.

“Proprio voi cercavo” rispose riprendendosi “Ho preso la chiave degli oli santi”

La voce che lo aveva salutato venne fuori dalla penombra. L’arciprete Matteo Rocca, di pochi anni più giovane, gli si avvicinò lentamente. La vecchiaia era stata inclemente con lui. Debole di gambe, ingobbito prima del tempo e pressochè cieco, don Matteo Rocca gli andò incontro e, data la sordità incipiente, ripetè:

“Sia lodato Gesù Cristo”

“Oggi e sempre sia lodato” rispose don Celestino, alzando la voce “Sono venuto a prendere gli oli santi dall’altare”

“Chi sta morendo?”

“Un certo Alfonso Castriota. L’ho trovato poco fa dalle parti dei Mauri, coperto di sangue”

“ Oh signore mio Dio” esclamò l’arciprete segnandosi “Dobbiamo avvisare l’autorità”

“Prima dovremmo portargli il conforto dei sacramenti” obiettò il cantore

“Si, si. Allora portatelo voi, io vado ad avvisare il governatore. Questa è una faccenda degli Olivetani. Si, si” continuò don Matteo seguendo il filo di un discorso che si dipanava rapido nella sua mente e che escludeva qualsiasi interlocutore, men che meno don Celestino che ne fu rinfrancato “È di competenza della camera baronale. Le cause criminali sono loro, anche se… Forse dovrei dirlo al sindaco prima. Ma poi se il governatore viene a sapere che prima di lui ho avvisato il sindaco…No, no. Prima il Governatore, prima gli Olivetani. Anzi, per sicurezza… Biagio!” urlò, con voce vigorosa e per questo inadatta alle sue membra fragili “Biagio”.

Un giovane si presentò di corsa proprio mentre don Celestino scostava la tenda della sagrestia per andare a prelevare gli oli custoditi sull’altare.

“Biagio, vai a chiamare don Ippazio Greco. Digli di venire a celebrare messa. Poi recati dal sindaco e avvisalo da parte mia che hanno ammazzato un uomo ai Mauri”

“Si papa” fece il giovane senza porre altre domande e corse via.

Don Celestino intanto aprì la piccola custodia foderata di tessuto bianco posta sull’altare, prese le ampolle degli oli e li depose sulla mensa. Chiuse con cura la teca mentre le donne osservavano curiose i suoi movimenti.

“Papa, chi sta morendo?” bisbigliò la donna di prima che aveva riconosciuto le ampolle

“Castriota” rispose don Celestino a voce ugualmente bassa, quasi quella notizia non fosse adatta al luogo sacro

“Castriota? Non è di qua. Non ci sono Castriota ad Aradeo” sentenzio una delle quattro, piccola e tozza come una donnola

“Di Galatina”

“Ah” fecero le altre

“Ma la messa la celebrate?”

“Io no, ma chiedete all’arciprete” rispose riprendendo la propria strada. Attraversò la corta navata e uscì sul sagrato. Prese la stretta via che portava alla piazza e sboccatovi non potè non notare che il sole era ora alto sopra le mura del paese.

“Sarà un’altra giornata afosa” pensò attraversando la piazza per poi reimmettersi nella via dei Mauri “Meglio sbrigarsi e rientrare a casa quanto prima”.

Le voci della gente accorsa a curiosare lo distolsero dai pensieri. Attraversato lo spesso muro di folla, si ritrovò ai piedi del cadavere che ora, alla luce piena del sole, mostrava il volto con incisa un’espressione di dolore. Il viso era giovane, la barba e i capelli nerissimi. Il sangue imbrattava completamente la camicia e la parte alta dei pantaloni. Si inginocchiò evitando di pestare la chiazza nera, sfumata di rosso lungo i margini, che si era formata attorno al corpo. Aprì le ampolle degli oli santi, segnò il cadavere e iniziò a sciorinare le solite litanie. Gli astanti si segnarono e mugugnarono qualche prece. Quando il cantore si sollevò, aiutato dal servitore, tutti si segnarono nuovamente.

In piedi osservò attentamente la vittima e rivide quella chiazza. Netta, grumosa, all’attaccatura della testa sul collo

“Che strano” mormorò.

Intanto, dalle sue spalle, oltre la folla, venne un sordo rumore di zoccoli e poi un ordine, lanciato seccamente: “Largo”

Due gendarmi ed il governatore fecero la loro comparsa svettando dall’alto delle cavalcature. Evidentemente qualcuno li aveva avvisati. Di lì a pochi minuti spuntò a piedi, affaticata, la trista sagoma dell’arciprete.

“Il governatore”, “Papa Rocca”, “I Gendarmi” riportavano quelli più vicini alla scena a chi stava loro dietro.

Il Governatore smontò da cavallo, attese il vecchio arciprete e insieme andarono verso don Celestino.

“Lo avete trovato voi?” chiese senza salutare e rivolgendosi al cantore

“Si, stamattina”

“Sapete chi sia?” domandò il rappresentante dei baroni

“Dovrebbe essere Alfonso Castriota di San Pietro in Galatina”

“Come vi dicevo” intervenne ossequioso don Matteo Rocca. Il governatore fece conto di non aver sentito

“Sapete altro?”

“Dovrebbe essere stato un certo Michele Lezia o qualcosa del genere. Purtroppo quando sono arrivato era quasi spirato e non era chiaro quel che diceva”

“Lo conoscete?”

“Michele Letia?”

“E chi altro sennò?” ribatté nervoso

“No” rispose pacatamente don Celestino

“E voi?” chiese, rivolgendosi all’altro prelato

“No eccellenza”

“Chi di voi conosce Michele Lezia?” urlò allora il governatore alla folla

Il nome passò di bocca in bocca, ma nessuno si fece avanti.

“Nessuno lo conosce? Va bene” commentò indispettito.

“Voi caricate il corpo e portatelo nella cappella di San Trifone a palazzo” ordinò ai due gendarmi che erano rimasti in sella.

Con gesto agile rimontò sul destriero e strattonando con forza le briglie lo spinse a ruotare. Colpiti i fianchi dell’animale andò via per la strada dalla quale era venuto.

“Andiamo” disse don Celestino al servitore e, facendosi largo tra la folla che ora osservava le manovre dei soldati, tornò verso casa.

Giunto ai piedi della scala che neanche un’ora prima aveva disceso con furia, congedò il paggio.

“Salgo a riposare un poco. Torna stasera”

“Vengo a portarle da mangiare tra qualche ora”

“No, no. Desinerò stasera. Ora voglio solo riposare” rispose. Afferrato il passamano di legno scuro che fiancheggiava la ripida scala, salì lentamente fino al secondo piano.

Il servitore, rimasto per strada, vide la finestra della camera da letto chiudersi lentamente e le tende di color verde oliva stendersi sulle lastre di vetro. Volse lo sguardo verso le case dei D’Acugna: donna Giovanna Vasquez d’Acugna, dal mignano del palazzo, osservava con aria annoiata il via vai di persone lungo la via.

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